Un intruso alla tavola di Carlo Magno Pavia, qualche anno dopo il 774
«Un giorno, mentre tutto il regno d’Italia era composto in pace sotto il dominio di
Carlo ed egli stesso risiedeva nella città di Ticino, che con altro nome si chiama
Pavia, Adelchi, figlio del re Desiderio, ebbe l’ardire di entrarvi per proprio conto,
quasi a spiare, perché voleva sapere che cosa si facesse e si dicesse, come è abitudine
degli invidiosi».
Così inizia il ventunesimo capitolo del terzo libro della Cronaca di Novalesa, scritta da un monaco del XII secolo che, tra storia e leggenda, ricostruisce le
vicende del regno d’Italia e dell’abbazia di Novalesa in Val di Susa. Proprio di qui
erano passate le armate di Carlo Magno quando nel 773 passarono le Alpi e occuparono
il regno dei Longobardi, costringendo alla fuga il re Desiderio e suo figlio Adelchi
(associato al trono quattordici anni prima). Nel 774 i Franchi presero la capitale,
Pavia. Desiderio fu fatto prigioniero ed esiliato in un monastero francese. Il figlio
Adelchi, che la Cronaca chiama Algiso, riparò a Costantinopoli presso l’imperatore Costantino V.
Qualche anno è passato dalla caduta del regno, che il cronista – simpatizzando per
i vincitori – rappresenta «composto in pace sotto il dominio di Carlo». Ma Adelchi
non si dà per vinto e, «invidioso» della fortuna di Carlo, inscena un’azione spettacolare
che il monaco novalicense descrive in ogni particolare. È un’azione dal forte significato
simbolico, che rappresenta l’astio del vinto nei confronti del vincitore. Ma anche
il timore che il vincitore ha del vinto: Adelchi era infatti, «fin dalla giovinezza,
assai forte e d’indole audace e bellicosissima».
Di questa forza fisica e di quest’animo coraggioso egli qui dà prova in maniera teatrale,
sfidando il nemico in modo squisitamente dimostrativo, per insinuargli il tarlo del
pericolo imminente, l’idea di un possibile ritorno in forze dei Longobardi.
Il luogo che Adelchi sceglie per questa esibizione è la sala del banchetto, un luogo
topico delle letterature antiche, quasi una ‘immagine del mondo’ utilizzata per rappresentare
la società e i rapporti di potere.
Tornato a Pavia navigando il fiume, il principe spodestato vi entra di nascosto, travestito
da persona comune: «Era giunto in barca, non come figlio di re, ma come uno del popolo
medio», accompagnato, per non farsi notare, solamente da un piccolo gruppo di fedeli.
Riesce a passare indenne i posti di guardia e per un po’ nessuno lo riconosce; a un
certo punto, però, incrocia un vecchio conoscente, uno che era già stato «fedelissimo
di suo padre». Si rende conto di essere stato riconosciuto e, anziché celare la propria
identità, cerca di mettere a frutto la situazione.
Per cominciare chiede all’uomo, in nome del giuramento di fedeltà fatto un tempo a
suo padre e a lui stesso, di non rivelare a Carlo la sua presenza. Ottenuta questa
rassicurazione, Adelchi alza la posta: «Ti prego dunque, amico mio: oggi, alla mensa
del re, quando egli starà per pranzare, mettimi a sedere al capo di una tavola». Come
ciò gli fosse possibile è spiegato subito dopo: proprio quell’uomo, il vecchio fedele
di Desiderio e Adelchi, era incaricato di portare i cibi alla tavola del re. «Farò
come desideri», promette.
Cerchiamo di raffigurarci la scena. Una sala adibita al pranzo del re e dei suoi uomini,
con un certo numero di tavole allestite su cavalletti mobili – è questo l’uso medievale:
mensa, da ‘mettere’, significa una struttura provvisoria, un mobile, nel senso letterale del termine, che si mette e si toglie al bisogno. Immaginiamo
delle tavole rettangolari: una forma, ampiamente attestata dall’iconografia medievale,
che si presta particolarmente bene a marcare le distanze, a fissare i posti in ordine
gerarchico. Su ciascuna tavola si disegnano un centro e una periferia: Adelchi chiede
di essere sistemato al caput, il lato corto della tavola, il più lontano dal centro, il più anonimo, dove può
pensare di mimetizzarsi tra i commensali.
Certo che, a rendere plausibile l’idea di Adelchi, bisogna supporre una tavola relativamente
aperta. Nel Medioevo longobardo e carolingio la tavola del re è ancora la tavola dei suoi
fedeli, dei suoi soldati, del suo «popolo». Una tavola inclusiva, che esprime un microcosmo sociale completo e tendenzialmente comprende tutti. Una
tavola che prevede posti e gerarchie ma in modo meno rigido, meno formalizzato di
quanto vedremo accadere nelle società di corte del tardo Medioevo, quando la mensa
regia o signorile diventerà fortemente esclusiva.
Se è vero che nelle culture arcaiche la tavola e il banchetto sono il simbolo della
società e dei rapporti fra gli uomini, e in qualche modo la loro rappresentazione
allegorica, la tavola di Carlo Magno a cui tutti partecipano è l’immagine di una società
fortemente integrata e coesa. La comunità che siede attorno al re è il popolo dei
guerrieri. Ma è vero anche il contrario: questa tavola aperta (tecnicamente aperta) è preclusa agli estranei, che solo con un atto di violenza o di inganno –
come quello architettato da Adelchi – possono diventarne partecipi. Proprio in quanto
immagine e allegoria di un corpo sociale compatto, la tavola deve escludere chi non
fa parte del gruppo.
La sfida di Adelchi non finisce qui. Al vecchio servitore fa un’altra richiesta, all’apparenza
stravagante: «Tutte le ossa che saranno levate dalla mensa, sia quelle ben spolpate,
sia quelle ancora ricoperte di carne, fa’ in modo di portarle davanti a me».
Tutto procede secondo il piano predisposto. Adelchi è introdotto nella sala del banchetto
e si sistema in fondo all’ultima tavola. Le vivande cominciano ad arrivare, non sappiamo
in quale ordine, non sappiamo quante e quali: il cronista sorvola sul menù, la sola
cosa che gli interessa – l’unica rilevante nell’intreccio narrativo – sono le ossa
che rimangono sulle tavole. Ossa «di cervo, di orso, di bue». Animali, verosimilmente,
cacciati nei dintorni: i boschi di pianura, a quel tempo fittissimi nelle fasce prossime
al Po e ai suoi affluenti, ne ospitavano in gran numero.
Il cervo e l’orso erano presenze consuete, mentre potrebbe lasciarci perplessi l’identità
selvatica (suggerita dall’accostamento a cervi e orsi) dei bovini consumati in quel
banchetto. Potevano essere bufali, una specie domestica introdotta forse in Italia
dai Longobardi al loro arrivo sul finire del VI secolo, che poteva essersi moltiplicata
anche allo stato selvatico. Ma poteva trattarsi proprio di buoi, se è vero che il
bovino selvatico, il leggendario ‘uro’, è stato presente in Europa fino al XVII secolo,
quando gli ultimi esemplari furono abbattuti in Polonia.
In ogni caso possiamo essere certi che si trattava di cacciagione: in una circostanza
come questa, che vedeva il grande Carlo attorniato dai suoi vassalli, il banchetto
doveva prevedere selvaggina, anzi un genere ben preciso di selvaggina, gli animali di grossa
taglia, i grandi quadrupedi che la cultura del tempo riconosceva come cibo distintivo
dei potenti e del loro status di guerrieri.
Sul piano dietetico, alla carne si attribuiva la capacità di nutrire il corpo più
di ogni altro cibo, e di renderlo forte. E poiché la prima qualità di un guerriero
è la forza fisica, il consumo di carne ne era l’indispensabile supporto. Alla funzione
nutritiva si associarono valori simbolici, che contribuirono a fare della carne un
segno di appartenenza sociale, incorporato nei modi di vivere e di pensare della classe
guerriera, in maniera tanto più intensa e viscerale (è proprio il caso di dirlo) quando
la carne proveniva da una battuta di caccia, attività a sua volta sentita e rappresentata
come immagine e “doppio” della guerra.
Consumare selvaggina era un autentico rito di classe, che celebrava la forza del guerriero-cacciatore,
capace di guadagnarsi il cibo attraverso la pratica violenta della caccia, per poi
rifornire, mediante quel cibo, il suo corpo dell’energia che nuovamente gli avrebbe
consentito di praticare la caccia e di mostrarsi valoroso in guerra.
Con tali premesse comprendiamo perfettamente il valore di quanto affermato da Eginardo,
il biografo di Carlo Magno, quando ricorda che nei pranzi quotidiani dell’imperatore
non mancavano mai gli arrosti di selvaggina, «che i cacciatori erano soliti infilzare
sugli spiedi e che egli mangiava più volentieri di qualsiasi altro cibo»: non è di
una predilezione individuale che Eginardo ci sta parlando, ma della piena conformità
di Carlo alla cultura e alle attese dei suoi uomini.
Al banchetto di Pavia, i grandi arrosti di selvaggina non potevano mancare. Difatti
non mancavano, come ci assicura il monaco di Novalesa.
Non solo i cibi consumati, ma anche il modo di mangiarli in qualche modo rispondeva a un’identità di classe. Il guerriero di
età longobarda o carolingia doveva mostrare di essere vorace, di saper affrontare
la coscia di cervo con la stessa aggressività con cui avrebbe affrontato un nemico
sul campo. Mangiare molto, mangiare «come un leone» (vedremo fra poco l’utilizzo di
questa immagine anche nel nostro testo) era quasi un obbligo sociale: disattenderlo,
mostrare scarso appetito poteva gettare discredito sul commensale. Secondo una diceria
riportata da Liutprando da Cremona, il duca di Spoleto Guido si sarebbe vista negare
la corona di re dei Franchi quando si venne a sapere che si accontentava di pasti
moderati.
Certo, la Chiesa raccomandava sobrietà e temperanza, e i bravi cristiani non potevano
ignorarlo: ma un sovrano come Carlo Magno, se voleva rispondere alle aspettative dei
suoi uomini, non poteva permetterselo. È ancora Eginardo a informarci che l’imperatore,
pur conoscendo e rispettando gli obblighi del digiuno ecclesiastico, «non poteva però
esagerare nell’astinenza, e spesso si lamentava che al suo corpo i digiuni erano nocivi».
Insomma, anche se non possiamo indulgere a certe immagini cinematografiche di re ‘barbari’
che brandiscono enormi pezzi di carne in chiassosi e disordinati incontri conviviali,
dobbiamo però ammettere che c’è del vero nell’immagine positiva che quegli uomini davano ai comportamenti vigorosi e gagliardi – nella sala del banchetto
come in battaglia e nella vita di ogni giorno.
Ecco dunque all’opera il nostro Adelchi: a mano a mano che il fedele servitore gli
allunga le ossa tolte dalle altre mense, lui «le spezza tutte, mangiandone le midolla,
come un leone affamato che divori la preda». I frammenti delle ossa li getta sotto
la tavola, sino a farne un bel mucchio. Poi si alza, allontanandosi dalla sala prima
degli altri. Il messaggio è lanciato, la missione compiuta. Esattamente questo – lasciare
un messaggio – era lo scopo della rischiosa avventura. Ma di quale messaggio si trattava?
Che cosa aveva voluto dire Adelchi col suo singolare comportamento?
Una cosa appare subito chiara: il messaggio di Adelchi arriva a destinazione ed è
perfettamente compreso dal suo destinatario, il ‘gran nemico’ Carlo. Ciò significa
che nel racconto, come verosimilmente nella realtà, i due protagonisti condividono
valori e segni di comunicazione gestuale, parlano il medesimo linguaggio: si capiscono al volo senza bisogno di consultare alcun dizionario. È Carlo stesso,
appena levatosi da mensa, ad accorgersi di quanto è accaduto: «guardandosi attorno
vide quel mucchio sotto la tavola ed esclamò: Chi, per Dio, ha spezzato tutte queste
ossa?». L’invocazione (o Deus) non è di quelle che si spendono facilmente, e dà la misura della gravità del fatto
– di come Carlo la percepisce.
I compagni rispondono di non sapere nulla. Uno solo, appena alzatosi dalla tavola
a cui anche Adelchi era seduto, dice di aver visto accanto a sé un «soldato fortissimo»
che «spezzava tutte le ossa di cervo, d’orso e di bue» (è qui che apprendiamo il menù
del banchetto) con una straordinaria facilità, «come uno che rompesse delle bacchette
di canna». Questa prova di forza lo aveva colpito, e il tono del discorso lascia intendere
che proprio da ciò – dalla semplicità con cui riduceva in briciole le ossa più dure
– l’uomo aveva desunto che quel soldato era «fortissimo».
Di Adelchi sappiamo che era alto e robusto ma qui è soprattutto il suo comportamento
a mostrare (a dimostrare) la sua forza eccezionale, degna di un leone «che divora la preda». Un messaggio
in codice non difficile da interpretare.
Carlo è attraversato da un presentimento inquietante e vuole andare a fondo nella
faccenda. Fa subito chiamare il responsabile del servizio a tavola, di cui conosce
la passata fedeltà ai sovrani longobardi e di cui già sospetta un ruolo attivo e connivente
nella brutta storia. Senza preamboli gli chiede: «Chi era, e da dove è venuto il soldato
che era seduto qui a mangiare e che ha frantumato tutte queste ossa?». L’uomo tenta
di schermirsi: «Non lo so, mio signore e re». Carlo non gli crede, nella sua mente
ha già intuito come sono andate le cose. «Per la corona del mio capo», ribatte, «sì
che lo sai!». Vedendosi scoperto, quello ha paura e tace. Il suo silenzio conferma
i sospetti di Carlo: quel «soldato fortissimo» era Adelchi in persona. Lo aveva ‘sentito’
fin dall’inizio, come il linguaggio del cronista ci fa capire, scavando nella psicologia
del personaggio con espressioni di rara efficacia: «nel suo animo, il re aveva percepito
che quel tale era Algiso». Non poteva essere che lui, perché solo un uomo forte come
lui poteva comportarsi a quel modo, e solo un nemico come lui poteva sfidare il nuovo
re con quell’audacia, in un luogo come quello, simbolo dell’amicizia, della solidarietà
fra compagni, della fedeltà al sovrano. Solo un re, sia pure sconfitto, sia pure deposto,
può comportarsi da re.
Ora Carlo si rammarica che l’avversario sia riuscito a eclissarsi impunemente dalla
sala del banchetto. «Da che parte è andato?», chiede ai suoi. «È venuto con una barca»,
osserva uno, «e immagino che nello stesso modo se ne andrà». Lo inseguono, lo richiamano
a riva simulando di volergli donare i bracciali d’oro di Carlo, in segno di amicizia.
In realtà lo vogliono uccidere, allungandogli i bracciali sulla punta di una lancia.
Adelchi intuisce il pericolo, indossa la corazza per proteggersi e a sua volta impugna
la lancia, porgendo i suoi bracciali in cambio di quelli e subito dileguandosi fra
le nebbie del fiume. Lo smacco e la delusione di Carlo sono palpabili. Anche un senso
di malcelata paura: «continuava infatti a temere Adelchi, perché aveva sottratto a
lui e al padre il regno, e perché era un eroe famoso per la sua forza».
Adelchi ha perso il regno, ma è lui il vincitore di questa curiosa schermaglia, di
cui sono facilmente leggibili i caratteri più evidenti ed espliciti: prendersi gioco
del re, spaventarlo, ricordargli la forza e l’abilità dello sconfitto. Ma c’è di più.
A portarci in un’altra direzione sono le stesse parole di Carlo Magno, che riascoltiamo:
«guardandosi attorno vide quel mucchio sotto la tavola ed esclamò: Chi, per Dio, ha
spezzato tutte queste ossa?». Non è tanto l’abbondanza dei resti a meravigliare il
sovrano, non il mucchio di ossa in sé, che implica un appetito immenso, una voracità
veramente regale. Lo sconcerto di Carlo nasce precisamente dalla constatazione che
il misterioso ospite ha spezzato le ossa: è quella vista a colpirlo, a insinuare nella sua mente oscuri timori. E
il motivo delle ossa spezzate non è di quelli che si possano relegare sullo sfondo,
avendo a che fare con storie che all’ignoto cronista di Novalesa provenivano da un
sostrato di racconti vecchi di qualche secolo, rimasti vivi nella memoria dei vincitori
franchi, o dei vinti longobardi, o di entrambi.
Quel motivo aveva un ruolo ben preciso nella cultura tradizionale delle popolazioni
germaniche e in particolare di quelle, come i Longobardi, di antica origine scandinava.
Esso rientrava nei miti e nei riti di fertilità, che presso quelle popolazioni erano
legati al mondo animale – anticamente la caccia, poi anche la pastorizia – piuttosto
che alle piante e all’agricoltura, protagoniste della cultura e della mitologia mediterranee.
Quei miti e quei riti erano antichi, anche se la traccia principale – il racconto
fondatore – si trova solo nell’Edda in prosa, scritta dall’islandese Snorri Sturluson nella prima metà del XIII secolo.
Nella parte dell’Edda intitolata Gylfaginning, ovvero «L’inganno di Gylfi», si racconta come il dio Thórr (preposto al governo
degli agenti atmosferici, dunque della fertilità e del cibo) fosse sceso un giorno
sulla terra in compagnia del dio Loki. Con sé aveva due capri. Al tramonto giunsero
presso una casa contadina e chiesero asilo per la notte. Avvicinandosi l’ora di cena
Thórr uccise i capri, li scuoiò e li mise a cuocere in una pentola. Quando furono
cotti si apprestò a mangiare con il compagno, non prima di avere invitato i suoi ospiti
– il contadino, la moglie e i due figli, un maschio e una femmina – a condividere
il cibo con loro. La pelle dei capri la sistemò lontano dal fuoco e ai commensali
fece una raccomandazione: le ossa degli animali, una volta spolpate, gettatele dentro
la pelle. La cena procedette piacevolmente ma qualcuno mancò alla parola data: Thiálfi,
il figlio del contadino, si tenne l’osso di una coscia «e lo divise con il coltello
e lo spezzò per prenderne il midollo». La cena terminò e tutti andarono a riposare.
Al crepuscolo Thórr si alzò, si vestì e prese il suo martello. Lo fece roteare sopra
le pelli dei capri e gli animali si levarono in piedi. Ma uno di essi zoppicava e
il dio capì subito che qualcuno non si era comportato a dovere: «l’osso della coscia
era rotto». Thórr fissò gli astanti con occhio terribile. Il contadino implorò perdono
e offrì a Thórr tutto ciò che possedeva. Il dio si placò e in segno di riconciliazione
prese con sé i due figli dell’uomo, che da allora diventarono i suoi servitori.
L’Edda ci ha qui presentato il mito fondativo a cui si collegano pratiche rituali attestate
presso popolazioni di cacciatori in varie aree del mondo, secondo cui la divinità
assiste gli uomini garantendo la moltiplicazione e la rigenerazione delle risorse
che assicurano la sopravvivenza quotidiana – in questo caso gli animali. Raccogliere
le ossa dentro la pelle degli animali, per poi seppellirle nei pressi di un albero,
è un gesto ricorrente nella tradizione folklorica che serve appunto a propiziare la
rinascita, la resurrezione dell’animale, e quindi la disponibilità delle sue carni
come risorsa per la comunità. Le ossa, però, devono essere intatte. Tale condizione
è indispensabile perché la procedura si concluda in maniera corretta.
È veramente difficile pensare al racconto della Cronaca di Novalesa senza vedervi una traccia – magari inconsapevole – di questa tradizione. La cultura
europea si era nel frattempo cristianizzata, è vero. Ma i Longobardi erano particolarmente
refrattari ad abbandonare le antiche credenze e tradizioni, tanto più che, paradossalmente,
lo stesso processo di cristianizzazione contribuiva a mantenerle in vita. La letteratura
cristiana altomedievale – in particolare l’agiografia, le ‘vite dei santi’ – ce le
restituisce in forme rinnovate, ma con analoghe funzioni narrative e simboliche.
Le leggende fiorite attorno a Germano di Auxerre, evangelizzatore della Britannia
agli inizi del V secolo, sono intrise di motivi folklorici che richiamano miti di
tradizione germanica e celtica. Fra i miracoli che gli sono attribuiti non manca la
spettacolare resurrezione di un vitello, esibita da Germano durante un viaggio in
Britannia: avvicinandosi la notte, egli chiede ospitalità al palazzo del re che sprezzante
rifiuta; lo accoglie invece un suo contadino, che imbandisce per lui l’unico vitello
che possiede. Terminata la cena, Germano ordina che le ossa dell’animale siano raccolte
diligentemente sopra la sua pelle e composte nella stalla davanti alla madre. Ed ecco,
il vitello rinasce.
L’antica leggenda era ancora viva nella seconda metà del IX secolo, quando Eirico
di Auxerre, riportandola nei Miracula sancti Germani, dice di averla ascoltata da un vecchio vescovo bretone, di nome Marco. In questo
racconto, l’ordine di non spezzare le ossa (che a noi interessa particolarmente) è
assente. Esso però compare in un’altra versione dell’episodio, fornita qualche decennio
prima (attorno all’826) dalla Historia Brittonum di Nennio: prima della cena, vi si legge, Germano «ordinò che nessuno degli ossi
dell’animale fosse spezzato».
La vitalità di queste tradizioni anche nelle culture agricole e pastorali di ambito
cristiano da un lato testimonia l’antichità dei miti germanici raccolti più tardi
dall’Edda, dall’altro ci obbliga a escludere che il racconto confluito nella Cronaca di Novalesa possa prescindere dalle implicazioni profondissime che quei temi avevano nella cultura
e nell’epoca in cui Adelchi e Carlo Magno vissero. Forse il monaco del XII secolo
non ne era più consapevole. Sicuramente ne erano consapevoli quelli che il racconto
concepirono e tramandarono.
Con le ossa degli animali non si scherza. È questione di vita o di morte. Spezzarle
tutte, sistematicamente, per succhiarne il midollo, è un modo per augurare la peggiore
delle sfortune: che gli animali non riescano più a rigenerarsi, a moltiplicarsi, a
crescere sani, a garantire cibo sicuro e la forza fisica di cui un guerriero non può
fare a meno. Alla tavola di Carlo Magno, Adelchi sta lanciando una terribile maledizione
sul suo nemico.