I.
Cento anni dopo
1.
Perché la destra non decampa dai suoi caposaldi e li rivendica e, appena può, li mette
in pratica, mentre la «sinistra» (esitante ormai persino a definirsi tale) non solo
ha archiviato tutto il suo «bagaglio» ma è ridotta ad attestarsi – quale nuova «linea
del Piave» – sul binomio liberismo-europeismo? Luciano Gallino dava una risposta semplice
e convincente: perché le classi possidenti hanno vinto la battaglia (e forse la guerra)
nella «lotta tra le classi».
L’attuale semi-sinistra sa bene che l’europeismo, brandito con retorica e fastidiosa
insistenza, non è che la figurazione romantica di una realtà intrinsecamente e prosaicamente
iperliberista. Il suo fondamento, il cardine del Trattato costitutivo dell’UE, è il divieto degli aiuti di Stato alle aziende nazionali. È cioè la negazione perentoria, e di fatto ricattatoria, di tutta una linea di condotta
economica che vedeva nella «partecipazione statale» e nell’«economia mista» la via
da seguire. (Via che si propone, anzi si impone, nelle ricorrenti crisi, divenute
più devastanti nell’attuale età di predominio del capitale finanziario sul capitale
‘produttivo’.)
Lo sconcerto cresce quando si considera come sia avvinto a siffatta ideologia liberal-liberista,
oggi suo unico credo, un partito politico sorto – or sono tanti anni – dall’assemblaggio
dei cocci di due grandi tradizioni estinte: quella democratico-cristiana e quella
del Partito comunista italiano. Quando sorsero – o meglio risorsero –, nel fervido
secondo dopoguerra, avevano molti punti in comune. Talora, attraverso alcuni suoi
esponenti, la Democrazia cristiana parlava financo un linguaggio più acceso: «La rivolta
universale contro la civiltà capitalistica – scriveva Amintore Fanfani nell’opuscolo
della Democrazia cristiana Economia orientata –, fatta in nome d’un ideale di dignità e di giustizia umana, prova che la coscienza
cristiana può addormentarsi, ma non può morire».
Qui vorremmo ripercorrere brevemente il cammino che ha condotto una formazione politica
(quella educata nel Pci), per progressive trasfigurazioni, a farsi alfiere di valori
antitetici rispetto a quelli su cui era sorta.
L’occasione è data dalla ricorrenza centenaria: 1921-2021.
2.
Questo libro può dunque essere legittimamente considerato un libro di storia antica.
Ciò perché intende riflettere sulla vicenda di un partito politico. S’intende, di
un vero partito politico. In particolare si tratta del Partito comunista «d’Italia»
(poi «italiano»), nato nel 1921; rinato, in forma totalmente diversa rispetto alle
origini, nel 1944; cresciuto con ammirevole continuità, nel consenso elettorale, nel
corso di un trentennio, fino ai successi di risonanza mondiale conseguiti nel 1975
e 1976; addirittura maggior partito italiano alle elezioni del 1984; «suicidato» dal
‘vertice’ appena cinque anni dopo (1989); sciolto in via definitiva dopo un anno abbondante
di agonia.
Oggi, a cento anni dal 1921, questa vicenda appare molto remota; e, alle generazioni
nuove, ignota. La storiografia, e anche la saggistica giornalistica, in proposito
languono, laddove – finché quel partito fu in vita – lo studio della sua storia fu
anche trampolino di lancio per la conquista di cattedre universitarie.
I partiti politici non sono, né possono essere, formazioni ‘eterne’: sono organismi
viventi, e perciò in costante trasformazione, come del resto le chiese, che però procedono
a ritmi di gran lunga più lenti.
Va osservato però che, nei secoli XIX e XX, nell’Europa continentale, essi hanno avuto
fattezze piuttosto simili, modellatesi via via sull’assetto dei partiti socialisti
e socialdemocratici. Parliamo dei partiti protesi ad organizzare masse più o meno
grandi e a fare proselitismo nel nome di idealità e programmi. Quando questo genere
di partito è venuto meno? Quando hanno cominciato a declinare o a venir meno i partiti
di impianto o matrice socialdemocratica (in Italia il Partito comunista e il Partito
socialista; lo stesso in Francia; ultimo baluardo novecentesco – finché dura – la
Germania).
3.
Sono subentrati degli agglomerati ondivaghi, che rifuggono spesso dal nome stesso
di «partito» e preferiscono denominazioni fantasiose o puerili o metafisiche: «En
Marche», «Forza Italia» con la variante dell’alleata-rivale «Fratelli d’Italia», «Alternative
für Deutschland», «Lega Salvini», «Movimento 5 Stelle», «Verdi», «Italia Viva» (?),
«Azione» (!) ecc. Essi vivono per lo più come alone intorno ad un leader, non hanno
veri e propri programmi di un qualche respiro, per lo più fiutano l’aria, cioè le
pulsioni dell’opinione pubblica. Opinione a sua volta conquistata totalmente da miti
primordiali-consumistici. Hanno rinunciato a qualunque funzione educativa, vanno «al
rimorchio»: e perciò non di rado deperiscono con la rapidità del «fuoco di paglia»,
specie quando il leader si svuota.
A tener vivo il carattere eminentemente etico dell’impegno politico è rimasto poco
più che l’attuale vertice della Chiesa cattolica, peraltro contestato e insidiato
quotidianamente dall’esterno e dall’interno. La resa delle formazioni politiche socialiste-democratiche
tanto più colpisce se si considera che – su scala mondiale – la destra nelle sue varie
forme è all’offensiva e ha conquistato (talvolta durevolmente) la guida di paesi decisivi
quali gli Stati Uniti d’America, il Brasile, la Turchia, l’India.
Non cercheremo di spiegare come mai questo sia accaduto. Sappiamo bene che analisi
approfondite sarebbero necessarie: soprattutto della disaggregazione delle classi
sociali che un tempo si chiamavano «subalterne» (e che tali tuttora sono) a fronte
della forza crescente e dominante del capitale parassitario-finanziario-speculativo,
finitimo della macrocriminalità sulla scala dei continenti. Ci siamo limitati a questo
cenno sommario perché utile alla comprensione del fenomeno all’apparenza sorprendente
dell’estinzione dei partiti otto-novecenteschi protesi alla rifondazione materiale
e morale nel nome di princìpi di giustizia.
Torniamo dunque al nostro tema come proposto all’inizio: la parabola del Pci «cento
anni dopo».
II.
Quanto a lungo vive un partito
Quanto a lungo vive un partito politico? E quanto rapidamente si trasforma, nel corso
della sua esistenza, fino a convertirsi in altro (se non nel suo opposto)? L’intreccio
molto stretto tra le due questioni è evidente, al punto che esse possono apparire
come un’unica questione. V’è poi un fattore da considerare, del quale non manca ormai
documentazione: quanto più un partito politico si richiama ad un pensiero filosofico
o comunque ad un «sistema di pensiero», e dichiara di fondarsi su di esso e di ispirarsi
ad esso, tanto più è esposto al deperimento, o, per meglio dire, al progressivo distaccarsi,
nel suo agire concreto, dalle sue premesse ideali. Il che equivale ad una progressiva
mutazione e trasformazione, e alla fine ‘trasfigurazione’.
Perciò partiti totalmente (o quasi) svincolati da presupposti ideologici o filosofici
possono vivere (apparentemente) uguali a se stessi in modo particolarmente longevo.
Diciamo «apparentemente» perché la mancanza di una impalcatura ideale di riferimento
ne rende non misurabile né apertamente visibile la mutazione, che comunque ugualmente
si produce. E ciò si vede nei partiti del mondo anglosassone (Inghilterra e Stati
Uniti d’America), la cui ‘eternità’ è garantita dalla totale risoluzione del loro
agire nell’empirìa. Non ci addentreremo, qui, nella questione: perché proprio in quei
paesi ciò sia accaduto. Azzardiamo soltanto qualche suggestione. Nel caso dell’Inghilterra
ha avuto un peso aver ‘consumato’ l’esperienza del regicidio repubblicano e della
dittatura di partito (fortemente ‘ideologico’) presto sfociata nel potere personale
(Cromwell), e aver poi assistito ad una restaurazione che teneva però conto di quel
lungo trauma, un secolo prima del continente europeo; ed essersi per un quarto di
secolo (1789-1815) contrapposta con forza alla rivoluzione dilagante nel continente
europeo (in tutte le sue forme). Ciò ha fatto sì che, quando nell’Inghilterra assuefatta
ad una quasi indolore alternanza tra liberali e conservatori si è fatta strada nel
mondo subalterno (working class) la spinta a dar vita a formazioni aspiranti a contare politicamente (Labour Party),
queste sono apparse come la proiezione delle organizzazioni sindacalistiche, non come
autonome promotrici di programmi politici. Per tutto il secolo XX, del resto (e ancora
oggi), il «Labour Party» è la proiezione politica delle «Trade Unions»: l’esatto contrario
del rapporto, sul continente, tra sindacato e partito.
Torniamo dunque sul continente. Ed osserviamo che i partiti furono qui figli, in un
modo o nell’altro, della Rivoluzione francese e degli schieramenti che lì si determinarono.
Il più moderno fu il partito «giacobino», la cui ragion d’essere fu l’attuazione –
tentativo naufragato – di un ‘sistema’ di idee sostanzialmente rousseauiane: molto
impegnative da attuarsi, data la loro radicale astrattezza.
Ed è da quella esperienza che, dopo la rivoluzione europea del 1848, discende – lo
diciamo ben consapevoli della semplificazione – il Partito socialista-democratico
tedesco, modello di tutti i moderni partiti continentali. Esso faceva proprie le convinzioni
e le direttive di Marx e di Engels: allo stesso modo che il partito, o meglio i partiti
socialisti francesi si ispiravano al socialismo autoctono della Francia sorto nel
solco dell’antico e soprattutto del nuovo giacobinismo affermatosi nella Seconda Repubblica
e scontratosi, perdente, col Secondo Impero, fino alla fiammata tragica della Comune
e della sua fine sotto i colpi delle armi «repubblicane».
L’esperienza russa – che veniva maturandosi nel frattempo e soprattutto alla fine
del secolo XIX – era investita da correnti teorico-pratiche in forte contrasto: il
populismo russo, l’influenza che veniva dalla Germania (il cui Partito socialista-democratico
era per molti motivi il più prestigioso ed influente), la mai dimenticata strategia
«giacobina». Il maggior interprete di tutto ciò, il leninismo, tentò la sintesi. E
trovò nella catastrofe della Russia nella «Grande Guerra» l’insperata e feconda occasione
storica.
La dialettica tra socialdemocrazia (a sua volta divisa tra l’ortodossia marxista di
Kautsky e l’aperto «revisionismo» di Bernstein e Bebel) e giacobinismo «leninista»
nasceva da molteplici fattori storici, il più significativo dei quali era l’insediamento
sociale del partito tedesco e la necessità evidente del «gradualismo» a fronte della
altrettanto evidente impossibilità della «rivoluzione» in Germania ma non in Russia.
Dunque il processo di allontanamento progressivo dal «sistema di pensiero» di cui
il partito tedesco si pretendeva portatore e assertore si era già venuto verificando
nel trentennio tra la morte di Marx e l’esplosione della «Grande Guerra».
Fu quella guerra che rivelò i limiti e, se si vuole essere schietti, il fallimento
del «gradualismo» e fornì armi e conferme irresistibili al giacobinismo leninista.
Donde la nascita, nel tempo subito successivo alla fine della «Grande Guerra», di
partiti che rompevano con l’ammaccato e disorientato gradualismo dei pur solidamente
sopravvissuti partiti socialisti (Germania, Francia, Italia) e si collocavano nella
nuova «Internazionale» (creata da Lenin) in quanto partiti «comunisti». (Un ritorno
terminologico alle origini: 1848.) E di lì incomincia la storia, ormai analizzabile
con la freddezza riveniente dalla durata secolare della vicenda, di questi nuovi partiti:
del progressivo loro ripensamento, e alla fine distacco – dettato dalla trasformazione
costante della realtà effettuale –, dai forti presupposti «di pensiero» sulla cui
base essi erano sorti. Si riproduceva così un cammino analogo: segnato – anche questa
volta – da tutte le inedite novità che lo sviluppo concreto dei fatti e delle forze
in campo impone all’attenzione dei «partiti». Quasi ovvio precisare che i fattori
concreti furono di due tipi: la grande ripresa del capitalismo sull’onda della vittoria
anglo-franco-americana del 1918 e la spinta fortissima venuta dall’economia statunitense
a tale ripresa, con conseguente deperimento di ogni ipotesi rivoluzionaria nei paesi
vincitori; la nascita del fascismo come straordinaria escogitazione atta a contrastare
la «rivoluzione» di tipo leninista nell’unico paese – l’Italia – dove essa per un
momento era apparsa non solo possibile ma imminente.
E fu il fallimento del cosiddetto «diciannovismo», culminato nella occupazione delle
fabbriche (finita al ribasso nel settembre 1920), a far capire che neanche in Italia
la «rivoluzione» sarebbe passata, anche se non era facile smobilitarla e archiviarla.
Donde la ricetta fascistica, a suo modo «geniale», della rivoluzione «nazionale» –
e dunque concorrente e alternativa rispetto all’«internazionalismo» comunista, costretto
sulla difensiva.
Questa sconfitta segnò sin da subito il destino del neonato (gennaio 1921) Partito
comunista d’Italia. Le due urgenze – come affrontare il fascismo e quali obiettivi
perseguire dopo la sua fine – furono la ‘scuola’ in cui si formò, o meglio si rifondò,
il PCd’I, presto e significativamente divenuto «italiano» (Pci). La lezione durissima
del successo conseguito dal fascismo portò, nella consapevolezza di una parte decisiva
del gruppo dirigente, alla archiviazione del modello e dello scenario giacobino-leninista,
alla opzione definitiva per l’«unità delle forze antifasciste» e in particolare alla
ricerca di collaborazione con l’universo cattolico. Non tutto fu capito da tutti.
Anche perché fu inevitabile saggezza (che però ebbe i suoi costi) dire quello che
si voleva ma non altrettanto chiaramente quello che si dismetteva. La formula, a suo
modo esplicita, fu: «il partito nuovo». Il che apriva la strada all’inevitabile, e
per certi versi salvifica, revisione.
Artefice di questa trasformazione fu Palmiro Togliatti: non incline a scoprire fino
in fondo ciò che non poteva non apparirgli l’approdo, seppe – nei vent’anni della
sua azione di leader nell’Italia post-fascista – tenere insieme il vecchio (che non
poteva evaporare d’incanto) e il nuovo. Sapienza nata dall’esperienza, formazione
storicistica, utilizzo del carisma riveniente a lui dall’impianto partitico del passato,
pedagogia costante verso il ‘corpo’ dei militanti (e, prima ancora, dei dirigenti)
furono le ‘armi’ della sua straordinaria e feconda di successi stagione politica.
«Egli è stato – ha scritto di lui Eric Hobsbawm – l’ultimo grande rappresentante della
Terza Internazionale, il principale architetto delle politiche post-belliche del Pci»,
e – soggiunge ponendo l’accento su un dato cruciale – «colui che ha reso possibile,
quasi da solo, la sopravvivenza e la fortuna politica degli scritti di Gramsci». Dove «fortuna politica» è espressione ben scelta e ben soppesata perché nell’‘officina’
incompiuta dei Quaderni del carcere era racchiusa gran parte della riflessione critica sul passato e sulle ragioni della
sconfitta che rendevano quel passato non più ripetibile.
Non ha senso dotare, con l’immaginazione, i personaggi storici di virtù profetiche,
ma non è azzardato ipotizzare che questo leader (il quale fu ben più che un «tattico»)
avesse intuito, mentre imponeva al suo partito l’orizzonte del «partito nuovo», quali
fossero gli sbocchi, quale l’approdo: il rientro nell’alveo del faticoso ma necessario
«gradualismo»; nella consapevolezza, forse, del non potersi indefinitamente tenere
insieme prospettive divergenti, o meglio incompatibili.
III.
Il partito nuovo
di Palmiro Togliatti
Può darsi, compagni, che non sia ancora chiaro per tutti che cosa intendiamo quando
parliamo di un partito nuovo; in che cosa deve consistere la «novità» del nostro partito.
Prima di tutto, e questo è l’essenziale, partito nuovo è un partito della classe operaia
e del popolo il quale non si limita più soltanto alla critica e alla propaganda, ma
interviene nella vita del paese con una attività positiva e costruttiva la quale,
incominciando dalla cellula di fabbrica e di villaggio, deve arrivare fino al Comitato
centrale, fino agli uomini che deleghiamo a rappresentare la classe operaia e il partito
nel governo. È chiaro, dunque, che quando parliamo di partito nuovo intendiamo prima
di ogni altra cosa un partito il quale sia capace di tradurre nella sua politica,
nella sua organizzazione e nella sua attività di tutti i giorni quel profondo cambiamento che è avvenuto nella posizione della classe operaia rispetto
ai problemi della vita nazionale. La classe operaia, abbandonata la posizione unicamente di opposizione e di critica
che tenne nel passato, intende oggi assumere essa stessa, accanto alle altre forze
conseguentemente democratiche, una funzione dirigente nella lotta per la liberazione
del paese e per la costruzione di un regime democratico. Partito nuovo è il partito
che è capace di tradurre in atto questa nuova posizione della classe operaia, di tradurla
in atto attraverso la sua politica, attraverso la sua attività e quindi anche trasformando
a questo scopo la sua organizzazione. In pari tempo il partito nuovo che abbiamo in
mente deve essere un partito nazionale italiano, cioè un partito che ponga e risolva
il problema della emancipazione del lavoro nel quadro della nostra vita e libertà
nazionale, facendo proprie tutte le tradizioni progressive della nazione.
Le vecchie classi possidenti reazionarie e in particolare la loro parte più reazionaria
hanno dato vita al fascismo, hanno aperto al fascismo la via del potere, hanno tenuto
il fascismo al potere per venti anni, hanno fatto la guerra insieme col fascismo,
hanno approvato la guerra fascista fino al momento in cui hanno visto che essa stava
per chiudersi con la disfatta e con la catastrofe. In questo modo esse hanno portato
l’Italia e tutti noi alla rovina.
Oggi la salvezza, la resurrezione dell’Italia non è possibile se non interviene nella
vita politica italiana, come elemento nuovo di direzione di tutta la nazione, la classe
operaia e attorno ad essa, serrate in un fronte unico, le grandi masse lavoratrici
del paese.