3.
Il secondo proemio
1.
Nella Storia Romana di Appiano ci sono due proemi. Il primo è quello – di cui s’è detto nel capitolo precedente
–, che termina con le brevi notizie autobiografiche, col rinvio alla già circolante
autobiografia (§ 62) e la proclamazione della propria notorietà. Questo proemio dovette
essere sin dal principio indipendente, dal punto di vista librario, dal resto dell’opera.
Il che spiega perché sia seguito, nella tradizione manoscritta, ora da un libro ora
da un altro.
L’autonomia materiale di un ampio testo proemiale è fenomeno di cui è rimasta traccia
nella tradizione manoscritta di varie opere. In altri casi si tratta di un indizio
interno, allorché – dopo il proemio che ha una sua perfetta conclusione – il lettore
si imbatte in un nuovo inizio. È il caso della Praefatio di Livio, che ovviamente non nacque né circolò col libro primo. Per comprendere ciò
conviene non perdere mai di vista il modo della diffusione parziale e in corso d’opera,
di cui le letture al cospetto del princeps furono una tappa non trascurabile. Anche quella praefatio presuppone un lavoro che è già andato avanti sicché si pone come bilancio provvisorio
del già fatto e prospettico del da farsi. Lo stesso può dirsi per i proemi delle monografie
sallustiane, testi addirittura concettualmente svincolati dalle opere cui fanno da
proemio. E così per i primi capitoli (1-5) del primo libro di Polibio. Archetipo di
tale prassi furono i due fondatori del genere storiografico, Erodoto e Tucidide. Più
influente certamente il modello tucidideo (I, 1-23): una introduzione sul metodo storico
in perfetto equilibrio tra teoria e prassi, in cui l’autore mostra già di sapere com’è
andata a finire, e che dunque viene alquanto snaturata e destinata al fraintendimento
la volta che è stata accorpata librariamente al libro I. Anche come pezzo di particolare
elaborazione stilistica e retorica il proemio generale (soprattutto nella letteratura
di età romana, sia in greco che in latino) è pensato come autonomo componimento e
destinato ad autonoma fruizione. Se ci si ricordasse più spesso che la prima circolazione
fu, per ragioni diverse, per lo più la recitazione e che la unità di un’opera in più
rotoli è ideale non materiale, che infine la circolazione di singole parti fu la norma
anche al di là dei propositi degli autori, le questioni relative al significato di
quanto si legge nei proemi apparirebbero in una luce più chiara.
2.
Tale è il caso del proemio generale della Storia romana di Appiano. Ma il suo è un caso particolarmente fortunato perché, come s’è detto,
la tradizione manoscritta ha serbato traccia molto evidente dell’autonomia libraria
di quella dozzina di pagine teubneriane: quasi l’equivalente di quello che nell’editoria
ottocentesca, quando si ‘lanciava’ la sottoscrizione di una grande opera veniva chiamato
Prospectus, ovvero (per testi greci editi da studiosi greci) προαγγελα.
Vuol essere il proemio generale di tutta l’opera, ma è evidente a qualunque lettore
che ben maggiori sono le informazioni che dà riguardanti la prima parte dell’opera,
più sommarie (né corrispondenti a ciò che fu effettivamente realizzato) le informazioni
relative alla seconda parte, cioè ai libri sulle Guerre civili. Inoltre, una serie di libri che furono poi effettivamente realizzati da Appiano
non vengono, nel primo proemio, neanche menzionati: tra l’altro quelli che nacquero
quando anche la seconda parte, dedicata alle Guerre civili e dilatatasi in corso d’opera, era ormai compiuta: per esempio i libri sui Cento Anni e quello sulle imprese di Traiano in Dacia [vd. infra, p. 214].
È lecito parlare di due grandi sezioni o «parti» di questa Storia romana, che a Fozio (IX secolo) risultava di 24 libri: i libri sulle Guerre civili (inclusi quelli sull’Egitto, che anche Appiano considerava strettamente legati alle
Guerre civili) costituiscono più di un terzo dell’intero e sono forniti di un loro proemio, che
qui chiameremo secondoproemio (Pr. II), ricco di novità rispetto al primo (Pr. I). E soprattutto sono fondati su di un principio completamente diverso da quello che
regola la prima parte (basata, come Appiano sottolinea, sul criterio geografico).
Qui possiamo osservare che l’articolazione in due grandi sezioni della Storia romana di Appiano – da una parte le guerre esterne a partire dall’età regia, dall’altra le
guerre civili – è la stessa che, ovviamente su scala ridotta, constatiamo adottata
da Anneo Floro nella sua Epitome.
Quando scriveva il proemio generale (Pr. I), Appiano non aveva ancora un quadro preciso dell’altra metà del suo lavoro, quello
sulle guerre civili. Indica invece chiaramente i libri della prima parte per lo meno
quelli che fino a quel momento aveva in mente o aveva già scritto: i tre libri della
Storia Italica ognuno dei quali ha un ambito e un titolo propri (Sul periodo regio,il Libro Italico, il Libro Sannitico). Quindi, «sempre secondo il criterio geografico, il Libro Celtico, quelli Siciliano, Iberico, Annibalico, Cartaginese, Macedonico e così di seguito». Dopo di che fa un cenno molto sommario ai libri sulle guerre civili. I libri che nelle pagine precedenti aveva citato per spiegare il criterio geografico
erano gli stessi: Siciliano, Iberico, Cartaginese, Macedonico. Neanche in quella prima esemplificazione apparivano dunque i libri cui qui allude
con «e così di seguito». Mancano all’appello i libri Ellenico, Siriaco, Partico, Mitridatico (quest’ultimo, come l’Annibalico non risponde al criterio geografico, ma dei grandi antagonisti) e ovviamente i Cento anni e il Libro Dacico.
3.
Quando si accinge alle Guerre civili, scrive un secondo proemio (Pr. II), più breve del primo, questa volta accorpato nello stesso rotolo del primo libro. Il fatto stesso di dar vita ad un nuovo proemio di largo respiro programmatico sta
a significare che siamo di fronte ad un secondo ‘inizio’.
Nel primo proemio il preannunzio relativo ai libri sulle Guerre civili era: «la materia delle guerre civili è stata suddivisa per capiparte, Mario e Silla, Cesare e Pompeo, Antonio e Cesare detto Augusto contro gli uccisori
del primo Cesare, il conflitto tra Antonio e Ottaviano, nel corso del quale – ultimo
dei conflitti civili – anche l’Egitto finì sotto i Romani e Roma tornò monarchia»
(Pr. I,59-60). Conclusione: «Insomma, la divisione in libri corrisponde alla distinzione
o per popoli [le guerre esterne] o per capiparte [le guerre civili] (§ 61)». Dopo
di che si prevedeva anche un ultimo libro a carattere amministrativo-finanziario (§
61), che però non appare né nell’edizione completa nota a Fozio né in quelle descritte
dai due Anonimi.
Nel secondo proemio le cose cambiano. Innanzi tutto la partizione della materia è
indicata con maggiore precisione: in particolare il primo libro non si limita a «Mario
e Silla» ma «va da Sempronio Gracco a Silla» (§ 25). Del resto, sin dal principio
del nuovo proemio, il concetto principale, che viene sviluppato con larghezza di dettagli,
è che le lotte civili condotte armi in pugno e con eccidi di cittadini romani ebbero inizio con Tiberio Gracco e la dispersione violenta e sanguinosa dei suoi seguaci (§ 4), modello dei successivi
conflitti (§ 5). Appiano ha scelto una fonte che poneva appunto la seditioGracchana e il massacro di Tiberio Gracco e dei suoi come initium bellorum civilium. Questa volta non parla – come nel primo proemio – di un lavoro di schedatura, di una selezione degli episodi di guerra civile all’interno di una più vasta storia generale: questa
volta ha davanti uno «Scritto» (un’altra γραφ, per usare la terminologia del primo proemio) che seguiva il filo delle guerre civili,
o nel quale, comunque, il racconto delle guerre civili a partire da Tiberio Gracco
era la parte preponderante. Anche in questo caso ha proceduto ad un lavoro di sintesi (§ 24: συνγαγον) rispetto all’opera che ha preso come base.
4.
L’altra sostanziale modifica del progetto, rispetto a quanto annunziato nel primo
proemio, riguarda il dilatarsi della materia. Nel primo proemio era prevista un’unica
trattazione fino ad Azio «ultima guerra civile, a seguito della quale l’Egitto passò
sotto i Romani e Roma ridiventò monarchia» (§ 60). Nel secondo proemio la prospettiva
muta e la storia egiziana passa in primo piano. Addirittura, la storia delle guerre
civili romane diventa l’«antefatto» della Storia Egizia (§ 24: προηγομενα τς Αγυπτας συγγραφς), o meglio – se si tien conto dello schema delle altre monografie appianee – della
storia dei rapporti di Roma con il regno tolemaico fino all’assorbimento di quest’ultimo
nella compagine imperiale.
Questo passo del secondo proemio è rilevante. Innanzitutto mostra che Appiano si rivolge
ad un pubblico egiziano: a coloro – così scrive – «che vorranno soprattutto comprendere
che era necessario ch’io fornissi questo racconto preliminare[cioè il racconto delle guerre civili romane!] che costituisce un antefatto della
Storia Egizia e culminerà (τελευτσοντα) in essa». Una tale visione ‘egiziocentrica’ delle guerre civili romane ha senso soltanto
per un pubblico egiziano. Per lettori romani rasenta la comicità. Inoltre, qui c’è
già il preannunzio chiaro, ribadito poco dopo (§ 25), della nascita di un’autonoma
Storia Egizia (Αγυπτιακ Συγγραφ) che nel primo proemio non era nemmeno ipotizzata. E ben si comprende che questo
secondo proemio è, e vuol essere, proemio sia delle Guerre civili che della Storia Egizia: è quindi, come il primo, un proemio che copre un’intera sezione, non una singola
opera; è il proemio della seconda parte della Storia romana. I due proemi sono dunque, entrambi, la ‘fotografia’ dello stato di avanzamento del
lavoro. Sono lo specchio (provvisorio) di un lavoro in fieri, e vengono superati entrambi dall’ulteriore sviluppo del lavoro.
Come l’impianto delineato nel primo si sia venuto trasformando è chiaro da quel che
si legge nel secondo. Ma a sua volta il secondo lascia indeterminato un aspetto importante,
cioè la sutura e la divisione della materia tra Guerre civili e Storia Egizia. Qui Appiano continua a dire (nel proemio che è incorporato nel libro primo delle
Guerre civili) che il racconto delle Guerre civili proseguirà fino ad Azio, «che sarà anche l’inizio della Storia Egizia» (§ 25). Ma ciò non corrisponde a quello che fu poi l’assetto definitivo dell’opera.
Il che dimostra, se ve ne fosse bisogno, che i libri sulle Guerre civili furono messi in circolazione da Appiano non tutti insieme ma come singoli, e in prosieguo
di tempo. Un tipo di diffusione che è quella normale di opere antiche in più libri,
e che ha determinato – in questo, ma anche in altri casi – che preannunci già messi
in circolazione nei rotoli precedenti sono stati disattesi e sono risultati superati.
Quando Appiano si mette a scrivere il secondo proemio ed è già impegnato nella stesura
del primo libro delle Guerre civili il primo proemio già circola da tempo ma in parte il suo contenuto appare obsoleto
rispetto alla forma che l’opera sta prendendo. È da notare, a questo proposito, che
nel primo proemio non è per nulla menzionato un Libro Mitridatico, così come non si parla di Libro Egizio come seguito di quelli sulle guerre civili: e nel Libro Mitridatico c’è già un preannunzio di Libro Egizio (§ 557). Segno che, al tempo in cui scriveva il primo proemio, il Libro Mitridatico o non era previsto o era ancora tutto da costruire: quando vi ha messo mano l’idea
di un Libro Egizio si era ormai formata.
Seguitando su questo punto, e questa volta a proposito del secondo proemio, si può
osservare – ma è quasi ovvio – che anche il Libro Dacico è fuori dell’orizzonte quando Appiano scrive il secondo proemio. Non pone mente nemmeno
a quella pur memorabile conquista traianea e scrive che l’Egitto – conquistato da
Augusto – fu l’ultima accessione, «che portò l’impero romano alle dimensioni attuali» (§ 21: μνη ωμαοις λειπεν ς τ νν ντα).
Del resto, il fenomeno di progetti che appaiono, all’autore, ad un certo punto (anche
molto avanzato) della composizione, compiuti, e invece si trasformano è quasi ovvio nella composizione letteraria antica: che
non si preoccupa di cancellare le tracce delle eventuali incongruenze. È, quello antico, un mondo di rotoli in cui l’unità
di un’opera (tranne nel caso delle monobibloi) è puramente ideale, è un’astrazione. Ogni libro-rotolo è già un’opera. Così può accadere che Plutarco aggiunga, alla monumentale raccolta internamente
strutturata secondo criteri cronologici e assiologici delle Vite parallele, un gruppo di ben quattro vite non parallele (Arato, Artaserse, Galba e Otone). Per capire la letteratura antica si dovrebbe partire sempre dalla forma del libro
e da una visione concreta del modo in cui avveniva la diffusione d’autore.
5.
Un altro segnale dell’avanzamento del progetto Guerre civili dal primo al secondo proemio è lo spazio che, nel secondo, viene riservato alle proscrizioni,
alla brutalità della scalata al potere da parte di Ottaviano, allo smascheramento
della ‘restaurazione repubblicana’:
Dopo l’uccisione di Cesare ed i suoi funerali, le lotte civili daccapo divamparono e si accrebbero potentemente.
Ci furono massacri, esili, proscrizioni mortifere di senatori e del ceto chiamato
cavalieri, fatti fuori in massa gli uni e gli altri: i capifazione si consegnavano l’un l’altro
i rispettivi nemici e a tal fine calpestavano anche i legami di amicizia e di parentela,
financo i fratelli. A tal punto la dura competizione nei confronti dei rivali prevaleva
persino sulla benevolenza verso le persone della propria parte (§ 18).
Nell’economia del riassunto dei libri sulle guerre civili, lo spazio qui riservato
alla stagione omicida delle proscrizioni è rilevante; né Appiano risparmia Ottaviano
(come fanno invece Velleio, Floro e Orosio, il quale dipende da Livio): ciò corrisponde al fenomeno, forse più macroscopico,
del racconto appianeo, che cioè circa metà di un intero libro (il IV) sia dedicata
alle proscrizioni e alla descrizione di molte singole vicende di proscritti.
Di tutti e tre i triumviri viene detto «che si spartivano l’impero come proprietà
privata». E vengono indicati per nome tutti e tre per far chiaro, evidentemente, che
Ottaviano «che a seguito dell’adozione mutò il suo nome in quello di Cesare» non fu
in nulla migliore degli altri due (§ 19). Anzi, li spogliò entrambi della parte d’impero
che era toccata loro perché politico più «abile» (§ 20 συνσει κα μπειρ προχων). La σνεσις è l’intelligenza delle cose politiche. Appiano, convintamente tucidideo ha qui in mente il celeberrimo ritratto di Temistocle (che tanto piacque anche a
Cicerone), il quale si era manifestato grande politico «per innata ξνεσις e non per aver fatto studi preventivi» (I, 138, 3), e forse anche il denso e profetico
passo dell’ultimo discorso di Pericle sul difficile bilanciamento tra τλμα (audacia, finitima della sconsideratezza) e ξνεσις (Tucidide, II, 62, 5). Non dimentichiamo che proprio da Appiano (Libro Illirico, 49) apprendiamo che, nelle sue Memorie, Augusto amava richiamarsi all’architrave della strategia di Fabio Massimo nella
guerra contro Annibale (l’unico καιρς per dar battaglia è l’νγκη!). Insomma c’è in Appiano apprezzamento e rispetto per questo straordinario esemplare
di totus politicus che fu Ottaviano ma nessuna volontà di far proprie le untuose falsificazioni e giustificazioni
osannanti degli augustei, storici o poeti che fossero. Suscita ammirazione politica in lui la bravura con cui Ottaviano ha spogliato entrambi i rivali della loro parte
di impero, così come la capacità sua di prendere su di sé tutto il potere (ben più
dello stesso Cesare) «senza aver bisogno di elezioni e altre finzioni» (§§ 22-23).
Ammirazione per il grande tecnico della politica e per il fatto che tale capacità
di mettere le mani sul potere senza accettare di condividerlo, in fondo, non fu, in
Ottaviano semplicemente smania individuale (componente peraltro fondamentale, e Appiano
lo mette bene in rilievo diversamente dai proni augustei) ma aveva prodotto un risultato
grande e durevole (e per le categorie mentali di Appiano positivo): il ripristino
della monarchia e la creazione di una dinastia (§§ 23-24). Si può ben dire che, studiando
la persona e l’opera di Ottaviano (che è in realtà il vero protagonista dei libri
III e V delle Guerre civili), Appiano ha apprezzato in lui un caso concreto dell’identificazione piena che il
politico vero opera tra la propria smania di potere, radicata e forte, e la grandezza
di una causa (di una causa che ad un vero politico appare attuabile pienamente soltanto
attraverso la propria persona). È un peccato che i libri in cui Appiano raccontava
la vicenda degli anni 35-31, dalla sconfitta di Sesto Pompeo alla guerra di Azio,
si siano persi: lì avremmo trovato il racconto disteso e dettagliato corrispondente
a questa preziosa sintesi dell’azione di Ottaviano politico fino alla vittoria finale
che leggiamo qui, nel secondo proemio. Per Appiano la penetrante riflessione sull’opera
e la carriera di Ottaviano si intreccia anche con la vicenda che lo riguarda come
egiziano: la fine dell’Egitto come regno autonomo quale effetto della vittoria ad
Azio. Davvero «un egiziano che va al fondo delle cose», per dirla con la famosa lettera
di Marx.
6.
Una volta compreso l’atteggiamento mentale, non indulgente ma politicamente intelligente,
di Appiano verso Augusto diventa del tutto comprensibile la sua decisione di mettere
ampiamente a frutto una fonte di prima grandezza quali le Memorie di lui senza per questo assumere un’ottica ‘augustea’. E si capisce anche come possano
convivere, sul suo scrittoio, come base per la narrazione del secolo delle guerre
civili, le Memorie di Augusto e le Historiae ab initio bellorum civilium di Seneca padre. Dal quale deriva certamente la straordinaria e severa polarizzazione
sul fenomeno atroce delle proscrizioni e certamente anche quel giudizio sul governo
forte e «terribile» (φοβερς) di Augusto al di là delle finzioni costituzionali, smentite dal fatto capitale della
fondazione, da parte di Augusto, di una dinastia cui trasmettere il suo potere monarchico.
Quelle Historiae, prese a base per la seconda e più delicata parte della sua Storia romana, erano il libro più completo e più indipendente su tutta quella materia.