II. Racconto e documento
Che la storia si scriva basandosi sui documenti è considerato di immediata evidenza,
per lo meno da coloro che si occupano di storia. Ma per lo storico greco di età classica
non era propriamente così.
Detta così, questa affermazione può apparire troppo sommaria e può ingenerare qualche
confusione. Resta il fatto che la principale fonte d’informazione dello storico non
erano gli archivi, ma – come si è visto nel capitolo precedente – la testimonianza
viva dei protagonisti o testimoni degli eventi narrati, o le narrazioni precedenti
per quel che riguarda la storia più antica. Peraltro il centro, concettuale ed emotivo,
di un’opera di storia era quasi sempre l’epoca contemporanea dell’autore: il che dava
ai testimoni diretti degli eventi il massimo ruolo.
La prospettiva cambia se ci interroghiamo sul nostro modo di considerare i loro racconti
storiografici superstiti. Dalla scarsezza delle fonti primarie, noi siamo portati
infatti a trattare i racconti storiografici degli antichi come documenti. È una prospettiva insensata che è però alla base dei nostri esperimenti di racconto
della storia greca (o romana, o di altre epoche, per le quali si ponga lo stesso genere
di problemi). Se dovessi raccontare la storia della seconda guerra mondiale, e prendessi
a base i sei volumi di Winston Churchill, The Second World War (1948-53), sarei un assai ingenuo storico del cruciale evento che campeggia alla
metà circa del nostro secolo: finirei con l’essere subalterno alla mia fonte prediletta,
la quale avrebbe certo il vantaggio enorme di essere il racconto di un protagonista
del massimo livello, ma presenta il limite tipico di un racconto «di parte» e per
giunta aggiornato assai meno di quanto l’apertura degli archivi avvenuta man mano
nei decenni successivi ormai consenta. Orbene per la storia della guerra del Peloponneso
(431-404 a.C.), cioè per l’evento capitale della storia greca prima di Alessandro
Magno, noi ci comportiamo, perché sarebbe impossibile fare altrimenti, esattamente
in quel modo deprecato e di cui ci è ben noto l’intrinseco arbitrio: la nostra ricostruzione
è infatti quasi del tutto fondata su di un grande racconto di un protagonista, Tucidide.
Concediamo senz’altro a Tucidide quello che mai concederemmo, se non in preda a una
sfrenata faziosità, a Sir Winston Churchill. E nel linguaggio corrente finiamo col
trattare col «feticismo» che si riserva ai documenti quello che è semplicemente un
racconto.
Questo non vuol dire che non abbiamo, anche per quel lontano evento del V secolo a.C.,
documenti che potremmo definire «d’archivio». Sono infatti sopravvissute alla distruzione
del tempo e degli uomini migliaia di epigrafi, rintracciate su tutto lo spazio geografico
ellenizzato. È l’avanzo durevole di secoli di civiltà parlante greco: lastre di marmo,
di piombo, comunque materiali ben più durevoli del papiro o della pergamena. In buona
parte tali materiali sono stati raccolti in depositi e musei, talvolta sono rimasti
in loco. Sia ben chiaro: gli archivi delle città greche non erano dei «lapidari»; in archivio
andavano, quei documenti, ma per lo più trascritti su papiro; la copia epigrafica
era quella destinata alla pubblica visione, quella esposta. Ci si può chiedere quale
testo avesse più carattere di ufficialità: se quello conservato in archivio o quello
pubblico e verificabile in qualunque momento da chiunque avesse capacità di leggerlo
o di farselo leggere. Certo è che per copia d’archivio deve piuttosto intendersi quella conservata e depositata nel luogo a ciò deputato.
In una legge sulla tutela degli archivi nell’isola di Paros (II secolo a.C.) si rinvia,
per sbugiardare le contraffazioni, a «libri antigrafi», alla copia su papiro, conservata
in archivio. Ciò non toglie che le copie epigrafiche dei documenti siano per noi un
eccellente surrogato di quegli archivi che non abbiamo più. Il che vuol dire che,
a partire da quando questo genere di documenti su pietra fu ricercato e messo a frutto
dagli studiosi di cose antiche1, la moderna possibilità di ricostruire la storia di quel passato si è sensibilmente
arricchita. Finalmente abbiamo cominciato a disporre di quel genere di documenti che,
in una ricostruzione fondata essenzialmente sulle fonti letterarie, restava fuori
o comunque ai margini.
Nasce qui una domanda: siamo dunque anche per la storia greca nella situazione di
ricchezza documentaria che è usuale nel campo della storia più recente? Certamente
no. Non deve sfuggirci infatti il carattere casuale, del tutto casuale, del materiale «documentario» superstite. Certo non scarso: ma
assolutamente non sappiamo quanta parte esso sia di un «intero» la cui entità possiamo
solo immaginare, arguire con criteri che rasentano l’arbitrio. Trattati tra città,
decreti onorifici, liste di entrate o di tributi, rendiconti di lavori pubblici, decreti
di assemblee deliberanti. Questo assai vario genere di documenti ci è ben testimoniato
dalle migliaia di pezzi sopravvissuti. (Spesso pezzi nel senso di frammenti anche
minuscoli, per integrare i quali si mette in atto la moderna sempre più raffinata
perizia congetturale, che sa quanto di formulare ci fosse in quel genere di testi).
Ma non dobbiamo dimenticare quanto ciascun genere documentario che abbiamo or ora
evocato appartenesse alla quotidianità della vita delle città greche, alla infinita iterazione di una vita quotidiana durata
secoli: e invece noi non abbiamo che «chiazze» di documentazione. Il che ci mette
nella complicata e aleatoria situazione di combinare documenti casualmente sopravvissuti (e che saltuariamente illuminano eventi e dettagli scelti dal capriccio
della conservazione) con testi narrativi. (Ovviamente anche di questi ultimi sappiamo
quanto abbiamo perso. Ma qui stiamo considerando la loro «pretesa di verità» nel caso
in cui si siano salvati. Ciascuno di essi, quando c’è, pretende di darci – e noi siamo
indotti a crederlo – l’intero di un determinato evento).
Il racconto dello storico antico pretende di dare tutto (o almeno tutto il necessario) su quell’evento. Noi sappiamo a priori che così non è. Trovandoci perciò tra le mani documentazione diretta e indipendente siamo immediatamente portati a integrare questa nel racconto letterario. Dobbiamo però sapere che facciamo ciò a caso: là dove il caso dovuto alla capricciosa conservazione ci consente di farlo. Come
dire: sommiamo «addendi» incongrui nel momento in cui aggiungiamo epigrafi a narrazione
storiografica. Per giunta dovremmo non dimenticare mai che comunque il racconto storiografico
antico può a sua volta comportare un uso (anche se non sempre reso esplicito) di documenti:
e in tal caso la nostra operazione rischia di risultare ancor più incongrua, giacché
lo storico antico selezionò o trascelse i documenti di cui tener conto (di cui però non sempre diede esplicita
notizia) sulla base di un intero documentario, mentre noi vi aggiungiamo, come integrazione necessaria, tutto quanto i casuali ritrovamenti hanno messo in salvo. Alla fine abbiamo il racconto antico
arricchito e modificato (e non di rado messo in crisi) dove capita. Il che è allarmante: il pensiero corre a tutti i punti della nostra ricostruzione
dove «non capita»!