Sommario
I. Un proverbio da decifrare
II. Un matrimonio annunciato
III. Un cibo da contadini
IV. Quando il cibo rustico diventa di moda
V. Una nobilitazione difficile
VI. Ideologia della differenza e strategie di appropriazione
VII. Un frutto di alto lignaggio
VIII. Quando il desiderio confligge con la salute
IX. Villani e cavalieri
X. Sapore-Sapere, Gusto-Buongusto
XI. Come nasce un proverbio
XII. «Non dividere le pere col tuo padrone». Il proverbio come luogo del conflitto
di classe
Riferimenti bibliografici e documentari
Capitolo primo Un proverbio da decifrare
Capitolo secondo Un matrimonio annunciato
Capitolo terzo Un cibo da contadini
Capitolo quarto Quando il cibo rustico diventa di moda
Capitolo quinto Una nobilitazione difficile
Capitolo sesto Ideologia della differenza e strategie di appropriazione
Capitolo settimo Un frutto di alto lignaggio
Capitolo ottavo Quando il desiderio confligge con la salute
Capitolo nono Villani e cavalieri
Capitolo decimo Sapore-Sapere, Gusto-Buongusto
Capitolo undicesimo Come nasce un proverbio
Capitolo dodicesimo «Non dividere le pere col tuo padrone». Il proverbio come luogo
del conflitto di classe
Gli argomenti che affronto in questo libro, e il percorso logico che li tiene assieme,
mi hanno appassionato per diversi anni e temo che, durante questo tempo, molti miei
interlocutori abbiano trovato ossessiva l’attenzione che vi ho dedicato. Desidero
ringraziarli per la pazienza con cui mi hanno permesso di discutere singoli punti
di un tracciato non sempre evidente. In particolare ringrazio i miei studenti, per
gli stimoli che mi hanno fornito esprimendomi perplessità e dubbi, proponendomi materiali
e suggestioni su cui riflettere. Con loro ho ripetutamente sperimentato la solidità
(oltre che l’efficacia didattica) delle argomentazioni.
Francesca Pucci Donati mi è stata di grande aiuto nel reperimento delle fonti proverbiali,
su cui sta attualmente lavorando. Con Yann Grappe e Nicola Perullo ho avuto utili
scambi di idee.
Un grazie particolarmente affettuoso è per Marina e per Viola, che hanno seguito da
vicino il mio percorso di ricerca aiutandomi a orientarlo in alcuni snodi decisivi.
I. Un proverbio da decifrare
La storia raccontata in questo libro
prende avvio da un proverbio enigmatico,
di cui si cerca di penetrare il senso.
Al contadino non far sapere quanto è buono il formaggio con le pere. Questo notissimo proverbio è diffuso in molte regioni italiane, con piccole varianti
(quanto è buono / come è buono) e con declinazioni dialettali che alternano le due principali forme con
cui uno dei soggetti è designato nel linguaggio locale (cacio / formaggio). L’interesse di questo testo, che ha da tempo catturato la mia attenzione, sta nella
difficoltà di metterne a fuoco il senso, di decifrare la natura contraddittoria che
pare caratterizzarlo.
I motti, le sentenze, gli aforismi nascono da riflessioni sul senso della vita, sul
comportamento da tenere in questa o quella occasione, sulle soluzioni da dare ai problemi
pratici della sopravvivenza e della convivenza: «un aiuto che l’uomo offre a un altro
uomo», scrive Giuseppe Pontiggia, «una guida per evitare l’errore o porvi rimedio,
il conforto che l’esperienza può dare a chi deve ancora affrontarla». Rispetto ai
consigli ‘d’autore’ di cui è ricca la tradizione letteraria, lo specifico del discorso
proverbiale è di non essere firmato, di presentarsi come un «enunciato senza enunciatore»
(speech without a speaker, lo ha definito Michael Camille), frutto di una saggezza ‘collettiva’ che si tramanda
in maniera anonima e impersonale. In tal modo i proverbi si stratificano nel tempo
fino a costituire nelle culture orali «l’equivalente delle auctoritates nelle società letterate»: come ha scritto Piero Camporesi, in un mondo analfabeta
come quello contadino «il proverbio condensa il sapere non firmato del gruppo» – anche
se, non di rado, proprio un testo firmato può essere all’origine del proverbio, rielaborato
a partire da una citazione letteraria.
I proverbi hanno spesso come oggetto le relazioni dell’uomo con gli animali, le piante,
la meteorologia, le stagioni; basati sul «calcolo statistico delle probabilità», essi
sono volti «alla risoluzione di bisogni e problemi pratici»: come eseguire un lavoro
a regola d’arte, garantire un buon raccolto, conservarsi in buona salute. Altrettanto
importanti sono i richiami al dovere, all’onestà, alla correttezza morale – ma anche
alla necessità, talvolta, della furbizia e dell’egoismo – che fissano e trasmettono
«percezioni attorno alla natura della vita» (Scully). Consigli e osservazioni dettate
dall’esperienza si alternano a luoghi comuni di apparente ovvietà, da tutti condivisibili,
che alleggeriscono il discorso e facilitano la comunicazione. Né va dimenticato il
ruolo di divertimento e di socializzazione, assicurato dalla componente ironica e
scherzosa che spesso caratterizza i proverbi.
L’argomento cibo compare di frequente nel discorso proverbiale, oggi come ieri: una
recente raccolta di Detti del mangiare ne elenca 1738, attestati oggi in Italia in varie forme dialettali. Sul piano storico,
Terence Scully ha raccolto centinaia di proverbi di contenuto alimentare nella tradizione
medievale francese e inglese, ordinandoli secondo un criterio tipologico attorno alle
questioni più varie: fame e sete; qualità, virtù o pericoli di singoli prodotti; cucina,
ricette, preparazione dei piatti; consumo del cibo, allestimento e servizio dei pasti...
Dei temi alimentari si fa spesso un uso metaforico: i cibi, la cucina, il mangiare
sono assunti non solo nella loro dimensione materiale ma anche come termini di confronto,
come occasioni per riflettere sulla condizione umana, con ogni sorta di stili retorici,
similitudini, equivalenze, confronti, giochi linguistici, equivoci, strizzate d’occhio.
Non mancano proverbi di natura ‘sociale’, volti a definire ruoli e doveri di ciascuno,
magari per rimarcare la necessità di stare al proprio posto, di non trasgredire gli
obblighi del proprio stato. Proverbi che chiamano in causa l’identità delle persone
all’interno del consorzio sociale.
Proprio in questa tipologia sembrerebbe inserirsi il proverbio del formaggio e delle
pere. Ma il nostro testo è decisamente anomalo all’interno della tradizione proverbiale,
per il fatto che la sua prescrizione non deriva dal desiderio di comunicare una qualche
forma di conoscenza della realtà, ma, al contrario, dalla volontà di celarla: l’obiettivo
dichiarato è non far sapere, negare l’accesso alla conoscenza – e negarla, paradossalmente, proprio al contadino,
in un detto che dovrebbe avere (ed effettivamente ha) larga diffusione nel mondo contadino.
È quantomeno bizzarro che un ammonimento di ‘saggezza popolare’ in cui si allude al
contadino (in cui, anzi, il contadino è l’unico soggetto sociale esplicitamente menzionato)
si svolga in assenza del protagonista principale. Se provassimo a sceneggiare questo testo per il teatro
o per il cinema dovremmo rappresentare un personaggio che parla con un altro mentre
gli consiglia, o gli ordina, di tener fuori il contadino (estraneo alla scena) dall’oggetto
della loro conversazione.
Qualcosa evidentemente non torna. Lo storico si incuriosisce, si chiede quale origine
possa avere un testo del genere, che cosa significhi, a che cosa possa servire.
Erasmo da Rotterdam, quando si accinse a raccogliere migliaia di aforismi (Adagia) dai testi degli autori antichi, li considerò espressione di una saggezza cristallina
e di assoluta evidenza, «chiari come una gemma». Il nostro proverbio è tutt’altro
che chiaro, ma è lo stesso Erasmo a suggerirci di usare questi brevi testi, questi
aforismi, questi proverbi come altrettante «finestre sul mondo», utili non solo a
comunicare, in modo arguto e conciso, insegnamenti morali o pratici, ma anche ad aprire
uno spiraglio sul contesto storico in cui il proverbio fu prodotto: perché ogni proverbio
– ogni testo – è radicato in una determinata cultura e la esprime, la rivela.
Ciò che ho inteso fare in queste pagine è prendere estremamente sul serio il proverbio
del formaggio e delle pere: trattarlo come un testo a pieno titolo e pensarlo come
finestra sul mondo, ossia come documento storico. La sua stessa enigmaticità potrà forse aiutarci a
comprenderlo.
II. Un matrimonio annunciato
Come nasce l’abbinamento tra il formaggio
e le pere? I documenti ci riportano al tardo Medioevo,
quando l’occasionale convivenza dei due prodotti
nell’ultimo servizio di tavola finisce per trasformarsi
in un matrimonio saldo e duraturo.
Oncques Deus ne fist tel mariage
Comme de poire et de fromage
Ricercare su Google la coppia ‘formaggio+pere’ è il modo più rapido per verificare la diffusione di questo
abbinamento nella cultura gastronomica odierna. Anche limitandosi alle principali
lingue europee le occorrenze superano i due milioni, con un particolare addensamento
sui versanti francese, italiano e inglese. Le numerosissime ricette, tratte da libri
di cucina o da menu di ristoranti, si alternano a proposte commerciali, consigli dietetici,
considerazioni di costume, modi di dire. Si scopre perfino che «sulla scorta di questo
antico detto contadino» (appunto il nostro proverbio) un comune friulano celebre per
la produzione di formaggio ha siglato nell’ottobre 2007 un gemellaggio con un comune
emiliano produttore di pere Igp.
L’accoppiamento si delinea come un vero e proprio luogo comune, mentale e linguistico
prima che alimentare. O meglio: talmente consolidato sul piano alimentare da configurarsi
come ovvio riferimento mentale e come automatica associazione di parole.
Chiediamoci allora: a quando risale l’abitudine di abbinare formaggio e pere? Esistono
indizi o documenti storici per attribuirle una paternità?
Pare da escludere che si tratti di un uso remoto: nelle pratiche alimentari romane
i frutti erano consumati da soli alla fine del pasto, eventualmente accompagnati da
qualche dolcetto. Bisogna attendere il Medioevo – anzi, gli ultimi secoli del Medioevo
– per trovarli associati ai formaggi.
La testimonianza più antica sembra risalire alla Francia del Duecento e la troviamo,
guarda caso, in un’espressione proverbiale: Oncques Deus ne fist tel mariage / Comme de poire et de fromage. Ovvero: «Dio non ha mai fatto un matrimonio così riuscito come quello tra la pera
e il formaggio». Un proverbio non più d’uso corrente, ma ancora oggi registrato nei
repertori di detti tradizionali francesi.
Prima di sfociare in un legame indissolubile e benedetto dal Cielo, l’accostamento
tra il formaggio e la pera fu probabilmente sperimentato in modo fortuito, grazie,
ritengo, all’occasionale convivenza dei due protagonisti nel medesimo spazio conviviale: entrambi, infatti, furono collocati
di preferenza nella fase finale del pasto, per motivi legati sia a questioni di gusto,
sia alle ragioni della scienza dietetica, che nel Medioevo orientava le scelte alimentari
e gastronomiche in base ai princìpi della medicina galenica (su cui dovremo ritornare).
Tali princìpi regolavano le tecniche di cottura, i criteri di abbinamento e anche
l’ordine delle vivande: un precetto di validità generale – pur se declinato in modi
diversi dai vari autori – era quello di iniziare il pasto con cibi ‘aperitivi’, che
ben disponessero lo stomaco ad accogliere gli alimenti, e di terminarlo con cibi di
riconosciuta virtù ‘sigillatoria’, capaci di chiudere lo stomaco per favorire il processo digestivo. Esattamente per questo Bartolomeo
Sacchi detto il Platina, umanista e gastronomo del XV secolo, sosteneva l’opportunità
di mangiare il formaggio (in particolare quello stagionato) alla fine del pasto, «perché
sigilla la bocca dello stomaco e toglie la nausea provocata dai cibi grassi». Già
enunciata qualche secolo prima dal Regimen Sanitatis della Scuola salernitana, tale proprietà del formaggio fu ribadita per secoli dai
dietologi, generando usi alimentari conservatisi fino ai giorni nostri, nonché proverbi,
ovunque diffusi, che non ritengono concluso il pasto «finché la bocca non sa di formaggio».
In proposito osserveremo, con Jean-Louis Flandrin, che le tradizioni proverbiali affondano
spesso le radici nella cultura dietetica premoderna, di cui spesso si conservano le
prescrizioni pratiche anche se sono venute a mancare le coordinate scientifiche che
le sostenevano.
Anche la pera veniva preferibilmente collocata nella fase finale del pasto. «Sappiate»,
scrive Aldobrandino da Siena, uno dei più celebri medici europei del Duecento, «che
tutte le pere restringono il ventre se ingerite prima di mangiare, e dopo mangiato
lo sciolgono, perché, siccome sono pesanti, fanno scendere il cibo in fondo allo stomaco».
I due prodotti si trovavano così a condividere, con diverse funzioni (sciogliere il
cibo, sigillare lo stomaco), la medesima posizione nella strategia del pasto. Scrive,
nel Cinquecento, Domenico Romoli che al termine di una buona bevuta (ossia al termine
di un buon pranzo) si devono prendere «pere cotogne e pere cotte o un pochetto di
buon formaggio, perché col sigillo di queste cose si conforta la bocca dello stomaco».
Ne scaturì una sorta di ‘coabitazione di fatto’ fra le pere e il formaggio, sollecitata
e in qualche modo imposta dalla modalità degli usi conviviali, che nei secoli in questione
(il tardo Medioevo e la prima Età moderna) prevedevano il servizio simultaneo di vari cibi a ciascuna portata: spettava poi a ogni commensale scegliere, secondo
il proprio gusto, quali cibi mangiare fra i molti presentati contemporaneamente a
tavola. All’ultimo servizio, pere e formaggi stagionati arrivavano assieme.
Questa modalità di presentazione delle portate, che dava la possibilità di giostrare
liberamente fra l’uno e l’altro cibo, non sempre diede origine ad associazioni stabili:
spesso ci si limitò a semplici alternative dettate dal gusto individuale. La combinazione formaggio-pere, se in certi contesti
si stabilizzò fino a codificarsi, altrove mantenne un carattere accidentale e per
così dire ‘slegato’. Così, per esempio, accadde in Spagna, come mostrano alcuni testi
seicenteschi. Nel 1616, la dissertazione di Sorapán de Rieros sui proverbi in lingua
castigliana di natura medico-dietetica sostiene che il formaggio si può mangiare a
cena come dessert al posto della frutta: «en lugar de las frutas». Non diversamente, il trattato di Andrés Ferrer de Valdecebro
(1620-1680) dedicato al Perché di tutte le cose a un certo punto si chiede: «Perché vanno bene il formaggio o la pera dopo aver mangiato?»
(da notare la particella disgiuntiva «o»). Risposta: «Perché, siccome [il formaggio]
è così pesante, scende al fondo dello stomaco e richiama lì il cibo, che è dove si
fa la miglior digestione... La pera ha la stessa efficacia».
In Francia, invece, dall’occasionale convivenza scaturì un solido matrimonio, raccomandato
(ci assicura il proverbio duecentesco) da Dio in persona.
Un altro adagio francese mette insieme il formaggio e le pere: anch’esso è di origine
medievale e, a differenza del primo, continua a essere usato nel parlare comune. Entre le fromage et la poire / chacun dit sa chanson à boire, dice il testo in questione. Ossia: «tra il formaggio e la pera, ciascuno dice [canta]
la sua canzone da bere». Come spiegano i repertori sette-ottocenteschi, «questa espressione
significa la fine del pasto, quando tutti cominciano a essere un po’ allegri e hanno
voglia di ridere» (Caillot). Di essa, col tempo, si selezionò la prima parte, spesso
invertendo i termini: entre la poire et le fromage rimase un modo di dire riferito allo stato di distensione che viene a crearsi quando
il pasto è agli sgoccioli, quando, «tra la pera e il formaggio», la conversazione
si fa più lieve e serena, i rapporti fra le persone più amichevoli; quando, spiega
il dizionario di D’Hautel, si può perfino «parlare di matrimonio» – variante curiosa,
che riprende l’idea del mariage pera-formaggio ribaltandola, con una sorta di transfert psicologico, su coloro che
assaporano quegli alimenti.
Pera e formaggio in questo caso sono semplicemente degli indicatori dello spazio conviviale durante il quale sono serviti e consumati. I piatti forti
hanno ormai abbandonato la scena, siamo nella fase che in linguaggio moderno si dirà
‘dessert’. «Si dice entre la poire et le fromage al momento del dessert, quando si dicono le buone parole», spiega un dizionario di
metà Settecento.
Anche in Italia l’abitudine di servire formaggio e pere a fine pasto si accompagnò
talvolta a immagini di convivialità appagata e rilassata. L’idea del conversare amabile,
entre la poire et le fromage, è perfettamente restituita da Michelangelo Buonarroti quando in certi suoi versi
evoca il momento in cui a tavola «venner le frutte, il formaggio e ’l finocchio, / le pere cotte con qualche sfogliata: / poi quivi stetter lungamente a crocchio / a ragionar...».
Ma al di là dei contesti d’occasione, è soprattutto l’abbinamento gastronomico tra il formaggio e le pere ad affermarsi in Italia, con una persistenza e una sistematicità
addirittura superiori a quelle d’oltralpe (fatto che in qualche modo potrebbe giustificare
la paternità ‘italiana’ attribuita oggi da molti a questa consuetudine alimentare).
Sia nelle fonti letterarie, sia in quelle documentarie le prime testimonianze dell’abbinamento
formaggio-pere risalgono, in Italia, al XIV secolo. L’attestazione più antica è forse
in questi versi semplici attribuiti a Francesco Petrarca: «Addio: l’è sera. / Or su
vengan le pera, / Il cascio e ’l vin di Creti».
Più puntuale (e gastronomicamente consapevole) è l’indicazione che troviamo in un
lungo componimento «sulla natura delle frutta» scritto da Piero Cantarini, un modesto
poeta senese vissuto fra Tre e Quattrocento. «Pere vi recho d’ogni lor maniera», recita
a un certo punto il nostro autore, segnalandone varie qualità: «spinose, caruelle
e sementine, rogie e anche robuiole in grande schiera; sanichole, zuchaje e cianpoline,
durelle e vendemmiali, el cui sapore col formaggio si ghusta, e le rugine». Quasi una nota da gourmet.
Nel frattempo, una preziosa indicazione giunge dalle note dei pranzi consumati all’Albergo
della Stella a Prato, negli anni fra il 1395 e il 1398. Da questa rara e insolita
fonte apprendiamo che i pasti terminano spesso con delle pere cotte e del formaggio
(o, seguendo le stagioni, con «cacio e ciliegie» a maggio, «formaggio e pesche» a
settembre). Testimonianza preziosa, perché riferita a persone di diversa condizione
e a vivande alla carta, cioè richieste dai clienti. Non pare esservi grande differenza fra la cultura alimentare
di questi avventori d’osteria e quella di Filippo Maria Visconti, signore di Milano
nei primi decenni del Quattrocento, che, secondo il biografo Pier Candido Decembrio,
amava chiudere il pasto con «delle pere o delle mele del paradiso cotte nel formaggio».
Come è evidente dai casi sopra riportati, l’associazione pera-formaggio stava imponendosi
come declinazione particolarmente fortunata della più generale complicità tra formaggio
e frutta, di cui non mancano esilaranti parodie letterarie, come quella di Luigi Pulci
che mette in scena l’appetito esagerato del gigante Morgante e del mezzo gigante Margutte.
I due sono all’osteria e hanno appena divorato un’enorme quantità di carne e di pane.
A questo punto Margutte chiama l’oste: «Dimmi, areste tue da darci del formaggio o
delle frutte, che questa è stata poca roba?». L’oste corre in dispensa e torna con
una forma di cacio da sei libbre e un intero canestro di mele, ma ancora non si accontentano.
Raccoglie tutto il formaggio e la frutta che riesce a trovare («di cacio e frutte
raguna una massa») e i due ospiti rapidamente ne fanno piazza pulita.
I riferimenti si moltiplicano nel XVI secolo con il successo di un nuovo genere letterario,
la poesia comico-burlesca, fitta di allusioni a oggetti e pratiche del vivere quotidiano.
Ne è maestro Francesco Berni (1497-1535), i cui scherzosi Capitoli sono presi a modello da una schiera di imitatori. In queste rime la coppia formaggio-pere
fa più volte capolino: una poesia di Giovanni Della Casa tesse le lodi del bacio,
definito più gustoso di ogni altra cosa, perfino del «cacio con le pera»; anche Girolamo
Ruscelli, per esaltare il gusto della salsiccia, utilizza come metro di confronto
le ghiottonerie più celebrate come «buon cacio, buona pera sementina».
Lo stile bernesco è ripreso da Anton Francesco Grazzini, detto il Lasca (1503-1584),
che nei suoi testi teatrali lancia rapide allusioni al nostro tema: nel secondo atto
della Pinzochera raccomanda di tenere sempre pronti in cucina «[formaggi] raviggiuoli, pere carovelle
e altre frutte, secondo la stagione»; nella Sibilla rappresenta una cena succulenta che finisce con «frutta e formaggio a iosa, e insalata
bellissima».
L’importanza di attestazioni come queste sta soprattutto nella loro natura indiretta: non ci troviamo di fronte a elogi del cacio con le pere, ma ad altri discorsi, che danno per intesa l’eccellenza gastronomica di quell’abbinamento, a
cui ci si riferisce come a cosa a tutti nota, che non si deve spiegare.
In quei decenni, anche i documenti privati confermano che la pratica di associare
formaggio e pere è ormai consolidata nell’uso. Il 29 novembre 1538 Francesco de la
Arme, funzionario alla corte estense di Ferrara, invia un carico di pere al duca di
Mantova e lo accompagna con una lettera: «Mando a V[ostra] Ex[cellenza] peri carovelli
500», scrive, aggiungendo un consiglio su come consumare quei frutti: «Nui li troviamo
molto boni a quella fogia, cum del bon formaggio grasso che non sia cavato il botiro
[burro]».
Di tutt’altra natura, ma altrettanto eloquente, è una considerazione inserita nella
Naturale e generale istoria dell’Indie occidentali di Gonzalo Ferdinando d’Oviedo, pubblicata nel 1526 a Toledo, tradotta in italiano
appena otto anni dopo e inclusa da Giovanni Battista Ramusio nella sua monumentale
raccolta di Navigazioni e viaggi. Descrivendo la vegetazione del Nuovo Mondo l’Oviedo si sofferma su «certi arbori
che si chiamano peri, ma non sono peri come quelli di Spagna», bensì alberi selvatici
da cui nascono frutti di grandi dimensioni, di colore e forma «di vere pere»: giunto
a questo punto gli viene da notare che «con il formaggio sono molto buone queste pere».
L’osservazione, estranea alla realtà descritta, è per ciò stesso rivelatrice di un’usanza
che l’autore doveva conoscere bene. Non stenterei a credere che ciò gli derivasse
dalla lunga frequentazione dell’Italia, dove intratteneva stretti rapporti con amici
e soci d’affari, fra cui lo stesso Ramusio.
Cercavamo indizi per un primo orientamento della nostra ricerca, per determinare luoghi
e tempi da tenere d’occhio. La prima selezione di testimonianze ci ha decisamente
indirizzati sul dove e sul quando.
I luoghi chiave sembrano essere la Francia e l’Italia. La Francia, dove un proverbio
ci ha rivelato la precoce attenzione all’abbinamento formaggio-pere, attestato già
nel XIII secolo. L’Italia, dove questa attenzione pare essersi particolarmente sviluppata
nei secoli successivi, fino a diventare un vero luogo comune.
Ma ora dobbiamo tornare al nostro proverbio di partenza (al contadino non far sapere...) e chiederci perché la bontà di questo abbinamento dovrebbe essere tenuto nascosto
al contadino. Data la natura del proverbio bisognerà, evidentemente, concentrare l’indagine
sugli aspetti sociali della vicenda. Lo faremo chiedendoci che cosa significavano in quella cultura (in quei secoli) il formaggio e la pera: giacché un prodotto alimentare
non è mai un semplice oggetto nutrizionale, o dietetico, ma tende a configurarsi come
un soggetto dotato di una sua personalità, di un ben preciso statuto sociale, secondo la felice espressione coniata da Jean-Louis Flandrin. In base a
ciò ci domanderemo che cosa poteva significare l’abbinamento dei due prodotti.
Cominceremo dal formaggio che, nel proverbio, sembra il protagonista principale, in
funzione del quale è chiamato in causa l’altro.
III. Un cibo da contadini
Il nostro proverbio, comunque lo si interpreti,
ha un evidente significato sociale:
sembra perciò importante definire,
al di là del loro valore gastronomico,
lo statuto dei cibi chiamati in causa.
Si comincia dal formaggio, e lo si trova
associato al mondo dei pastori e dei contadini.
Il formaggio è il cibo di Polifemo, l’uomo-bestia non toccato dal processo di civilizzazione.
Il mostruoso gigante, per nulla somigliante agli uomini «che mangiano il pane», è
al pascolo con le greggi quando Odisseo e i suoi compagni penetrano nel suo antro.
Vi trovano graticci carichi di formaggi e tutt’attorno vasi, secchi, brocche piene
di latte. Imprudentemente Odisseo decide di aspettarlo per saggiarne l’ospitalità:
«mangiammo i formaggi e dentro lo aspettammo». Torna Polifemo con grande frastuono,
si mette a mungere pecore e capre e subito fa cagliare metà del latte, raccogliendolo
in canestri di vimini; l’altra metà lo versa nei vasi «per la sua cena».
È una scena, per così dire, archetipica, che disegna con molta chiarezza l’immagine
primitiva e pre-civile che a lungo connotò il latte e i latticini nella cultura europea. Certe popolazioni
‘barbare’ delle steppe sono descritte dagli autori antichi – con un misto di ripugnanza
e di stupore – come consumatori abituali di latticini: hippomolgói, «mungi-cavalle», sono definiti da Erodoto gli Sciti. Espressioni come queste, che
ritroviamo negli autori della tarda antichità e del primo Medioevo, sottintendono
un’idea della barbarie come stato primordiale di un’umanità ancora incapace di prendere
in mano il proprio destino, di fabbricare ‘artificialmente’ il suo cibo (il pane)
e la sua bevanda (il vino); un’umanità succube della Natura e dei prodotti che essa
‘naturalmente’ fornisce all’uomo.
Il formaggio a rigore non entrerebbe in questo sistema di valori, essendo frutto di
una tecnologia interamente ascrivibile alla cultura umana. Non per nulla Plinio il
Vecchio assume come segno di civiltà proprio la capacità di trasformare il latte in
formaggio: «è sorprendente», scrive, «come certi popoli barbarici che vivono di latte
possano ignorare o disdegnare, dopo tanti secoli, i pregi del formaggio». Ciò non
toglie che l’immagine del prodotto sia generalmente assimilata a quella della materia
prima che ne è all’origine, il latte, simbolo per eccellenza della Natura e, sul piano
biologico, dell’infanzia – e i barbari non sono forse l’infanzia della civiltà?
Ai pregiudizi di ordine culturale si sovrapposero, nella tradizione antica, rappresentazioni
sociali che in modo quasi automatico associavano il formaggio al mondo dei pastori
e dei contadini, alla gastronomia povera. Non sempre ciò comportava giudizi negativi: la letteratura latina, come quella greca,
pullula di pastori felici in una campagna idilliaca e incontaminata. Quella che non
cambia è la nozione di marginalità, l’immagine di un mondo povero (magari assunto, con un’operazione culturalmente ambigua,
a modello di vita e di valori) che ‘si accontenta’ di alimenti rustici e grossolani,
come appunto il formaggio.
All’allevamento di pecore e capre e alla preparazione dei formaggi derivati dal loro
latte sono dedicate pagine importanti della trattatistica e della letteratura antica,
da Catone a Varrone, a Columella, a Plinio. Nella maggior parte di questi testi l’ambito
di utilizzo dei latticini appare decisamente connotato in senso sociale. Significativo
il passo in cui Columella scrive che il formaggio «serve non solo a nutrire i contadini,
ma anche a ornare le mense eleganti». Il messaggio è chiaro: il formaggio costituisce
un piatto forte e, spesso, la fonte primaria di approvvigionamento delle mense contadine,
mentre sulle tavole ricche compare come semplice ‘abbellimento’, vale a dire non come
protagonista o come piatto a sé ma come ingrediente di vivande più elaborate: è appunto
in questo modo – solo in questo modo – che il formaggio compare nel trattato De re coquinaria di Apicio, l’unico ricettario di epoca romana che sia giunto fino a noi.
Questa immagine antica torna insistentemente nel Medioevo. Il formaggio continua a
essere un segno di marginalità sociale e/o geografica: se ne cibano i poveri, i pellegrini,
gli abitanti delle valli alpine per i quali i latticini sono una componente decisiva
della dieta quotidiana. Se ne cibano gli avventori di osteria. Il formaggio è un cibo
tipicamente contadino e ai contadini viene somministrato, per così dire, d’ufficio quando si
tratta di dar loro da mangiare: nel XIII secolo, tutti i contadini dipendenti dal
monastero bresciano dei SS. Cosma e Damiano, quando si recano in città a consegnare
i canoni d’affitto, ricevono una ‘merenda’ di pane e formaggio. Invece, il messo che
va a sovrintendere ai lavori di vendemmia per conto della proprietà riceve pane e
carne. L’opposizione non potrebbe essere più chiara: il formaggio è la carne dei contadini.
In una società come quella medievale, attentissima a segnalare le differenze di classe
e di status mediante codici di comportamento alimentare precisi e rigorosi, questo ‘statuto’
del formaggio costituiva un forte ostacolo (almeno teorico) alla sua accettazione
nella dieta delle élites sociali. Tanto più che il pregiudizio sociale era pesantemente
aggravato da altri pregiudizi, di ordine igienico e dietetico.
Nei confronti del formaggio la scienza medica aveva sempre nutrito una forte perplessità.
I misteriosi meccanismi della coagulazione e della fermentazione erano visti con sospetto
e i trattati di dietetica invariabilmente mostravano diffidenza verso questo prodotto,
giudicato indigesto e di cattiva sostanza: perciò ne sconsigliavano il consumo o vi
ponevano forti limiti. In questi termini si erano espresse, pur fra incertezze e contraddizioni,
le maggiori autorità scientifiche del mondo greco e latino e, sulla loro scorta, i
medici arabi ed europei del Medioevo. «Solo il formaggio mangiato a piccole dosi non
fa male alla salute» (caseus ille sanus quem dat avara manus) recitava un aforisma attribuito alla Scuola salernitana, divenuto nella letteratura
medievale quasi un luogo comune e ben presto assunto come forma proverbiale. Fin dal
Cinquecento lo ritroviamo fra i modi di dire italiani, francesi, spagnoli: Il formaggio è sano, / se vien d’avara mano; Tout fromage est sain / s’il vient d’une chiche main; El queso es sano / dado de avarienta mano. «Proverbio commune» lo chiama il medico bolognese Baldassarre Pisanelli, nel 1583.
Secondo l’antropologa Carole Counihan, il formaggio sarebbe un prodotto ‘di lusso’
riservato alla classe padronale, e il proverbio del formaggio e delle pere, ascoltato
nella campagna fiorentina, indicherebbe la tradizionale carenza di questo cibo nell’alimentazione
contadina. Questo siamo già in grado di escluderlo: proprio al mondo contadino fu
ancorata per secoli l’immagine sociale del formaggio. Non può essere questa la chiave
interpretativa del nostro enigma.
IV. Quando il cibo rustico diventa di moda
Nel corso del Medioevo
il formaggio vede messa in discussione
la sua identità di cibo umile
ed è ritenuto degno di accedere
alla mensa signorile.
In fin dei conti non vedo alcuna ragione
per persuadermi che i formaggi
siano tutti da detestare
Pantaleone da Confienza, Summa lacticiniorum, 1477
Durante il Medioevo si avviò, faticosamente e non senza ambiguità, un percorso di
nobilitazione che progressivamente modificò l’immagine sociale e culturale del formaggio.
Importante, in tale percorso, fu il ruolo che questo cibo assunse nella dieta delle
comunità monastiche, comunità spesso legate agli ambienti nobiliari e ben dotate di
risorse economiche, dunque tutt’altro che povere, ma che si auto-rappresentavano come
tali, innestando il motivo della ‘povertà spirituale’, ovvero dell’umiltà, su quello
della povertà vera. Elemento essenziale del modello alimentare monastico fu la rinuncia al consumo di
carne, proibito, in modo più o meno rigoroso, da quasi tutte le regole. La carne fu
perciò sistematicamente rimpiazzata da cibi sostitutivi quali il pesce, le uova o,
appunto, il formaggio, che per questa via acquisì un’importanza forse imprevedibile.
In tal modo la cultura monastica finì per assumere un ruolo di mediazione tra pratiche alimentari ‘basse’ e ‘alte’, introducendo modelli di consumo popolari
in ambienti sociali effettivamente elitari. Da un lato ciò ribadì lo statuto del formaggio
come alimento povero, sostitutivo di un altro – la carne – ritenuto ben altrimenti
gustoso e prestigioso (proprio per questo, astenersene costituiva per i monaci un
motivo di merito); dall’altro gli conferì, di fatto, un posto importante nel sistema
alimentare.
La stessa cultura della rinuncia, propugnata negli ambienti monastici, contribuì dunque
a generare un’attenzione nuova al formaggio, da cui col tempo presero avvio molte
acquisizioni del gusto. «Sarebbe possibile citare qualche formaggio di pregio che
non sia monastico nelle sue lontane origini?» si chiede Léo Moulin. In realtà quelle
«origini» sono spesso nulla più di un mito (che per di più rischia di occultare il
fondamentale apporto del mondo contadino alla costruzione del modello alimentare monastico):
ma i miti stessi sono realtà storica, rispecchiando un sentire comune che, non del
tutto gratuitamente, identificò i centri monastici come luoghi di (ri)elaborazione
della cultura gastronomica.
Del resto, l’astinenza dalla carne (e il conseguente successo dei cibi ‘di magro’,
come furono detti: per il formaggio, un vero paradosso nutrizionale) non fu appannaggio
esclusivo delle comunità monastiche. Più misurato nei tempi e nei modi, questo genere
di obbligo fu imposto nel Medioevo all’intera società cristiana, tenuta all’osservanza
di precise norme alimentari scandite dal calendario liturgico: nei giorni di vigilia
e di astinenza infrasettimanale i latticini furono subito ammessi come sostituto della
carne; a partire dal XIV-XV secolo si poterono consumare anche in quaresima.
Non per questo la cattiva reputazione del formaggio era cessata. La dieta dei potenti
ne faceva volentieri a meno, come desumiamo dai ricettari (sempre rivolti alle classi
alte) che compaiono in Europa tra XIII e XIV secolo. Se il formaggio è talora usato
in cucina come ingrediente di salse e farciture, fatica però ad arrivare in tavola, a essere valorizzato come prodotto a sé.
È tuttavia possibile introdurre qualche differenza. I ricettari francesi di questi
secoli prevedono l’impiego di formaggio in meno di una ricetta su dieci; ancor più
«reticente» (così la definisce Bruno Laurioux) è la gastronomia di area tedesca, mentre
quella inglese appare addirittura «refrattaria». In Italia, invece, ci sono segnali
che fanno pensare a una presenza più significativa del formaggio nel gusto delle élites.
Per esempio, il trecentesco Libro della cucina propone una ricetta semplicissima di cacio arrostito allo spiedo, che andrà servito
«al signore» su una fetta di pane sottile. Ma è soprattutto in abbinamento alla pasta
che il formaggio incontra un crescente successo, assumendo, come è ovvio, una particolare
importanza là dove (Italia in primis) la pasta si configura fin dal Medioevo come vivanda di ampio consumo. Il sogno di
un paese di Bengodi con al centro «una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato»,
in cima alla quale non si fa altro che cuocere maccheroni e ravioli, che poi vengono
fatti scivolare giù in modo che arrivino ben informaggiati, è un sogno tipicamente
popolare (a crederci, nella novella di Boccaccio, è il sempliciotto Calandrino) a
cui fa riscontro un analogo impiego del formaggio nelle case borghesi e nelle corti
nobiliari.
Se ne può forse concludere, con lo stesso Laurioux, che «il gusto del formaggio è
mediterraneo»?
Sta di fatto che il primo trattato europeo specificamente dedicato ai latticini è
opera di un medico italiano, Pantaleone da Confienza, professore all’università di
Torino, che nel 1477 pubblica una originalissima Summa lacticiniorum, vera ‘enciclopedia’ dedicata agli aspetti ambientali, economici, igienici, dietetici,
organolettici, gastronomici della produzione di latte, burro e, soprattutto, formaggio
– formaggi, anzi, di cui subito si sottolinea l’ampia tipologia (diversitas) e a cui sono dedicati ben 32 dei 40 capitoli che costituiscono il lavoro: vi si
parla dei diversi modi con cui si provoca la coagulazione del latte, della diversa
natura dei formaggi determinata dal genere di latte utilizzato, dal periodo dell’anno
in cui si fanno, dai sistemi di salagione e di conservazione, dal diverso grado di
stagionatura. L’autore descrive e valuta i principali formaggi italiani, francesi,
tedeschi, inglesi, bretoni, fiamminghi, la maggior parte dei quali dice di aver assaggiato
di persona.
La Summa di Pantaleone presenta due importanti novità. La prima è che il nostro medico smentisce
tutta la letteratura scientifica che gli sta alle spalle, proponendo per la prima
volta un’immagine decisamente positiva del contestato prodotto. Certo lo fa con garbo,
senza entrare in diretta polemica con gli intoccabili maestri della scienza medica
(Ippocrate, Galeno) e i loro continuatori medievali. Lo fa con grande abilità retorica
e in perfetto stile scolastico, come quando discute l’affermazione di Isaac, il grande
medico ebraico del X secolo che aveva scritto: «Il formaggio è universalmente (universaliter) pessimo, pesante per lo stomaco e difficile da digerire». Senza mettere in discussione
l’autorità del testo commentato, Pantaleone semplicemente ne rovescia l’assunto sostenendo
che l’avverbio universaliter non implica una validità generale, ma serve a escludere i casi particolari, cioè
la pratica quotidiana. Con altrettanta abilità il medico piemontese introduce una
serie di distinguo fra tipi di prodotto e ‘natura’ delle persone, sostenendo che esiste sempre un formaggio
giusto per la persona giusta: alcuni vanno bene per i vecchi, altri per i giovani,
e ogni temperamento vuole il suo, si tratti di collerici, di flemmatici, di melanconici
o di sanguigni (le quattro principali ‘complessioni’ umane classificate dalla scienza
tradizionale). Addirittura indica alcuni utilizzi del formaggio a scopo terapeutico.
La conclusione è limpida, priva di tentennamenti: «in fin dei conti non vedo alcuna
ragione per persuadermi che i formaggi siano tutti da detestare, come ritengono alcune
autorità, e che gli individui sani non possano cibarsene».
Ed ecco la seconda grande novità. «Ho visto coi miei occhi», scrive Pantaleone, «re,
duchi, conti, marchesi, baroni, soldati, nobili, mercanti, plebei di entrambi i sessi»
nutrirsi volentieri di formaggio, «e pertanto è evidente che tutti lo approvano».
In questa frase c’è il rovesciamento di un pregiudizio secolare: il formaggio è buono
per tutti, nobili e plebei. Certo che – aggiunge ancora il nostro, come per ribadire
una distinzione non colmabile – solo i ricchi e i notabili (divites et notabiles personae) possono permettersi di osservare le regole dettate dalla scienza (scegliere i formaggi
secondo la propria natura, collocarli all’inizio o alla fine del pasto secondo il
grado di maturazione...) e di osservare il «detto comune» (il consueto aforisma salernitano)
che raccomanda parsimonia: Caseus est sanus, quem dat avara manus. «Ma i poveri», prosegue Pantaleone, «e tutti coloro che sono obbligati dalla necessità
al consumo quotidiano di formaggio, non sono tenuti a seguire queste regole, essendo
costretti a mangiarlo al principio, a metà e alla fine del pasto». Per loro almeno
varrà una considerazione fatta più sopra: «molti sono talmente assuefatti al formaggio,
che anche una quantità eccessiva non gli può far male».
Negli stessi anni in cui Pantaleone da Confienza pubblica la Summa sui latticini, il formaggio incontra un certo successo nei circoli intellettuali
italiani, fra gli umanisti che, a Roma e altrove, riprendendo suggestioni già avanzate
nel secolo precedente da Francesco Petrarca, si riconoscono in piaceri alimentari
semplici, poveri, improntati al «gusto rustico» (il rusticanum gustum elogiato in una lettera di Gaspare da Verona). È una vera e propria moda, legata
anche al recupero dei testi classici e del modello di vita che essi proponevano: l’ideale
romano della sobrietà e della misura, trasmesso dalla letteratura latina e ambiguamente
presentato come valore ‘contadino’. Il nuovo modello di semplicità, essenzialità,
rigore morale riscopriva certi aspetti della tradizione monastica in una nuova chiave
laica ma con i medesimi equivoci: valorizzare la ‘cultura della povertà’ da una posizione
sociale privilegiata e protetta. Tipicamente monastica, ma rivissuta in modo nuovo,
è la pratica di preferire alla carne cibi poveri – «volgari» li definiva Petrarca
– come le verdure o il formaggio, a cui si attribuisce maggiore salubrità.
È in questo clima che Antonio Beccadelli (1397-1471) scrive gli «Elogi del formaggio»
(Elogia de caseo) in cui immagina che sia il formaggio stesso a parlare, a raccontare come il pastore
lo ha fatto per poi portarlo a vendere in città. È in questo clima che Gaspare da
Verona, scrivendo la biografia del pontefice Paolo II, ama descrivere la sua morigeratezza
alimentare precisando che «volentieri prendeva latticini e formaggio fresco a ogni
pasto».
Il modificarsi degli atteggiamenti nei confronti del formaggio, che si percepisce
chiaramente nel XV secolo, è legato anche all’apparire, nei due secoli precedenti,
dei primi formaggi ‘di qualità’, prodotti di alta reputazione apprezzati sul mercato
e legati a determinati luoghi d’origine oltre che a precise tecniche di fabbricazione.
Lo stesso Pantaleone da Confienza ne è testimone, quando individua tra i formaggi
italiani alcune eccellenze come il pecorino o «marzolino» di Firenze, che si fa in
Toscana e in Romagna, il «piacentino» di vacca («da alcuni detto parmigiano») prodotto
anche nelle zone di Milano, Pavia, Novara, Vercelli, e le piccole robiole del Monferrato;
si sofferma poi sui formaggi di diverse valli piemontesi e su quelli della Savoia,
prima di passare ai francesi fra cui ricorda in particolare il craponne e il brie
(che doveva godere di una certa rinomanza internazionale, se è previsto anche nei
ricettari italiani del Trecento).
Di questo cambiamento nella qualità dei prodotti lo stesso Pantaleone appare consapevole:
«Forse», scrive, «la cattiva opinione che [Isaac] si era fatto del formaggio dipendeva
dal fatto che a lui non piaceva, oppure che aveva visto e assaggiato solo prodotti
di nessun valore, effettivamente pessimi».
Se negli ultimi secoli del Medioevo certi formaggi cominciano a essere oggetto di
dono fra signori, in segno di prezioso omaggio e talora forse (ritiene Laurioux) con
scopi di interessata promozione, ciò significa che il loro statuto sociale stava davvero
mutando. Nel Quattrocento la vicenda è ormai giunta a maturazione: il tortuoso percorso
di nobilitazione del formaggio è giunto al punto di non ritorno. Nel secolo successivo esso appare
saldamente attestato negli usi alimentari delle classi alte, non più solo come ingrediente
utilizzato nelle preparazioni di cucina ma anche come prodotto a sé, da mettere in
tavola durante il pasto. Cristoforo Messisbugo, nel 1549, scrivendo per il duca di
Ferrara, elenca fra le provvigioni indispensabili alla dispensa di corte «formaggio
duro, grasso, tomino, pecorino, sardesco, marzolini e provature, e ravogliuoli». Bartolomeo
Scappi, nel 1570, riferisce menù per la corte pontificia che regolarmente comprendono
«casci marzolini spaccati», «raviggioli fiorentini», «cascio parmigiano in fettucce»,
«cascio di riviera», «romagnolo», «romanesco», caciocavalli, provature, mozzarelle.
Il parmigiano grattugiato è addirittura d’obbligo per condire la pasta, mescolato
– da chi può permetterselo – a costose spezie, soprattutto zucchero e cannella.
Ma il pregiudizio è duro a morire. Si direbbe, anzi, che proprio il successo dei formaggi
nella gastronomia ‘fine’ del Quattro-Cinquecento abbia reso particolarmente attuali
le diffidenze, i sospetti, le polemiche sul bianco prodotto. Mai come tra XV e XVI
secolo la discussione sembra aperta.
V. Una nobilitazione difficile
Accesi dibattiti e interminabili polemiche
accompagnano l’ascesa sociale del formaggio.
I benpensanti resistono,
ma è ...