2.
Bimillenario virgiliano:
«Virgilio cartaginese»
1.
Sul terreno dei ‘bimillenari’ Marchesi ebbe un comportamento vario, in cui c’è un
prima e un poi, rispetto al fatto discriminante (e umiliante) del giuramento di fedeltà
al regime fascista del novembre 1931. Accade, così, che, prima di quella data, nel
1930, egli dica la sua nel bimillenario di Virgilio con voce talmente dissonante rispetto
alla retorica di regime da provocare un ‘incidente’. Invece nelle straripanti celebrazioni
augustee del 1937 (e 1938: prolungate fin quasi al lancio delle leggi razziali) egli
interviene con un saggio augusteo che replica identico in tre sedi diverse: a) opuscoli
accademici dell’Università di Padova, CEDAM; b) per Olschki, Firenze; c) per l’Augusto della «Collana Ca’ Foscari», in compagnia di Castiglioni, De Francisci e Paribeni.
(Ma lo ristamperà – ritoccato – soltanto nel 1954 nel Cane di terracotta edito da Cappelli.) E nel 1942 darà alle stampe almeno due volte un Livio, sistemandolo non solo negli «Opuscoli accademici» padovani ma anche nella «Lettura»
del «Corriere della Sera».
E anche la celebrazione del ‘finto umbro’ Tacito (1° ottobre 1942) rientrerà in questo
genere di discutibili prose ‘d’occasione’.
2.
Realizzato il Concordato con la Chiesa cattolica, stravinto il «plebiscito», il fascismo
inaugura con Virgilio – celebrato per tutto il 1930 in occasione del bimillenario
della sua nascita (70 a.C.) – una politica culturale che salda passato remoto e presente
politico, con la diretta mobilitazione, in prima fila, del ceto accademico di latinisti
e storici del mondo romano. Nello sfondo c’è Augusto, che sarà celebrato per almeno
un biennio a partire dal 1937. C’è coerenza e determinazione. Virgilio è il ‘pezzo’
più rappresentativo e più compromesso (il finale servile del VI libro dell’Eneide) dell’interventismo culturale di Augusto. E quell’interventismo culturale ormai il
fascismo lo fa proprio, convinto di avere le forze e l’egemonia culturale necessaria
per arruolare le élites accademiche e scientifiche (dopo aver già irreggimentato il prezioso ceto giornalistico).
Virgilio e Orazio funzionano come metafora degli ‘intellettuali’ che, da una posizione
riservata (ostile, nel caso del giovanissimo repubblicano Orazio), erano passati ad
una adesione sempre più aperta e convinta al nuovo ordine: un modello di comportamento,
offerto, con successo, all’intellettualità italiana.
Virgilio è perfetto anche come allusivo veicolo di consenso. Le sue opere maggiori
– Georgiche ed Eneide – calzano puntualmente con due caposaldi dell’orizzonte strategico del fascismo:
il ruralismo e l’aspirazione imperiale, imperniata sulla prevalenza dell’«Occidente»
sull’«Oriente». Al principio del 1930 il regime è reduce dal discreto successo della
«battaglia del grano» (‘risposta’ alla crisi industriale del 1929-1933). Alla fine
dell’anno un supplemento dell’«Illustrazione italiana» (n. 49, a dir poco sontuoso),
tutto su Virgilio, a cura di Vincenzo Ussani e impreziosito dalla partecipazione di
Arnaldo Mussolini, si apre con un ‘saggio’ di Pietro Fedele (1873-1943), medievalista
alla Sapienza, già ministro dell’Educazione Nazionale (1925-1928): Virgilio e la terra. E ad ogni buon conto c’è anche il Virgilio pre-cristiano che si può ‘puntellare’
con la Commedia dantesca: in tempi di ancor fresco Concordato, anche questo aspetto della lunghissima
vitalità virgiliana poteva fare gioco. È facile comprendere, da questi pochi cenni, quale ulteriore capitale
di consenso il fascismo – già all’apogeo del suo apprezzamento da parte dell’intero
Occidente conservatore – potesse ricavare da una bene orchestrata mobilitazione delle forze intellettuali
intorno al poeta «padre dell’Occidente».
E non è superfluo ricordare qui che proprio il 1929/1930 aveva clamorosamente e dolorosamente
visto fallire la «svolta» lanciata come linea strategica dal Komintern fondata sul
presupposto che la crisi economica mondiale del 1929 annunciasse il tracollo del sistema
capitalistico nonché il momento opportuno per la spallata rivoluzionaria: con il conseguente
rientro in Italia dei militanti comunisti dall’estero e la loro caduta in massa nelle
mani della polizia fascista (già largamente infiltrata nelle file dell’unico effettivo
avversario superstite e tanto più protesa e pronta ad una efficace repressione).
Quanto a Virgilio, si può osservare che è ora, nel momento favorevole sotto ogni rispetto,
che il regime decide di ‘investire’ direttamente e al più alto livello (celebrazione
finale in Campidoglio col Re e col Duce, il 15 ottobre) sul ‘modello’ Virgilio. Cinque
anni prima, all’inizio del 1925, l’iniziativa di un colossale monumento a Virgilio,
da collocare nell’‘anfiteatro virgiliano’ di Mantova, era partita da un «comitato
mantovano». Quando l’opera era già «modellata», si puntava alla eventuale approvazione,
in Parlamento, della proposta di legge Genovesi-Solmi mirante allo stanziamento di
100.000 lire da parte dello Stato: tutto il resto (fino a lire 700.000) a carico del
Comune. Il governo cercava, in quel momento, di uscire dalla crisi Matteotti e dalla ‘secessione’
aventiniana, e non era certo in condizione di concentrarsi su Virgilio e sulla mobilitazione
del ceto accademico dei classicisti.
3.
Nel clima ormai ‘rinfrancato’ del 1929/1930, il Poligrafico dello Stato, al cui vertice
siede l’ex ministro Pietro Fedele, inaugura (proprio nel 1930) la serie degli «Scrittori
Greci e Latini» publico sumptu editi, «editi a spese dello Stato», con una eccellente edizione di tutto Virgilio a cura
del suocero di Marchesi, Remigio Sabbadini.
Personaggio tutto sommato conservatore, schivo, nonché Gran Cordone dell’Ordine della
Corona d’Italia, Sabbadini volle anteporre alla sua edizione un componimento in latino di omaggio
ad un regime così largamente trionfante e apprezzato. Egli immagina un dialogo tra
un generico «Italus» e il personaggio virgiliano «Menalca». Italo si felicita con
Menalca per i suoi 2000 anni e l’altro risponde: «Perché dovrebbero celebrare me;
preferirei che leggessero i miei versi onde capire il destino [grande, s’intende]
cui l’Italia è chiamata!». Si riferisce ovviamente alle profezie (post eventum) del finale del libro VI dell’Eneide, traslate – va da sé – all’Italia di oggi. Donde il chiarimento ulteriore: «Ora che
l’Italia ha cacciato dal proprio territorio tutti i nemici [generico riferimento alla
conclusione vittoriosa del conflitto mondiale nel novembre 1918 e agli effetti di
essa nell’area Trentino-Dalmazia] si apprestino ormai a rinnovare (parent renovare) pascua rura duces (= Bucoliche, Georgiche, Eneide)».
Testo ambivalente. Può significare: ora che la integrità nazionale è ripristinata,
si proceda ad un rinnovamento politico profondo, riguardante oltre la ruralità, anche
la leadership politica. E può significare più semplicemente: riprendano in mano la mia opera: renovare significa tanto ‘rinnovare’ quanto ‘replicare’. È anche possibile una interpretazione
‘maliziosa’: cambiare i duces. Non deve sfuggire la circostanza che nel giorno (15 ottobre 1930) in cui questi
versi vengono inquadrati, Mussolini è al governo già da otto anni.
Nell’agosto del 1930 era apparso su «Pègaso», la rivista diretta da Ugo Ojetti (fascista
‘colto’, già direttore nel 1926-1927 del «Corriere della Sera»; capo redattore Pietro
Pancrazi), un ampio saggio di Marchesi intitolato Virgilio. L’incipit è fulminante ed in netto contrasto con il tono e i contenuti delle celebrazioni in
atto e in preparazione: «Fra i morti rimasti nella memoria dei vivi, i poeti sono
quelli che meno si prestano alle pubbliche celebrazioni». E spiega che «l’opera poetica
non è mai compiuta nello spirito nostro, e se ha compimento, lo ha perché la poesia
è decaduta nell’episodio letterario». Celebrazioni si hanno, al più, per «gli uomini
di scienza, di politica, di guerra».
Dopo di che passa a Virgilio e vanifica, nel giro di un capoverso, i cardini della
celebrazione in atto: il poeta dei «rurali» e il poeta annunziatore «dell’impero».
«Che si ricorderà di Virgilio quest’anno? Quello, naturalmente, che fa comodo ai più,
per officiosità e consuetudine». E il tono si fa sarcastico:
«Sarà celebrato il poeta dell’agricoltura e dell’impero, della terra nutrice degli
uomini e di Roma nutrice delle genti. Uno che non abbia fede in queste sostanze alimentari
dell’arte, potrebbe affermare e sostenere che Virgilio in verità cantò tutto questo,
ma non per questo egli è celebrato fra le nazioni ora che non è più l’antico impero
di Roma, né per questo presso tutti i pulpiti cittadini oggi è ricordato ed esaltato
quel poema georgico che provvide agli ozi dei letterati assai più che alle fatiche
dei contadini».
In pochi tratti sferzanti viene demolita tutta l’impalcatura propagandistica. Viene
incrinata persino la formula «Roma nutrice delle genti», che invece, in scritti d’occasione
successivi, Marchesi farà propria. Qui invece mette in ridicolo la metafora ‘nutrice’,
e scrive: «Uno che non abbia fede in queste sostanze alimentari dell’arte…». Né sfuggirà
l’inciso «ora che non è più l’antico impero di Roma», che prende le distanze dal motivo
della continuità «romana» dell’Italia daccapo in marcia verso un nuovo impero. E la
stoccata conclusiva è nella constatazione, peraltro storicamente più che fondata,
sulla destinazione delle Georgiche: «poema che provvide agli ozi dei letterati assai più che alle fatiche dei contadini».
4.
Archiviato il Virgilio di cartapesta delle celebrazioni ufficiali, affermata una profonda
religiosità virgiliana, remota dalla fede positiva in quelle divinità che pure raffigurava
e invocava, Marchesi passa al punto, effettivamente sovversivo in quel clima, ma che
a lui sta a cuore: Virgilio poeta dei vinti, e perciò, soprattutto, poeta del tragico
destino di Cartagine. «A Cartagine – scrive – indugiò lo spirito commosso del poeta.
Egli volle far vedere come sorgeva la città che sarebbe stata distrutta, come amava
la regina che sarebbe stata tradita». E ancora più provocatoriamente:
«Tutti hanno vista l’anima romana, nessuno ha vista l’anima fenicia di Virgilio, per cui Cartagine risorgeva con gli elementi eterni della sventura. La storia di
Roma traspare tutta nel poema virgiliano: e anche la figura di Annibale si profila misteriosa. Nell’Eneide, Annibale, questo tremendo sterminatore di eserciti consolari, apparisce lontano,
senza nome, nel dramma di più potente passione che ci abbia lasciato l’antica latinità.
Didone muore tradita; e le navi di Enea in quell’alba mediterranea vanno verso l’Italia,
mentre sul mare nero batte un vento di tramontana e in Cartagine si vede un bagliore
di rogo […] Il mito qui diviene vita e la favola si fa umanità. C’è nell’animo del
lettore una pietà senza patria che vuole e aspetta il vendicatore: Annibale sarà quel vendicatore».
E il commento che Marchesi qui soggiunge è quasi ‘scandaloso’: «In questa parte del
poema […] Virgilio non si accorge di perdere la sua romanità».
Nelle pagine che seguono, Marchesi ripercorre la vicenda dello strappo disumano onde
Enea fugge dalla regina e la segue fin nell’Ade, fino alla celebre scena, agli Inferi,
in cui Enea dice parole di una goffaggine senza limiti: «È dunque vero? Per causa
mia sei morta? Ti giuro; per i numi del cielo e dell’inferno ti giuro: son andato
via dalla tua terra, o regina, contro il mio volere (invitus, regina, tuo de litore cessi)». Ma Didone lo ignora: «Al pianto e all’angoscia dell’uomo non si stempra il torvo
rancore dell’uccisa?», «perché il poeta non ha chiuso quella ferita?» perché «il male
che opera l’uomo sull’altro uomo nessuna potenza cancellerà mai e nessuno può riprendere
l’altra vita umana ch’egli ha distrutta. Forse per questo Virgilio ha voluto che restassero
quell’odio e quel rimorso». Illa solo fixos oculos aversa tenebat […] tandem corripuit sese et inimica refugit (VI, 469; 472).
Non è divagante questa parafrasi dell’incontro postremo tra Enea e Didone rispetto
a quanto ipotizzato nelle pagine precedenti. Didone non si piega, non accetta una
«chiusura» della «ferita». Di qui l’intuizione, audace – che è al centro dell’intero
saggio –, di un Annibale «vendicatore» di Didone e di un’«anima fenicia» di Virgilio,
il quale «non si accorge di perdere la sua romanità».
Ma ancora più dirompente è il finale del saggio, in cui affiora quella che forse era
la vena più originale del pensiero storico di Marchesi: quella di cristianista. Nel finale, Marchesi pone in antitesi le due profezie espresse nell’Eneide: quella di Giove ai Romani, imperium sine fine dedi; e quella di Anchise che è piuttosto un monito ai Romani, parcere subiectis et debellare superbos. Ma le demolisce entrambe, con le parole che Cristo dice nel Vangelo di Luca: «Passeranno
anche il cielo e la terra, le cose create da Dio», e con le parole epocali di Agostino:
«Passerà anche la cosa fondata da Romolo» (pp. 137-138). E Agostino proseguiva – in quella sua prosa così cara a Marchesi –
osservando che il compito di frenare i «superbi» e aiutare i deboli non è delle armi
romane, è di Dio (Deus superbis resistit, humilibus autem dat gratiam): puntuale e radicale rettifica dell’ammonimento-profezia di Anchise. E, se non bastasse
aver disperso con le parole del vescovo di Ippona la pretesa imperialistica romana,
Marchesi termina il suo saggio nel segno della presa di Roma da parte di Alarico (24
agosto dell’anno 410) e col relativo commento di Agostino: «Ora anche Roma è caduta:
ma nelle sue chiese cristiane era la salvezza». Agostino – prosegue – «legge e spiega
l’Eneide»; Agostino valorizza Virgilio «che ha narrato quello che gli uomini usano fare quando
distruggono le vinte città». E col Virgilio riletto da Agostino il saggio si chiude.
5.
Ojetti pubblicò tutto questo. È giusto chiedersi se avesse capito. Non era un ingenuo
e fino a tre anni prima aveva diretto il «Corriere della Sera», il più importante
e il più esposto quotidiano italiano. Anche in questo caso però conviene guardarsi
dal ‘senno di poi’. In realtà è possibile che non fosse ancora a tutti chiara l’importanza
che il fascismo intendeva annettere a questo nuovo strumento di egemonia culturale
(la celebrazione ‘corale’, e promossa dall’alto ma con l’apporto di interi ceti intellettuali,
di momenti di storia dell’antica Roma congruenti con l’autorappresentazione del regime)
o che i letterati ritenessero di avere maggiore libertà di manovra nei loro periodici
per pochi.
Comunque una reazione violenta a questo intervento ‘scandaloso’ ci fu, e venne, nella
forma più aspra, da Ettore Romagnoli: cioè da un accademico in ascesa politica (da
circa un anno accademico d’Italia e già proteso – offrendosi per occasioni pubbliche – alla conquista, che però tarderà, della cattedra di greco a Roma). Reazione collocata,
nella massima evidenza, sul quotidiano «La Voce di Mantova» del 2 ottobre 1930, nel
cuore della più importante delle celebrazioni virgiliane, quella di Mantova, preparatoria
della celebrazione in Campidoglio (15 ottobre) dove Romagnoli parlò alla presenza
del Re e del Duce.
Romagnoli ha atteso l’adunata mantovana ‘nazionale’ «nel nome del Duce», il 2 ottobre
del 1930, per sferrare il suo attacco. E scrive Virgilio cartaginese pubblicato a tutta pagina su «La Voce di Mantova», nel numero dedicato alle celebrazioni
nazionali del bimillenario. Il titolo cubitale è: Nel nome di Mussolini il Poeta sarà celebrato; quel titolo sovrasta sia il ‘fondo’ di Romagnoli – di cui diremo tra breve – sia
la dettagliata illustrazione della Crociera virgiliana «voluta dal Duce» (con relative tariffe, definita nel pezzo «simpatica manifestazione»)
sia il Programma delle celebrazioni il cui culmine oratorio è «il discorso ufficiale del Bimillenario» affidato al «Senatore
prof. Giuseppe Albini, Rettore Magnifico della gloriosa università di Bologna» (di
seguito all’intervento del podestà), ed il cui culmine gastronomico, previsto per
le ore 13, è la «Colazione d’onore [sic] offerta ai convenuti per la celebrazione dal comune di Mantova». E ovviamente, dopo
pranzo, visita al «Bosco virgiliano».
Romagnoli era polemista di rara volgarità, ma in questo caso ciò che più colpisce
è il carattere delatorio dell’intervento: ricordatevi che Marchesi è stato (e dunque
forse è ancora) comunista; perciò filo-semita; e vuol ridurre Virgilio ad un mugik.
Fatti i complimenti ad Ojetti per la sua «bella rivista» e riconosciuto Marchesi come
«uno dei più autorevoli professori universitari di letteratura latina», Romagnoli
trascrive, subito in apertura dell’articolo, la frase che più lo ha urtato e la mette
in corsivo: «Virgilio non si accorge di perdere la sua romanità […] nessuno ha vista
l’anima fenicia di Virgilio» (donde il titolo dell’articolo: Virgilio cartaginese). La reazione a tali frasi è isterica: se fosse vero quello che scrive Marchesi –
attacca subito Romagnoli – «avrei fatto un rogo di Eneide, Georgiche e Bucoliche» per rendere omaggio, con tale rogo, alla memoria del vecchio Catone (il noto, ossessivo,
promotore del «delenda Carthago»). Dopo di che si impegna a rivelare il vero intento di Marchesi: «A cuore gli sta innanzi tutto, dimostrarlo [Virgilio] non romano»; «riconosce una volta, a mezza bocca [sic] che è poeta italico ma subito soggiunge che lo è […] con la interezza onde poteva
esserlo un poeta cisalpino (intendi celta, a maggiore gloria di Jullian e compagni [sic])». Urtante è anche, per Romagnoli, che Marchesi in quel saggio abbia preso esplicite
distanze dai due pilastri della celebrazione ufficiale in atto («poeta dei campi e
dell’impero») e sostenga che la vera ragione dell’apprezzamento di Virgilio nel mondo sarebbe «che
gli uomini, disgiunti dalle religioni, dalle patrie, dalle leggi e dai costumi sociali,
sono congiunti soltanto dal dolore».
Al che commenta, con la consueta sua banalità:
«Avete capita l’antifona? Bando, senza mercede, alla patria. E al Virgilio che oggi
l’Italia ufficiale vorrebbe gabellare per poeta dell’Impero, fu in realtà umanitario,
senza patria, pacifista, internazionale, rinunciatario, proletario, precursore di
tutti i luminari del socialismo, da Marx a Lenin».
Aver menzionato Lenin lo eccita e decide di coinvolgere nell’attacco anche il «grosso
libro per molti lati assai pregevole», di Tommaso Fiore – definito «un altro crocianissimo studioso» – che aveva scritto di Virgilio che
«ritrova l’immagine di se stesso» nell’«uomo di natura», «nell’ignorante contadino,
stavo per dire nel mugik».
Così i due studiosi notoriamente antifascisti, che avevano osato pubblicare scritti
su Virgilio nel pieno della chiassosa e strumentale celebrazione ufficiale, vengono
accomunati non solo nel filo-bolscevismo ma anche nello schieramento letterario-filosofico
‘crociano’, anzi «crocianissimo». Ciò può aver senso per Fiore, non propriamente per
Marchesi: ma forse l’irruento (e su questo terreno piuttosto disinformato) Romagnoli
è memore delle parole di grande apprezzamento di Croce per la Storia della letteratura latina di Marchesi e, ancor più, dell’entusiastica ed efficace amplissima recensione di Valgimigli (di
sicuro definibile come crociano) alla Storia di Marchesi («Leonardo» ottobre 1927).
Perciò, prima dell’affondo finale, Romagnoli delinea il suo Virgilio; ed ha buon gioco – e anche qualche ragione – nel valorizzare quegli aspetti
che una visione di stretta osservanza crociana relega nella non-poesia:
«Compiutamente o non compiutamente espressi che si vogliano giudicare, i brani [dell’Eneide] ispirati a Roma e all’Impero, sussiste ineliminabile il fatto che questo sommo artista,
cuore veramente universale, […] volgendo la sua pupilla di veggente sul mondo che
usciva da una delle più terribili crisi, vide che la salvezza era nell’ordine, nella
gerarchia [sic!], nell’Impero. E sentì che l’arte non ha ragion d’essere se non si proporziona all’utilità
civile [interessante teoria estetica, collimante col «realismo socialista»]. E al
servizio dell’Impero consacrò l’arte sua, che rimane tuttora insuperato modello di
perfezione e di purezza».
Dopo di che – concludendo l’attacco – contrappone «questo Virgilio» all’altro (di
Marchesi e di Fiore) «mortificato, mogio mogio, cartaginese, piagnone, mugik». E se ne libera con virulenza delatoria: «È un fantoccio messo insieme a grama soddisfazione
degli eterni malcontenti e cincischiatori, e brontoloni». «Mormoratori» era l’epiteto
riservato agli oppositori tuttora in circolazione e ancora non del tutto azzittiti.
La battuta finale è poco perspicua, ma, visto l’intento esplicitamente antisocialista,
merita un cenno: «Battuto in pieno [Virgilio, par di capire], non si nega, dal sole
dell’avvenire». E a conclusione il Witz: «Ma date un’occhiata all’ombra [versus sole]. Pare l’ombra di Rabagas». L’accenno finale al personaggio arruffapopoli e
voltagabbana della commedia di Sardou (1872) vuol forse suonare come insulto rivolto
indirettamente a Marchesi e ai suoi trascorsi politici e giornalistici.
6.
All’attacco di Romagnoli, Marchesi non rispose direttamente ma propiziò e ottenne,
in tempi davvero rapidi, la pubblicazione in lingua tedesca del suo saggio virgiliano
in un periodico ‘progressista’ svizzero-tedesco, la «Neue Schweizer Rundschau». Traduttrice fu Marta Vogler e il titolo adottato fu Die Welt der vergilischen Dichtung. Come vedremo nel capitolo seguente, il 1931 segnò, per Marchesi e per molti altri
un passaggio critico non facile da superare; ma intanto Marchesi riaffermava, in forma
abile e più durevole, la sua riflessione ‘fenicia’ che tanto aveva irritato Romagnoli.
E replicò anche per altra via: con un inopinato elogio di Annibale. Ritoccando in
profondità la Storia della letteratura latina, rimise mano, tra l’altro, al capitolo su Cornelio Nepote, e questo gli rese possibile
un’ampia ripresa del tema ‘Annibale’. Siamo nella terza edizione (1932-1933), quella
con cui si inaugurano modifiche profonde del testo, edito per la prima volta nel 1925-1927.
Nel capitolo su Cornelio Nepote, introduce due parti del tutto nuove: l’una sulla
Vita di Attico, l’altra sulla Vita di Annibale. In entrambi i casi l’allusività è scoperta. Dopo il trauma del novembre 1931 – ricattatoria
imposizione del giuramento di fedeltà al fascismo – lo spazio riservato ad Attico
sembra essere un segnale di ripiegamento. Sorge in lui, forse, sfiducia nella propria
capacità di proseguire una purchessia forma di impegno politico. Ad Attico – e alla
sua scelta di lontananza dalla politica e di equidistanza ‘filosofica’ dalle parti
in lotta – dedica ora, nell’edizione che esce nel 1932, una allusiva trattazione che
nelle edizioni precedenti era del tutto assente:
«Si tenne lontano dalla vita pubblica non per amore dell’ozio ma per amore della propria
pace; ed acquistò così una specie di sacra immunità che gli permetteva di mandare
trecentomila sesterzi a Bruto in Epiro e di proteggere poco dopo la famiglia di Marco
Antonio, dichiarato hostis publicus e fieramente perseguitato in quella breve ora di sua sfortuna che agl’incauti pareva
definitiva. Non ebbe odii questo cittadino vissuto in un tempo in cui tante infamie
erano commesse: ma egli forse vedeva che da ogni parte erano i malfattori; così che
non volendo o non potendo odiare nessuno, tutti quanti trattò e praticò umanamente
quegli uomini che ricadevano e risorgevano nella mutabilità delle vicende politiche».
Ma al tempo stesso, non immemore dell’insultante attacco romagnoliano che culminava
nell’epiteto «Rabagas», rincara la dose su Annibale, che diviene qui «eroe». Per ‘arruolare’
Cornelio Nepote dalla propria parte, mette a raffronto l’invasamento anti-annibalico
della propaganda augustea con l’ammirazione che Cornelio tributa ad Annibale:
«Cornelio – scrive – compose l’opera sua in un tempo non ancora tutto preso da quella
febbre di esaltazione romana che accende gli scrittori dell’età augustea: allorché
Annibale è il perfidus hostis che vince con la slealtà: tale è per Orazio [Odi, IV, 4, 9]; tale è per Livio [XXXI, 4, 9; XXII, 6, 12; 48, 1]. Nelle poche pagine
di Cornelio egli apparisce invece in una costante linea di grandezza eroica; è il
vir fortissimus, ed è anche il vir omnium callidissimus, il più forte e il più avveduto: che combatte e vince anche con l’inganno (dolo), che è accorgimento (consilio), allorché le armi non bastano (dolo erat pugnandum, cum par non esset armis)».
E forse non è casuale che, proprio in quel momento, Marchesi sia stato tratto a valorizzare
questo dettame: l’inganno «è accorgimento quando le armi non bastano».
Cornelio – prosegue – riconosce che Annibale, «invictus finché rimase in Italia», avrebbe potuto vincere. E cita l’inizio della vita corneliana:
«Dall’odio di Cartagine fu vinto quest’uomo, che avrebbe potuto vincere Roma». E commenta:
questo giudizio, Livio lo avrebbe respinto come ingiurioso. Livio – aggiungiamo noi
– il quale pensava di aver mostrato che neanche Alessandro Magno ce l’avrebbe fatta
contro i consoli romani! «La verità – incalza Marchesi – non è nel giudizio degli
uomini variamente appassionati». (Altra considerazione singolare da parte di un già
focoso militante e prosatore rivoluzionario estremamente ‘fazioso’: non lontana dalla
rivalutazione della ‘neutralità’ di Attico.) E prosegue: «Nessuna figura della storia
è più tragica e cupa di questa di Annibale […] L’odio di razza contro razza, di gente
contro gente per il dominio del mondo non ebbe eroe più grandioso». E Annibale assurge,
così, a simbolo, ad ‘eroe’ «di tutta una parte del mondo che non vuol soccombere»
a Roma, «grande anima senza riposo né pace».
7.
Si coglie, in particolare in queste ultime parole, una eco della corrente – ben presente
nelle fonti storiografiche – di consapevole rifiuto dei raptoresorbis: il capo britanno Calgaco così definisce i Romani in un celebre passo dell’Agricola di Tacito (cap. 30), ben noto al tacitiano Marchesi. Il discorso di Calgaco è un
locusclassicus, insieme con la lettera di Mitridate ad Arsace, immaginata da Sallustio nelle Storie, di ciò che Harald Fuchs chiamerà, qualche anno più tardi, Der geistige Widerstand gegen Rom in der antiken Welt (1938) e che Simone Weil, nel primo fascicolo dei «Nouveaux cahiers» (1940) tratteggerà
nel saggio intitolato Hitler e la politica estera dell’antica Roma:
«I Romani – scriverà Simone Weil pensando all’Europa sotto la svastica – hanno conquistato
il mondo con la serietà, la disciplina, l’organizzazione, la continuità delle idee
e del metodo, con la convinzione di essere una razza superiore e nata per comandare;
con l’impiego meditato, calcolato, metodico, della più spietata crudeltà, della fredda
perfidia, della propaganda più ipocrita; con una risolutezza incrollabile nel sacrificare
sempre tutto al prestigio, senza essere mai sensibili né al pericolo né alla pietà,
né ad alcun rispetto umano; con l’arte di alterare, nel terrore, l’anima stessa dei
loro avversari […] Hanno saputo manipolare a piacimento i sentimenti umani. È così
che si diventa padroni del mondo […] Lodavano la propria buona fede con una convinzione
contagiosa».
Sallustio e Tacito, tra gli storici più frequentati da Marchesi, sono stati anche,
insieme con Pompeo Trogo, i più inclini a dare spazio alla voce dell’anti-Roma, ma
non sono i soli. La parola d’ordine (nel 90-88 a.C.) degli Italici contro Roma – che
largamente avevano parteggiato per Annibale – ci è nota da Velleio (II, 27, 2: numquam defuturos raptores Italicae libertatis lupos, nisi silva, in quam refugere
solerent, esset excisa). E paradossalmente è Polibio – massimo cantore della ‘sapienza’ politico-costituzionale-militare
romana – che dà voce ad Annibale nel trattato con Filippo V (Storie, VII, 9) e soprattutto a Perseo (lettera ad Eumene: XXIX, 4, 9). Una lettera che
sembra quasi, storiograficamente, l’antecedente di quella sallustiana di Mitridate
ad Arsace: proprio Polibio dimostra di saper ‘entrare nella testa’ dei principali
e più pugnaci nemici di Roma e dà vita ed efficacia ai loro argomenti. Fatta salva
l’eccezione imbarazzante di Livio, gli storici romani, dando voce all’anti-Roma, si
mostrano consapevoli di quanto i comportamenti manipolatori dell’élite romana siano stati elementi essenziali della durevolezza della moles imperiale. Sintomatico, in tal senso, il grande discorso – più volte messo a frutto
e parafrasato da Marchesi (per lo meno a partire dal 1924) – di Petilio Ceriale ai
Batavi tentati dalla ribellione nel 70 d.C.: «La fortuna e la disciplina di 800 anni
hanno tenuto salda questa vasta mole; chi l’abbatterà sarà anch’esso schiacciato dalla
sua caduta».
***
Tra lo scatto antifascista del Virgilio del 1930 e l’Annibale del 1932 Marchesi esprime il massimo di lontananza da quell’allineamento
al culto di Roma, che, di lì a qualche anno, si avvertirà alquanto fastidiosamente
nelle sue prose d’occasione.