
Pagine: 234
Collana: Storia e Società
ISBN carta: 9788842074182
ISBN digitale: 9788858112915
Argomenti: Storia di città e regioni d'Italia
Storia dell'Emilia Romagna
2. Dal Seicento a oggi
Pagine: 234
Collana: Storia e Società
ISBN: 9788842074182
Massimo Montanari insegna Storia dell’alimentazione all’Università di Bologna, dove ha fondato il Master “Storia e cultura dell'alimentazione”.
Scopri l'autoreMaurizio Ridolfi insegna Storia contemporanea all'Università della Tuscia di Viterbo, dove presiede il Centro Studi per la Storia dell'Europa Mediterranea. Studioso dei processi di politicizzazione e delle forme di sociabilità. Coordina (con F. Conti) la direzione scientifica della rivista "Memoria e Ricerca". Ha dedicato diversi lavori alla tradizione repubblicana nella storia italiana, tra i quali: Il partito della Repubblica (1872-1895) (1989).
Scopri l'autoreRenato Zangheri ha insegnato Storia economica e Storia delle dottrine economiche all'Università di Bologna. Tra le sue pubblicazioni, iprimi due volumi di una Storia del socialismo italiano (Torino 1993-1997).
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CONSTANTER ET NON TREPIDE
di Alberto Bertoni
La poesia in dialetto vive senza dubbio di una serie di paradossi. Luogo di confine e di mediazione tra oralità e scrittura, per una parte essa sembra infatti riprodurre l’impegno di derivazione romantica che vorrebbe sovrapporre ai moduli dell’arte colta forme proprie dell’arte popolare, assieme a un lessico e a temi provenienti dalle consuetudini della vita quotidiana. Eppure, nel momento in cui consegna al silenzio della pagina scritta gli spunti ritmici, le contrazioni e i tumulti tipici del discorso parlato, pronunciato da qualcuno che si rivolge direttamente a qualcun altro, la poesia dialettale realizza un atto insieme di violenza e di sdoppiamento. Di violenza perché, nel diventare scritta, essa compie un gesto di scelta esclusiva tra i suoi lettori possibili, selezionando quelli tanto allenati alla lettura da poter affrontare un percorso di traduzioni e di adattamenti, di adeguamenti della vista a segni talvolta incomprensibili e di addestramento dell’udito a rispettare la voce profonda del verso, senza incespicare ad ogni sillaba. E ciò è tanto più vero perché molto di rado, oggi, chi legge è un parlante naturale di quel dialetto specifico. Non deve allora sorprendere che un rilancio forte della poesia dialettale sia avvenuto proprio in quest’ultimo decennio, in coincidenza con la moda della performance orale e pubblica, dove è quasi sempre il poeta stesso a leggere i propri componimenti davanti al pubblico, talvolta accompagnato da un commento musicale.
La poesia dialettale dà luogo inoltre a un atto di sdoppiamento perché, nel momento in cui viene ordinata in un testo per la stampa, essa è in certo modo costretta a una doppia veste linguistica, a un vero e proprio bilinguismo, essendo consuetudine (e in definitiva buona norma) che al testo nella lingua di composizione sia affiancata la traduzione in italiano, proposta spesso anch’essa in versi. Ma la scrittura in dialetto provoca anche altri paradossi, perché non è raro che il suo orizzonte d’attesa «tradizionale» richieda più o meno consapevolmente qualche sentimento di grana grossa, l’approdo facile di un’aneddotica locale, una nostalgia appesa ai guizzi intermittenti della memoria. A ciò si devono unire lo scarto ideale e linguistico che si connette al recupero di una lingua secondo molte diagnosi destinata presto a morire, e una disponibilità nuova al registro umoristico più che comico, autoironico più che bonario, propria degli autori che hanno cominciato a pubblicare nel secondo dopoguerra, a partire da Giacomo Noventa, che ha plasmato appositamente per la poesia una «lengua veneziana» straniata e melodica.
Sulla pagina la parola dialettale viene posta a confronto diretto – e di norma fatta prevalere per plasticità ed efficacia rappresentativa – con la lingua d’uso che si apprende a scuola e si parla in televisione. Il linguista Tullio De Mauro osserva giustamente che i dialetti non vivono un destino uguale in tutte le città e in tutte le regioni: e si va dal massimo di artificio ricostruito del romanesco al massimo di naturalezza quotidiana del veneto o, appunto, del romagnolo. A questo proposito, allora, se si prendono le mosse proprio dal dato della doppia lingua e si osserva a grandi linee la poesia neodialettale (appartenente cioè al Novecento) dell’Emilia e della Romagna vi si riconosce il filo rosso di un’evoluzione storica che, dagli interpreti del folklore cittadino quali Enrico Stuffler (più noto come «Fulminànt», «Fiammifero») a Modena o Renzo Pezzani a Parma, porta ai grandi romagnoli appartenenti alla generazione dei nati negli anni Venti. E si tratta di autori attivi ancora oggi, secondo poetiche che muovono da un’acquisizione problematica di quel grande simbolista europeo che è stato – spesso sotto mentite spoglie – Pascoli, per comporre poi testi completamente autonomi e differenziati, tra il «qualcosa di barbarico e irsutamente inedito» di Tonino Guerra, l’attitudine al racconto metafisico di Raffaello Baldini, il lirismo carico di evocazione e di grazia funebre di Tolmino Baldassari.
Se ad esempio per Stuffler era impensabile tradurre i propri testi dialettali in italiano perché si rivolgeva a un pubblico concittadino di parlanti il dialetto modenese, per i poeti neodialettali delle generazioni successive l’impegno è divenuto senz’altro obbligato, tanto per il loro grado sempre maggiore – almeno fino al livello nazionale – di diffusione e di notorietà quanto per un approdo ad ogni libro più consapevole sulle rive scoscese della poesia «alta»: così, nei più giovani Emilio Rentocchini, sassolese, e Giovanni Nadiani, nati alcuni anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, la resa in italiano dei testi dialettali reca l’impronta di una poesia dotata di vita propria. Trova in tal modo conferma l’osservazione espressa all’inizio del secolo scorso da un grande filologo romanzo, il modenese Giulio Bertoni, a giudizio del quale «l’influsso letterario costituisce la maggiore tragedia dei dialetti. Per fortuna, questo influsso che è la stessa forza che li consuma, sveglia in essi un nuovo fermento di vita. La loro sorte è di essere assorbiti dalle lingue letterarie, ma di risorgere sempre grazie ad una palingenesi, che è la loro morte e in pari tempo la loro rinascita».
E in fondo, nel momento in cui costringe il dialetto in una prosodia e in un lessico «scritti», il poeta consapevole assume «la libertà di un bilingue che nega l’autorità assoluta di una delle due lingue e ha il coraggio di disobbedire a entrambe»: l’effetto che ne deriva, la responsabilità di trasposizione e quasi di transfert che si irradia al lettore, sono elementi di profilo decisamente alto nell’ambito della poesia contemporanea, fatte salve le differenze anche rilevanti di gusto, di memoria, di generazione, di poetica che distinguono i maggiori.
Una storia letteraria che muova da presupposti geografici non può mai essere unitaria. E le peculiarità delle diverse province emiliane non possono essere ricondotte a uno stile o a un genere dominante. Certo, la forza di attrazione di Bologna gioca un ruolo centrale, con la sua Università pluricentenaria e con il lungo magistero di Giosuè Carducci, ma anche con la tradizione delle case editrici, da Zanichelli a Cappelli, al Mulino. Esistono tuttavia anche le spinte centrifughe delle piccole capitali, quasi tutte disposte lungo la via Emilia, palcoscenici ideali per narratori o poeti di qualità, ma anche centri chiusi e talora asfissianti dove la libera circolazione delle parole «inventate» era e forse è ancora considerata esercizio da lunatici che non combineranno mai nulla di buono nella vita.
La Romagna di Serra. Il secondo dopoguerra, nelle province romagnole, è contraddistinto dalla vita appartata dei due maggiori: il narratore Dante Arfelli, un autentico non allineato, cui si deve lo splendido romanzo I superflui, uscito nel 1948 e da collocare nelle zone alte della stagione neorealistica; e il poeta Ferruccio Benzoni, nato a Cesenatico nel 1949 e deceduto nel ’97, promotore della rivista «Sul Porto» e autore tra l’altro del notevole Fedi nuziali (1991). Bisogna dunque risalire ai primi due decenni del secolo per rimeditare l’opera fondamentale del grande critico cesenate Renato Serra, lucidissimo tramite tra le figure canoniche di Carducci e di Pascoli e il nuovo.
Nato nel 1884, già nel ’13 Serra era infatti il più autorevole interlocutore romagnolo di Benedetto Croce, che lo aveva conosciuto nel 1907 e che sarebbe rimasto in contatto – epistolare e personale – con lui fino all’anno della morte (avvenuta nel corso della prima guerra mondiale al fronte, davanti al Podgora, il 20 luglio 1915). Allievo di Emilio Lovarini al liceo classico «Monti» e poi, a Bologna, di Carducci, Severino Ferrari, Gandino, Acri, Renato Serra associò alla rigorosa preparazione umanistica (che non gli impedì, diciannovenne, di collaborare con il maestro liceale nella trascrizione dal dialetto dei Canti popolari cesenati) un’attenzione precoce per i classici del pensiero sociologico, politico ed economico (da Marx a Spencer, da Darwin ad Ardigò), com’era del resto tipico dell’età del positivismo. Serra maturò quasi subito la necessità di rimanere a Cesena, da un lato perché non poteva «concepire la propria vitalità, la propria esistenza storica, se non in rapporto alla natura, al paese» in cui era radicata la sua esperienza di studio; dall’altro perché la maschera dell’umanista provinciale finiva per giustificarsi come coscienza ironica di un’epoca che vedeva minacciata la continuità dello spirito e della tradizione letteraria. Collaboratore della «Voce», lettore affettuoso dei corregionali Oriani, Beltramelli, Panzini, ma anche interprete acuto di Tolstoj, Maupassant e Kipling, Serra fu un autentico filosofo del leggere, di quel «rendersi conto» che muoveva dalla prima sensazione per arrivare subito dopo a individuare l’energia concettuale del testo preso in esame, fino a definire il processo di «imitazione spirituale» cui esso dava vita entrando in contatto con la coscienza del lettore.
Serra, dunque, alla luce dell’oggi, non può affatto essere considerato un «classicista in ritardo», capace intuitivamente di reagire all’irruzione della civiltà di massa, ma dev’essere piuttosto ripensato come un intellettuale pronto a porre in primo piano la responsabilità dell’individuo. E il suo Esame di coscienza di un letterato, uscito sulla «Voce» del 30 aprile 1915, si può leggere come l’autobiografia collettiva di una generazione, nella quale pure il Serra si riconosceva soltanto in parte. Per lui, infatti, anche il saper leggere e la perfezione umanistica dello studioso nascondevano sempre una tensione conoscitiva in buona parte irrisolta, l’ethos lacerato di un individuo che non cessa di interrogarsi al di fuori di ogni forma di illusione collettiva. Anche la sua posizione interventista all’epoca della prima guerra mondiale deve essere interpretata in questa luce.
L’ambiente bolognese. Per sua parte, Bologna – nelle fasi cruciali dei due dopoguerra – si conferma uno dei principali centri nazionali di elaborazione del nuovo in arte e in letteratura. Basti pensare a Giuseppe Raimondi, che radunava intorno a sé un folto gruppo di giovani reduci dal conflitto, riprendeva «nelle sere al caffè» le conversazioni letterarie con l’amico Riccardo Bacchelli e fondava nel 1918 il mensile «La Raccolta», ove sarebbe rimasta impressa l’eco dei fitti rapporti epistolari da lui intrattenuti con sperimentatori europei del calibro di Apollinaire, Jacob, Cendrars. Premessa bolognese della «Ronda», tale rivista chiamava in causa precetti di «dignità» e di «schiettezza» sullo sfondo di un «naturale empirismo», che non disdegnava la riflessività concisa e satirica della «favoletta» a sfondo morale.
Ma, dopo l’episodio anticonformista dell’«Italiano» di Longanesi, che uscì a Bologna tra il ’26 e il ’30, e dopo la rilevante esperienza di «Architrave», il periodico dei Guf (Gruppi universitari fascisti) cui tra il ’40 e il ’43 collaborarono Gaetano Arcangeli e Bignardi, Renzi e Testori, Roversi e Pasolini, sono le riviste prodotte negli anni Cinquanta da corpi redazionali decisamente giovani a figurare come punti di riferimento per un ambiente culturale vivace e aperto, criticamente preparato e disposto a dare battaglia anche al di fuori del contesto provinciale e regionale. E si pensa innanzi tutto all’esperienza del «Mulino», prima rivista, poi società editrice, con le sue aperture a nuove scienze come la sociologia o – grazie alla mediazione di Pier Luigi Contessi e di Ezio Raimondi – a nuove metodologie letterarie.
Un impatto non minore sul panorama piuttosto immobile della cultura italiana ha poi avuto «Officina», dalle cui colonne il bolognese Roberto Roversi e l’altro bolognese acquisito Francesco Leonetti incontravano tra il ’55 e il ’59 il cattolicesimo e il marxismo eretici rispettivamente di Angelo Romanò e di Franco Fortini, oltre a uno dei momenti più lucidi e creativi dell’attività letteraria di Pier Paolo Pasolini. La parola d’ordine era quella di un neosperimentalismo distante tanto dai dogmi ermetici quanto dalle semplificazioni brutali del neorealismo. Ma anche «Il Verri», la rivista della neoavanguardia artistica fondata nel ’56 da Luciano Anceschi, può a buon diritto chiamarsi bolognese, nonostante fosse stata avviata a Milano, per la qualità maieutica del fondatore, dalla sua cattedra universitaria di Estetica (collocata in via Zamboni lungo tutto l’arco di carriera del titolare) a favore dei critici e in genere degli scrittori appartenenti alle nuove e nuovissime generazioni. E basta pensare alle vicende dei tre fratelli Guglielmi (Giuseppe, Angelo e Guido), degli Eco e dei Celati, dei Serra e dei Mattioli, delle Lorenzini e dei Barbolini, per rendersi conto della qualità, della libera varietà e della lunga durata di un magistero come quello anceschiano.
Dal momento in cui il ’77 del «Cerchio di gesso» di Scalia e di Roversi ha riaperto definitivamente le porte alla scrittura creativa dopo la chiusura politica e ideologica del decennio precedente, quando il mito della prassi politica aveva preteso di occupare anche gli spazi di quella poetica, Bologna ha continuato ad essere un centro attivo di mediazione tra le istituzioni culturali (tra le quali è particolarmente attiva «La casa dei pensieri» del locale Istituto Gramsci) e le spinte molteplici che provengono dal «basso», di una pulsione inventiva diffusa e spesso disordinata. Così, un’opera inesausta di mediazione ha dovuto e deve prodursi tra le intelligenze locali e le persone che vi si stabiliscono da altre città emiliano-romagnole o da parti diverse del «villaggio globale». E si pensi a personaggi come gli autori di fumetti Magnus, Bonvi, Andrea Pazienza; a cantautori-scrittori come Guccini o Lolli; a giallisti come Loriano Macchiavelli, Danila Comastri, Giampiero Rigosi; a un romanziere-docente come Ermanno Cavazzoni o a un narratore d’origine ferrarese ma di gusto mitteleuropeo dello spessore di Stefano Tassinari; a un intelligente e autonomo poeta, equidistante dalle ragioni di «Officina» e da quelle del «Verri», come Gregorio Scalise; a protagonisti della scrittura postmoderna come Carlo Lucarelli e Simona Vinci; a gruppi di poeti in dialogo tra loro come gli esponenti di «Fuoricasa» o della rivista «Versodove».
Parma. Città che sembrava sede di un «teatro continuo», ove si alternavano gli sfondi nobili dell’antica capitale e i dedali «di straducole, porticati, tane e borghetti carichi di passione, di violenza e di generosità», secondo il rendiconto appassionato di Bruno Barilli, Parma ricevette un impulso considerevole alla sua vita culturale dal trasferimento di un editore intelligente e coraggioso come Ugo Guanda, che vi giunse nel ’36 da Modena. Tre anni dopo Guanda affidò la direzione della collana di poesia contemporanea «La Fenice» al poeta locale Attilio Bertolucci (nato nel 1911), già autore di Sirio (1929) e di Fuochi in novembre (1934) e frequentatore attivo dell’Ateneo bolognese, dove era divenuto amico del grande storico dell’arte Roberto Longhi e di giovani come i fratelli bolognesi Francesco e Gaetano Arcangeli e i ferraresi Giorgio Bassani e Franco Giovanelli. Oltre che di arti figurative, a Parma seguito in questo da un critico sensibile come Roberto Tassi, Bertolucci, anche grazie a Zavattini, era un intenditore di cinema e di questo già dialogava nella città natale con Pietro Bianchi, prima di trasmettere la sua passione ai figli Bernardo e Giuseppe.
Per una curiosa serie di coincidenze, tra l’altro, già negli anni Trenta Parma era anche un crocevia di numerosi altri intellettuali e poeti, da Paci a Luzi, da Macrì a Borlenghi, da Sereni a Spagnoletti, proponendosi come «baluardo avanzato dell’intelligenza italiana» e come luogo di incontro e di confronto dei due corni dell’ermetismo, quello fiorentino e quello lombardo-milanese. Poi, nel dopoguerra, dopo il trasferimento di Bertolucci a Roma, il fervido dibattito da lui instaurato con Pier Paolo Pasolini e il prosieguo di una carriera poetica che è tuttora tra le somme della poesia novecentesca, anche in virtù di due libri quali Viaggio d’inverno (1971) e La camera da letto (1984 e 1988), Parma è stata la sede di notevoli iniziative editoriali e pubblicistiche. Si passa dal «Raccoglitore», il supplemento quindicinale dedicato dalla «Gazzetta» alle cose artistiche tra il ’51 e il ’59, alla rivista «Palatina», finanziata da un mecenate attento come l’industriale Pietro Barilla tra il ’57 e il ’66. In questi contesti liberi e aperti a fenomeni letterari di respiro internazionale si faceva le ossa una generazione di giovani intellettuali e di poeti che, sotto la guida esperta di Francesco Squarcia e sotto l’egida romana di Bertolucci, avrebbe fornito prove di notevole interesse. Accanto agli autori di quella che Pasolini definì l’«officina parmigiana» (che inizialmente annoverava Gian Carlo Conti, Alberto Bevilacqua, ai suoi esordi anche narratore di qualità, almeno fino a Una città in amore del 1962 e a La califfa del 1964, Giorgio Cusatelli, Bernardo Bertolucci, Gian Carlo Artoni) vanno ricordati poeti come Pier Luigi Bacchini, autore di un notevole Visi e foglie (1993, Premio Viareggio), e narratori come Mario Colombi Guidotti, morto poco più che trentenne in un incidente d’auto.
Né può esaurirsi così il panorama della letteratura parmigiana. Un lavoro critico quasi tutto ancora da compiere attende infatti chi voglia occuparsi dell’opera dell’umorista Giovanni Guareschi. Inoltre la vena surreale e grottesca introdotta da Zavattini trova libero corso nel più promettente dei narratori parmigiani di oggi, Guido Conti, autore dei racconti Il coccodrillo sull’altare, dove l’oralità viene felicemente trasferita nel silenzio della pagina scritta.
Reggio Emilia: Silvio D’Arzo e Tondelli. Entro la cultura novecentesca di Reggio Emilia sono invece affiorate tendenze a collegare il pensiero esistenzialista a un’inquietudine religiosa. A tale proposito, occorrerebbe riflettere sull’influenza esercitata nella città da Giannino Degani, dal padre cappuccino Aldo Bergamaschi o dal parmigiano Ferdinando Tartaglia, che ha fatto conoscere «filosofi della religione» quali Newman e Marcel. Non lontano da una matrice esistenzialista, d’altra parte, è il pensiero che emerge dall’opera letteraria di Silvio D’Arzo, il reggiano che deve essere annoverato tra i grandi scrittori del Novecento.
Nato nel ’20 nel capoluogo e lì morto prematuramente nel ’52, dopo essersene allontanato soltanto per laurearsi a Bologna con una tesi sul dialetto dell’Appennino reggiano e per partecipare alla guerra, D’Arzo (ma è questo soltanto il più duraturo dei numerosi pseudonimi escogitati da Ezio Comparoni per celare la propria vera identità) era in primo luogo un grande esperto di letteratura angloamericana, con la sua passione lucidissima e inesausta per scrittori quali James, Stevenson, Conrad, Kipling o Hemingway. A tale matrice vanno ricondotti romanzi ambientati in uno straordinario Settecento di luci e di ombre, di fantasmi e di minuetti tragici quali All’insegna del Buon Corsiero e Penny Wirton e sua madre, un libro questo solo ingannevolmente «per ragazzi» (al modo preciso di Stevenson o di Twain) e contraddistinto dal ritmo narrativo e da uno spiccato senso di suspence. Che poi la volontà espressiva di D’Arzo debba essere interpretata alla luce di un forte principio di unità è mostrato anche dalla coincidenza cronologica, nel 1948, di Penny Wirton e di una prima redazione di Casa d’altri, il racconto lungo che Montale ha considerato con buona ragione il perfetto del secolo.
Gran parte della produzione di D’Arzo è stata pubblicata dopo la sua morte e anche Casa d’altri non sfugge a questo destino: ma, comunque, l’edizione di cui disponiamo consente di cogliere nel libro il senso di un realismo ad ampio spettro. E il punto di vista stoico ed esistenziale del narratore alimenta il vissuto dei due protagonisti con la domanda insoddisfatta sul senso stesso dell’essere. Ambientato sull’Appennino reggiano, il racconto narra la vicenda della vecchia montanara Zelinda e del suo parroco, l’io narrante, in merito all’interrogativo di fondo – proposto dall’una all’altro – se sia lecito o meno il suicidio, almeno a determinate condizioni di disperazione e di solitudine («una vita da capra e nient’altro»). Lo scenario montano è crudamente oggettivo, mentre il ritmo della scrittura si anima al pulsare profondo di una lingua neanche troppo occultamente versificata. E il dialogo tra la vecchia e il parroco, intessuto di stupefacenti silenzi, percorre strade che aggirano il problema cattolico del peccato per attingere alle più alte questioni umane del rapporto tra l’autenticità spirituale e la sua possibilità di venir «detta». Così, il gusto spietato dell’autoanalisi porta necessariamente a riconoscere l’elemento tragico che accompagna ogni ruolo prefissato nella società.
Una religiosità molto intima e quasi dissimulata è stata propria anche del correggese Pier Vittorio Tondelli che, laureatosi anche lui a Bologna, figura oggi come il protagonista vero di quella rinascita della narrativa italiana che negli anni Ottanta ha posto al centro dell’attenzione editoriale e dei media autori e tematiche della generazione dei trentenni. Tondelli, nato nel ’55, ha saputo imprimere nelle quattro opere narrative della sua carriera purtroppo breve (il capolavoro d’esordio Altri libertini, del 1980 e quello finale Camere separate, del 1989, inframmezzati da Pao pao del 1982 e Rimini del 1985) il sigillo di un interesse ad ampio raggio per situazioni, lingue, atteggiamenti della contemporaneità più ravvicinata, senza mai indulgere allo stereotipo, ma dando piuttosto voce per la prima volta nella nostra letteratura alla galleria di sradicati, esuli, «sfatti» che popolano le nostre comunità cittadine, grazie alla qualità davvero rara di una curiosità umana capace di radicarsi in un punto di vista «basso». Nella pagina di Tondelli, infatti, la forma verbale – pure molto calibrata e artigianalmente ineccepibile – viene posta sempre al servizio di una finalità insieme conoscitiva ed emotiva. L’io psicologico e individuale, di cui è registrata la crisi, è ridotto a strumento di testimonianza, a centro di un’oralità collettiva e gergale, permeata dagli usi linguistici di massa.
Senso dell’erranza e dialogo ravvicinato con la morte, esperienza di studioso-traduttore di letteratura angloamericana (appassionato di Beckett oltre che splendido traduttore di Gente di Dublino di Joyce) e destino nomade quale professore a Boston sono infine le caratteristiche del più interessante tra gli scrittori reggiani di oggi, Daniele Benati, che ha esordito in modo promettente con Silenzio in Emilia, uscito nel ’97.
Modena. Il destino che sembra accomunare gli intellettuali, i giornalisti, i professori, gli editori e gli scrittori modenesi sembra quello della diaspora, dell’esilio verso Milano, Bologna, Firenze o Roma, quando non anche verso Genova (per citare la prima sede non modenese della casa editrice di Angelo Fortunato Formiggini, l’inventore della collana dei «Classici del Ridere», poi suicida nel ’38 con un volo dalla Ghirlandina in seguito alla promulgazione delle leggi razziali da parte del regime mussoliniano) o verso Parma, come nel caso di Ugo Guandalini alias Ugo Guanda. Il dato della partenza dalla Modena natale o dai suoi immediati dintorni contraddistingue infatti le vite del carpigiano Arturo Loria come di Antonio Delfini, di Arrigo Levi come di Guglielmo Zucconi, di Roberto Barbolini come del finalese Giuseppe Pederiali, del francesista Vittorio Lugli come di Francesco Guccini. Eppure, grazie alla presenza di un acuto rappresentante del pensiero spiritualista e mistico, Pietro Zanfrognini, già collaboratore della «Voce» prezzoliniana, poi autore nel ’33 per Guanda di un volume intitolato Cristianesimo e psicanalisi, e a quella di uno scrittore come Guido Cavani, autore di quel piccolo gioiello – riconosciuto come tale da Pasolini – che è il romanzo Zebio Cotal (1958, poi 1961), l’ambiente culturale modenese non era silenzioso né vuoto, se poté provvedere alla formazione letteraria di uno degli altri grandi ancora misconosciuti del Novecento italiano, Antonio Delfini, nato nel 1907. Mentre a Modena hanno continuato ad ambientare romanzi tutti riusciti il Roberto Barbolini del Punteggio di Vienna (1995) e di Piccola città bastardo posto (1998) e il Francesco Guccini di Vacca d’un cane (1993).
Dotato di una grazia istintiva, sradicato solo in superficie, in realtà frequentatore delle «Giubbe Rosse» fiorentine negli anni Trenta e della Roma di Pannunzio, Vicari, Moravia e Pasolini tra il dopoguerra e gli anni Cinquanta, Delfini è autore di almeno tre capolavori che occupano l’ultimo decennio della sua bizzarra esistenza da «giovin signore» esagerato e distratto, con la quale depistò fino all’ultimo, assieme a concittadini spesso esterrefatti, anche i critici più superficiali o i molti ideologi fintamente militanti delle nostre lettere. Nessun lettore vero può infatti negare l’altezza straordinaria di un testo come l’Introduzione vergata per la seconda edizione (1956) dei dieci racconti del Ricordo della Basca, un libro uscito in origine a Firenze nel ’38; delle Poesie della fine del mondo, edite da Feltrinelli nel ’61 e contraddistinte da una vena crudamente apocalittica e sarcastica davvero unica; del volumetto di critica antropologica prima che meramente letteraria di Modena 1831 città della Chartreuse (1962), la cui ambizione pseudo-filologica del lettore di Stendhal rimanda alla qualità segreta, tutta di secondo grado, del «sognatore di sogni».
In effetti, se si legge l’Introduzione del 1956 ai racconti della Basca ci si rende subito conto che l’errore, in Delfini, è sempre intenzionale, l’immaginazione in fuga, il tempo circolare. Una figura in lui dominante è l’iperbole; la parola non è mai portatrice di valori o di verità. L’«io» di Delfini manca di una sia pur minima possibilità di giusta distanza dai suoi interlocutori, è privo di veri rapporti e l’unico suo fondamento è la menzogna. In definitiva, dunque, l’Introduzione è un romanzo di formazione mancata, sperimentata da un inetto che tuttavia non è un uomo buono ed è sceso agli inferi a causa di un radicale fraintendimento e di una perdita: di certo, poi, nella percezione che egli ne dichiara (una volta di più mentendo) il suo testo non è un capolavoro. E la scrittura è la forma che il tempo presente impone all’invenzione, impedendole qualunque intento ideale. Parossismo e paradosso vi convivono. Nella modernità vertiginosa di Delfini la conoscenza è possibile solo attraverso uno sguardo riflesso, che in quanto tale non può essere portatore di certezze.
Ferrara. Due coincidenze cronologiche danno vita agli elementi distintivi della vicenda culturale novecentesca a Ferrara. All’inizio del 1917 vi si incontrano infatti, per una comune fragilità psicologica provocata dall’impegno bellico, le due anime del nascente movimento metafisico, Giorgio De Chirico (che, con il fratello Andrea alias Alberto Savinio, si trovava nella città estense già dall’estate del ’15) e Carlo Carrà. E la città viene subito percepita da quegli sguardi febbrilmente inventivi come il referente ideale dell’«arte nuova», per il suo spazio chiuso dalla cerchia delle mura e per lo stato di provincia appartata, ma insieme percorsa dalla «più accesa e devastante fisicità», nella mescolanza di elementi antichi e moderni della sua scenografia urbana. Basta pensare, in proposito, al rilievo di tali elementi nel libro d’esordio di Savinio, Hermaphrodito, del ’18, uno dei testi cardine e in certo modo suggello della stagione della nostra prima avanguardia, con il suo serrato plurilinguismo e con il suo umorismo di notevole forza straniante.
Decisamente d’avanguardia, d’altra parte, era il primo dei due scrittori che i pittori metafisici ebbero modo di incontrare a Ferrara, quel Corrado Govoni che – alfiere del gusto crepuscolare, poi esponente di rilievo del futurismo letterario – aveva già al suo attivo opere come Armonia in grigio et in silenzio e Inaugurazione della primavera, oltre alle parole in libertà e alle poesie visive di Rarefazioni (1915), quasi un unicum, nella tradizione italiana, per l’alto livello qualitativo raggiunto. L’altro era invece un giovane, nato nel ’96 da una famiglia della locale aristocrazia cattolica, dotato di un’intelligenza così multiforme e bizzarra da fargli assumere di volta in volta atteggiamenti di dandy, di clown, di Budda stoico: uno dei grandi pittori del Novecento europeo, Filippo De Pisis, come scrittore specializzato – sulla scia di un modello caro allo stesso Govoni – nel genere dei poèmes en prose, con testi a sfondo autobiografico come Mercoledì 14 novembre 1917 o Il sig. Luigi B., autentico antefatto ferrarese del capolavoro Ver-Vert.
L’altra coincidenza felice che dà un nuovo impulso alla cultura ferrarese è l’incontrarsi sulle colonne del «Corriere Padano» (il giornale di Italo Balbo, la cui terza pagina fu affidata tra il ’29 e il ’43 a un letterato di vaglia come Giuseppe Ravegnani) di tre esponenti dell’ultimissima generazione di intellettuali ferraresi, quella nata più o meno in coincidenza con l’incontro in città degli artisti metafisici: Michelangelo Antonioni, Lanfranco Caretti e Giorgio Bassani. E tutti e tre figurarono da subito in quella che sarebbe stata la loro veste maggiore, il primo come esperto di cinema, il secondo come critico letterario, il terzo come scrittore: questo prima che si allontanassero da Ferrara, per svolgere altrove un’attività densa di opere solidissime.
Bassani, in particolare, mirava fin dai racconti apparsi sul giornale ferrarese, mentre frequentava l’Università a Bologna, tra le lezioni di Longhi – che apprezzò vivamente un suo testo intitolato I mendicanti – e l’amicizia di Attilio Bertolucci, a cercare un nuovo rapporto tra storia e memoria, intrecciato tra i due temi dominanti del romanzo di formazione e della persecuzione del «diverso» (ebreo o omosessuale che fosse), su uno sfondo generalmente borghese. A tale scopo era essenziale un processo di progressiva obiettivazione dell’io narrante, raggiunta appieno nel capolavoro Gli occhiali d’oro (1958), incastonato tra le Cinque storie ferraresi (1956) e i tre romanzi Il giardino dei Finzi-Contini (1962), Dietro la porta (1964) e L’airone (1968). Le vicende dell’io narrante, allora, si articolano nei tempi e nei modi di un’autobiografia ideale, rigorosamente ambientata nello spazio circoscritto e topograficamente attendibilissimo di Ferrara e incentrata sul dissidio tra interiorità sensibile e ottusa durezza del mondo. Tale dissidio è realizzato dallo scrittore mediante una serie di variazioni intonative acutamente modulate.
Per Bassani la scrittura non è mai puro medium di un’ispirazione astorica e definitiva, ma diviene piuttosto il luogo di fondazione di una responsabilità. E a ciò rimandano anche le acquisizioni più solide e proprie del suo timbro narrativo: la misura del racconto lungo e l’effetto subito riconoscibile di un parlato che ha a proprio fondamento uno strumento rigoroso e flessibile (ma tutt’altro che diffuso nella nostra tradizione) quale il discorso indiretto libero. Per Bassani continua insomma a valere la formula del difficile equilibrio tra una spinta all’elegia morale, l’affettuosità struggente e spontanea della memoria involontaria e la consapevolezza di una necessaria conversione alla morte.