La formazione del gusto
Sapore e gusto
Il gusto, come ogni aspetto della cultura umana, è un prodotto della storia e si modifica
nel tempo, così come è diverso nello spazio. Scelte, esclusioni, preferenze (non solo
in campo gastronomico) caratterizzano gli individui, i popoli, le regioni del mondo;
inoltre, esse sono cambiate nel corso dei secoli. Come facciamo a saperlo? Come possiamo
presumere di ricostruire il gusto alimentare di uomini scomparsi, di epoche lontane
dalla nostra?
Il problema si pone su due piani diversi. Uno è quello del gusto inteso come sapore, come sensazione individuale della lingua e del palato: esperienza per definizione
soggettiva, sfuggente, incomunicabile. Da questo punto di vista, l’esperienza storica
del cibo è irrimediabilmente perduta. Ma il gusto è anche sapere, è valutazione di ciò che è buono o cattivo, piace o dispiace. Una valutazione che
viene dalla mente prima che dalla lingua – la mente, non la lingua, è l’organo del
piacere gastronomico – perché bisogna pure che qualcuno ci abbia insegnato a riconoscere
e classificare in quel modo i sapori: buono, cattivo; piacevole, spiacevole. Da questo
punto di vista il gusto non è affatto una realtà soggettiva e incomunicabile, bensì
collettiva e condivisa. È un’esperienza di cultura, è frutto di una tradizione e di
un’estetica (la cucina come arte del mangiare) che la società in cui viviamo ci trasmette fin dalla nascita. Questa dimensione, che non coincide con la prima ma in larga misura la condiziona, è ben
possibile indagarla anche storicamente, attraverso l’esame dei testi – non solo i
ricettari: il gusto fa parte di noi ed emerge in ogni circostanza – in cui gli uomini
del passato hanno lasciato traccia delle loro esperienze, dei loro progetti, dei loro
desideri. Ma se parliamo dei modelli del gusto, di come si formano e si modificano
nel tempo, è necessario porsi un’altra domanda preliminare: il gusto di chi? Perché è ben chiaro che il mondo si divide almeno in due, e che affermiamo l’ovvietà
più lapalissiana osservando che i ricchi sono ricchi e i poveri poveri. Il fatto è
che l’abbondanza e la fame difficilmente portano alle stesse scelte, e che se tutti
hanno diritto a trasformare in piacere la necessità del sostentamento quotidiano,
le modalità con cui ciò si verifica sono fra loro assai diverse.
L’antropologo Marvin Harris ritiene che le scelte alimentari siano sempre determinate
da un calcolo (più o meno consapevole) dei vantaggi e degli svantaggi conseguenti:
per cui, alla fine, i vari sistemi di alimentazione e di cucina – inclusi quelli che
fanno posto all’antropofagia – sarebbero i più pratici ed economici storicamente possibili
in determinate condizioni. Da questo calcolo tra costi e benefici dipenderebbero le
abitudini alimentari, che a loro volta darebbero origine al gusto ossia alla valutazione
di certi cibi come buoni, di altri come cattivi1. Ma tutto questo funziona (quando funziona) solo se parliamo dei poveri e della loro
fame. È chiaro che le loro abitudini sono determinate dalla facilità di reperimento
del prodotto, dalla sua idoneità a essere conservato ed elaborato, dalla sua capacità
di riempire la pancia. Ecco dunque il «gusto» popolare per i farinacei: cereali, legumi,
castagne. Ecco il «gusto» del sale – su cui torneremo – che non solo dà sapore, ma,
innanzitutto, conserva.
Ma, in primo luogo, non è detto che le abitudini corrispondano al gusto. Come osserva Flandrin, un conto è mangiare un cibo, un conto apprezzarlo: il fattore
necessità in tanti casi può rendere ragione di una mancata coincidenza fra le due
cose2. I contadini che per secoli hanno consumato pane scuro di segale, minestre di spelta,
focacce d’orzo e polente di miglio hanno certo sviluppato una congruità fisiologica
a quel genere di vivande (a un certo punto, gli stessi medici lo hanno teorizzato,
confortando sul piano scientifico l’inevitabilità del privilegio sociale)3. Ciò non toglie che abbiano sempre desiderato il pane bianco di frumento, per lungo
tempo riservato ai signori e ai cittadini – i quali, a un certo punto, per una sorta
di ironia della storia, hanno creduto di riconoscere in quei cibi poveri del passato
un valore gastronomico inestimabile e perduto, promuovendoli, nell’immagine e nel
valore di mercato, a oggetti di desiderio, simboli di una «ruralità» felice e incorrotta
che i contadini non hanno mai conosciuto. Ma, appunto, questi oggetti sono diventati
desiderabili nel momento e nella misura in cui è sembrato che stessero scomparendo,
facendosi rari.
La rarità, non l’abbondanza, è all’origine del meccanismo di formazione del gusto,
se invertiamo l’ottica sociale di riferimento puntando sui ricchi anziché sui poveri.
Oggetto di desiderio non è più il cibo abbondante e facile da trovare, ma quello raro,
prezioso; non quello che riempie e fa passare la fame, ma quello che stuzzica, invita
a mangiare di più. Di qui l’affannosa ricerca di spezie nelle cucine signorili del
Medioevo e del Rinascimento, e il loro abbandono quando cominciarono ad abbondare
sui mercati4. Di qui l’invito di certi edonisti (subito condannato dai moralisti) a consumare
insalate a metà del pasto, ritenendo che potessero riaccendere l’appetito scemato5. «Si convengono tali cibi quando non si trova più fame», scrive in proposito il botanico
e gastronomo Costanzo Felici, nel XVI secolo6. L’antieconomicità sembrerebbe dunque un importante fattore di formazione del gusto nelle
classi alte, per il semplice motivo che – scriveva Isidoro di Siviglia nel VII secolo,
riferendosi al fagiolo – «tutto ciò che abbonda è vile»7.
Tuttavia, vi è anche una forte circolarità di gusti – riguardo sia ai prodotti consumati,
sia ai condimenti per insaporirli – tra cucina di élite e cucina povera, se non altro
perché quest’ultima tende, nei limiti del possibile, a imitare la prima, che a sua
volta non esita a «recuperare», all’occorrenza, cibi e sapori «poveri» (come insegna
il successo odierno dei cereali inferiori, fenomeno, peraltro, non privo di precedenti
nella storia della cucina). Dunque non sarà inutile soffermarsi con attenzione sui
gusti delle élite, che la documentazione ci consente di conoscere meglio.
La cultura dell’artificio
Appare subito chiaro che la nostra idea di cucina, il sistema di sapori che a noi
sembra così «naturalmente» preferibile è assai diverso da quello che per molto tempo
– e ancora un paio di secoli fa – gli uomini giudicavano buono e ricercavano nei cibi.
Nel dettaglio le differenze sono molte, ma si possono ricondurre ad alcune nozioni
di fondo che oggi non condividiamo più. La cucina contemporanea (italiana ed europea)
ha un carattere prevalentemente analitico, tende cioè a distinguere i sapori – dolce, salato, amaro, agro, piccante… – riservando a ciascuno di essi
un proprio spazio autonomo, sia nelle singole vivande, sia nell’ordine del pasto.
A tale pratica si collega l’idea che la cucina debba rispettare, nei limiti del possibile,
il sapore naturale di ciascun alimento: sapore di volta in volta diverso e particolare, da tenere, appunto,
distinto dagli altri. Ora, queste semplici regole non costituiscono un archetipo universale
di cucina, sempre esistito e sempre uguale a se stesso: sono, invece, il frutto di
una piccola rivoluzione avvenuta in Francia fra Sei e Settecento.
«La zuppa di cavolo deve sapere di cavolo, il porro di porro, la rapa di rapa», raccomandava
Nicolas de Bonnefons nella sua «lettera ai maestri di casa» (metà XVII secolo)8. Affermazione dall’apparenza innocente, che in realtà rovesciava modi di pensare
e di mangiare ben diversi e consolidati da secoli. La cucina rinascimentale, come
quella medievale e, retrodatando ancora, quella romana antica avevano infatti elaborato
un modello di cucina basato principalmente sull’idea dell’artificio e della mescolanza dei sapori. Sia la preparazione delle singole vivande, sia la loro dislocazione all’interno
del pasto rispondevano a una logica sintetica più che analitica: tenere insieme, più
che separare. Ciò rispondeva anche ai dettami della scienza dietetica del tempo, che
riteneva «equilibrato» il cibo che contenesse in sé tutte le qualità nutrizionali,
manifestate – a loro volta – dai diversi sapori: la vivanda perfetta era ritenuta
quella in cui tutti i sapori fossero simultaneamente presenti. Pertanto il cuoco era tenuto a intervenire
sui prodotti «naturali», ad alterarne i caratteri in modo talora radicale. La cucina
era percepita come un’arte combinatoria volta a modificare, a trasformare il gusto «naturale» dei cibi in qualcosa di diverso,
di «artificiale». A ciò miravano la mescolanza dei sapori e, per estensione, l’uso
sistematico di coloranti (che in qualche modo assimilava l’arte del cuoco a quella
del pittore) e la ricerca di forme e consistenze particolari, attraverso un sapiente
impiego dei modi di cottura e abili tecniche manipolatorie. Per meglio comprendere
il significato di queste scelte nella storia della cucina e del gusto è opportuno
fare un passo indietro e ricominciare da capo.
L’eredità romana
La cucina romana di età imperiale – documentata da molti testi letterari e poi, tardivamente
ma in maniera più organica, dal ricettario attribuito ad Apicio, composto attorno
all’anno 400 – sembra, a prima vista, molto distante da noi. La distanza tuttavia
si attenua, se consideriamo che da essa derivano alcuni caratteri di fondo della cucina
medievale e rinascimentale, durati fino al XVII-XVIII secolo. Il gusto agrodolce,
per esempio, e più in generale la tendenza alla mescolanza dei sapori non sembrano
conoscere interruzioni, trasmettendosi in maniera lineare pur con importanti adattamenti,
varianti, modifiche. Lo stesso vale per l’uso delle spezie, dei sapori forti e piccanti
mescolati a quelli dolci, salati e agri, anche questo un tratto distintivo della cucina
medievale e rinascimentale, di cui non è difficile rintracciare nell’età romana un
modello di partenza, arricchito durante il percorso da esperienze e innesti nuovi.
Ciò equivale a dire che la cultura germanica, se ebbe un ruolo di primo piano nel
ridefinire le predilezioni medievali riguardo alle risorse e ai prodotti alimentari
(accentuando, per esempio, come abbiamo visto, l’attenzione per la selvaggina e le
carni in genere), non introdusse, invece, elementi di sostanziale novità sul piano
del gusto: qui come altrove, fu la tradizione romana a vincere, a conquistare i conquistatori.
In età romana, agro significava soprattutto aceto, dolce significava miele. Molte ricette apiciane prevedono l’impiego simultaneo dei due
prodotti, vuoi come base di cottura, vuoi come condimenti aggiuntivi. Allo stesso
modo si mescolano il dolce e il salato, dosando nelle singole preparazioni la presenza
del miele e quella del garum – la celebre salsa a base di interiora di pesce, fatte macerare in olio assieme a
varie erbe, che Apicio suggerisce su gran parte delle ricette con la specifica funzione
di salare la vivanda: le «erbe rustiche» crude sono condite con olio, aceto e garum9, e in generale resta inteso che «se un piatto è insipido, aggiungi del garum; se è salato, un po’ di miele»10.
Tra gli aromi forti, la cucina romana prediligeva il laser, una resina dal sapore agliaceo e dall’afrore fetido che si ricavava dalla radice
del silfio, e poi (scomparsa questa pianta, per motivi che ignoriamo, già nel I secolo
dopo Cristo) dall’Asa foetida, ancora oggi usata in Oriente11. Inoltre, si usavano il nardo, il sommacco, il costo, la bacca del mirto, prodotti
più o meno esotici che servivano a insaporire le vivande12. Intanto si diffondeva il pepe, vera novità gastronomica dello stesso I secolo: Plinio,
nella Storia naturale, si stupisce ancora del favore che sta cominciando a incontrare. Ma il successo è
travolgente: quasi tutte le ricette di Apicio ne prevedono l’impiego, perfino nei
dolci (e nei vini). Altre spezie sono conosciute ma utilizzate pressoché esclusivamente
per uso medicinale e nella preparazione dei profumi.
Il panorama si arricchisce già negli Excerpta posti in appendice al ricettario di Apicio, presentati come «estratti» del medesimo
testo ma scritti, in realtà, un secolo più tardi (tra il V e il VI) a opera di un
certo Vinidarius, probabilmente un ostrogoto vissuto nell’Italia del Nord. Qui, nuove spezie per uso
alimentare si affiancano al pepe: in particolare lo zenzero e lo zafferano – quest’ultimo,
nella specifica funzione colorante che sarà poi tipica della cucina medievale: propter colore13. Nelle liste di prodotti aggiunte al ricettario di Apicio, in uno dei codici medievali
che ne hanno conservato il testo, si menziona anche il chiodo di garofano.
Tracce importanti del modello di cucina romano sono visibili nell’epistola De observatione ciborum, scritta agli inizi del VI secolo dal medico greco Antimo, venuto in Italia alla
corte ravennate di Teoderico re dei goti: il primo trattato di dietetica e gastronomia
dell’Europa medievale14. La presenza residuale di piante aromatiche come il nardo15 e il sommacco16, la consuetudine di cuocere in miele e aceto17, la reiterazione di salse tipicamente romane come l’ossimele (ancora a base di miele
e aceto) o l’enogaro (a base di vino e garum)18, l’uso del miele come additivo del vino e dell’acqua19 sono tutti segni di una cultura niente affatto sepolta, bensì viva, vivissima nelle
pratiche quotidiane. Essa durerà ancora per molti secoli: nel secolo VIII, il garum veniva commerciato lungo il Po dai mercanti di Comacchio, e i sovrani longobardi
ne richiedevano una quota al porto Parmisiano; ancora nel secolo IX, gli inventari del monastero di Bobbio (nell’Appennino piacentino)
registrano l’acquisto di due congi di garum sul mercato di Genova, per il fabbisogno alimentare dei monaci20. Probabilmente si trattava di prodotti importati: Comacchio e Genova fanno pensare
ai porti, al mare, ai commerci; fabbriche di garum erano certamente dislocate nell’area adriatica, in Istria – come sappiamo da una
lettera di Cassiodoro del VI secolo – e a Bisanzio. Anche attraverso questa via –
i contatti commerciali con Bisanzio, diretta erede di Roma, del suo impero e della
sua cultura – si manteneva in vita un legame non secondario con la tradizione gastronomica
romana.
Gli arabi: innovazione e continuità
Soprattutto l’incontro con la cultura gastronomica araba accelerò, nell’alto Medioevo,
il progressivo delinearsi di un gusto nuovo, seppure antico. Nuovo e antico, perché
reinterpretava certi caratteri di fondo della cucina romana (la mescolanza dei sapori,
il gusto per le spezie) utilizzando nuovi prodotti e proponendoli in versione più
delicata, più garbata. L’apporto arabo alla civiltà medievale fu dunque, in questo
campo, del tutto analogo a quello che si verificò in altri settori della cultura e
della scienza: riprendere, rielaborare e trasmettere gli elementi essenziali delle
civiltà antiche, greca, romana, e ancora oltre, mesopotamica, cioè persiana. Grandi
assimilatori ed esportatori di queste culture, gli arabi ne garantirono la conservazione
e la trasmissione al Medioevo europeo: fu anche per loro tramite, oltre che per una
linea «interna» di continuità, che alcuni elementi della cucina antica – rinnovati
e rivitalizzati – sopravvissero nei secoli.
Con gli arabi, nell’alto Medioevo, giungono in Occidente due prodotti chiave di questa
conservazione-trasformazione del gusto antico. Sono gli agrumi e lo zucchero di canna,
che a poco a poco sostituiranno – dopo averli affiancati – l’aceto e il miele nelle
pratiche di cucina, rendendo più morbido il contrasto, più «leggero» il sapore. Soprattutto
là dove si afferma la dominazione diretta degli arabi – in Sicilia, in Andalusia –
tali cambiamenti sono rapidi e precoci; ma i prodotti viaggiano, e l’Italia, già nell’alto
Medioevo, è ricca di città marinare e di mercanti. Inoltre, gli arabi rappresentano
per alcuni secoli – oltre che un motivo di rottura dell’unità politica del Mediterraneo
– un tramite essenziale di collegamento commerciale tra l’Europa e l’Oriente, ossia
i mercati delle spezie; solo più tardi, dall’XI secolo in poi, in concomitanza con
le spedizioni crociate, i mercanti italiani (di Venezia e di Genova, soprattutto)
apriranno varchi diretti e scali di approdo in quella direzione. La valutazione dell’apporto
arabo per quanto riguarda l’uso delle spezie, divenuto caratteristico delle cucine
europee del Medioevo, rimane in realtà controverso: alcuni studiosi, come Maxime Rodinson21, lo hanno ritenuto decisivo; altri, come Bernard Rosenberger22, tendono a ridimensionarlo. Rimane il fatto che proprio durante l’alto Medioevo,
tra VII e VIII secolo, il gusto delle spezie cominciò ad assumere una fisionomia più
marcata e diversificata rispetto alla tradizione romana.
Spezie
Agli inizi del Duecento, la requisitoria di papa Innocenzo III contro le vanità del
mondo (De contemptu mundi) non risparmia il peccato di gola e le nuove ghiottonerie che l’insana passione degli
uomini è riuscita a inventare. Non bastano più le buone cose che ci vengono dagli
alberi, dalla terra, dal mare, dal cielo: «si vogliono spezie, si acquistano profumi»
e per ogni piatto ci si affida agli artifici dei cuochi.
Abbiamo già visto che non si trattava di una novità in senso stretto: l’interesse
per le spezie, prefigurato già dalla cucina tardoromana, non aveva cessato di precisarsi
durante l’alto Medioevo. Agli inizi del XII secolo, per celebrare il fasto con cui
Bonifacio di Canossa aveva celebrato il proprio matrimonio con Beatrice di Lorena,
Donizone scrive che durante il banchetto nuziale, durato tre mesi, «le spezie non
erano tritate al mortaio, ma macinate come spelta ai mulini»23. Sicché, quando le spedizioni e gli insediamenti dei crociati portano gli occidentali
a un più ravvicinato contatto con l’Oriente, il commercio delle spezie esplode, per
rispondere a una domanda già fortemente orientata verso quei profumi e quei sapori.
L’Italia gioca un ruolo fondamentale in tale vicenda, perché sono soprattutto i suoi
mercanti a rifornire di spezie l’Occidente, con inevitabili «ricadute» sulla cucina
locale. L’ampia disponibilità di pepe, zenzero e noce moscata (peiver, zenzavro e moscao) è motivo di orgoglio per l’anonimo poeta genovese che nel XIII secolo tesse l’elogio
della sua città, in un fittizio colloquio con un lombardo24. Col tempo, saranno soprattutto i veneziani a imporsi nel commercio di queste preziose
derrate.
Il manuale di mercatura di Francesco Balducci Pegolotti, attivo a Firenze tra il 1315
e il 1340, fornisce una lista dei prodotti trattati dagli importatori del tempo: la
gamma delle spezie, notevolmente cresciuta rispetto ai secoli precedenti, comprende
vari tipi di pepe (bianco, nero, lungo), sei differenti tipi di zenzero, cannella
e cinnamomo (fiori di cannella), chiodi, fusti e foglie di garofano, noce moscata
e macis (l’involucro fibroso della noce, seccato), cardamomo, galiga o galanga (un
rizoma aromatico di origine cinese, di sapore simile allo zenzero ma con meno sentore
di limone), zafferano. E ancora: anice, curcuma, cassia, carvi, «grani del paradiso»,
zettoara, cubebe, cumino, aloe, nardo. Infine, zucchero in varie forme e diversamente
trattato: in pani, in polvere, candito, raffinato, rosato, violato25.
I libri di cucina del XIV secolo rappresentano la prima codificazione scritta dell’uso
di questi prodotti. Per spiegarne il successo26 è necessario chiamare in causa la cultura dietetica del tempo, che attribuiva a questi
prodotti un ruolo decisamente positivo nel processo di digestione. La scienza medievale
riteneva, infatti, che il «calore» delle spezie, aiutando il lavoro di «cottura» dei
cibi nello stomaco, ne favorisse una più rapida ed efficace assimilazione: per questo
si spargevano in abbondanza sulle vivande e si distribuivano (confettate) al termine
del pasto, assieme a vini anch’essi speziati. Vi era inoltre una motivazione di carattere
sociale: a causa del loro costo proibitivo, le spezie rappresentavano un elemento
di grande prestigio per le classi alte della società, erano un vero «status symbol»
della gastronomia ricca. Infine, le spezie erano circonfuse del magico alone dell’Oriente,
da cui provenivano: addirittura si suggeriva che crescessero sugli alberi del Paradiso
terrestre (che alcuni collocavano all’estremo Est del mondo) ed ecco che il fascino
dell’esotico si colorava di immagini anche più forti, che richiamavano la felicità
dell’Eden e l’eternità perduta. Tutti buoni motivi per spiegare la sovrabbondanza
di spezie nella cucina delle classi alte. L’immaginario – allora come oggi – giocava
un ruolo di primo piano nell’orientare i consumi alimentari; e tanto meglio se la
scienza ne dava anche una ragione. In ogni caso, è falsa l’opinione – che gli studiosi
hanno da tempo dimostrato inconsistente ma che continua a circolare con la vitalità
inossidabile dei luoghi comuni – che l’uso delle spezie servisse a nascondere la qualità
scadente dei cibi, a celare dietro l’amalgama di sapori forti e contrastati la «vera»
natura di carni e pesci mal conservati, putrescenti, corrotti. Falso storico in piena
regola, generato dal razionalismo moderno e dalla presunzione che solo a noi «moderni»
sia consentito scegliere i sapori che ci aggradano: di quali «gusti» potrebbero essere
stati capaci quegli zoticoni del Medioevo, che non usavano neppure la forchetta? Invece
no: la cucina delle spezie, dei sapori avvolgenti e contrastati è una scelta di gusto,
che ha molto a che vedere con la scienza, con l’immaginario, con la moda dell’epoca. La «necessità» in questo caso non c’entra: basta osservare che l’area
sociale della povertà – quella che, eventualmente, potrebbe essere stata interessata
al problema dei cibi corrotti – non coincide affatto con l’area del consumo di spezie,
riservato a élite che potevano permettersi di comprarle sul mercato a prezzi proibitivi
per i più. Questa ristrettissima fascia di consumatori sicuramente non aveva problemi
di cibi mal conservati o avariati: l’uso medievale era di cucinare (chi poteva) carni
freschissime, selvaggina di giornata o carni espressamente macellate al momento dell’acquisto.
Uso rimasto a lungo nel tempo, come abbiamo visto27. Del resto, i ricettari di cucina ci insegnano che le spezie vanno aggiunte all’ultimo
momento, «il più tardi possibile», come leggiamo in un testo del XIV secolo. Per conservare
i cibi altri erano i modi, più efficaci e più largamente diffusi (in primo luogo metterli
sotto sale). Infine, è evidente che esiste un uso differenziato delle spezie, in funzione
del gusto che si vuole ottenere.
Fra i libri di cucina italiani del Trecento, quello veneziano – sicuramente non per
caso, se pensiamo al ruolo primario di Venezia nel commercio delle spezie – è il più
preciso nel distinguere gli impieghi gastronomici di questi prodotti. Esso individua
tre ricette-base, tre diverse miscele di polveri, una più delicata per le vivande
fini (per esempio, i pesci), una più potente per le vivande forti (carni arrostite
ecc.), una di medio sapore adatta un po’ su tutto. La miscela «universale» (specie fine a tute cosse) comprende 1 oncia di pepe, 1 di cinnamomo, 1 di zenzero, mezzo quarto di chiodi
di garofano, un quarto di zafferano. La miscela «dolce» (specie dolce per assay cosse bone e fine) si compone solo di garofano (un quarto di oncia), zenzero (1 oncia), cinnamomo (1
oncia) e folio (alloro?)28. La miscela «forte» (specie negre e forte per assay savore) si compone di garofano (un mezzo quarto), pepe (2 once), pepe lungo, noci moscate
(due)29.
In altri ricettari le destinazioni d’uso sono meno esplicite ma non per questo meno
evidenti. È anche chiaro che ad alcune spezie si riconosce uno «statuto» particolare:
il pepe, forse in virtù della sua veneranda tradizione (era, come abbiamo visto, l’unica
spezia in uso ormai da un millennio) è spesso citato a sé stante, separatamente dagli
altri aromi. Lo stesso accade per lo zafferano ma per un diverso motivo: il suo impiego
è funzionale non tanto al sapore, quanto al colore delle vivande, che spesso e volentieri si desiderano gialle. Colora cum safrano, suggerisce il Liber de coquina, «e se vuoi aggiungi altre spezie»30. Nello stesso Liber, la sistematica distinzione tra zafferano e altre spezie potrebbe far pensare che
si tratti di un prodotto locale, giacché sappiamo che la sua coltivazione, attestata
in Sicilia già in epoca romana, fu rilanciata a iniziare dal secolo XI e si estese
poi ad altre regioni, come la Toscana e, testimone Bonvesin da la Riva, la Lombardia31. È anche possibile che i due termini crocum e safranum (che il testo impiega oltre cinquanta volte!) siano impiegati a designare due cose
diverse: il «croco nostrale» di cui parlano anche i medici salernitani, e lo zafferano
orientale32. La speciale considerazione dello zafferano durerà a lungo: Maestro Martino, nel
XV secolo, lo impiega in moltissime ricette per colorare di giallo le vivande33. È questa la variante cromatica di gran lunga più apprezzata e raccomandata non solo
da Martino, ma da tutti i cuochi medievali e rinascimentali. Il giallo è immagine
dell’oro, della felicità, dell’eternità. In un certo senso, lo zafferano costituisce
l’alternativa gastronomica all’oro che fa mostra di sé sulle tavole dipinte dell’epoca.
Almeno fino al XVI secolo, l’uso delle spezie continua a essere un segno di distinzione
sociale: addirittura, Cristoforo Messisbugo prevede che se ne possa diminuire la spesa
proporzionalmente allo status dell’anfitrione: «È da sapere, che se fosse alcuno gentil’huomo mezzano, che facesse
il convito, potrebbe egli fare col terzo de zuccari e spezierie, e ancora colla metà»34. Il gusto tuttavia sta cambiando. Bartolomeo Scappi continua a suggerire spetierie Venetiane35 che forse rimandano ai modelli di due secoli prima, ma la miscela-base che suggerisce
contiene soprattutto cannella (4 once e mezza), assente nel libro trecentesco, oltre
a chiodi di garofano (2 once), zenzero (1 oncia), noce moscata (1 oncia) e «grano
del paradiso» ossia pepe di Guinea (mezza oncia); a queste cinque polveri si aggiungono
lo zafferano (mezza oncia) e lo zucchero (1 oncia)36, due prodotti spesso citati a parte nelle ricette. Lo zucchero, in particolare, è
talvolta presentato come un’alternativa alle altre spezie37, anche se più spesso viene semplicemente aggiunto. Ci si sta dunque orientando verso una maggiore delicatezza o – appunto – «dolcezza».
Analogo significato sembra avere la preminenza data alla cannella fra le spezie tradizionali:
l’abbinamento zucchero-cannella tende ora a dominare su ogni altro. Su questo progressivo
affermarsi del gusto dolce dobbiamo ora appuntare la nostra attenzione.
Agro, dolce, agrodolce
Abbiamo già visto che l’agrodolce rappresenta – fin dall’età romana – una costante
di lungo periodo della storia del gusto, giustificata anche sul piano dietetico dalla
logica del «temperamento per opposti» e della commistione dei sapori. In questa storia
si intravedono però fasi diverse, territorialmente e culturalmente ben definite, che
in alcune aree – in particolare l’Italia – vedono la progressiva affermazione di un
sapore (il dolce) sull’altro, mentre altrove – per esempio, in Francia – la bilancia
sembra pendere dall’altra parte. Inoltre, dal Medioevo in poi la gamma dei prodotti
utilizzati per comporre l’agrodolce si articola in modo più complesso rispetto alla
cucina romana, centrata sulla coppia miele-aceto.
A questi prodotti, via via se ne aggiungono di nuovi. A rafforzare e in parte modificare
la componente acida si sviluppa la produzione di agresto (ottenuto dal succo di uva
acerba), agrumi (tutti agri, come il nome suggerisce: l’arancia dolce arriverà solo
nel Quattrocento), succo di frutti per loro natura agrodolci come la melagrana. Il
dolce per vari secoli continua a essere ottenuto, come in età romana, col miele, i
datteri, l’uva passa; la scoperta della canna da zucchero – importata in Sicilia dagli
arabi, incentivata nel XIII secolo da Federico II38 – segna un importante momento di svolta, accompagnato dalla diffusione di mandorle
e nocciole in funzione sia di addolcenti che di addensanti.
Che il contatto con la cultura araba abbia avuto un certo peso nel recupero (o più
semplicemente nella conservazione) del gusto agrodolce sembrano attestarlo le ricette
di accertata o presunta derivazione araba, contenute nei libri di cucina trecenteschi:
vivande come la limonia o la romania si caratterizzano per l’impiego di mandorle, agrumi, e un succo di melagrane che
si raccomanda «agro e dolce»39. Indicativa anche la ricetta del brodio sarraceno, che stempera le carni in bono vino et sucis agris accompagnando con datteri, uva passa, mandorle. Indicativa soprattutto perché solo
questo «brodo», fra i vari previsti nel Liber de coquina, è di sapore agrodolce40.
Nella maggior parte degli altri casi, l’agrodolce appare come una scelta possibile ma non scontata. «Se vuoi farla agrodolce, aggiungi succo di cetrangoli [arance amare]
e zucchero», è la chiosa finale del Liber alla ricetta di una zuppa di pesci41. Lo stesso nella ricetta dello scapece, il pesce fritto conservato sotto aceto, assai interessante come esempio del crescente
gusto medievale per il sapore dolce. Una volta fritto il pesce in olio abbondante,
lo si lascia raffreddare; intanto nell’olio residuo si friggono cipolle affettate,
assieme a uva passa, giuggiole e prugne; a parte si stemperano spezie e mandorle con
vino e aceto in piccola quantità: «con moderazione, affinché non sia troppo agro»;
si dispone il pesce su un piatto e vi si versa sopra la salsa. L’insieme, grazie alla
frutta secca e fresca, dovrebbe essere già piuttosto dolce, ma ancora non basta: «se
vuoi fare la vivanda agrodolce – aggiunge l’anonimo estensore del testo, evidentemente
rispondendo a una possibile obiezione – mettici anche del mosto o dello zucchero,
quanto basta»42. Se confrontiamo questa ricetta con quella di Apicio (che si limitava a prescrivere:
«Per conservare a lungo i pesci fritti, si irrorino di aceto nel momento stesso in
cui si tolgono dal fuoco»43) ci accorgiamo che la principale variante è proprio l’accentuazione del sapore dolce,
non previsto nel «modello» romano. Si può dunque sostenere che il gusto dell’agro
precede quello dolce44, che a esso si affianca a poco a poco: già in età romana e poi, più sistematicamente,
nel Medioevo – soprattutto là dove il nuovo apporto arabo consolida e rilancia la
tradizione romana.
Non si tratta però di una scelta onnipresente e, per così dire, omologante: la cucina
del XIV secolo è attenta a differenziare una vivanda dall’altra, ad accentuare questo
o quel sapore a seconda dei casi. Se, per esempio, per accompagnare la gru arrostita
si consiglia una salsa a base di fegato, maggiorana, zafferano e altre «buone spezie»
stemperate in vino e aceto assieme a due tuorli d’uovo, con l’aggiunta di mosto cotto
«affinché sia agra e dolce», per il pavone si prevede una salsa con i medesimi ingredienti
«tranne il mosto cotto», cioè solo agra45. Una preparazione può essere totalmente agra – come quella del papero in agresto,
aceto, succo d’arance o limoncelli o lumìe – ma prevedere una variante con l’aggiunta
di sapori dolci: «giungivi succhio di melangole e zuccaro, che sarà acrodolze»46. In prevalenza agre sono le salse consigliate per le carni arrostite47, ma tutta una scala di gradazioni possibili ci si para davanti, con l’unico obiettivo
di compiacere il gusto di chi mangia. Per la peverada: «fàllo dolce o acetoso, come tu vuoli»48. Il problema non è mai – si tratti di spezie, di zucchero, di aceto – nascondere (come troppi ancora ritengono) bensì inventare un gusto49: «Per queste cose, che dette sono, il discreto cuoco potrà in tutte cose essere dotto,
secondo la diversità dei regni; e potrà i mangiari variare e colorare, secondo che
a lui parrà»50.
Con un’importante precisazione: mentre il gusto dell’agro attraversava la cucina di
tutti i ceti sociali, il dolce era percepito quasi come un privilegio di classe. Gli
agrumi, importati dal Sud o dalla Riviera, non erano certo alla portata di tutti;
ma non c’era contadino che non disponesse di aceto (doveva essere questa, al tempo,
la destinazione «naturale» di tanti vini deboli e mal conservati); quanto all’agresto,
sappiamo che gli stessi contadini erano talvolta tenuti a fornirlo ai proprietari
delle terre51. Viceversa, lo zucchero (se non il miele, che cominciava a essere fuori moda) era
alla portata di pochi – e tale doveva auspicabilmente rimanere, per segnalare, al
pari di tante altre cose, le differenze di classe. Come recitava una canzone di Gentile
Sermini (fine XIV-metà XV secolo), «fa’ che [il villano] non gusti il dolce, ma sì
l’agro; ma come rustico è, rustico stia»52.
Può bensì capitare che il «villano» presuma di mangiare come un signore e si faccia
servire una scodella di «riso col zucaro»: non sarà comunque in grado di apprezzare
la raffinatezza della vivanda e la tratterà come una volgare zuppa di cavoli, colmandola
di grandi fette di pane e rivoltandola sottosopra come «comunemente in villa s’usa
di fare». Così si comporta il contadino messo in scena in una novella dello stesso
Sermini53, da cui emerge un chiaro messaggio ideologico (ciascuno mangi quel che il suo stato
prescrive) ma anche – a malincuore – l’attestazione di una certa condivisione di usi
alimentari, di scambi e imprestiti fra la cucina «ricca» e la «povera».
Il trionfo dello zucchero
Tra la fine del XIII secolo e gli inizi del XIV, il Liber de coquina meridionale attesta un uso ancora significativo del miele nelle pratiche di cucina.
È tuttavia già chiara la tendenza a sostituirlo con lo zucchero, che compare più spesso
e in una gamma più variegata di usi: mentre il miele si aggiunge alle vivande, quasi a modo di salsa54 o per intingere frittelle55, lo zucchero entra nella loro composizione56, oltre a sostituire il miele nei suoi impieghi tradizionali57. In qualche caso si lascia la scelta al gusto di chi prepara, segno che ci troviamo
in un momento di passaggio, di sovrapposizione tra i due usi: la minestra di fave
va condita con pepe, zafferano, «miele o zucchero»58; le crispelle, una volta cotte, vanno cosparse «di zucchero o di miele»59.
Il ricettario toscano di fine Trecento, direttamente derivato dal Liber de coquina, conferma tale situazione di passaggio ma accentuando la preferenza per lo zucchero60 e lasciando al miele un ruolo più marginale, sostanzialmente limitato alle frittelle
e ad alcuni dolci. Ma il vero salto di qualità avviene nel gruppo di ricettari settentrionali
elaborati tra Siena e Venezia: il miele vi compare in modo ancora più esiguo61 mentre lo zucchero, sempre più caratterizzante, è presente in oltre il 28 per cento
delle 135 ricette, una percentuale più che doppia rispetto a quella del Liber de coquina62. Nella ricetta dei «bozolati da monege» si fornisce una sorta di equivalenza fra
i due prodotti: «Se tu voy del mele, per ogni dexe ove vol un bon chosselier de mele,
se tu ne vole col zucharo per ogni diexe ove vole un’onza da zucharo»63. Ma il vincitore è segnato. Lo zucchero entra ormai massicciamente nella composizione
delle vivande, e inoltre viene aggiunto, spolverizzato, per migliorarle: «Quando tu
manestri, metelli del zucharo per suso le scutelle e serà bona vivanda»64.
Anche nelle salse lo zucchero diviene protagonista. Se il Liber de coquina napoletano e il suo epigono toscano proponevano – come abbiamo visto – una salsa
agra «con ogni arrosto», il ricettario veneziano non ha dubbio nel definire «savore
rinforzato perfetto» una salsa agrodolce a base di spezie, zucchero e aceto: «e questo
si è bono savore con zaschuno rosto»65.
Il trionfo dello zucchero si può ben ritenere un elemento caratteristico della cucina
italiana: oltralpe continuano a prevalere il gusto agro (in Francia) e il tradizionale
uso del miele (in Germania)66. È l’avvio a una cucina più delicata, esplicitamente avvertita come tale da coloro
che per primi la praticarono: il ricettario veneziano del XIV secolo consiglia di
aggiungere lo zucchero al miele nelle confetture «se tu le volesse fare più diligate»67, e sostituisce lo zucchero alle «altre spezie» nelle preparazioni destinate ai malati.
Per esempio: la cotognata, che normalmente si fa con miele e spezie fini, «se tu la
vole per li amaladi, metili a bolire un pocho de zucharo [...] in cambio de specie»68. Restando inteso che, preparata una vivanda, «el zucharo non la guasta»69. È il preludio a Maestro Martino, che cita una sola volta il miele e profonde di
zucchero molte delle sue ricette, mentre il suo amico Platina teorizza, attorno alla
ricetta del biancomangiare: «Non sarà male mettervi anche un po’ di zucchero: nessuna
vivanda, infatti, come dicono, rifiuta lo zucchero»70.
«Come dicono» (ut aiunt): a metà del XV secolo l’eccellenza della bianca polvere dolce è divenuta quasi un
luogo comune, una scelta universale ampiamente confortata dal pensiero medico: nel
Tacuinum sanitatis si poteva leggere che lo zucchero, caldo e umido, «è buono per il sangue» e ha la
particolarissima, pressoché unica qualità di essere «adatto a ogni temperamento, età,
stagione e luogo»71. Nel Cinquecento – testimone Costanzo Felici – la cosa è ormai proverbiale: «Il zuccaro
[...] fa compagnia ad ogni altra cosa, o la potria fare, se si suole dire per proverbio
che il zuccaro non guasta mai menestra». Con lo zucchero «si rende delicato il magnare e molte volte il bevere, facendo
dolce e saporito e l’uno e l’altro», sicché «possiamo dire veramente che questa è
una vivanda preciosa [...] la natura humana compiacendosi e delettandosi assai in
questo sapore dolce»72.
La cucina rinascimentale è un vero tripudio di zucchero, per la fortuna dei mercanti
veneziani: anche i genovesi lo importano dal Portogallo, ma è soprattutto Venezia
– come ormai da cinque secoli – a conservare una posizione di preminenza nel traffico,
nella raffinazione, nella lavorazione del prodotto. Soprattutto a Venezia si sviluppa
l’arte della confetteria e della pasticceria, mentre i cuochi delle corti e delle
città profondono zucchero su ogni vivanda. Non c’è quasi ricetta di Scappi che non
ne prescriva l’impiego, e suona ormai arcaica l’indicazione di Messisbugo, a proposito
della «salsa verde dolce e forte», che «volendola dolce, li porrai mele, o zuccaro»73. Del resto, lo stesso Messisbugo non manca di farci capire che lo zucchero, non il
miele, è ormai un segno di distinzione sociale: solo il «gentil’huomo mezzano» potrà,
per una minor spesa, sostituire il miele allo zucchero in varie preparazioni, a meno
che non si tratti di «mangiari bianchi, o risi turcheschi, o torte bianche, o sapori
bianchi o cose altre simili, che dal mele nel proprio colore sariano macchiate». Consiglio
finale: «chi volesse limitar la spesa, potrebbesi servire del mele [...] mettendo
però di sopra [...] il zuccaro»74.
La passione degli italiani per il dolce è stata anche messa in rapporto con la dolcezza
dei vini, che nel corso del tempo avrebbe «educato» il gusto a quel sapore. È la tesi
di Jean-Louis Flandrin, che viceversa collega il gusto francese per l’agro all’abitudine
di bere vini che un diverso clima e un diverso territorio inevitabilmente rendevano
più aspri75.
Di sicuro è questa la percezione che ne ha Montaigne, quando, di passaggio a Firenze,
giudica «di una dolcezza molle, insopportabile a chi non vi sia abituato», i vini
che gli vengono serviti; e sentendo un certo stordimento alla fine del pasto, lo attribuisce
ai «vini bianchi dolci», la cui mollezza, «non stancando la sete», induce a bere troppo76.
Non si trattava di una novità: nel XIII secolo, Salimbene da Parma elenca le dieci
qualità (tre con la b e sette con la f) che, secondo i francesi, un vino dovrebbe avere per meritarsi piena lode: buono,
bello, bianco, forte, fiero, fino, franco, fresco, fervido, frizzante. Non c’è la
dolcezza fra questi requisiti, mentre è la dolcezza il primo carattere del buon vino
secondo Maestro Morando, «che insegnava grammatica a Padova e che ha scritto le lodi
del vino con questi versi: Il vino dolce glorioso / rende pingue e carnoso / e sgombera
il petto»77. Opinione condivisa dal Regimen sanitatis della Scuola di Salerno: «I vini migliori sono quelli bianchi e dolci»78. Non è dunque solo retorica, o memoria dei classici, definire il vino «dolcissimo
nettare», come fa Donizone raccontando il banchetto di nozze tra Bonifacio di Canossa
e Beatrice di Lorena79.
Gli umanisti, l’antico, la «modernità»
Esiste, nel campo della gastronomia, una «riscoperta dell’antico» paragonabile a quella
che i letterati perseguirono in tutti i campi del sapere umanistico e scientifico?
La risposta a questa domanda – negativa, come vedremo subito – è un’importante conferma
della specificità della storia della cucina, della necessità di scriverla secondo
parametri diversi, autonomi rispetto a quelli di altre storie.
L’apparenza sembrerebbe suggerire il contrario: Apicio è molto citato da Platina e
dai suoi amici dell’Accademia Romana, guidata da Pomponio Leto. Il loro intendimento
di vivere «all’antica», adottando usi e costumi – anche alimentari – dell’antichità
classica, non può non avere come riferimento ideale il manoscritto di Apicio riportato
in Italia – come tanti altri in quegli anni, dopo estenuanti ricerche nelle biblioteche
di mezza Europa – nel 1455 da Enoch di Ascoli80. Non per nulla Pomponio e i suoi saranno accusati dal pontefice – oltre che di avere
intentato una congiura ai suoi danni – di comportamenti immorali e in particolare
di ghiottoneria: di aver ricercato il piacere della gola fino al punto di mangiar
carne in quaresima, contravvenendo agli obblighi liturgici per vivere e cucinare al
modo dei pagani81. In effetti, le pagine del De honesta voluptate et valetudine di Platina sono piene di suggestioni in questo senso: richiami a cene «romane», appellativi
«romani» di vivande e di convitati si rincorrono ovunque nel libro. Ma si tratta di
un recupero puramente «antiquario» – divenuto negli anni successivi una vera moda82 – scarsamente confortato sul piano pratico. Quando l’umanista siciliano Antonio Beccadelli
chiede a Giovanni Aurispa di poter vedere il testo apiciano, si sente rispondere che
sì, glielo manderà, ma non si faccia illusioni: il suo cuoco è di gran lunga migliore
di Apicio83. Anche in Platina, l’imitazione (vera o presunta) dell’antico rimane un fatto soprattutto
formale, mentre prevale decisamente l’orgoglio della «modernità» – una modernità tutta
medievale, costruita fra XIV e XV secolo, alla quale si fa consapevole riferimento
come a una fase fortemente innovativa della storia del gusto.
Se la lingua di Platina talvolta scimmiotta Apicio, il contenuto è tutt’altro, direttamente
derivato dal Libro di Maestro Martino: ed ecco il brodo diventare jus, le minestre e le torte minutal o patina, il biancomangiare leucophagium, la bottarga ova tarycha; addirittura, con un improbabile anacronistico virtuosismo, la pasta – sconosciuta
ai romani – diventa esicium, mentre l’apiciano liquamen – l’ormai scomparsa salsa di pesci – passa a designare il grasso di porco!84 Anche la valutazione dietetica dei cibi è totalmente improntata alla cultura medievale:
quando Platina scrive che «le carni sono l’alimento che nutre di più e in maniera
più salutare, e che ha più sostanza»85, si muove in un ambito mentale lontanissimo da quello romano antico, che per un’affermazione
di questo genere avrebbe privilegiato il pane86. Ma la dichiarazione più esplicita di amore per la «modernità» nasce a proposito
del biancomangiare, condimentum che Platina propone non solo come piatto a sé – tale era l’uso consueto nei ricettari
trecenteschi – ma anche come «contorno a un piatto di carne». Orbene, commenta Platina,
«questo condimento l’ho sempre preferito a quelli suggeriti da Apicio. Non c’è infatti
nessuna ragione per cui si debbano anteporre i gusti dei nostri antenati a quelli
di oggi, poiché, se ci hanno superato in quasi tutte le discipline, quanto al gusto
noi siamo insuperabili»: le nostre taverne sono un vero e proprio ginnasio, «dove
si discute accanitamente sulla maniera di condire le pietanze»87. Il modello è solo ed esclusivamente Martino: «quale cuoco, o dèi immortali, può
essere paragonato al mio Martino, dal quale ho imparato la maggior parte delle cose
che vado scrivendo?».
Anche nel Cinquecento, lo sviluppo dell’arte cucinaria si pone nel senso di una sostanziale
continuità col Medioevo: pur consapevoli di praticare una cucina per molti versi rinnovata,
sicuramente all’avanguardia in Europa, i cuochi italiani del Rinascimento non mostrano
alcuna intenzione polemica nei confronti dei loro predecessori (come spesso accade
nelle fasi di nouvelle cuisine) ma, al contrario, «preferiscono adottarne i precetti e assimilarne le tecniche,
anche a costo di dovervi apportare delle correzioni per poterli meglio superare»88.
Sapore di sale
Se il dolce denota – e a lungo denoterà – la cucina di élite, quella del popolo sa
soprattutto di sale. I cibi conservati, che si mantengono nel tempo e garantiscono
un minimo di sicurezza alimentare lungo il corso dell’anno, fanno sì parte del sistema
di scambi che rifornisce di prelibatezze la tavola signorile, ma soprattutto costituiscono
la base della gastronomia «ordinaria», della produzione e del consumo domestico di
alimenti. È questa, fin dal Medioevo, una delle principali distinzioni di immagine
alimentare fra il ricco e il povero, il signore e il contadino: il primo mangia cibi
freschi, il secondo no. Carni, pesci, formaggi, verdure arrivano sulla mensa contadina
con un monotono sapore di sale. La grande sete che ne derivava contribuisce certo
a spiegare le eccessive (a nostro vedere) quantità di vino, o in altri paesi di birra,
che hanno accompagnato per secoli il consumo di cibo.
I trattati di dietetica – a cominciare da quello di Antimo nel VI secolo – sconsigliano
le carni salate a chi può permettersi di scegliere il proprio regime alimentare: «non
si mangino, se non quando lo richiede la necessità, perché a causa del sale il grasso
esce dalle loro carni, che diventano secche e non si digeriscono bene»89; il consiglio vale anche per i pesci90. Naturalmente tutti sanno che «nessuna vivanda si cucina senza sale» (come leggiamo
in Platina)91, e i medici non mancano di celebrare le virtù di un prodotto che «alletta la gola
e dà gusto al mangiare»92. Ma un conto è consumare cibi conservati sotto sale, un conto dare sapidità ai prodotti
freschi, integrando il sale nella sinfonia di sapori che si incrociano nelle vivande
di cucina. Peraltro, nei ricettari rivolti al pubblico aristocratico il sale non compare
quasi mai, se non per condire l’insalata o per raccomandare di «salare poco»93. «Del sale io non ne parlo, perché sarà in arbitrio», taglia corto Scappi94. Semmai possono trovarsi indicazioni su come dissalare le vivande conservate: i salumi «non è da biasimare il dissalarli, come spezialmente
nelle cucine dei grandi il più delle volte è in uso»95. Il sapore di sale lo si lasciava volentieri ai contadini.
Olio, lardo, burro
La cucina romana – quella ricca, codificata dal ricettario di Apicio – non conosceva
che l’olio, anzi, letteralmente grondava d’olio96. A questo grasso prestigioso, vero simbolo (assieme al pane e al vino) della civiltà
agricola latina, si contrapponevano il burro e il lardo, a loro volta simboli della
civiltà nomade e pastorale dei «barbari»97. Il lardo compariva anche nella cucina romana, ma solo tra le classi povere, con
uno statuto culturale di basso profilo: tra gli agronomi latini, solo Catone ricorda
– forse riportando usi tradizionali nelle campagne – alcune ricette di dolci preparati
con lo strutto, unguen o adeps98.
I romani non disdegnavano certo il maiale (la valle padana, culturalmente modellata
dall’antica occupazione celtica, ne era in Italia la massima produttrice e riforniva
anche il mercato di Roma)99, ma bisogna attendere il III-IV secolo per vedere comprese le sue carni tra le derrate
generosamente distribuite dagli imperatori al popolo della capitale100. Nell’alto Medioevo, la valorizzazione dell’economia forestale – sollecitata dal
diffondersi della cultura germanica101 – significò anche la promozione del lardo tra i valori «forti» del sistema alimentare:
Antimo, il primo scrittore di dietetica del Medioevo, a dispetto della sua stessa
formazione culturale (greco di nascita, era cresciuto alla corte di Bisanzio per approdare
a Ravenna durante la dominazione gota), tiene a dedicarvi una parte esageratamente
estesa del suo trattato102. In realtà, egli consente che si possa usare il lardo, per le verdure e per ogni
altro cibo, soprattutto «qualora manchi l’olio»: una precisazione (ubi oleum non fuerit) che conferma la persistenza, ancora nel VI secolo, dell’opzione culturale romana
a favore dell’olio; ma il contesto complessivo è nel frattempo cambiato, poiché l’affermazione
politica e sociale dei popoli germanici ha veicolato una vera «promozione d’immagine»
del grasso animale come, più in generale, dei prodotti carnei. Il lardo diviene il
grasso per eccellenza anche della cucina aristocratica e perfino l’alimentazione monastica,
così severa nei confronti dei consumi carnei, si adegua all’uso generale quando si
affida al grasso di maiale come base per la cottura di ortaggi e legumi103. Fanno eccezione i periodi «di magro» e di astinenza quaresimale, durante i quali
ogni cibo animale è bandito.
Gli obblighi imposti dal calendario liturgico, che costringevano non solo i monaci,
ma tutti i cristiani ad astenersi dai prodotti animali per un gran numero di giorni
all’anno104, sono un nodo decisivo nella storia dei grassi alimentari. In questi giorni infatti
era giocoforza sostituire il lardo con l’olio vegetale, e fu anche per questa via
che nella cultura alimentare del Medioevo prese forma una inedita situazione di alternanza tra lardo e olio, non più espressione di culture e di contesti ideologici e sociali
diversi, bensì integrati nello stesso sistema di consumo, tendenzialmente comune a
tutta la società. L’incontro tra cultura germanica e cultura romana aveva prodotto
in tal modo, con la mediazione decisiva del cristianesimo, un nuovo sistema di valori
che in qualche modo le comprendeva entrambe. Quando nel 765 il prete Rissolfo dispone,
a Lucca, la concessione gratuita di un pasto ai poveri tre volte la settimana, non
manca di precisare che il pulmentario di cereali e legumi105 dovrà essere ben condito di lardo o di olio (de uncto aut de oleo), un’alternativa verosimilmente determinata dal calendario liturgico.
Al di là delle differenze di gusto e delle contrapposizioni regionali, sociali e culturali,
si era dunque costituito un sistema integrato all’interno del quale ciascun grasso
aveva il suo posto: l’olio nella cucina «magra», il lardo nella cucina «grassa». L’accordo
funziona anche sul piano economico: il commercio e la vendita dei grassi vengono spesso
gestiti da un’unica corporazione; l’olio rientra tra i prodotti di competenza dei
«lardaroli»106, così come il pesce prende il posto della carne sui banchi dei beccai.
L’alternanza tra olio e lardo è di regola nei ricettari del XIV secolo. Per esempio,
il Liber de coquina dispone di condire la minestra di ceci «con lardo o olio, come il giorno esige» (sicut dies exigit); il pasticcio di cavoli «nei giorni di digiuno si faccia con l’olio [e con il pesce
al posto della carne], negli altri periodi con il lardo»; il pasticcio di trota, se
viene mangiato tempore carnis, si potrà condire con lardo anziché olio107. Certo non mancano peculiarità locali: il lardo compare nel 25 per cento delle ricette
del Liber de coquina, scritto nell’Italia meridionale, mentre sale al 36 nella sua «traduzione» toscana
e al 42 nel libro di cucina veneziano108. Ma è soprattutto l’alternanza liturgica a determinare la scelta dell’uno o dell’altro
grasso.
L’integrazione era tuttavia imperfetta, poiché solo il lardo era entrato effettivamente
nell’uso comune. L’olio d’oliva restava un prodotto di élite, piuttosto costoso al
di fuori delle zone in cui si coltivava l’ulivo (anche se, durante il Medioevo, grazie
anche a un clima particolarmente dolce, esso poté spingersi molto a nord nella penisola,
fino all’Emilia centrale e, in Lombardia e Veneto, nella zona dei laghi). Come si
risolveva, allora, il problema dell’astinenza quaresimale? Anzitutto rivolgendosi
al mercato, che proponeva olii di varia provenienza: i veneziani commercializzavano
quello delle regioni adriatiche (soprattutto Puglia e Marche), i genovesi quello dell’area
tirrenica (Liguria, Toscana, Lazio, Campania). Un’altra soluzione potevano essere
gli olii vegetali alternativi, come quello di noce, che i romani trovavano disgustoso109 e che conobbe invece nel Medioevo una insperata fortuna. Infine, negli ultimi secoli
del Medioevo, le autorità ecclesiastiche consentirono l’uso del burro come alternativa
all’olio nei giorni di magro, dapprima sporadicamente, poi in maniera più generale:
ciò riguardò inizialmente solo le regioni del Nord Europa, dove vi era – sia pure
a livello popolare, contadino – una tradizione di consumo di burro110; poi anche i paesi del Sud, come l’Italia.
Al Nord, sostiene Flandrin, la scelta del burro fu determinata da ragioni di disgusto più che di gusto: il sapore acre dell’olio d’oliva, così apprezzato nelle cucine
di tradizione mediterranea111, era inviso ai consumatori dell’Europa continentale, forse anche perché i mercanti
italiani (e spagnoli) non mancavano di trarre il massimo profitto dalla normativa
quaresimale, avviando verso il Nord l’olio di peggiore qualità (il detto inglese as brown as oil, «scuro come l’olio», insegna qualcosa in proposito). Perciò il Nord sceglie di cambiare
grasso, nonostante l’immagine «povera» che socialmente connotava il burro. Nel corso
di tale vicenda esso finì per cambiare statuto, diventò un prodotto «alla moda» e,
forte di questa immagine rinnovata, fece breccia anche negli usi alimentari di regioni
culturalmente legate all’olio d’oliva. Il momento decisivo di tale svolta pare situarsi
nel XV secolo e coinvolge anche l’Italia. Si tratta quasi – scrive ancora Flandrin
– di una «seconda invasione» dei territori gastronomici mediterranei da parte delle
cucine settentrionali, dopo quella che, nell’alto Medioevo, con il diffondersi dei
costumi germanici, aveva segnato il successo del lardo negli usi alimentari di tutta
Europa112.
Le due vicende si svolgono, per la verità, in modi e con toni assai diversi. Mentre
la «prima invasione» era avvenuta – proseguendo in metafora – con grande spiegamento
di mezzi e di truppe, nel segno di una cultura alimentare affermatasi attraverso il
potere e il predominio sociale, l’ingresso del burro nelle cucine del Sud avviene
invece sotto tono, quasi silenziosamente. Il fatto è che esso si presenta, almeno
all’inizio, come sostituto dell’olio, e dunque con i connotati «deboli» della quaresima
e della cucina «umile». In tale veste esso appare, per esempio, nel Registro di cucina di Johannes Bockenheym, cuoco di papa Martino V negli anni Trenta del XV secolo113. È nella parte del registrum dedicata alla quadragesima che troviamo, per la minestra di fave, l’indicazione di condire cum oleo olive, vel butiro; per le carpe in tegame, di cuocerle con vino, prezzemolo, oleo, vel butiro114. Il burro è suggerito ancora per la torta di erbe, la torta di formaggio, le uova
in padella115. Le carni, invece, sono sempre insaporite dal lardo o dallo strutto.
Il burro compare anche nel ricettario di Maestro Martino, che ne propone l’utilizzo
per condire la pasta, aggiungendolo al formaggio grattugiato che da secoli ne costituiva
il più consueto condimento. L’innovazione sarà accolta e riproposta dai ricettari
successivi.
Certo, nel XV secolo è ancora viva l’idea che «il burro viene adoperato per lo più
da chi abita nelle regioni occidentali e settentrionali, che difettano di olio», come
scrive il Platina, ribadendo l’eccellenza e il prestigio del succo d’ulivo. Ma non
vi è più ostentazione di superiorità verso il grasso dei «barbari»: riportando antiche
e recenti opinioni sul burro, Platina conviene che si possa usare «in luogo del grasso
o dell’olio per cucinare qualsiasi vivanda»116. Altri invece, come il padovano Michele Savonarola, autore in quello stesso secolo
di un importante trattato di dietetica, confermano – ma è una battaglia di retroguardia
– la condanna senza appello del burro, ritenuto indegno di apparire sulla mensa signorile:
«molto l’usano in loco de olio [...] ma el buthiero nuoce al stomeco e ai soi villi,
quelli relaxendo, e a chi non l’à usato, ge turba el stomeco»117.
La linea vincente è un’altra, e nel Cinquecento la cucina di corte fa ormai posto
regolarmente al burro. L’Opera di Bartolomeo Scappi costituisce anche rispetto a questa vicenda un momento di sistemazione
e, per così dire, codificazione, contemplando tre livelli distinti di utilizzo dei
grassi: lardo e strutto per i giorni «di grasso»; burro per i giorni «di magro» (il
venerdì e il sabato); olio (d’oliva o di mandorle) per le vigilie e la quaresima.
Il burro, che all’occorrenza può sostituire gli altri grassi, si è però anche ritagliato
un proprio spazio autonomo, ben chiaro e riconoscibile.
Nel corso del XVII secolo, infine, il burro si impone «a tutto campo»: conquista anche
il regno della carne, sottraendosi definitivamente al suo imprinting quaresimale. Non solo le cucine dell’Italia settentrionale, ma anche quelle del Sud
sono ugualmente partecipi di questo cambiamento: sia il ricettario «napoletano» di
Antonio Latini, sia quello «padano» di Bartolomeo Stefani prevedono in tanti casi
l’impiego del burro al posto del lardo o dello strutto. L’avanzata coinvolge anche
le salse: nascono allora – per accompagnare le carni o i pesci – le salse grasse a
base di burro (o di olio) destinate a prendere il posto delle salse acide e speziate
della cucina medievale e rinascimentale118.
Contestualmente sbiadisce l’immagine del lardo, che non può più vantare il posto di
primo piano occupato a iniziare dal Medioevo nella cultura alimentare e nelle pratiche
di cucina. Lo stesso Vincenzo Tanara, agronomo bolognese visceralmente legato – è
il caso di dirlo – alla cultura del maiale (abbiamo già ricordato le sue centodieci maniere di farne vivande), si mostra perfettamente a conoscenza degli usi gastronomici del burro pur non trattandoli
con la stessa attenzione riservata al lardo e allo strutto: «il butiro – scrive –
ne’ mangiari fatti di esso, e massime nelle paste, opera che quelle piglino una certa
crostetta, o durezza superficiale fragile, quale facilissimamente sotto denti con
molto gusto si rompe». Ancora: «servesi ne’ lavori di pasta in mille altri condimenti,
et in luogo di oglio; servesi nello spiedo, e ne’ crostini detti già, e in altri modi»119. Tra XVIII e XIX secolo l’avanzata del burro continua, e nel 1840 il veronese Carlotti
– olivicoltore sul Garda – potrà lamentare che «per molte preparazioni di cucina all’olio
siasi sostituito il burro»120.
Alla fine dell’Ottocento, riflettendo sulla varietà di tradizioni nelle varie aree
della penisola, Pellegrino Artusi propone una geografia dei grassi alimentari da cui
è assente, ormai, ogni riferimento al calendario liturgico: «ogni popolo – scrive
– usa per friggere quell’unto che si produce migliore nel proprio paese. In Toscana
si dà la preferenza all’olio, in Lombardia al burro, e nell’Emilia al lardo»121. Attento com’è a comporre le diverse tradizioni regionali in un quadro tendenzialmente
«nazionale» della cucina italiana, Artusi non può non muoversi con estrema elasticità
e tolleranza nel suggerire l’impiego di questo o quel grasso: fate uso «dell’unto
che più vi aggrada», friggete «conforme al gusto del paese o del vostro», ungete con
olio «dove l’olio è buono», usate lardo o burro «ove, per qualche ragione locale,
si suol dare la preferenza all’uno più che all’altro di questi condimenti». La benevola
tolleranza artusiana – un intelligente invito a rispettare la diversità dei gusti
individuali e collettivi – sembra forse sopravvalutare il peso del territorio (il
luogo) nella definizione di queste diversità. Altre variabili, di natura non economica
ma sociale e culturale – gli obblighi liturgici, l’immaginario alimentare, i meccanismi
della moda –, hanno contribuito a costruire, nel tempo, complesse stratificazioni
di valori d’uso. L’olio antico, il lardo medievale e il burro moderno s’incrociano
nelle pratiche di cucina con una dinamica che non ha nulla di fisso né di immutabile.
Durante il XX secolo, il burro ha fatto segnare nuovi passi avanti, uscendo infine
dalla sua connotazione elitaria e conquistando un più vasto pubblico di consumatori.
Ma la vicenda non è finita, giacché a questo punto è l’olio d’oliva a prendersi una
nuova rivincita sui grassi animali, grazie alla scoperta (o forse invenzione) della
«dieta mediterranea» da parte di medici e giornalisti americani. La storia continua.
Il modello italiano e la «rivoluzione» francese
Sullo splendore della cucina italiana del Cinquecento – di cui l’Opera di Scappi rappresenta il frutto più maturo e completo – si sono innestati luoghi
comuni non privi di un fondo di verità ma neppure di improbabili fantasie. In particolare,
è diffusa la convinzione che dall’Italia sarebbe venuto l’insegnamento che permise
ai cuochi francesi di inventare una «nuova cucina», sviluppatasi oltralpe a iniziare
dal XVII secolo e che assunse col tempo un carattere di vera egemonia culturale, pari
a quella che la corte di Parigi esercitò sull’Europa in ogni campo della vita civile
e intellettuale. Di questo percorso, una certa storiografia indica con certezza anche
i protagonisti: i cuochi di Caterina de’ Medici, andata sposa nel 1533 a Enrico di
Valois, duca di Orléans, divenuto re di Francia nel 1547. Per tramite loro la cucina
italiana sarebbe entrata alla corte di Parigi.
Di tutto ciò non vi è alcuna prova documentata. Ma non c’è alcun bisogno di invocare
Caterina de’ Medici per giustificare la presenza di una cultura «italiana» in territorio
di Francia. Nel Cinquecento, come già nel Medioevo, vi era una larga circolazione
di tecniche e saperi gastronomici fra i paesi europei, nel segno di una cultura cosmopolita,
che non conosceva frontiere. La reciprocità degli apporti – meglio: la «circolazione
delle idee e delle conoscenze»122 tra Italia e Francia è chiara fin dai ricettari del XIII-XIV secolo. Fra le proposte
del Liber de coquina napoletano sono incluse una ricetta per le carni ad usum Francie, una zuppa di piselli ad modum gallicorum (con impiego del formaggio di Brie), un brodium gallicanum123. Viceversa, specialità italiane sono ricordate nei libri d’oltralpe, con una particolare
e piuttosto ovvia attenzione alle vivande «lombarde», territorialmente e culturalmente
più vicine: Jean-Louis Flandrin ha censito nei libri di cucina francesi del tempo
un Leche lumbard e una Tourte lombarde, una Crustade lumbard e un Rys lumbard, oltre al Potage de Lumbars e al Bruet de Lombardye124. L’influenza italiana si fa più forte nel Quattrocento, quando il De honesta voluptate et valetudine di Platina – e perciò, indirettamente, la cucina di Maestro Martino, che ne è la
base – si diffondono in tutta Europa, grazie alla lingua «internazionale» utilizzata
dall’autore (il latino) e grazie alle numerose traduzioni in volgare: molte edizioni
in francese, inglese, tedesco si susseguono dalla fine del XV secolo in poi. A quest’opera,
più che ad altre, si possono ascrivere i principali debiti della cultura europea con
l’arte italiana della cucina e del saper vivere; la magistrale Opera di Scappi non fu invece mai tradotta in francese – pur se venne largamente saccheggiata
in testi tedeschi e spagnoli125.
Ma non erano, quelli, gli anni in cui Giovanni de’ Rosselli, presunto autore di un
ricettario interamente copiato da Maestro Martino, veniva definito, nel frontespizio,
di nazionalità «francese»? Segno che, nel periodo di massimo splendore della cucina
italiana di corte, anche la «francesità» faceva immagine. Per non dire del prestigio
– che oggi tendiamo a sottovalutare – di cui godevano i cuochi tedeschi: nel Quattrocento
ne troviamo un po’ ovunque nelle corti italiane, da quella bolognese dei Bentivoglio
a quella di papa Martino V, il cui cuoco, Johannes Bockenheym, scrive tra il 1431
e il 1435 un trattato di cucina126. Da tedeschi erano gestite anche molte locande (Enea Silvio Piccolomini: «questa
gente è quella che esercita l’industria dell’albergo in quasi tutte le città d’Italia»)127 e la novellistica ci propone un cuoco tedesco a Bologna, a cucinar lasagne nel monastero
di San Procolo128. L’orgoglio professionale dei lanzi – come erano spesso chiamati i tedeschi nel Cinquecento – è protagonista anche di
un divertimento poetico di Antonio Grazzini detto il Lasca, che li introduce a parlare
in un italiano comicamente deformato129. Anche i francesi ammiravano la cucina tedesca: il signor de Montaigne in viaggio
verso l’Italia attraversa la Germania, si stupisce della bontà del cibo offertogli
nelle locande e si rammarica «di non essersi portato un cuoco da istruire al modo
di qua, per darne prova un giorno a casa propria»130. Insomma, contatti fra le cucine d’Italia e di Francia (e di Germania, e di altri
paesi europei) esistettero fin dal Medioevo, prima, dopo e indipendentemente dalla
«vicenda Medici». Nel 1584, lodando l’abilità dei cuochi francesi e tedeschi in materia
di vivande, condimenti e salse, lo scalco Giovan Battista Rossetti scrive che molto
di tutto ciò lo hanno «imparato da nostri cuochi d’Italia», riducendolo «a ottima
perfezione» con l’aggiungervi «una nuova politezza»131.
Ma tutto questo ha veramente a che fare con la «rivoluzione» francese? I cuochi italiani
potevano ben essere stati dei maestri in Europa, ma ciò che insegnavano (il profluvio
di spezie e di zucchero, la mescolanza del dolce e dell’agro) era ancora profondamente
legato alla cultura medievale dell’artificio, che proprio sulle tavole dell’Italia
rinascimentale raggiunse il più alto grado di perfezione. La perizia tecnica di uno
Scappi è fuori discussione, ma il rinnovamento gastronomico francese del XVII secolo
si basò su principi radicalmente opposti, che abbiamo già richiamato in apertura di
capitolo: il rifiuto dell’artificio e delle combinazioni agrodolci, il drastico ridimensionamento
delle spezie, l’invenzione di salse a base grassa anziché acida, la ricerca di sapori
«naturali». I ricettari italiani del Quattro-Cinquecento, e i cuochi che li scrivevano
o li usavano, non possono essere ritenuti il «modello» di una cucina che si svilupperà
su basi teoriche e pratiche del tutto diverse, anzi contrarie.
Eppure, un contributo l’Italia lo diede. Su un piano diverso, però. Vari studiosi
convengono, infatti, nel riconoscere che l’apporto più significativo riguardò i prodotti più che il gusto. Uno dei caratteri di novità della cucina francese del XVII secolo fu la scelta di
valorizzare, contro l’enfasi carnivora della cucina medievale, le verdure e gli aromi
dell’orto132 – una tradizione che, come abbiamo visto, soprattutto la gastronomia italiana aveva
elaborato e tramandato attraverso i secoli. I piselli freschi cotti con la loro scorza,
che nel Seicento furoreggiarono – ultimo grido della moda in cucina – alla corte del
Re Sole133, sono già nel ricettario quattrocentesco di Maestro Martino, fritti con carne salata:
«Piglia i piselli con le scorze como stanno, et fagli dare un boglio»134, e nell’Opera di Scappi, stufati o serviti con aceto e pepe: «piselli teneri alessati con la scorza»135.
Del resto, la serietà con cui i cuochi italiani interpretavano il loro mestiere fu
a lungo considerata dai francesi come una curiosa eccentricità. Michel de Montaigne,
in un passo famoso, descrive una conversazione avuta con il maestro di casa del defunto
cardinale Carafa, rappresentandoci un uomo estremamente attento a riflettere sulla
cucina come arte e come scienza:
Egli mi ha fatto un discorso su questa scienza della gola con una gravità e con un
contegno magistrale, come se mi avesse parlato di qualche argomento di teologia. Mi
ha edotto sulla differenza degli appetiti: quello che si ha a digiuno, quello che
si ha dopo il secondo e il terzo pasto; i mezzi sia di semplicemente soddisfarlo,
sia di risvegliarlo e stuzzicarlo; la tecnica delle salse, prima in generale, e poi
venendo ai particolari delle qualità di ingredienti e dei loro risultati; le differenze
delle insalate secondo la stagione, quella che deve essere servita calda e quella
che vuole essere servita fredda. La maniera di ornarle e di abbellirle per renderle
piacevoli anche alla vista. Dopo ciò, egli è passato alle regole del servire, pieno
di belle ed importanti considerazioni, e tutto questo gonfiato di ricche e magnifiche
parole, quelle stesse che si adoperano nel trattare del governo di un impero136.
Un uomo come questo – commenta Stephen Mennell – è veramente un «pioniere della gastronomia»,
che anticipa le teorie del «buon gusto» elaborate nella Francia moderna in opposizione
alla cultura medievale137. Affermazione alla quale andrebbe opposto che le dissertazioni del nostro personaggio
affondano le radici proprio nella cultura dietetica e gastronomica del Medioevo: chi
ha letto Platina e i suoi antecedenti trecenteschi non stenta a ritrovarne l’impronta.
Del resto, non lamentava già Petrarca che al suo tempo non si parlasse altro che di
cucina e si trascurassero le lettere, «sottoponendo a esami i cuochi, non i copisti»?138
Resta il fatto – giustamente sottolineato da Mennell – che il racconto di Montaigne
è inserito nel saggio sulla Vanità delle parole come esempio di futile eloquenza. Paradossalmente, è in questa accezione denigratoria
che viene costruito – nella Francia del Settecento – il mito (negativo) dei cuochi
di Caterina de’ Medici, che gli italiani ribalteranno in senso positivo. Se anche
un illustre personaggio come Marin poteva riconoscere, sull’onda di un luogo comune
già solidamente attestato, che «gli italiani ci hanno insegnato a far da mangiare»139, la requisitoria moralistica dell’Encyclopédie contro gli artifici della cucina – il cui unico scopo è «far mangiare gli uomini
più del necessario» – non poteva non colpire in primo luogo gli italiani. Alla voce
cucina, Louis Jaucourt accusa i cuochi d’oltralpe di aver diffuso la passione per il cibo
e le tecniche per soddisfarla:
Gli italiani hanno ereditato per primi i residui della cucina romana; sono loro che
hanno fatto conoscere ai francesi la buona tavola, di cui molti nostri re tentarono
con editti di reprimere l’eccesso; ma alla fine essa ebbe il sopravvento sulle leggi
sotto il regno di Enrico II; allora i cuochi di quel paese transalpino vennero a stabilirsi
in Francia, ed è questa una delle cose di cui siamo debitori a quella torma di italiani
corrotti che servivano alla corte di Caterina de’ Medici.
Segue – come ci si poteva aspettare – il brano di Montaigne sulla Vanità delle parole e sulla disquisizione gastro-teologica dello scalco del cardinale Carafa140. Siamo nel 1754. Di lì a poco, ritroveremo le medesime considerazioni rovesciate
di segno: l’anonimo estensore della Cuciniera piemontese (1771) dà per scontato che «i molti cuochi, i quali seguitarono Catterina de’ Medici,
furono i primi a diffondere ai tempi di Enrico II il buon gusto nelle cucine di Francia»141; negli stessi anni, la Lettera sopra il lusso del secolo XVIII dell’abate Giovanbattista Roberti (1772) protesta contro la «fastidiosaggine arrogante»
di certi francesi che, arrivati in Italia, «al primo saggiare di qualche nostro piatto
cotto in foggia diversa dall’usata di là della loro alpe [...] definiscono francamente,
ch’esso è un piatto detestabile». Poveri uomini: non sanno «che al tempo di Caterina
de’ Medici andarono dai focolari, e dalle credenze d’Italia i nostri professori a
insegnarle [a quella illustre Nazione] l’arte del lauto, e fino mangiare; e che colà
i nostri cuochi recarono la tattica della tavola, mentre i nostri capitani le recavano
quella del campo. Ed in Montagne stesso leggesi, com’egli intese da un cuoco del Cardinal
Carafa maravigliose dissertazioni di cucina ignote allora a tutta Francia»142. Francesco Leonardi arriverà a sostenere che «la partenza di Caterina fu l’ultimo
addio che l’arte della cucina dette all’Italia»143.
Così nasce un mito.
«Acque, liquori, sorbetti, gelati»
Un primato incontestabile degli italiani fu l’elaborazione di sistemi per raffreddare
e ghiacciare le bevande. «La vera maniera di fare ogni sorta di acque e liquori alla
moda d’Italia» è svelata ai francesi nel 1692 in un capitolo della Maison régléé di Audiger. Trent’anni prima, lo stesso Audiger aveva tentato di ottenere dal re
il privilegio esclusivo di «fare e vendere ogni sorta di liquori alla moda d’Italia»144. Era il riconoscimento di un’invenzione, veramente tutta italiana, che a quel tempo
aveva già almeno un secolo dietro le spalle. L’abitudine di bere fresco – mescolare neve o ghiaccio all’acqua, al vino o a qualsiasi altra bevanda – si era
diffusa in Italia nella seconda metà del Cinquecento, non senza il parere contrario
di molti medici: nelle maggiori città era diventato addirittura un uso «popolare»,
se crediamo a quanto scrive un medico romano nel 1603145.
Da questi esperimenti sarebbe nato il sorbetto, oggetto anch’esso di una mitologia
che lo vorrebbe portato in Francia – come dubitarlo? – da Caterina de’ Medici: ma,
al solito, nessun documento conforta l’ipotesi, né possiamo supporre che l’arte del
sorbetto fosse già praticata in Italia nella prima metà del Cinquecento. Solo un secolo
più tardi lo troviamo venduto in apposite botteghe, a Venezia e a Napoli soprattutto,
con esiti di grande raffinatezza: quando Antonio Latini, marchigiano, prende servizio
alla corte napoletana nel 1659, scopre che in città «pare ch’ogn’uno nasca, col genio,
e con l’istinto di fabricar sorbette». Non per gli esperti, dunque, ma «per persone
poco intendenti» egli inserisce nel suo trattato di scalcheria e di cucina, scritto
a fine carriera tra il 1692 e il 1694, un breve trattato di varie sorti di sorbette, ò d’acque aggiacciate, che contiene le prime ricette scritte su come mescolare zucchero, sale, neve e succhi
di limone, fragola, amarene e altri frutti, ma anche cioccolata, acqua di cannella
e aromi diversi. Non manca un accenno alla «sorbetta di latte, che prima sia stato
cotto»: forse l’atto di nascita del gelato146.
Nel 1775 sarà pubblicato, ancora a Napoli, il primo libro interamente dedicato a quest’arte:
De’ sorbetti, autore Filippo Baldini, che teorizza, ormai, l’esistenza di specie diverse di sorbetti,
alcuni realizzati con frutti «subacidi» come il limone, l’arancio, la fragola, altri
con ingredienti «aromatici» quali il cioccolato, la cannella, il caffè, i pistacchi,
i pinoli; un capitolo a sé stante meritano i «sorbetti lattiginosi» cioè i gelati,
di cui si decantano formidabili virtù medicamentose.
La letteratura viene di rincalzo: la Sorbettiera è celebrata in una «canzonetta» di Lorenzo Magalotti147, e il «Giovin Signore» di Parini non può concludere la giornata senza la dolce frescura
di un sorbetto al cioccolato o al caffè148.
Accanto ai sorbetti si producono le «acque profumate» da cui fu conquistato Audiger:
durante la sua visita in Italia, scrive,
mi impegnai fortemente a non tralasciare nulla riguardo alle confetture e ai liquori,
e ad imparare alla perfezione come fare ogni sorta di acque, sia di fiori che di frutti,
ghiacciate e non ghiacciate, sorbetti, creme, orzate, acque di pistacchio, di pinoli,
di coriandolo, di anice, di finocchio e di ogni tipo di grano, e a conferire loro
un buon gusto assecondando le loro vere migliori qualità. Appresi anche a distillare
ogni genere di fiori, frutti, grani e altre cose, a distillare sia con il caldo che
con il freddo, a preparare il cioccolato, il tè e il caffè149.
Si può cucinare senza spezie?
Il progressivo abbandono delle spezie è uno degli aspetti più rappresentativi (e culturalmente
significativi) delle modificazioni del gusto introdotte a iniziare dal XVII secolo
dalla nouvelle cuisine francese. Il fenomeno, in apparenza paradossale, è un buon esempio di come la moda
delle élite sia determinata dal costo, dalla rarità, dalla esclusività dei generi
consumati: le spezie, infatti, che per oltre un millennio erano state il segno distintivo
della tavola ricca, cominciarono a scomparire proprio nel momento in cui la loro abbondanza
avrebbe consentito (come in effetti consentì, per qualche tempo) di impiegarle in
modo ancora più ampio. E dire che i viaggi di esplorazione e di conquista attorno
al mondo avevano avuto, non ultimo, anche questo obiettivo: procurare spezie attingendole
direttamente dai luoghi di produzione. Ma la pioggia di profumi e di sapori che investì
l’Europa nel Cinquecento generò presto stanchezza. Ora che le «spezie fini» erano
alla portata, se non di tutti, di molti, i «veri» ricchi cercarono altrove i segni
di distinzione. La corte di Francia – e dietro di lei i nobili del regno – riscoprirono
i profumi indigeni: alle spezie subentrarono l’erba cipollina, lo scalogno, i funghi,
i capperi, le acciughe150.
Con le spezie scomparvero le salse agrodolci e, appunto, speziate che il modello di
cucina medievale e rinascimentale inevitabilmente accompagnava alle carni. Queste
furono guarnite con insalate crude condite con olio e aceto: da «aperitive» quali
erano state per secoli, secondo un uso ripetutamente consigliato da medici e gastronomi151, esse divennero «contorni»152. Anche lo zucchero fu abbandonato, o meglio «emarginato», dislocato su una fase ben
precisa del pasto – il dessert finale – anziché distribuito, onnipresente, su ogni
vivanda, come i cuochi italiani avevano insegnato a fare e ancora, in parte, facevano.
In Italia i cambiamenti furono assai più lenti, soprattutto perché – a differenza
di quanto accadeva oltralpe – l’arte della cucina non era veramente gestita dai cuochi,
ma piuttosto dagli scalchi e dai «maestri di casa». La riflessione sul gusto era perciò
divenuta secondaria rispetto alla cura delle forme conviviali, della scenografia del
banchetto, dell’organizzazione della tavola153. La complessità, o meglio complicazione delle ricette, l’accumulo di ornamenti, la
sovrapposizione di operazioni culinarie non sempre lineari sono aspetti che si ritrovano
spesso nella cucina italiana del Seicento, soprattutto in quella di Antonio Latini,
per di più influenzata da una cucina spagnola anch’essa impregnata di una cultura
ostentatoria, nemica della semplicità e della misura. Eppure, lo stesso Latini si
avventura a suggerire «il modo di cucinare, e condire vivande senza spezierie», utilizzando
al loro posto il prezzemolo, il serpillo o altre erbe profumate. Ma sono solo poche
righe, terminate le quali si affretta a rientrare nei ranghi: «Havendoti insegnato
il modo di condire senza spezierie, hora mi è parso bene darti la ricetta, per condire
i piatti composti, per fare addobbi alla spagnuola, e pignatte alla napolitana, con
le spezierie confacevoli»: piglierai cannella, coriandolo, noce moscata, garofano,
pepe...154.
Piccoli segni di evoluzione si intuiscono piuttosto nella cucina «lombarda» di Stefani,
che impiega le spezie in quantità moderata, utilizza lo zucchero solo in certe salse
(e non su tutte le vivande come Latini), introduce l’acciuga nelle salse (abitudine
che resterà, in Italia, fino all’Ottocento e oltre) e fa un uso più convinto dei grassi
– soprattutto del burro155. Sapori e profumi stentano tuttavia a cambiare: cannella e zucchero sulle minestre,
come ai tempi di Scappi; noce moscata, garofano, pepe e, inossidabile, l’agrodolce:
agrumi o aceto, zucchero e spezie sono ancora i componenti decisivi della maggior
parte delle salse, di inequivocabile antico sapore156. Accanto alle salse magre di tradizione medievale e rinascimentale compare una «salsa
di butiro»157, stemperata con rossi d’uovo e succo di limone, che potrebbe far pensare alle nuove
salse grasse – maionese ecc. – della «nuova cucina» francese: Stefani però non resiste
ad aggiungervi noce moscata, polvere di garofani e zucchero, oltre a muschio e ambra
(i nuovi profumi alla moda)158. Solo per il «vitto ordinario», a cui dedica l’appendice del ricettario nella sua
seconda edizione, Stefani ammette che si possa fare a meno delle spezie: lo stufato
di manzo andrà profumato solo di aglio e rosmarino «né vi metterai speziaria, perché
quando sarà cotto sarà buono» (fermo restando che volendosi trattare «più onorevolmente»
un po’ di pepe, cannella e noce moscata non potrà mancare). La tendenza a sapori più
semplici e «naturali» appare dunque incerta, contraddittoria: eppure, è una nuova
forma mentis quella che spinge Stefani a consigliare, per il «sapore» di fragole: «Sopra questo
sapore non porrai altra cosa, perché è necessario il sentire quel suo natural odore,
e gusto»159. Oppure, per il «sapore» di visciole: «questo sapore non va immascarato con ingrediente
alcuno, perché da se stesso è gustosissimo»160. Oltre allo zucchero, non vi compare altro.
Che il clima stia mutando lo si vede anche (o forse soprattutto) al di fuori della
cucina di corte, prigioniera dell’etichetta e dell’immagine. Già agli inizi del Seicento
il fiorentino Giovanni Del Turco, cuoco non professionista ma «per divertimento e
per gusto», avanza riserve sulle pratiche di cucina di Bartolomeo Scappi – che, peraltro,
letteralmente saccheggia – «il quale fa gran dovitia di spetierie et zucchero, che
al gusto di molti non potrebbono dilettare, et in particolare il zenzero e la noce
moscada e la cannella, però si potrà correggere secondo il parere di chi opera»161. Questo ci invita «a una maggior prudenza per quel che concerne l’influenza dell’alta
cucina sulle pratiche alimentari della società [...] Ammesso che esista un modello
gastronomico superiore, la sua pertinenza al di fuori della sua naturale cornice espressiva
[la cucina delle corti e delle classi dominanti] si situa soprattutto al livello delle
rappresentazioni e dell’immaginario», più che del gusto162. E, in fin dei conti, il potere non è la misura di tutte le cose.
Nel Settecento, anche gli illuministi italiani teorizzano la necessità di bandire
dalla tavola i sapori forti, in favore di un cibo improntato alla finezza e alla leggerezza.
Come scrive Pietro Verri sul «Caffè», «nessun cibo d’odor forte è ammesso alla nostra
mensa». È una scelta non puramente gastronomica, ma ideologica e in senso lato politica,
rivolta contro un vecchio ordine in cui la «fastosa abbondanza» portava pesantezza
di stomaco e incapacità di pensiero: «Tale è il nostro pranzo, che terminiamo con
un’eccellente tazza di caffè, soddisfatti, pasciuti, e non oppressi da grossolano
nodrimento, dal quale assopito lo spirito spargerebbe la noia nella società nostra»163.
La tendenza a una maggiore delicatezza di sapori troverà in Pellegrino Artusi la sua
codificazione «borghese», non senza una saggia riflessione sulla modificazione dei
gusti nel corso del tempo:
La composizione di questo dolce – scrive, riferendosi al budino di farina di riso – mi fa riflettere che le pietanze pur anche vanno soggette alla moda e come il gusto
de’ sensi varia seguendo il progresso e la civiltà. Ora si apprezza una cucina leggiera,
delicata e di bell’apparenza e verrà forse un giorno che parecchi di questi piatti
da me indicati per buoni, saranno sostituiti da altri assai migliori164.
Solo l’ultima ricetta, che chiude il libro, è dedicata alle «spezie fini»: noce moscata,
cannella, pepe garofanato, chiodi di garofano, da tritare e miscelare nel mortaio
assieme a mandorle dolci. Quasi un tributo a venerande tradizioni fuori moda, di cui
si sente in lontananza l’eco: «Le spezie sono eccitanti, ma usate parcamente aiutano
lo stomaco»165.
Non paradossalmente, è forse soprattutto nelle cucine popolari che si avvertono le
tracce di antichi gusti aristocratici, imitati e replicati come in una tardiva conquista
di sapori a lungo negati. Si considerino le ricette che Luigi Bicchierai detto Pennino,
locandiere a Ponte a Signa dal 1812 al 1873, appuntò in un suo diario assieme a racconti
e commenti su quanto gli accadeva intorno166. Per accompagnare i «piccioni in addobbo» consiglia una salsa agrodolce che potremmo
scambiare per quelle dei ricettari medievali o rinascimentali:
Piglia un terzo d’aceto e due di mosto cotto, ovvero se non hai più mosto cotto, due
terzi di zucchero con spezie di cui chiodi di garofano, e scorza di limone, tagliate
assai sottilmente, pinoli, passarina e poco sale. Falla bollire per un quarto d’ora
poi mettila sopra ai detti piccioni, già fritti.
Per i gamberi fritti a dolceforte propone: «salate, pepate e cospargete con un pizzicotto di cannella. Aggiungete l’etto
di uvetta che avrete in prima ammollata e asciugata e il succo del limone». La consapevolezza
di ripercorrere una tradizione di alta cucina è esplicita: «È un’antica ricetta di
cucina nobile che i frati cucinieri fanno quando giungeva un personaggio e s’aveva
da fare una bella figura»167.
Cospargere i tortelli di zucchero e spezie, «come se nevicasse», è un gesto antico
dei cuochi di corte che oggi si fa piuttosto nelle locande e nei masi delle valli
alpine, mentre il piccante agrodolce resiste, imperterrito, nella mostarda cremonese
e in tante preparazioni di cui soprattutto la memoria contadina serba testimonianza.
Verso un gusto nazionale
Un modello fortemente elitario ha guidato per secoli il gusto, orientando i consumi
verso gli ingredienti più rari, imponendo combinazioni sofisticate di sapori. La sua
crisi comincia con l’affermazione di una cucina borghese più semplice, meno creativa.
Al suo nascere essa non si differenzia nell’approvvigionamento da quella aristocratica,
se non in una maggiore attenzione al costo delle derrate e a quello del lavoro per
trasformarle. Fra le due, il processo di osmosi è tutt’altro che trascurabile. Nel
passaggio dalla Francia all’Italia, il modello borghese riprende una certa aria di
titolata nobiltà: pensiamo alla Cuisinière bourgeoise di Menon che viene tradotta con il titolo di Cuoco piemontese perfezionato a Parigi. Al valore del piatto di origine francese non contribuiscono infatti solo carni e
ortaggi di particolar pregio, ma anche una perizia professionale, una gestione delle
fonti di calore, un’arte della decorazione che rappresentano il plusvalore gastronomico
e il suggello della qualità. Derrate e costo del lavoro sono i due indici in funzione
dei quali la cucina borghese elaborerà un modello equidistante dai servizi della tavola
internazionale come dai piatti della festa paesana.
L’apparire nel piatto di nuovi ortaggi economici e disponibili, freschi o di conserva,
lungo tutto l’anno, come la patata e il pomodoro, favorisce questa rivoluzione. Il
pomodoro fornisce, nella prima metà dell’Ottocento, la salsa universale della ristorazione
alta e bassa, l’accompagnamento delle carni ma anche il condimento dei maccheroni.
Il suo gusto assai stabile e moderatamente acidulo e il colore rosso vivo che la conservazione
non spegne lo impongono: sarà un ingrediente comune a piatti poveri, borghesi e aristocratici.
Un discorso analogo vale per la patata. A un profilo gustativo debole, sul piano del
sapore e della consistenza, corrisponde la sua duttilità a essere trasportata, manipolata,
abbinata con altri alimenti. Diventerà una derrata interclassista anche in Italia,
dove la sua cultura, per tutto l’Ottocento, è distribuita a chiazze. Patata e pomodoro
sollevano anche un problema di territorialità: piante ubique e ripiantate, rappresentano
dei referenti gastronomici tutt’altro che caratteristici di un singolo paese, quindi
universali.
Se la cucina del popolo, come si è visto, era salata, e quella delle élite dolce,
se il nobile consumava la propria cacciagione e il contadino macinava coi denti le
sue aspre granaglie, la nutrizione della borghesia parte da basi insipide, come le
paste, le patate, il vitello, il pollo, il pesce in bianco, e le valorizza. Esprime
una sua ricerca di ciò che è poco sapido, morbido, di colore «naturale», eventualmente
aggiustato con l’uso di salse. I condimenti più forti, il vino nero per una marinata
e un civet, lo zucchero per una crostata, hanno un posto a parte, assegnato e non invasivo.
La conserva e in particolare l’appertizzazione168 favoriscono questa linea di sapori meno intensi, in cui la presenza del mezzo, sale
o aceto, zucchero o grasso, non fornisce più il sapore dominante. L’uso delle salacche
tradizionali, baccalà e acciughe, dei legumi secchi, piselli e fave, e dei sottaceti
dà una connotazione popolare a quelle stesse derrate che messe in scatola metallica
sott’olio (sardine) o in soluzione acquosa (piselli) diventano «fini».
Mentre i sapori semplici e forti sono sinonimi di cucina povera, quelli complessi,
le salse francesi in particolare, risultano sospetti come esiti di una falsificazione
deliberata e nemica dello stomaco. In questo caso non è l’ingrediente, un cucchiaio
di brodo ristretto o di Xerès, un fondo di cottura o di cognac, a destare perplessità,
ma il lavoro di combinazione, l’alchimia che produce un sapore, un colore, un profumo
irriconoscibile. Il gastronomo borghese userà una sola arma per discreditare le due
serie di valori sensoriali, quelli alti come quelli bassi: l’accusa di essere indigesti.
Qualche eccezione, per lo più regionale, di incroci saporiti, la lepre, il cinghiale,
il baccalà dolce-forte, non fa che confermare la regola. Molte delle dominanti gustative
dei secoli passati sopravvivono in margine al patrimonio culinario.
Dietro i bruciori di stomaco stanno ovviamente anche dei pregiudizi o meglio delle
scelte ideologiche. L’italiano abbiente inurbato, iscritto alla Giovine Italia prima
del 1860 e nazionalista dopo, vede di malocchio i condimenti estranei e a maggior
ragione stranieri. Di fronte a quelli esotici, il suo pregiudizio cresce a dismisura.
Se l’impiegato di Flaubert, Bouvard, «aveva paura delle spezie come se dovessero incendiargli
il corpo»169, Artusi dà prove ripetute di una analoga repulsione. A Napoli è deluso dai maccheroni
distribuiti per strada, per il «loro modo di condirli con molto pepe e cacio piccante»170. Il suo uso dell’aggettivo piccante merita attenzione. Le salse che sono così denominate nella Scienza in cucina comportano capperi ma spremuti dell’aceto, una o due acciughe tritate, agro di limone171. Il piccante non rinvia né al pepe né al peperoncino né allo zenzero, e ha diritto
di ospitalità solo nell’ambito di una cucina fine, morbida, untuosa, con sapori che
non persistono nel palato, che non fanno, come l’aglio, la strada inversa dalle cavità
ventrali su su fino alle labbra.
Questo non significa che la forza del sale della cucina popolare non possa essere
smorzata e addomesticata. Benché il baccalà non sia «confacente agli stomachi deboli»,
e perciò Artusi ripeta di non poterlo digerire, esso figura in numerose ricette in
quanto derrata vantaggiosa e diffusa ovunque. La conserva in questo caso copre un’area
nazionale e internazionale (la brandade de morue è presente con il titolo di baccalà Montebianco) e quindi merita di essere riconosciuta come uno dei valori rappresentativi di un
codice borghese del gusto. Le differenze fra una regione e l’altra possono essere
attenuate con un compromesso per così dire gastronomico: a una ricetta di maccheroni
alla napoletana autoctona e complicata se ne può sempre opporre una più semplice.
In questo caso, le differenze servono a riunire segmenti di territorio con storie
diverse in un’unità nazionale che le legittima.
Il nazionalismo non è solo un sentimento privato e borghese, che permette di incollare
sulla carta d’Italia immagini di vini e di specialità con il loro pregio, quelle del
baccalà su Vicenza, del carpione in aceto sui laghi alpini, del peperoncino e dei
fichi sull’Aspromonte. Sopra di esso c’è uno Stato che rimodella la società italiana
dal basso. Fra le istituzioni che più hanno influito su questo tipo di livellamento
vi è quella militare, in particolare nei quattro anni della prima guerra mondiale.
Sino al 1916, la razione della prima colazione del fante, escluso il pane computato
a parte, comprende i seguenti generi: «fichi secchi gr. 120 o castagne gr. 150 o mandorle
o noci o nocciole (col guscio) o formaggio gr. 40 od olive e sardelle od aringhe gr.
30 o mele fresche gr. 200». È uno specchio ipotetico del primo pasto del contadino
nelle diverse regioni d’Italia, con conserve tradizionali secche e salate; essendo
distribuito a tutti i soldati esso coinvolge anche quella popolazione urbana che da
generazioni aveva abbandonato i campi e i fichi secchi. All’alto potere calorico corrisponde
un valore gustativo intenso, che assimila il primo ai successivi pasti della giornata.
Un anno dopo, nel 1917, la razione viene cambiata con 8 grammi di caffè tostato e
10 grammi di zucchero172. Alla disparità dei regimi regionali succede l’unificazione di tutta la truppa, sul
modello degli alleati francesi e inglesi. Il sapore dolceamaro del caffè, già accordato
eccezionalmente nel corso della guerra di Crimea173 per combattere il colera e la deficienza di vino, segna e segnerà definitivamente
il risveglio e la ripresa dell’attività motoria. È uno degli alimenti nervini, con
il cioccolato e persino il tè, che vengono assegnati d’ufficio e quindi fatti conoscere
durante la prima guerra mondiale, con il preciso scopo di innalzare la dose giornaliera
di stimolanti.
Il caffè non è il solo prodotto industriale distribuito giornalmente a tutti. La pasta
secca, la scatoletta di carne, il baccalà, il formaggio (emmenthal, fontina, sbrinz,
provolone, pecorino) mostrano chiaramente l’esistenza di un progetto di unificazione
del gusto, con la creazione di due livelli di valore, quello tradizionale, della memoria,
della propria terra, e quello attuale, dell’industria e del fronte. La caserma, le
trincee diventano una scuola della modernizzazione nutritiva e di (momentanea) sospensione
delle tradizioni locali; creano dei consumi, ne cancellano altri.
La formazione di un gusto italiano viene da questa azione di livellamento in cui il
modello borghese funge da referente «alto», mentre il suo corrispondente «basso» è
costituito dal rancio, dalle mense operaie, dalla refezione delle scuole e delle colonie,
dalla cucina degli ospedali e da tutte quelle istituzioni che figurano a carico del
bilancio statale. Non è solo la guerra a imporre il medesimo cibo per i soldati e
per i civili, ma è un progetto di società centralizzato e collettivamente gestito
da poteri pubblici e privati. La forza persuasiva di tale regime è tanto più efficace
in quanto rende possibili a tutti – lo si è visto con il caffè e con lo zucchero –
i consumi della piccola borghesia cittadina. Non stupirà quindi di trovare nel Cuciniere militare del maresciallo maggiore Fornari, in epoca fascista, ampie tracce degli orientamenti
sensoriali che caratterizzano Artusi e i ricettari del primo Novecento: pochissime
spezie (pepe e chiodi di garofano), parsimonia nel sale, moderato tenore di grassi.
La salsa piccante calda, da servire con il lesso, prevede 1 litro d’aceto e appena
10 grammi di pepe per 100 uomini. Anche qui è l’aceto, non il pepe, a essere sinonimo
di piccante. Per il grasso, lardo o olio, Fornari raccomanda la parsimonia e ricorda
che «nelle cucine di lusso, i cuochi sgrassano completamente i sughi e le salse una
prima volta prima di bagnarle, ed una seconda, prima di mandarle in tavola»174.
Il gusto di massa nasce per imitazione, ma si consolida grazie alla mensa e al razionamento,
particolarmente rigido fra il 1940 e il 1946, e al più elevato tenore di vita che
apre la via a un’azione capillare delle industrie alimentari conserviere. In un panorama
nutritivo sempre più vario, in cui giocano non solo le opposizioni città-campagna
ma quelle fra i ceti urbani stessi, in cui le emigrazioni interne della popolazione
sono importanti e cambiano i mercati rionali, è difficile parlare di tendenze univoche,
ma se esistono valori egemoni, sono quelli rappresentati dai prodotti industriali.
La scatoletta e il dado di carne fungono da unità di sapore, sia nell’immaginario
popolare, sia nel giudizio gastronomico dominante. Le grandi industrie nazionali non
provvedono solo a standardizzare i prodotti condizionando i ricettori gustativi dei
consumatori, ma conferiscono a essi un valore aggiunto, il lavoro di mondatura e di
taglio, di preparazione e precottura. I pelati Cirio, l’estratto di carne Arrigoni
rientrano nel paniere dei semilavorati che fanno risparmiare tempo e risultano, come
appare dai ricettari pubblicitari, applicabili a un numero altissimo di preparati.
La variabile del taglio di carne bovina, del tempo di cottura, della schiumatura e
della filtrazione dei brodi è abolita in un estratto che ha lo stesso sapore e colore
in milioni di dosi. La medesima cosa vale per la maturazione, la scelta, la bollitura
del pomodoro San Marzano. Nulla di strano, considerando che le materie prime finiscono
in scatola da ogni parte del mondo e che i prodotti finiti sono destinati a tutti
i mercati.
Il piatto eseguito con l’impiego di semilavorati, il pacco di maccheroni e la scatoletta
di pelati, non entra apertamente in conflitto con le preparazioni domestiche (la pasta
fresca) né con quelle della cucina fine (il pasticcio di maccheroni). Comporta anch’esso
delle varianti, di cottura – la pasta sarà più o meno al dente – e di condimento.
Siccome in Italia convivono per tutto il Novecento tradizioni regionali distinte,
e uno stesso termine, piccante, in Calabria e in Emilia indica due valori sensoriali radicalmente diversi, più che
di condimento dovremmo parlare di riequilibrio dei sapori. Non sono più gli ingredienti
principali che conferiscono il gusto dominante, perché questo, elaborato in uno stabilimento,
è lo stesso per tutti e quindi deve avere un’intensità modesta; sono quelli secondari,
che potremmo chiamare condimenti discrezionali. Una delle caratteristiche di un’industria
di conserve vegetali come la Cirio, la cui storia copre tutto il XX secolo, è quella
di fornire un paniere di prodotti merceologicamente affini, che nel più breve tempo
vengono trasformati con operazioni semplici, e possono essere ulteriormente personalizzati.
Dato un pacchetto di spaghetti e, per il sugo, dei pelati e delle alici in scatola,
prodotti distribuiti in gran parte del paese, i veri condimenti sono il prezzemolo,
l’aglio, il pepe, il peperoncino, il formaggio più o meno salato, tutti o uno solo,
i quali, tritati o grattati, costituiscono l’apporto personale del consumatore. Di
fronte allo stesso piatto di pastasciutta, a dare il profilo aromatico sono le spezie,
le erbe, i latticini – i sapori più antichi.
Questo almeno accadeva in una fase ormai remota della storia alimentare, visto che
l’olio aromatizzato all’aglio, il formaggio in polvere e in busta, il prezzemolo surgelato
potrebbero supplire anche all’ultima e residua fase di condimento, eliminando qualsiasi
variante stagionale o locale. Riducendo il tempo consacrato al mercato, restringendo
ulteriormente il lavoro di cucina, attirando gli acquirenti verso cibi precotti da
riscaldare, risultano vincenti proprio quei piatti che rispondono a una definizione
gustativa generica, a una riconoscibilità sempre più ampia, nazionale più che locale.
Sale il numero di confezioni disponibili in ogni supermercato europeo, cresce soprattutto
la ricerca di prodotti standard, lo stesso tortellino di pasta con cento ripieni diversi,
capaci di omologare i consumi senza sopprimere l’esistenza delle varianti.