1. «Iuxta propria principia»
Uno dei retaggi più disgustosi della propaganda profusa al tempo della guerra fredda
è il «fondamentalismo democratico». L’espressione, non felicissima ma sostanzialmente
chiara, è di García Márquez. Indica l’arrogante uso di una parola («democrazia») che
nel suo attuale esito racchiude e copre il contrario di ciò che etimologicamente esprime;
e, insieme, l’intolleranza verso ogni altra forma di organizzazione politica che non
sia il parlamentarismo, la compravendita del voto, il «mercato» politico.
Un corollario di tale fondamentalismo è la valutazione schematica e en gros di tutti gli altri ordinamenti politici. Il diverso dal modello parlamentare è il
totalitario, è il male. Questo modo di vedere, e meglio sarebbe dire «di non vedere»,
la realtà ha colpito in tutte le direzioni, impedendo di comprendere la molteplicità
del mondo quale si veniva articolando nel mezzo secolo successivo alla seconda guerra
mondiale. È stato un danno innanzi tutto culturale, e perciò anche politico. Arroccati
nel regno del «bene», i facitori di opinione guardavano al resto del mondo avvolgendosi
nella coda come il Minosse dantesco, a significare il girone (metaforico, e talvolta
non solo metaforico, se si pensa ai massacri Cia in Cile e Indonesia) in cui far sprofondare
questo o quell’altro antagonista.
Dopo la fine dell’Urss, è stata la Cina, specie dopo Tienanmen, e nonostante i corteggiamenti
strumentali del tempo di Nixon, l’oggetto privilegiato di questo sforzo di non-comprensione.
Una voce di buon senso, critica, si è levata un paio d’anni fa. È la voce di uno studioso
che non ha viaggiato solo «sul Tolomeo», per dirla con l’Ariosto, ma che forse ha
avuto il torto, agli occhi dei «fondamentalisti», di scrivere, all’inizio degli anni
Ottanta, I giganti malati1, libro non allineato, come all’epoca si pretendeva. Esso poneva infatti – come oggetti
di analisi – sullo stesso piano il regno del «bene» e quello del «male»! Stiamo parlando
non certo di un bolscevico, ma di Alberto Ronchey.
Scriveva dunque Ronchey a proposito della Cina, dopo Deng, e tentava di capire, non
di sentenziare: «Più che propriamente comunista, il regime appare oggi come una sorta
di collettivismo confuciano ammodernato». (Se si considera che Confucio fu tra i bersagli
prioritari della «Rivoluzione culturale» maoista, il cammino percorso non è poco.)
«È un ibrido di statalismo totalitario e mercantilismo, tra chiusura politica interna
e apertura economica verso l’imprenditoria privata nazionale o straniera». (Inutile
dire che la ricetta non è nuova, e per certi versi rassomiglia alla Nep, di buona
memoria.) «A Pechino durano al potere gli eredi del dogmatico Mao e insieme del pragmatico
Deng. Perché?».
La risposta parte proprio dall’evento propagandisticamente più sfruttato in Occidente,
e lo affronta, significativamente, partendo da un aforisma di Deng: «In qualsiasi
nazione, in qualsiasi epoca, c’è almeno l’uno per cento dei cittadini ribelle a qualsiasi
autorità. Ma qui, fra un miliardo e duecento milioni di cinesi, l’uno per cento significa
dodici milioni di ribelli sulle piazze».
Donde la domanda: «Come si governa dunque una sterminata nazione, con la prospettiva
di dodici piazze Tienanmen in rivolta? Non c’è termine di paragone con i presupposti
delle civiltà liberali nate in Gran Bretagna come in America e in Francia. E neanche
proponibile sarebbe un paragone con Cuba». «Gli Occidentali hanno spesso interpretato
gli eventi cinesi con i sistemi di giudizio e i parametri storici del mondo loro,
anziché studiare la Cina iuxta propria principia. [...] Quella remota entità esiste come l’hanno fatta la storia più antica, la demografia
moderna più accelerata nei tassi d’accrescimento, l’idrografia più calamitosa e la
dominazione coloniale più dolorosa». «Forse anticipa, senza che sia prevedibile altrove
una simile stabilità di governo benché dispotica, il futuro del Terzo Mondo investito
dalla bomba demografica»2. Torneremo, alla fine di queste pagine, su questo punto capitale.
Per ora ci limitiamo a ricordare che già Erodoto, quando raccontò in pubblica lettura,
in Atene, che, alla morte di Cambise e dopo la fine dell’usurpatore che gli succedette,
qualcuno propose di «instaurare la democrazia in Persia», non fu creduto. E che, nel dialogo di George Cornewall Lewis sulla «migliore forma di governo» (1863),
una delle obiezioni ricorrenti è che il sistema «parlamentare» (per fondamentalismo
definito poi tout court «democratico») non è adatto indiscriminatamente ad innestarsi in qualunque civiltà
e su qualunque terreno: senza che questo comporti, nelle parole del politico e storico
inglese, quella spocchia di liberali razzisti alla Julius Schwarcz (1873), secondo
cui la «democrazia» sarebbe appannaggio esclusivo della «razza bianca».
Del resto non sono gli stessi fondamentalisti «democratici» a ripetere, quasi incessantemente,
che liberismo e liberalismo (loro dicono più rozzamente: capitalismo e democrazia)
sono indissolubili?
Quanto in realtà fosse mera propaganda l’indignatio di cui il regime politico cinese è stato oggetto così a lungo, lo si è visto nello
scorso ottobre, quando il presidente degli Stati Uniti si è precipitato in Cina a
corteggiare il vertice del partito-Stato, onde ottenerne la neutralità nella dissennata
guerra «contro il terrorismo» scatenata dagli Usa ai confini della Cina. La Cina è
diventata a quel punto un ragguardevole, affidabile e apprezzato partner. Tienanmen non esiste più.