6. «Fare l’Europa»: il commissariamento progressivo
L’Unione Europea, com’è noto, esiste, in forza dei Trattati di Roma (1957), da oltre
mezzo secolo (Unione Europea Occidentale, Comunità Economica Europea, Mercato Comune
Europeo). Non divenne mai una unione politica, né di tipo elvetico né di tipo statunitense.
La sua coesione politica rassomiglia più o meno a quella della Lega araba. Da oltre
un decennio esiste (per i paesi i cui governi questo imposero) una moneta unica. Una
moneta che non ha alle spalle né un governo né una unità statale né un esercito. Ha
una Banca Centrale che ha via via assunto il ruolo di governo effettivo: una surroga allarmante e ormai
dotata di un potere immenso. I suoi voleri vengono comunicati, ai governi nazionali
da mettere in riga, con lettere perentorie e semi-segrete. La lettera della bce al governo italiano dell’agosto 2011 è bastata da sola per imporre al nostro paese
un cambio di governo svincolato da una qualunque, pur possibile, espressione di volontà
del corpo elettorale.
Il fenomeno non si è potuto ancora studiare adeguatamente, ma ha un valore durevole:
è stato strappato il velo sul carattere pleonastico degli agoni elettorali. Élites tecnico-finanziarie, la “quint’essenza” del potere bancario, sono passate direttamente
al comando e decidono la sorte dei paesi ingabbiati e dipendenti (per ora Grecia,
Italia, Portogallo ma anche Spagna). Rendono conto solo a se stesse.
Per lo studioso di storia questo significa che una fase – quella della sovranità affidata
a parlamenti eletti a suffragio universale – si sta chiudendo. Non ci sono del resto
fenomeni storici eterni. A noi è toccata la ventura (per uno storico una “fortuna”)
di vedere attuarsi questo trapasso epocale.
L’altro fenomeno, strettamente connesso al precedente, è l’adesione convinta, a questo
nuovo modello, da parte della ex sinistra. Questa, anzi, rivendica a sé il merito
di aver gettato il paese in siffatta avventura, la cui prima e tangibile conseguenza
fu, in breve tempo, il dimezzamento del valore reale dei salari (neanche la più feroce
politica “confindustriale” d’altri tempi avrebbe ottenuto, in guanti gialli, un tale
risultato in tempi così rapidi). L’Italia è, forse, all’avanguardia in questo processo.
La discriminante sembra essere attualmente banchieri di “destra” versus banchieri di “sinistra”. Mediamente la caratura sociale delle élites direttive della ex sinistra è molto alta. Il “popolo” è considerato un peso. La qualifica
di “populismo” viene brandita con molta facilità onde liberarsi, almeno in parte,
di quel peso. La trasmigrazione del voto operaio verso la Lega (un dì gratificata
del blasone di “costola della sinistra”) o verso il non-voto sembra non costituire
problema. Il problema è quello di produrre sofisticate ipotesi di leggi elettorali
che consentano di vincere le elezioni pur perdendole (il modello “maggioritario” in
questo senso è prezioso), onde eleggere parlamenti nazionali sempre meno significanti
e sempre meno dotati di poteri decisionali. La ex discriminante destra-sinistra si
è attestata sul piano del “gusto”, dello stile, delle predilezioni cinematografiche.
In certo senso fu profetico il frivolo “gioco per l’estate” che imperversava negli
anni Settanta-Ottanta sulle pagine dell’«Espresso», volto a stabilire se la predilezione
per un determinato formaggio fosse indizio di orientamento politico di destra o di
sinistra.
Essendo un patto tra diseguali, incardinato su di una «moneta unica» penalizzante
per i più deboli, la “costruzione europea” ha prodotto il commissariamento dei paesi
dipendenti.
Esso si attua – come s’è detto – attraverso lo svuotamento sostanziale del ruolo dei
parlamenti. Ne consegue, più in generale, la espulsione di qualunque tipo di controllo
partitico dal campo trincerato della gestione dell’economia, cioè dalla quasi totalità
delle decisioni vitali per l’intera comunità. Quando una giornalista della «France
Presse» chiese a Marchionne, alla presentazione della Panda negli stabilimenti di
Pomigliano, conferma della notizia sulla chiusura di due stabilimenti fiat italiani,
egli le abbaiò contro: «Lei non vota! Su queste cose non si vota!». E nondimeno proprio
nella stessa occasione egli non negò che, se il profitto prodotto dagli stabilimenti
italiani non fosse di suo gradimento, ne chiuderebbe due e sposterebbe negli usa il
grosso della produzione.
Il governo “tecnico” si allinea, e fa, agli ordini della «forza direttrice a sé stante»,
ciò che né destra né sinistra oserebbero; e lo fa con l’appoggio di entrambe. Ci fu
un tempo in cui l’ingraismo, fase suprema dello pseudocomunismo, pensò, nell’illusione
di percorrere strade nuove e più autenticamente democratiche, di trasformare il nostro
paese in un’immensa e pervasiva realtà condominiale in riunione permanente. La cosa
riuscì soprattutto nel mondo della scuola, che ne uscì distrutto, con le famiglie
(specie se benestanti) intente a interferire capillarmente e pervicacemente, in ogni
possibile istanza, nella valutazione scolastica dei propri figlioli (con la variante,
nei quartieri disastrati, della violenza malavitosa e lumpen-proletaria contro maestri e insegnanti). Fallì nel mondo delle fabbriche e della
produzione, dove, come ha scritto Robert Dahl1, in riferimento a tutto il mondo industriale occidentale, la democrazia è rimasta
fuori dei cancelli, in quanto – come abbaia Marchionne – «su queste cose non si vota!».
Come non prendere dunque atto che si è chiuso un ciclo della storia dei sistemi rappresentativi?
Tutti i sistemi politici (non solo in Europa) stanno accentuando il loro carattere
oligarchico. Nei paesi “deboli” dell’Unione Europea il sistema rappresentativo-elettivo-parlamentare,
nella forma conquistata tra Otto e Novecento, è morto. Quali sistemi politici stiano
per essere progettati o realizzati è difficile dire.