2. L’atto di nascita: la democrazia nell’antica Grecia
Erodoto racconta, in vivace forma dialogica, il dibattito svoltosi tra i più importanti
notabili persiani, nell’anno 522/521 a.C., intorno alla migliore forma di governo.
E pone in grande rilievo il fatto che tra le proposte formulate in quell’occasione
vi fosse anche quella di istituire «la democrazia» in Persia. Lo ripete anche in un
altro luogo, dove racconta che il satrapo Mardonio, in preparazione dell’attacco contro
la Grecia, «andava instaurando democrazie nella Ionia» (III, 80; VI, 43). Cosa sarà
stata una «democrazia» in un regno di enormi proporzioni come l’impero persiano è
difficile dire. Che questa tradizione avesse tuttavia un fondamento non è da escludere.
Probabilmente il nobile persiano Otanes, autore di tale proposta, intendeva propugnare
un ritorno al costume di «uguaglianza» vigente nell’antica Perside: un ritorno all’antico
che doveva riguardare unicamente il nucleo originario dal quale aveva poi preso corpo
man mano l’immenso impero. La proposta non passò, ma Otanes e i suoi discendenti ottennero
uno speciale statuto di indipendenza.
È anche possibile, come s’è già detto, che Erodoto dia rilievo alla vicenda – e ne
dà infatti moltissimo, per il fatto stesso di imbastire un intero dialogo intorno
alla «scandalosa» proposta di Otanes – al fine di mettere in luce una sorta di priorità
persiana in tema di democrazia (l’episodio precede di oltre dieci anni le riforme
di Clistene, che nella tradizione ateniese costituivano uno dei più accreditati «punti
d’inizio» dell’esperienza democratica).
Alcuni archeologi sono portati a pensare che dovunque, su suolo greco, in un contesto
urbano, si riconosca traccia di una agorà, quella sia anche la traccia di una qualche
prassi «assembleare»1. In epoca arcaica, nel Vicino Oriente, forme di rappresentanza nelle comunità locali
possono aver costituito degli embrioni di procedure democratiche: riunioni della comunità,
designazione di rappresentanti. Si è parlato, a tale proposito, di «democrazia primitiva»2. Peraltro l’inquadramento di comunità che, localmente, procedono secondo comportamenti
che paiono anticipare l’assemblea popolare delle città greche, entro la cornice sempre
più salda e limitante dell’assetto imperiale, toglie a queste esperienze la possibilità
di apparire, agli occhi degli antichi, come una tappa nella storia delle «istituzioni
democratiche». Anche nell’ambito dell’ancor più vasta cornice dell’Impero romano,
una serie di comunità cittadine serberà procedure e istituzioni proprie del funzionamento
della «polis» democratica. Ma si tratterà per lo più di forme dimidiate: nelle quali
però è anche da aspettarsi, di tanto in tanto, uno «scatto» verso l’antica indipendenza,
che comporta anche, ipso facto, una riappropriazione piena della pratica della democrazia.
È il caso di Atene al tempo della guerra di Silla contro Mitridate, combattuta sul
suolo greco (88/87 a.C.). Indipendenza (sovranità piena) e democrazia vanno insieme.
Ciò per varie ragioni, ma soprattutto per una, essenziale, che ci porta alla radice
stessa dell’antica nozione di cittadinanza e di democrazia in quanto comunità di uomini
in armi.
Il punto di partenza è infatti: chi ha la cittadinanza? Chi sono i «tutti» la cui
libertà mette in essere la democrazia? La seconda domanda è: anche quando tutti i
liberi hanno la cittadinanza, come la esercitano i socialmente più deboli? Questo
secondo e molto controverso problema ne implica altri ancora: la questione degli strumenti
necessari per poter esercitare effettivamente la cittadinanza (pur in assenza di adeguate
risorse intellettuali e materiali), la questione della validità del principio di «maggioranza»,
il dilemma tante volte emergente nella concreta prassi politica se debba considerarsi
prevalente la «volontà del popolo» o la «legge», e così via.
È nel fuoco di questi problemi che nasce la nozione – e la parola – demokratìa, a
noi nota, sin dalle sue prime attestazioni, come parola dello «scontro», come termine
di parte, coniato dai ceti elevati ad indicare lo «strapotere» (kràtos) dei non possidenti
(dèmos) quando vige, appunto, la «democrazia».
Partiamo dunque dalla prima questione. Chi ha la cittadinanza? Pòlis è l’insieme dei
polìtai, i quali, in quanto tali, sono anche politeuòmenoi: cioè esercitano la cittadinanza.
Dunque, a rigore, tutte le città nelle quali non vi sia un «tiranno» (cioè una figura
che avoca a sé di fatto, con o senza coperture «formali», poteri che sono al di sopra
delle leggi) sarebbero definibili allo stesso modo, in quanto è il corpo civico nel
suo insieme che vi esercita i diritti politici. Il problema è: come si definisce (e
perché, eventualmente, varia) il corpo civico.
Se consideriamo l’esempio più conosciuto, e più caratteristico, cioè Atene, constatiamo
che, in epoca periclea, a possedere questo bene inestimabile sono relativamente in
pochi: i maschi adulti (in età militare), purché figli di padre e madre ateniese,
e liberi di nascita. È questa una limitazione molto forte, se si considera che, anche
secondo i calcoli più prudenti, il rapporto liberi/schiavi era di uno a quattro. C’è
poi da considerare che non sarà stato del tutto trascurabile il numero dei nati da
un solo genitore «purosangue» in una città così dedita ai commerci ed ai contatti
frequenti col mondo esterno. Un oligarca ateniese al quale dobbiamo il primo opuscolo
in prosa attica, la cosiddetta Costituzione degli Ateniesi, stigmatizza proprio questa
frequenza di rapporti esterni, da parte di Atene, e ne addita gli effetti «ibridanti»
sul piano della lingua e dei cibi (II, 8). Almeno fino all’età di Solone (VI secolo
a.C.), la pienezza dei diritti politici – che costituisce il contenuto stesso della
cittadinanza – non era concessa ai nullatenenti. E si discute tra i moderni se davvero
già Solone, come sostiene Aristotele nel trattatello sull’ordinamento ateniese (Costituzione
di Atene), avesse esteso ai nullatenenti il diritto di accesso all’assemblea.
La visione della cittadinanza, dominante in epoca classica, è racchiusa nell’identificazione
cittadino/guerriero. È cittadino, fa parte a pieno titolo della comunità partecipando
alle assemblee decisionali, chi è in grado di esercitare la principale funzione dei
maschi liberi, la funzione cui tutta la paidèia li prepara, cioè la guerra. Al lavoro
provvedono gli schiavi e, in parte, le donne. Risulta dunque evidente perché una comunità,
pur «autonoma» ma immersa in un grande impero che la sovrasta e di fatto la dirige,
pratichi una democrazia decurtata.
Poiché per lungo tempo essere guerriero implicava la disponibilità dei mezzi per provvedere
all’armatura, la nozione di cittadino/guerriero si identificò con quella di possidente.
È infatti il possidente, detentore di una determinata entrata, per lo più fondiaria,
che si arma «a proprie spese» (i cosiddetti hòpla parechòmenoi). Fino a quel momento,
i non possidenti giacquero in una condizione di minorità politica, esposti al rischio
di una sostanziale menomazione – in determinate circostanze – anche dei diritti civili.
Insomma, una condizione non lontanissima da quella dei non liberi. Con il volgersi
di Atene verso il mare e la nascita di una flotta, circa un secolo dopo Solone, al
tempo della guerra contro i Persiani, fu necessaria una ingente manodopera bellica
di nuovo tipo: i marinai, un gruppo sociale e, insieme, un corpo militare al quale
non si chiedeva di «armarsi da sé», e che invece risultava indispensabile per «spingere
i remi e muovere le navi», come dice con fastidio l’anonimo oligarca della Costituzione
degli Ateniesi (I, 19-20). È lì la svolta, l’evento politico-militare che ha determinato
l’allargamento della cittadinanza ai non possidenti (i «teti»), i quali assurgono
così anch’essi alla dignità di cittadini/guerrieri: appunto in quanto marinai, nel
caso di Atene, della più potente flotta del mondo greco. È quasi superfluo osservare
come dunque, tra i requisiti che rendono possibile la nascita della «democrazia»,
rientrino fattori quali la collocazione marittima della comunità, l’impegno sia commerciale
che militare in direzione del mare. Non a caso, nel pensiero dell’anonimo oligarca
ora ricordato (che potrebbe essere il «socratico» Crizia, capo nel 404 del più drastico
governo oligarchico che Atene abbia visto), i modelli politico-statali si dividono
in due categorie: quelli che fanno la guerra per mare (Atene e i suoi alleati) e quelli
che fanno la guerra per terra (Sparta e le altre comunità ad essa affini, fondate
queste ultime sulla dominanza del ceto oplitico).
Ciò che cambia non è dunque la natura del sistema politico (alla base c’è sempre il
cittadino/combattente) ma il novero dei suoi beneficiari. Ecco perché, quando gli
Ateniesi, o meglio alcuni pensatori ateniesi interessati al problema delle forme politiche,
cercavano di veder chiaro nella differenza tra il proprio sistema e quello di tipo
spartano, finivano con l’indicare elementi non sostanziali: si pensi alla reiterata
osservazione, da parte di Tucidide, della «lentezza» degli Spartani di contro alla
«velocità» degli Ateniesi (I, 70,2; II, 39-40; VIII, 96, 5). Può anzi accadere, scorrendo
la letteratura politica ateniese, di imbattersi in elogi dell’ordinamento spartano,
non solo per il consueto richiamo al «buongoverno» (eunomìa), ma anche in nome di
una sostanziale identità dei due ordinamenti, quello spartano e quello ateniese. Scrive
Isocrate: «I nostri antenati con questo ordinamento di tipo democratico hanno superato
di gran lunga tutti gli altri uomini», e soggiunge: «e degli Spartani proprio per
questo si può dire che hanno il più bell’ordinamento politico: perché vige presso
di loro il massimo di democrazia» (Areopagitico, 61). In un contesto più spiccatamente
patriottico, nel Panatenaico, Isocrate ripete, alcuni anni dopo, all’incirca lo stesso
pensiero: «Parlerò a lungo delle istituzioni di Sparta, non perché Licurgo ne abbia
inventata o escogitata alcuna, ma perché imitò nel modo migliore possibile l’ordinamento
dei nostri avi, ed istituì presso gli Spartani la democrazia mista al governo dei
migliori: appunto come era presso di noi» (153). (Non stupirà dunque che Licurgo,
l’antico legislatore semi-mitico, creatore dell’ordinamento spartano, sia divenuto
in tutt’altra temperie tra i grandi punti di riferimento dell’abate Mably, stella
polare, insieme con Rousseau, di Robespierre e Saint-Just, o che Sparta, nell’ideologia
giacobina, sia diventata il supremo modello di repubblica oltre che di virtù repubblicana).
Isocrate coglieva un elemento sostanziale, che cioè in entrambe le comunità la sede
della sovranità è la stessa. In entrambe le comunità, e questo è un tratto distintivo
di tutto il mondo antico finché non entrerà in crisi la forma stessa della città-Stato,
il corpo decisionale è il corpo combattente. Perciò la cittadinanza è un bene prezioso,
che si concede con parsimonia, e che esige ed implica requisiti ben fermi ed escludenti,
miranti a delimitare al massimo il numero dei beneficiari.
La divaricazione risiede semmai nel modo in cui le due comunità hanno segnato il confine
tra libertà e non libertà. In Atene i liberi hanno ridotto a non-persone i non-liberi,
e dopo Solone – che ha recuperato alla libertà ceti immiseriti che andavano scivolando
nella schiavitù per debiti – si è aperto un baratro, rimasto incolmabile, tra libertà
e schiavitù. Come s’è detto, in Atene il rapporto liberi/schiavi è di uno a quattro:
almeno tale appare in vari momenti del V e del IV secolo. La grande massa delle non-persone
è indispensabile al funzionamento del sistema, che infatti finché ha potuto si è alimentato
con guerre di rapina e col dominio imperiale. Gli schiavi sono la base dell’economia
domestica e dell’economia pubblica. Anche il più povero, il più miserabile individuo
ha almeno uno schiavo: lo ha ad esempio il poverissimo Eschine «socratico», scolaro
diretto di Socrate, ridotto – secondo il ritratto che ne fa Lisia – a corteggiare
la padrona ultrasettantenne di una farmacia nella speranza di ereditarne la bottega.
Nell’economia pubblica – in particolare nelle miniere – gli schiavi sono governati
e controllati da campieri anch’essi di condizione servile; nell’economia domestica
questo ruolo di sorveglianti degli schiavi tocca alle donne, anch’esse non-persone,
soggetti irrilevanti e inesistenti nella società politica ateniese. A Sparta la stratificazione
sociale ha coinciso con la stratificazione castale ed etnica tra Dori dominanti e
popolazioni sottomesse, ridotte dai guerrieri-dominatori a differenti gradi e modi
di dipendenza. Ma gli Spartani «purosangue», o Spartiati, così come gli Ateniesi «purosangue»,
erano «liberi e uguali». Se erano portati a tenere a bada col terrore i dominati,
ciò è dovuto essenzialmente alla preoccupante sproporzione numerica a loro sfavore.
La gran parte degli schiavi di Atene marcivano nelle miniere incatenati in luoghi
pestiferi, come precisa Plutarco a proposito degli schiavi di Nicia (Vita di Crasso,
34,1). Ed è difficile negare che tale condizione fosse di gran lunga peggiore di quella
degli iloti, ai quali era pur sempre garantita la fruizione di una parte dei frutti
del loro lavoro.
L’ampliamento della cittadinanza – che fa concretamente differente il modello ateniese
da quello spartano – è dunque intrinsecamente connesso alla nascita dell’impero marittimo.
Impero che gli stessi «democratici» marinai hanno concepito, man mano in prosieguo
di tempo, come un universo di sudditi da «spremere» come schiavi. Vincolo di solidarietà
con gli alleati era considerata l’estensione, anche nelle comunità alleate, del sistema
democratico (cioè della cittadinanza ai non possidenti). Il che significa che, nonostante
lo sfruttamento imperiale da parte di Atene, vi era pur sempre una parte sociale,
nelle città alleate, che trovava più conveniente l’alleanza con Atene, da cementarsi
appunto con l’adozione – per amore o per forza – del sistema politico dello Stato-guida.
C’era insomma pur sempre, non importa se numericamente maggioritaria, una base sociale
della democrazia anche nelle città alleate-suddite.
Va ricordato a questo proposito che la partecipazione alle assemblee decisionali,
e dunque al funzionamento stesso della democrazia, non era affatto automatica né indiscriminata.
Si potrebbe dire che al sopraggiungere, al farsi avanti, di alcuni gruppi sociali,
altri si ritirano. È un fenomeno analogo a quello che, nella Parigi rivoluzionaria
del 1794, si verifica a cavallo del trauma di Termidoro: caduto Robespierre, spezzata
la forza e la presenza attiva nelle sezioni della «sanculotterie» più radicale, altri
soggetti sociali popolano le «sezioni», ed un «altro popolo», se così si potesse dire,
fa da soggetto di quel tanto di democrazia diretta (di stampo antico) che era inerente
appunto al meccanismo sezionario. Ma su ciò torneremo più oltre. Qui basti ricordare
che nell’ultimo quarto del V secolo a.C., su di una cittadinanza di circa 30.000 maschi
adulti in età militare, liberi e «purosangue», quasi mai si raggiungeva una presenza
effettiva di 5000 cittadini all’assemblea. È quanto dichiarano, senza tema di essere
smentiti, gli oligarchi che nell’anno 411 organizzano il colpo di Stato anti-democratico
mirante appunto a ridurre ad appena 5000 il numero dei cittadini (Tucidide, VIII,
72, 1). Naturalmente ciò che gli oligarchi in tale occasione non dicono è che il loro
proposito era di dare il potere decisionale ad altri 5000 (scelti col criterio della
capacità di armarsi a proprie spese), e dunque di estromettere dalla cittadinanza
gli abituali 5000 («teti», marinai, ecc.) che popolano l’assemblea in tempi di predominio
democratico-radicale. Ad ogni modo, per la partecipazione all’assemblea furono necessari,
pur dopo la restaurazione democratica pienamente compiuta nel 409 a.C., degli incentivi.
È la famosa «diobelia» (un salario di due oboli), che Aristotele (Costituzione di
Atene, 28, 3) attribuisce all’iniziativa di Cleofonte – uno degli ultimi capi popolari,
di cui si sappia qualcosa, attivi prima del crollo militare del 404 –, e che comunque
è attestata in documenti epigrafici per gli anni 410/405 a.C. Incentivi volti a tamponare
l’assenteismo dei non possidenti, indotti a partecipare a pagamento alle riunioni,
perché risarciti della perdita di una giornata di lavoro.
All’interno dello Stato-guida, Atene, l’estensione della cittadinanza ai non possidenti
ha determinato una importante dinamica ai vertici del sistema. I gruppi dirigenti
– questo non va mai dimenticato – sono e restano esponenti delle classi alte, delle
due più ricche classi di censo. Sia gli strateghi che, ovviamente, gli ipparchi (cioè
i magistrati militari, coloro che detengono il vero potere politico nella città),
nonché gli ellenotami (i quali amministrano il tesoro della Lega e controllano le
finanze), provengono da quelle classi. A sorte sono eletti i «buleuti», i componenti
del Consiglio (composto di 500 persone, 50 per ciascuna delle dieci tribù create da
Clistene). A sorte: e dunque in modo da consentire a qualunque cittadino di entrare
a far parte del consesso, e, secondo il turno, di occupare sia pure per breve tempo
il ruolo equivalente alla «presidenza» della Repubblica. Anche le liste annue di circa
seimila cittadini da cui trarre i giudici che avrebbero composto le varie corti erano
liste composte di volontari, senza preclusioni di ceto. E tutti sanno quale importante
ruolo svolgessero i tribunali nello scontro sociale quotidianamente in atto e avente
come oggetto, quasi sempre, l’uso della ricchezza.
Nondimeno la prevalenza dei ceti più forti e più ricchi nella direzione politica della
città era indiscutibile. In parte, in non piccola parte, i ricchi, i «signori» hanno
accettato il sistema lealmente e hanno accettato di dirigerlo, o per meglio dire ne
hanno naturaliter assunto la direzione. Pericle, Alcibiade, Nicia, Cleone, per fare
solo i nomi più celebri, sono o ricchi o nobili, o le due cose insieme. Quale che
sia il valore della furiosa caricatura di Cleone ossessivamente sbandierata da Aristofane,
anche Cleone è della classe dei cavalieri, una delle due più alte classi di censo.
Guidavano o erano guidati? Gli stessi autori contemporanei su ciò si dividono. L’autore
della Costituzione degli Ateniesi dichiara senza sfumature che i non popolani che
accettano il sistema democratico sono essi stessi delle canaglie, dei criminali che
hanno qualcosa da nascondere (II, 20). Da queste battute si capisce qual è la sua
scelta: di totale contrapposizione. Ma egli sente di appartenere ad una minoranza.
Se si considera del resto un personaggio gigantesco ed emblematico come Pericle, è
istruttivo osservare che per Tucidide egli è l’anti-demagogo per eccellenza, colui
che guida e non si fa guidare, colui che sa andare contro corrente in contrasto con
gli impulsi, o istinti, popolari (II, 65); laddove per Platone (Gorgia) Pericle è
l’incarnazione stessa della demagogia, uno dei grandi «corruttori» del popolo, da
lui assecondato e appunto perciò corrotto. Per Tucidide, Pericle è talmente anti-demagogico
nella conduzione della cosa pubblica da essere definibile col termine di «principe»
e – quel che è più – da rendere legittimo affermare che sotto il suo governo solo
nominalmente c’era ad Atene «democrazia». Peraltro quando gli dà la parola nell’importante
discorso per i morti nel primo anno di guerra, Tucidide fa dire a Pericle che ad Atene
governa «la legge», mentre Senofonte – un altro socratico – nei Memorabili gli fa
dire che in democrazia è in ultima analisi la volontà del popolo che conta, anche
al di sopra della legge. E comunque, la forza della demagogia era reputata dallo stesso
Tucidide tale da indurlo ad un giudizio molto bilanciato intorno al rapporto tra Pericle
e la massa dei frequentatori dell’assemblea: «non era guidato da loro più di quanto
egli stesso non li guidasse». In queste parole, dette a proposito di colui che Tucidide
non esita poco dopo a definire «principe» della città, vi è un serio riconoscimento
dell’inevitabilità comunque di «essere condotto» (àgesthai) quando si fa politica
alle prese con la «massa popolare» (plèthos). Che è forse la ragione più sostanziale
per cui un Isocrate, qualche decennio più tardi, sceglie di dar vita ad uno strumento
(l’oratoria fittizia come «veste» della pubblicistica politica) che «salta» la prova
assembleare e cerca di influenzare, o formare, direttamente i gruppi dirigenti. L’oratoria
scritta seleziona il suo pubblico per il fatto stesso di essere rivolta a chi abbia
pratica corrente della lettura. E tuttavia anche in questo campo scatta il meccanismo
della ricerca del «successo»: l’indicatore sono i pochi o molti allievi, i quali a
loro volta saranno politici direttamente attivi e a loro volta dovranno tener conto
del plèthos. (Non così nella scuola di Platone, sentita infatti dai capi «democratici»
come un corpo estraneo, se non proprio ostile).
Arduo è dunque riuscire a dare un’idea corretta dell’intreccio di interessi, compromessi,
reciproche concessioni, tra «signori» (leaders, grandi famiglie) e «popolo» nel quadro
della democrazia ateniese. Non si trascurerà il fattore personale e soggettivo. L’autorità,
l’abilità, il prestigio di Pericle non erano disgiunti dall’uso disinvolto e «demagogico»
(secondo i suoi avversari) delle risorse economiche della città. Comunque non è errato
assumere come fondato il punto di vista tucidideo e vedere in Pericle il leader capace
di egemonia e perciò anche pronto all’impopolarità. Peraltro l’unico vero discorso
politico che Tucidide fa pronunciare a Cleone è, anch’esso, un discorso che non arretra
dinanzi ai toni impopolari. Si dovrebbe dunque dire, a giudicare da quel discorso,
che anche Cleone «guidava più che essere guidato»: al punto che Demostene, nel secolo
seguente, fa propri quei toni quando vuol assumere le vesti «periclee» dell’impopolare
«educatore del popolo». Forse non si riuscirà mai a scavare fino in fondo nell’intreccio
capi/popolo, leaders/ masse: una «circolarità» in cui risiede l’essenza stessa del
far politica. Quel che è qui importante rilevare è che la democrazia non determina
ad Atene un «governo popolare», ma una guida del «regime popolare» da parte di quella
non piccola porzione dei «ricchi» e dei «signori» che accettano il sistema.
Orbene, il fenomeno dinamico e lacerante innescato dalla democrazia (dalla estensione
della cittadinanza ai non possidenti) è questo: di fronte al fatto nuovo del potere
dei non possidenti, i gruppi dirigenti, coloro che per elevata collocazione sociale
sono anche i detentori dell’educazione politica e perciò possiedono l’arte della parola
(e in virtù di queste capacità naturalmente si candidano a dirigere la città), si
dividono. Una parte – si direbbe la più rilevante, ma non abbiamo strumenti di controllo
«quantitativo» – accetta di dirigere il sistema di cui i non possidenti sono ormai
forza prevalente. Da questa consistente parte dei ceti alti (grandi famiglie, ricchi
cavalieri, ecc.) vien fuori il ceto politico che dirige la città: da Clistene a Cleone.
Al loro interno si sviluppa una dialettica politica spesso fondata sullo scontro personale,
di prestigio, di potere, di leadership. Ciascuno è sorretto e guidato dal convincimento
di incarnare gli interessi generali; l’idea che la propria prevalenza sulla scena
politica sia anche il miglior veicolo per la miglior conduzione della comunità. Lottano
gli uni contro gli altri per conquistare la guida politico-militare della città. Nessuno
di loro è contro il «sistema»: sono dunque «democratici» (nel senso che, appunto,
accettano il sistema, stanno al gioco e puntano a dirigerlo) tanto Pericle quanto
Cimone, Nicia e Cleone, e Alcibiade.
Al contrario, una minoranza di «signori» non accetta il sistema. Organizzati in formazioni
più o meno segrete (le cosiddette «eterìe»), essi costituiscono una perenne minaccia
potenziale per il «sistema», del quale spiano le possibili incrinature, soprattutto
nei momenti di difficoltà militare. Sono questi i cosiddetti «oligarchi». Il termine
con cui gli avversari li denominano è «i pochi» (olìgoi). Non sono certo essi stessi
ad adottare per sé tale definizione, né essi proclamano di volere il governo di una
ristretta camarilla: essi parlano di «buongoverno», di recupero della «saggezza» (sophrosy`ne)3, e propugnano la drastica riduzione della cittadinanza, una riduzione che daccapo
estrometta dal beneficio della cittadinanza i non possidenti e riporti dunque la comunità
allo stadio in cui cittadini di pieno diritto siano solo i «capaci di armarsi a proprie
spese». In questo senso essi guardano a Sparta come al modello dell’eunomìa («buongoverno»):
in quanto gli «uguali», i liberi e cittadini di pieno diritto a Sparta sono pochi
rispetto alla massa dei non liberi e dominati. Peraltro, proprio l’operazione che
essi hanno in animo in omaggio a tale modello, a tale idealità, onde son detti «laconizzanti»
– quella di estromettere una parte dei liberi dalla cittadinanza –, a Sparta sarebbe
stata impensabile. È qui che risiede l’equivoco per cui essi «sognano» Sparta ma non
avrebbero mai potuto «essere come Sparta». E quando hanno tentato sono andati incontro
a delusioni. Oltre tutto erano ormai anch’essi parte di un sistema economico-militare
(l’impero) che li poneva comunque non solo nell’impossibilità di rifare in vitro una
Sparta nell’Attica, ma anche in collisione contro Sparta, quale che fosse il regime
politico che si illudevano di instaurare. Quando nel 411 a.C. presero il potere si
trovarono di fronte all’imprevedibile: Sparta continuò la guerra e non fu affatto
disposta ad accettare la loro «pace», perché il suo problema era comunque di distruggere
prima l’impero. E in pieno complotto, del resto, uno dei più accorti tra loro, Frinico,
ebbe l’intuizione giusta sull’immediato futuro e li avvertì dicendo, molto crudamente
e veritieramente, che «l’impero interessa anche noi, giova soprattutto a noi»4. Anche i «pochi», quantunque non impegnati nella conduzione della città, erano infatti
coinvolti nei vantaggi materiali dell’impero. Il solo coerente «laconizzante» fu Crizia,
che nel suo effimero governo (404 a.C.) massacrò, come le fonti ateniesi non si stancano
di ripetere, molti ricchi che della democrazia erano la mente direttiva, e tentò di
espellere in blocco dalla città la base sociale della democrazia, il «demo», avendo
in animo probabilmente una frantumazione di quella unità politica dell’Attica che
pur risaliva a molti secoli addietro, all’epoca del semi-mitico «sinecismo» di Teseo.
Un progetto che si scontrava con una realtà di fatto ormai consolidata di lungo periodo,
e che alla fine fu disperso dagli stessi Spartani.
Lo stesso termine «pochi» (olìgoi) – nota Aristotele – crea confusione. Della natura
effettiva, della «sostanza», della democrazia e dell’oligarchia, Aristotele fu il
più acuto interprete. Tutta la teoria politica nell’antica Grecia nasce come risposta
al fenomeno «scandaloso» della democrazia. Antonio Labriola ha scritto, nel suo saggio
su Socrate, che tutto il filosofare di Socrate era venuto a porsi in «inevitabile
contrasto» con la democrazia5. I socratici delle più varie tendenze, e Platone sopra tutti, mantennero verso quel
regime politico un atteggiamento di radicale avversione. Aristotele, invece, lo studiò
con maggior distacco e andò al fondo della questione, togliendo valore proprio al
carattere che ai critici di ispirazione socratica era parso dominante oltre che concettualmente
insostenibile: il principio di maggioranza. La discriminante tra i due opposti sistemi
politici – osserva infatti Aristotele – non risiede nel fatto che a possedere la cittadinanza
siano «molti» o «pochi», bensì se siano possidenti o nullatenenti: il rispettivo numero
è «puro accidente» (Politica, 1279 b 35). Ebbe il merito di ancorare i due sistemi
al loro contenuto di classe. Mise in luce che «anche nelle oligarchie è al potere
la maggioranza» (1290 a 31) e che, oltre tutto, anche all’interno dei gruppi oligarchici
le decisioni sono prese a maggioranza: il che gli confermava, se pur ve ne fosse bisogno,
che tra principio di maggioranza e democrazia non vi è alcun rapporto sostanziale.
Proprio nel caso di Atene, la prevalenza numerica dei nullatenenti rispetto al resto
del corpo sociale era tutt’altro che un dato acquisito. In qualunque momento i possidenti
– dei quali non va mai dimenticato il ruolo di guida della città – potevano staccare
e catturare dalla propria parte una porzione anche modesta dei ceti poveri per conquistare
la maggioranza all’assemblea popolare. Il «piccolo ceto medio»6 poteva condividere gli umori e le aspirazioni del «demo», ma poteva anche allontanarsi
da esso. Ciò che puntualmente accadde in momenti di crisi. Certo anche per tale ceto
la prassi democratica significò «l’accesso senza restrizione alle conquiste culturali
e la possibilità di riscattarsi, rivestendo occasionalmente una funzione pubblica,
dalle fatiche del lavoro quotidiano». Quando – cent’anni dopo il 411 –, con la sconfitta
militare di Atene nello scontro con la monarchia macedone (fine IV secolo: la cosiddetta
«guerra lamiaca»), i possidenti, sorretti dalle armi macedoni, escluderanno i dodicimila
non possidenti dalla cittadinanza (Diodoro Siculo, XVIII, 18, 5; Plutarco, Focione,
28,7) fissando il censo minimo necessario a 2000 dracme, tale sconfitta del caposaldo
della democrazia attica si consumerà nel completo isolamento dei nullatenenti. Il
«piccolo ceto medio» è, in quel momento, con Focione, con Demade e gli altri «riformatori»
sostenuti dai Macedoni.
Uno dei fattori principali che cementano il patto tra non possidenti e «signori» è
la «liturgia»: il contributo, più o meno spontaneo, spesso molto consistente, che
si richiede ai ricchi per il funzionamento della comunità: dalle somme richieste per
allestire le navi ai fondi profusi per le feste ed il teatro di Stato. Il «regime
popolare» antico (per lo meno nella sua versione greca) non ha conosciuto l’esproprio
se non come forma di punizione per determinati reati. Ha lasciato che i ricchi continuassero
ad essere tali (solo Platone e gli utopisti hanno messo in discussione il diritto
di proprietà), ma ha riversato sulle loro spalle un grande carico sociale.
Il capitalista – ha scritto Arthur Rosenberg con simpatico linguaggio attualizzante
– era come una mucca, che la comunità mungeva con cura sino in fondo. Occorreva perciò
preoccuparsi anche che questa mucca ricevesse a sua volta un sostanzioso foraggio.
Il proletario ateniese non aveva nulla in contrario se un fabbricante, un commerciante
o un armatore guadagnavano all’estero quanto più denaro possibile; tanto più avrebbero
potuto pagare poi allo Stato7.
Donde l’interesse che il «proletario» ateniese condivideva col «capitalista» allo
sfruttamento degli alleati, e più in generale ad una politica estera imperialistica.
Nel periodo in cui furono forza direttiva della città, i non possidenti ateniesi appoggiarono
senza riserve la politica di conquista. È di per sé degno di nota che proprio in tale
fase della sua storia Atene si sia impegnata nelle due – entrambe fallimentari – guerre
di rapina oltremare: contro i Persiani per la conquista dell’Egitto e contro la grande
rivale commerciale, Corinto (una guerra ventisettennale nel corso della quale Atene
tentò addirittura di estendere il suo impero in Occidente attaccando la Sicilia).
Per conquistare prestigio e seguito popolare i signori che guidano il sistema elargiscono
il proprio denaro non soltanto in «liturgie» ma anche in munifiche elargizioni di
cui il demo possa direttamente giovarsi: è il caso di Cimone – l’antagonista di Pericle
–, che volle aprire i suoi possessi al pubblico.
Fece abbattere – scrive di lui Plutarco – gli steccati dei suoi campi, perché fosse
lecito agli stranieri ed ai cittadini che lo desiderassero di cogliere liberamente
i frutti di stagione. Ogni giorno faceva preparare nella sua casa un pranzo semplice
ma sufficiente per molti commensali: ad esso potevano accedere tutti i poveri che
lo volessero, i quali così, sfamandosi senza fatica, potevano dedicare il loro tempo
all’attività politica (Cimone, 10,1).
Aristotele (fr. 363 Rose) precisava che questo trattamento Cimone lo riservava non
a tutti gli Ateniesi indistintamente, ma a quelli del suo demo. Alla risoluzione del
problema del pasto contribuiva anche la pratica delle feste: occasione nella quale
i nullatenenti avevano facile accesso al consumo, non consueto e dispendioso, della
carne. Il «vecchio oligarca», autore putativo della Costituzione degli Ateniesi, non
perdona al popolo questo parassitismo e lo denuncia esplicitamente nel suo opuscolo:
«la città sacrifica molte vittime a spese pubbliche, ma è il popolo che mangia e si
spartisce le vittime» (II, 9). Cimone provvedeva anche ai vestiti: «quando usciva
– racconta Plutarco – lo accompagnavano sempre dei giovani amici molto ben vestiti:
ciascuno di loro, se la comitiva incontrava qualche anziano malvestito, scambiava
con lui il mantello. E il gesto appariva degno di rispetto» (Vita di Cimone, 10).
Disposti a prendere le armi gli uni contro gli altri per contendersi il bene prezioso
della cittadinanza, i cittadini «purosangue» sono però tutti d’accordo nell’escludere
ogni ipotesi di estensione della cittadinanza verso l’esterno, fuori della «comunità»8. Solo in momenti di gravissimo pericolo e di autentica disperazione gli Ateniesi
hanno intuito le potenzialità insite nell’allargamento drastico della cittadinanza.
Per gli schiavi che avevano contribuito alla contrastatissima e umanamente dispendiosa
vittoria navale alle isole Arginuse (406 a.C.) fu escogitato il premio dell’affrancamento
dalla condizione servile. All’ateniese medio questo tipo di concessioni comunque non
piaceva: perciò nelle Rane di Aristofane è uno scherzo ad effetto sicuro presso il
pubblico il rammarico lamentoso del pavido servo Xantia di non aver preso parte alla
battaglia (lo schiavo è, per definizione, ladro, vile, malfido, ecc., e vuol prendere
parte alla battaglia, ormai già combattuta e vinta da altri). Dopo la perdita dell’ultima
flotta messa insieme al termine del logorante conflitto (Egospotami, 405 a.C.), gli
Ateniesi hanno concesso – gesto senza precedenti – la cittadinanza attica agli abitanti
di Samo9, divenuta, dopo la tremenda repressione della rivolta del 441/440, l’alleata più
fedele. In extremis hanno compiuto il disperato e ormai vano tentativo di raddoppiarsi
come comunità. Il tardivo ed effimero provvedimento fu travolto dalla resa incondizionata
dell’aprile 404 e dall’espulsione, appena pochi mesi più tardi, dei democratici di
Samo ad opera di Lisandro, il vincitore (Senofonte, Elleniche, 2, 3, 6-7); ma fu riproposto,
dalla democrazia restaurata (403/402 a.C.), in favore degli esuli democratici di Samo10. Episodio molto significativo: denota la consapevolezza, sia pure in extremis, del
carattere determinante del fattore «numero» (fattore penalizzato dalla gestione troppo
avara del bene «cittadinanza»); e dimostra la forza del legame «di classe» tra le
fazioni popolari delle diverse città. Un punto che non bisogna mai trascurare, e che
corregge l’ottica approssimativa che vede genericamente negli alleati le «vittime»
della città dominante. Sono i possidenti delle città alleate che se la passano male,
non il «demo» (parte popolare), come ben sapeva e polemicamente scriveva l’autore
della Costituzione degli Ateniesi.
Analoga, anzi, se possibile ancor più grave, la situazione a Sparta. Qui il predominio
degli Spartiati (cioè dei soli veri «uguali») cominciò ad esser messo in discussione
non molto dopo la grande vittoria militare su Atene: la «congiura» di Cinadone, che
dava voce agli interessi degli Spartani caduti in miseria e purtuttavia liberi di
condizione, è del 398 a.C. La soluzione adottata fu di espellere dalla comunità i
ribelli: un modo di impoverirla ulteriormente. Al tempo delle ribellioni dei Messeni
si diceva che il rimedio, estremo, per rinsanguare la cittadinanza in pieno decremento
fosse stato di far accoppiare donne spartiate con perieci, onde produrre in tempi
rapidi un po’ di Spartiati di rincalzo. A Sparta non si era alieni da questi sistemi
da «allevamento» per affrontare il problema demografico sempre incombente. Ma il tentativo
di sovvertire la tendenza venne, anche qui, quando era troppo tardi: con le riforme
di Cleomene III, il re «rivoluzionario» sconfitto nella battaglia di Sellasia (222
a.C.) dal sovrano macedone Antigono, invocato da Arato, il maggior esponente della
Lega achea, adorato da Polibio, cantore del dominio «pacificatore» di Roma sulla Grecia.
Riflettendo sulle ragioni di decadenza del mondo delle città greche, secoli dopo,
al principio del II secolo d.C., lo storico Cornelio Tacito farà dire all’imperatore
Claudio, in un memorabile discorso sul diritto di cittadinanza: «Cos’altro infatti
fu causa di rovina sia per gli Spartani che per gli Ateniesi, nonostante la loro forza
militare, se non il fatto che escludessero – dopo la vittoria – i vinti, trattandoli
come di altra razza (pro alienigenis)?» (Annali, XI, 24, 4). Tacito coglie bene il
nesso tra chiusura della comunità e decadenza. Del resto lo stesso Polibio aveva parlato
di oliganthropìa (XXXVI, 17).
Il più celebre e istruttivo esempio di chiusura ostinata e suicida è l’effimero quanto
maldestro tentativo di liberazione in massa degli schiavi dell’Attica, compiuto nel
pieno del panico determinato dalla vittoria di Filippo il Macedone contro la coalizione
greca capeggiata da Demostene nel 338 a.C. La falange macedone disperse i combattenti
greci e nulla avrebbe impedito all’intraprendente e instancabile vincitore di marciare
direttamente su Atene, totalmente indifesa. Filippo, che aveva fama non immeritata
di distruttore di città sconfitte, costituiva un pericolo talmente incombente che
un politico di notevole prestigio e ben noto per la sua ostilità alla Macedonia, l’oratore
Iperìde, propose di creare per così dire dal nulla un’immensa armata per la difesa
estrema di Atene: propose dunque la liberazione immediata dei circa 150 mila schiavi
agricoli e minerari presenti sul suolo attico (frr. 27-29 Blass-Jensen). Ma fu immediatamente
trascinato in tribunale con un processo «per illegalità» (la più temibile delle procedure
giudiziarie esistenti in Atene). Chi fu il promotore dell’accusa? Il capo popolare
per antonomasia, il «cane del popolo» Aristogitone: insorto in nome della difesa della
democrazia (è questo il senso di un processo per «illegalità») contro l’indebito,
inaudito, straripante allargamento della cittadinanza. I poco più che ventimila cittadini
di pieno diritto che all’epoca erano in Attica sarebbero stati «sommersi» dentro la
più vasta realtà di una democrazia di tutti. E l’argomento svolto allora da Aristogitone
(a noi noto da una fonte tarda) fu, in un’occasione drammaticamente unica della storia
di Atene, l’argomento tipico dell’oratoria democratica: «I nemici della democrazia
– tuonò Aristogitone –, finché c’è pace, rispettano le leggi e sono, per così dire,
costretti a non violarle; ma quando c’è la guerra, trovano facilmente ogni sorta di
pretesti per terrorizzare i cittadini sostenendo che non è possibile salvare la città
se non si varano proposte illegali!»11.
Legalità democratica, attentato alla democrazia, interesse del «popolo». È l’armamentario
con cui uno sconsiderato come il demagogo siracusano Atenagora può proclamare – mentre
gli Ateniesi sono già in mare alla volta di Siracusa – che l’allarme per un «presunto»
attacco ateniese non è che una «manovra oligarchica» (Tucidide, VI, 36-40); è l’armamentario
con cui un campione dell’egoismo dei detentori della cittadinanza può impedire che
si moltiplichino, liberando in massa gli schiavi, le forze della città, quantunque
Filippo, l’odiato Filippo, sia dietro le porte della città indifesa. Inutile dire
che Aristogitone ebbe pieno successo contro la «illegale», «antidemocratica» iniziativa
di Iperìde.