La resistenza lunga

Dopo la resa dell’Italia, l’8 settembre 1943, la lotta armata degli antifascisti è l’ultimo capitolo di una lunga resistenza al fascismo durata più di venticinque anni. L’eroica battaglia dei partigiani in questo ultimo tragico epilogo del conflitto mondiale, diventato anche guerra civile, ha in parte oscurato la ricostruzione dell’intera storia dell’antifascismo, eroica quanto i diciotto mesi resistenziali.

Lunga è stata la resistenza, iniziata nel 1919, costata feriti e caduti sotto i colpi degli squadristi, continuata dopo il 1922 nella clandestinità, nell’esilio, nelle carceri e al confino. Una condanna a vita per gli antifascisti che hanno sacrificato tutto, affetti, amori, lavoro, ma non si sono arresi. Resi invisibili agli occhi degli italiani, a loro volta imprigionati entro le mura di una dittatura totalitaria, gli antifascisti non sono rimasti passivi testimoni delle libertà e dei diritti perduti. Si sono rinnovati nei valori e nei programmi politici; hanno aperto un confronto con i cattolici, i liberali e i democratici, restati da privati cittadini nel paese fascistizzato senza però rinunciare a trasmettere i loro ideali antifascisti alle giovani generazioni che il dittatore educava al culto dello Stato fascista. Su questo ricco patrimonio di pensiero, di saperi, di progetti per il futuro, gli antifascisti hanno costruito le fondamenta della nuova Italia repubblicana e democratica.

Simona Colarizi racconta La resistenza lunga

 

 

Il saggio di Butler fra etica e politica

Domenico Ribatti | la Repubblica Bari | 2 novembre 2023

Judith Butler è nata nel 1956 a Cleveland, nell’Ohio da una famiglia ebraica russo-ungherese vittima dell’olocausto per parte materna, dopo il dottorato a Yale, perfeziona i propri studi di teoria critica. I suoi interessi spaziano dalla teoria politica di Hannah Arendt a quella di Michel Foucault, dal positivismo giuridico di John Austin all’ermeneutica tedesca. Attualmente insegna presso il Dipartimento di retorica e letterature comparate all’Università di Berkeley. L’Università il 16 ottobre scorso le ha conferito il Dottorato Honoris Causa in “Gender Studies”. Questo Dottorato di interesse nazionale, coordinato dalla professoressa Francesca Romana Recchia Luciani, è al suo primo ciclo ed è stato promosso dall’Università degli Studi di Bari Aldo Moro, in convenzione con altre 15 università e con docenti italiane e straniere.

Butler nel corso dei suoi studi si è molto interessata a quelle persone il cui genere o la cui sessualità sono al centro di conflitti di vario tipo, cercando di contribuire a rendere il mondo un luogo in cui si possa vivere più facilmente. In questo contesto si inscrive l’ultimo suo saggio pubblicato recentemente dalla casa editrice Laterza e intitolato Che mondo è mai questo?.

Per portare l’analisi del contenuto del libro su temi a me più vicini, il secondo capitolo si intitola “I poteri della pandemia. Riflessioni sulla vita in lockdown”, ed è dedicato alla esperienza della post-pandemia. La pandemia ha lasciato segni indelebili sulla nostra società. Ricerche sulla salute mentale hanno evidenziato un aumento dei sintomi di depressione, ansia e disagio psicologico. Molti giovani hanno rivisto i propri progetti di vita, alcuni hanno smesso di studiare o hanno perso il lavoro. La pandemia, con l’arresto forzato delle attività in presenza, è stata un’occasione per riflettere sul valore delle istituzioni educative non solo come luoghi di formazione del sapere, ma anche come luoghi di incontro in cui sviluppare relazionalità.

Prima la pandemia, poi la guerra si sono abbattute su di una società che faticosamente stava ricominciando a guardare in avanti dopo la crisi del 2008. Malattia e salute vanno sempre considerati come il risultato di un processo con tre protagonisti: gli individui, l’ambiente naturale (con le cause di malattia in esso presenti) e l’ambiente sociale, che produce altre cause di malattia ma al tempo stesso occasioni per la cura.

Queste considerazioni ci rimandano al terzo capitolo del saggio della Butler, che ha come titolo “L’intreccio come etica e come politica”. Come non ricordare la celebre conferenza di Max Weber del 1919, nella quale definisce l’etica della responsabilità come quella forma di etica che caratterizza la funzione specifica di chi ha un compito politico e deve avere la capacità di decidere tenendo conto delle conseguenze, non necessariamente immediate, che comportano le proprie scelte. L’etica della responsabilità, secondo Weber, si addice specificamente a chi esercita l’attività politica come professione. La politica sembra la grande assente nello scenario della crisi. Una democrazia liberale matura si nutre dell’intreccio tra libertà e responsabilità, tra diritti e doveri, i primi sempre più spesso rivendicati, i secondi troppo trascurati. In una parola, buon governo come capacità di progettare e di fare. Evitando le scorciatoie assistenziali e corporative.

Chiesa e sesto comandamento. Storia di un equivoco cercato

Marco Ventura | Corriere della Sera | 11 gennaio 2024

Nella prima intervista mai rilasciata da un Papa, sul «Corriere della Sera» del 3 ottobre 1965, Paolo VI ammette la difficoltà della Chiesa davanti al ricorso in massa dei cattolici agli anticoncezionali. «La Chiesa non ha mai dovuto affrontare, per secoli, cose simili», spiega il Pontefice ad Alberto Cavallari, «si tratta di materia diciamo strana per uomini di Chiesa, anche umanamente imbarazzante». Prosegue Paolo VI: «Le commissioni si riuniscono, crescono le montagne delle relazioni, degli studi. Oh, si studia tanto, sa. Ma poi tocca a me decidere. E nel decidere siamo soli». A distanza di più di mezzo secolo, la solitudine degli uomini di Chiesa sembra cresciuta: alla sfida della libertà sessuale si è infatti aggiunta quella delle violenze, in particolare su donne e minori, commesse talvolta anche da preti e religiosi.

Nel suo libro Atti impuri, la storica Lucetta Scaraffia risponde all’aggravarsi della crisi con una denuncia e con una analisi. La denuncia riguarda l’incapacità della Chiesa di elaborare un pensiero e una azione in favore delle vittime di abusi, in sintonia con il principio per cui è legittimo solo il sesso consenziente e tesi, scrive Scaraffia, ad «emancipare la sessualità dalle forme di dominio e di oppressione».

L’analisi individua la causa di tale incapacità nell’interpretazione del sesto comandamento quale divieto di commettere «atti impuri», secondo una «concezione di sessualità tipica di un gruppo umano che si difende stabilendo le regole di purezza», spiega l’autrice, col risultato di rinchiudere «ogni peccatore dentro sé stesso, nel tentativo di cancellare l’impurità». Si è finito così per colpevolizzare la vittima, in fondo sempre complice, senza lasciar «spazio per il partner sessuale come persona».

Convinta che solo la comprensione della storia possa produrre un vero cambiamento, Lucetta Scaraffia propone a lettrici e lettori un percorso nei secoli lungo le traiettorie seguite dal comandamento sugli atti impuri, «l’unico la cui formulazione è stata cambiata radicalmente nel corso dei secoli». Nel tempo, si argomenta nel volume, il sesto comandamento è stato oggetto di un duplice tradimento interpretativo. Si è da un lato tradita la dimensione comunitaria, sociale, della versione ebraica del divieto, formulato in principio come «non commettere adulterio», in favore di una individualizzazione del peccato di «fornicazione», perfezionatosi con il Concilio di Trento e ancora presente nel catechismo di Pio X del 1908. E stato poi tradito, dall’altro lato, il «nuovo spirito» con cui Gesù vivifica i comandamenti, «fortemente caratterizzato dallo slancio dell’amore verso Dio e verso il prossimo», e teso a cancellare, ancora con Scaraffia, «ogni concetto di impurità legato a circostanze concrete, a esperienze fisiche», così da «rimandarlo alla sfera delle intenzioni».

Non soddisfatta dalle recenti riforme nella teologia e nel diritto della Chiesa, giudicate ancora timide e confuse, l’autrice invita a gestire in modo nuovo il conflitto di potere in corso nella Chiesa sulla sessualità. «Nel decidere siamo soli», diceva Paolo VI al «Corriere» sessanta anni fa, con un plurale maiestatis che univa alla sua personale solitudine quella degli uomini di Chiesa. A quegli uomini soli Lucetta Scaraffia ricorda ora come l’equivoco sugli atti impuri riveli «una concezione della sessualità prettamente maschile» e suggerisce di partire proprio da lì: dal fatto che «nella Chiesa le donne non sono ascoltate».

Israele-Palestina: discutere la guerra

[Nell’intenzione di offrire un contributo alla discussione di una vicenda così difficile da comprendere in tutte le sue componenti, abbiamo rivolto alcune domande ad autori della casa editrice e studiosi competenti delle diverse questioni implicate nel conflitto in corso.

La situazione cambia di giorno in giorno e nuovi elementi potranno integrare l’analisi.

Dopo gli interventi di Anna Foa, Marcello Flores, Giovanni Gozzini e Claudio Vercelli, pubblichiamo il contributo di Arturo Marzano, professore associato presso il Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere dell’Università di Pisa. Si occupa in particolare di storia del sionismo, dello Stato di Israele, del conflitto israelo-palestinese e dei rapporti fra Europa e Medio Oriente.]

 

Gli eventi drammatici che si sono succeduti in Israele/Palestina a partire dal 7 ottobre costituiscono uno spartiacque all’interno del conflitto israelo-palestinese ed è piuttosto chiaro che la storia ricorderà quanto sta accadendo in questi mesi come un momento di svolta. La portata di questi avvenimenti non si può ancora valutare fino in fondo, ma alcune riflessioni sulle implicazioni politiche credo si possano già fare.

Nello specifico, ritengo che quattro siano gli aspetti principali che tali avvenimenti stanno mettendo in luce. In primo luogo, la riacquisizione della centralità politica della Palestina a livello globale. Non è chiaro – e forse non lo sarà mai – quale fosse l’obiettivo dell’attacco di Hamas, ovviamente configurabile come atti terroristici e crimini di guerra. È possibile che lo scopo principale fosse essenzialmente la cattura di ostaggi, militari e civili, in modo tale da effettuare uno scambio per liberare le migliaia di prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. In ogni caso, il risultato del 7 ottobre e della guerra in atto a Gaza è stato riportare la Palestina al centro del dibattito politico mondiale, in un periodo in cui le guerre civili in Siria e Yemen, da un lato, e gli accordi di Abramo, dall’altro, avevano relegato in un angolo il conflitto israelo-palestinese, come se in Medio Oriente si potesse andare avanti facendo finta di niente. Il fatto che il presidente americano Joe Biden oggi parli apertamente di una soluzione politica al conflitto secondo la logica “due popoli, due Stati”, indipendentemente dal fatto che questa sia praticabile o meno, è un risultato politico importante, che Hamas certamente si intesta e si intesterà.

E questo mi porta a parlare del secondo aspetto. Anche in questo caso, è molto difficile esprimere un giudizio a caldo. Tuttavia, è plausibile che Hamas, lungi dall’obiettivo israeliano di “cancellarla”, si stia in realtà rafforzando nei consensi all’interno del mondo palestinese; e questo conferma come Hamas abbia tutta l’intenzione – e, a mio avviso, la capacità – di giocare un ruolo di primo piano all’interno della politica palestinese dei prossimi anni. Come sarà possibile fare finta che Hamas non sia un attore politico da cui non si può prescindere? Quale sarà l’atteggiamento dell’Unione Europea e degli Stati Uniti verso la forza islamista? Proseguirà la chiusura, come accadde nel biennio 2007-2008, oppure si assisterà ad un cambiamento di politica, con l’apertura di un dialogo? L’Unione Europea, attualmente schiacciata sulle posizioni statunitensi, recupererà una propria autonomia, come era successo in passato? Chi ha un minimo di memoria storica non può non ricordare come Bruxelles nel 1980 avesse deciso di riconoscere l’OLP come un interlocutore politico, nonostante Stati Uniti e Israele la ritenessero un’organizzazione terroristica. Così facendo, l’allora Comunità economica europea dialogò con l’OLP, incidendo su quel percorso di moderazione che portò quest’ultimo al riconoscimento di Israele. Se nel breve periodo non sembra che l’Europa sia disposta a mutare il proprio atteggiamento verso Hamas, nel medio periodo è possibile che le cose cambino, soprattutto se, rileggendo la storia degli ultimi quindici anni, ci si renderà conto del fatto che l’ostracismo di Bruxelles e Washington nel biennio 2006-2007 abbia finito per radicalizzare Hamas, ponendo fine ad una fase pragmatica iniziata nel 2005. Peserà certamente sul comportamento dell’Unione Europea l’atteggiamento del governo israeliano, impegnato a impedire un cambio di politica europea verso Hamas. Ma la questione di fondo non potrà essere elusa: come è possibile agire in Palestina senza il coinvolgimento di Hamas, un attore politico così rilevante, se non il più rilevante?

Il terzo aspetto concerne la strategia che sta portando avanti il governo israeliano. Per quanto concerne gli obiettivi di Israele, la “cancellazione” di Hamas è stata ripetuta costantemente negli scorsi mesi da numerosi esponenti della politica israeliana come il risultato cui mirano le operazioni militari a Gaza, che non possono non essere definite crimini di guerra vista la assoluta sproporzionalità sotto gli occhi di tutti. Non è tuttavia chiaro che cosa significhi “cancellazione” e come il governo israeliano pensi di poterla concretamente realizzare. Come è noto, Hamas ha una leadership plurale, sparsa in vari paesi del Medio Oriente e decapitarla è dunque del tutto irrealistico. È possibile che Israele si accontenti di uccidere Yahya Sinwar e Mohammed Deif, rispettivamente leader politico di Hamas a Gaza e capo dell’ala militare. Fermo restando che Israele ci riesca, cosa non facile, rimane un punto fondamentale: come la storia ha già dimostrato – si pensi all’uccisone dei due ex-numeri uno di Hamas, Sheikh Ahmed Yassin e Abdel Aziz al-Rantisi – una volta eliminati loro, ci sono decine di persone pronte a sostituirli e nulla lascia pensare che queste siano più disposte a compromessi. Al contempo, Hamas è un attore complesso e, oltre alla sua ala militare, vi è quella politica e quella sociale, il che spiega perché l’organizzazione islamista goda ancora di molti consensi in Palestina. “Cancellare” Hamas significa annientare la sua leadership o eliminare le migliaia di persone che la sostengono per le sue attività sociali e il suo impegno politico? Le conseguenze della guerra sulla popolazione della Striscia di Gaza sono evidenti a tutti coloro che abbiano voglia di documentarsi: quasi 29.000 morti, di cui più di 12.000 bambini; la distruzione di circa il 50% delle abitazioni private, come pure di centinaia di strutture pubbliche, dagli ospedali alle scuole, alle università, ai luoghi di culto, agli uffici governativi; circa l’85% della popolazione di Gaza sfollata all’interno della Striscia. Che cosa vuole ottenere il governo israeliano? Numerosi esponenti israeliani, sia civili sia militari, hanno evocato la pulizia etnica della Striscia, in linea con una tradizione di lungo corso, presente tanto nel movimento sionista quanto nella leadership israeliana: il sogno di stabilire una maggioranza ebraica in Eretz Israel (contro cui ad esempio scriveva l’ebreo romano Enzo Sereni già a metà degli anni Trenta), acquisendo terra senza la popolazione palestinese che vi risiedeva e incoraggiandone l’emigrazione volontaria, in particolare dalla Striscia di Gaza, come evidente subito dopo la conquista del 1967. Anche se per comprendere quanto sta accadendo ci vorrà ancora tempo, ci sono molti elementi che fanno pensare che pulire etnicamente la Striscia, facendo allontanare il più alto numero di palestinesi, sia il vero obiettivo di Israele. Dove, d’altronde, potrebbe vivere la popolazione della Striscia se questa è un cumulo di macerie e i bombardamenti israeliani non accennano a diminuire? Al contempo, c’è un’altra pulizia etnica che sta andando avanti silenziosamente, o meglio nel silenzio dell’opinione pubblica europea e americana, quella della Cisgiordania, dove gruppi di coloni di estrema destra, sostenuti in questo dai partiti di governo che rappresentano i loro interessi, stanno cacciando contadini e allevatori palestinesi dai villaggi dove risiedevano da generazioni. La guerra a Gaza sta permettendo al governo di fare tutto questo, mentre la società israeliana, comprensibilmente scossa da quanto accaduto il 7 ottobre e dall’irrisolta vicenda degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas, si disinteressa di quanto accade a pochi chilometri di distanza, con l’eccezione delle solite ammirevoli associazioni della società civile israeliana, impegnate a impedire fisicamente gli attacchi dei coloni contro villaggi palestinesi, come testimoniato dall’altrettanto ammirevole giornalismo indipendente israeliano, si pensi al quotidiano Haaretz.

Il quarto aspetto che merita di essere portato all’attenzione è, infine, l’aumento di islamofobia e di antisemitismo nei contesti europeo e americano. Si tratta di fenomeni preoccupanti, che non possono passare inosservati e devono essere totalmente condannati. La questione è come combatterli, ed è qui che la politica ha un ruolo fondamentale. Mi concentro in particolare sull’antisemitismo, poiché episodi chiaramente antisemiti sono stati negli ultimi mesi numerosi in Italia. Questi eventi si intrecciano con un dibattito piuttosto acceso relativo alla definizione di antisemitismo e, nello specifico, al rapporto tra antisemitismo e antisionismo. Sebbene esistano delle possibilità di sovrapposizione tra i due – troppo spesso critiche alla politica israeliana pescano da un «archivio antiebraico» molto corposo, utilizzando retoriche esplicitamente o implicitamente antisemite – il rischio di un eccessivo schiacciamento del secondo sul primo è che qualsiasi critica a Israele sia potenzialmente interpretabile come antisemita. In questo modo, da un lato, si mette il bavaglio a singoli o a gruppi che denunciano la politica israeliana con evidenti conseguenze negative sulla libertà di espressione; dall’altro, si perde di vista quell’antisemitismo – purtroppo ancora molto presente in Europa, inclusa l’Italia – che non ha a che fare con la politica israeliana, ma si basa su pregiudizi e ostilità contro gli ebrei di lunghissimo periodo. Il fatto che attacchi a singoli ebrei o luoghi riconducibili alle comunità ebraiche aumentino durante guerre che vedono coinvolto Israele è ovviamente intollerabile, ma ciò non deve dare adito ad un silenziamento delle voci che criticano Israele con l’accusa, peraltro spesso del tutto pretestuosa, di antisemitismo.

Soltanto il tempo dirà in che modo gli eventi drammatici di questi mesi, con un cessate il fuoco che ancora non arriva e che invece andrebbe implementato al più presto, incideranno su una possibile soluzione del conflitto israelo-palestinese. Nulla, in questo momento, lascia pensare che israeliani e palestinesi possano intraprendere un processo che porti ad una soluzione politica del conflitto. Esiste tuttavia una luce che, seppure fioca e marginale, illumina la notte. Si tratta dei gruppi congiunti arabo-ebraici, israelo-palestinesi che si incontrano, manifestano, propongono iniziative di pace dal basso. Ne citerò uno solo, ‘omdim be-iachad / naqif ma‘an [stiamo in piedi insieme in ebraico e in arabo], uno dei cui slogan post-7 ottobre è assolutamente commuovente: «supereremo questo insieme». Nonostante la situazione drammatica in cui versa la popolazione di Gaza, e nonostante il dolore e l’angoscia nella società israeliana per quanto accaduto il 7 ottobre e per le sorti degli ostaggi, questi gruppi dimostrano che incontrare l’altro è possibile e necessario, anche – se non soprattutto – in questi momenti.

 

Maurizio Ferraris | Imparare a vivere

La caduta

L’anno moriva dolcemente. Ma il 21 dicembre 2022 risultai positivo al covid, e il 27, primo giorno di libertà (o di negatività al virus, se vogliamo dargli un tono dialettico), mi sono spaccato il braccio sinistro su un sasso a Matera: omero scomposto, questa la diagnosi. Una botta, in tanti sensi, e in qualche modo una illuminazione. E una riflessione, nel momento in cui, sotto la forma di un incidente banale, una caduta e un braccio rotto, la vita sembra darci un avviso e suggerirci che tutto quello che avevamo ritenuto stabile, robusto, assodato, potrebbe andare in pezzi come l’omero che sbatte sul taglio vivo di un gradino bianco, abbagliante, illuminato da un sole invernale ma più brillante che mai.

La botta ha generato un omero decostruito, non solo nel senso che la composizione fisica della testa dell’omero era variata, e si doveva aspettare con pazienza un lavorio di ricostruzione, callificazione, calcificazione, mentre un processo del genere aveva luogo, in parallelo, nello spirito del dislocato e del decostruito, del fuor di sesto e del fuor di testa che ero diventato non solo e non tanto per l’incidente, quanto piuttosto per la piega che aveva preso la mia vita. Fuor di sesto appariva infatti, ed è apparsa per tanti mesi (e in parte tutt’ora, siamo franchi) la mia vita, con tutti i programmi messi sottosopra e insieme rimessi in discussione. Così, riassestare l’omero scomposto e l’ometto sconvolto che ne era detentore ha preso del tempo e minaccia di prenderne a voi.

Diciamo, a voler essere ottimisti, che ha occupato uno spazio anche più ampio di quello che va dal solstizio d’inverno, giorno della positività al covid (e passando da un equinozio di primavera che vorrei poter dimenticare) al solstizio d’estate. In quel giorno, cortesemente invitato dalla mia Università a tenere una breve allocuzione sul significato della conoscenza, soprattutto in ambito umanistico, ho dato una primissima forma ad appunti, note, frammenti e scritti vari sull’“imparare a vivere” che ero venuto accumulando negli anni e che l’incidente aveva – è il caso di dirlo – fatti precipitare.

Quegli appunti, ovviamente, non contavo di leggerli per intero agli astanti, che ne sarebbero stati sbigottiti, costernati, annoiati; non avrei osato sfidare a tal punto il buon senso e la buona educazione (il tempo assegnatomi era venticinque minuti). Inoltre, a volte, i frammenti erano parte di riflessioni personali o di scritti occasionali composti in precedenza. In molti altri casi, invece, si è trattato di aggiunte e di sviluppi nati da seconde, terze e quarte stesure in un libro la cui dimensione è smilza ma la stesura è stata laboriosa perché non è uno dei tanti libri che, per lavoro, per passione, spero non per abitudine, ho scritto in vita mia.

In queste pagine, per esser chiari, non si tratta di filosofia. Nella materia e nella forma vi trovate di fronte a un mélange di argomenti che ruotano intorno alla vita e a come si possa imparare a vivere. Non siamo ai brevi cenni sull’universo, insomma, ma poco ci manca. Il loro scopo non vuole essere autobiografico, ma rappresenta un tentativo di mettere a fuoco, a grandi linee, la galassia di sentimenti, risentimenti e ragionamenti emersi nell’era dell’osso dissestato e del tempo disossato, diventato più informe e fluido, tra impegni che sparivano per indisponibilità fisica e poi corse ad ostacoli per recuperare in affanno gli appuntamenti mancati.

Con tutta questa insistenza sul dissesto e sul fuor di sesto ovviamente ho in mente Shakespeare. The time is out of joint: O cursed spite, That ever I was born to set it right! Così Amleto, succube di quella droga pesantissima che è l’autocommiserazione. “I tempi sono fuor di sesto; brutta sorte, che io debba essere nato per mettere ordine!” Così il principe depresso, alla fine del primo atto, lamentando le condizioni del regno di Danimarca.

“Out of joint” è la disfunzione di un oggetto tecnico (dunque anche di un omero scomposto, se consideriamo il corpo come una macchina chiamata a servire le nostre volontà). Ma è anche il malfunzionamento del tempo, che esce dalle sue coordinate, dalla scansione regolare che le nostre occupazioni e le nostre abitudini gli avevano dato. Un tempo che, come una porta rotta, è scardinato o sgangherato: talvolta, infatti, il verso si traduce con “il tempo è uscito dai suoi cardini”, oppure – con una espressione che ormai si usa quasi soltanto come la metafora di uno stato d’animo alterato – “è fuori dai gangheri”. Per parte sua, Amleto si sente chiamato a una azione che è, insieme, tecnica e politica, manuale e spirituale: “to set it right”. Aggiustare, anzi, proponiamo, “riparare”, perché non solo in Danimarca c’è bisogno di una azione tecnologica e umanistica per rimettere in sesto i tempi, le vite collettive così come i destini individuali.

Lungi da me aspirazioni così titaniche. Titanica e ciclopica è apparsa, già da sola, l’idea di raccapezzarsi in una vita diventata friabile e scoperta, “offesa”, come recita il sottotitolo dei Minima moralia di Adorno, “Meditazioni della vita offesa”, con un termine che si usa anche in medicina (“l’arto offeso”). Mi è costata, come si può immaginare, tanta fatica. Forse uno sperpero che ha attinto a tutte le forze di autoanalisi che potevano nascere, per un paradosso che non è tale, dalla comprensione di ciò che non ho conosciuto se non per quella forma particolarmente insidiosa di “sentito dire” che è la letteratura e la saggistica. Perché questo mio libretto deriva non solo dall’esperienza viva e dai vari eventi, fausti o infausti che la caratterizzano, ma anche, se non più, dai libri, dalle scritture, dalle storie e dai racconti, da quel mormorio indistinto, industrioso e industriale, che chiamiamo “letteratura”.

Così, la residenza e la resilienza coatte successive all’incidente mi hanno suggerito di passare, con un semplice cambio di accento, a Omèro, provando a dare forma (dopotutto, il braccio era quello sinistro) a un’idea che mi portavo dietro da tempo, sebbene in forma alquanto sconnessa anche lei. Ossia entrare e soggiornare in un mondo strutturalmente frantumato, come frantumate e disperse sono, con uno sguardo retrospettivo non troppo indulgente, le vite degli umani, anche di coloro (statisticamente, la maggioranza) il cui omero non è fuori dai gangheri.

Un Òmero o Omèro, insomma, letterariamente spezzettato, non proprio come un ossobuco, ma di certo fatto a pezzi, ed è per questo che il modo in cui presenterò questo imperfetto tentativo di riparazione consiste in frammenti o rappresentazioni, aforismi della vita e aneddoti del pensiero in cui, mi auguro, riuscirò a riassestare, se non l’osso, lo spirito; visto che un calzino rammendato rimane rammendato e un osso calcificato è più robusto, ma non è più lo stesso, mentre può darsi il caso che le ferite dello spirito si ricompongano. Quando un inciampo ci suggerisce che forse non abbiamo ancora imparato a vivere, vale la pena di tentare ancora una volta, sperando in una brezza favorevole che ci disincagli dalla secca (come diceva Valéry? “Il vento si leva!… Bisogna provare a vivere”).

Prima di concludere questo esordio, vorrei spendere qualche parola per motivare la suddivisione degli argomenti. Quanto segue è, in fondo, una cauta apologia della tradizione tecnoumanistica, ossia umanistica in quanto tecnologica, e viceversa. Il che significa semplicemente questo: di apologie dell’umanesimo come fonte di ogni bene è pieno il mondo, così come, d’altra parte, le librerie traboccano di libri il cui scopo è metterci sull’avviso circa i pericoli con cui la tecnica onnipotente minaccia l’umano, scatenando una battaglia in cui si vaticina il trionfo dell’intelligenza artificiale che soggiogherà l’intelligenza naturale.

Sono radicalmente scettico rispetto a questa versione, semplicemente perché l’umano è l’impasto inestricabile tra un organismo, come tale portatore di bisogni e di fini, e una serie di mezzi – dai più rudimentali attrezzi all’intelligenza artificiale, e soprattutto al mondo sociale, che è il più complesso fra gli apparati tecnologici che abbiamo costruito e che ci definisce –: per cui l’ultima iniziativa, la decisione fausta o infausta, rimarrà sempre all’umano. Senza mai dimenticare, tuttavia, che l’umano come costrutto naturale e sociale, il protagonista della bella favola che ci raccontiamo (“da animali a dèi”), non è che il testimone secondario di eventi che hanno avuto inizio prima della sua comparsa e che si concluderanno in anni di cui avrà perso il conto perché sarà sparito da chissà quanto tempo. È dunque su questo batter d’occhio della storia naturale, e su una porzione infima, quella che ho visto e vissuto io, direttamente o attraverso la cultura, che si concentrano le quattro stazioni di questo percorso.

La prima, “Vivere”, si domanda che cosa significhi imparare qualcosa in merito al processo vitale in cui ogni umano si trova coinvolto, volente, nolente e spesso dolente. Che cos’è quell’evento, oscuro e controverso, in cui ci troviamo avviluppati dalla nascita alla morte, quel puzzle composto di primi giorni di scuola e di appuntamenti mancati, di viaggi indimenticabili perché stupendi o orrendi, di conti al ristorante, di figli che nascono, di amici che muoiono, di giornate che non vogliono finire? Val la pena di chiederselo perché non è assolutamente chiaro che cosa significhi “vivere”, tanto nel senso biologico della nostra prima natura, quanto in quello sociale, psicologico e culturale, della nostra seconda natura. E ancor meno chiaro è capire se e come sia possibile imparare a vivere, o quantomeno capacitarsi di quel che accade, fra peripezie e noia, pietà e terrore, timori, tremori e inaspettate felicità. Come ci si raccapezza? E, soprattutto, chi ci assicura che tutto questo sia solo l’illusione di capire e dar senso a ciò che non è detto che ne possieda? Anzi, che a stretto rigore di senso non ne ha, trattandosi di una infiammazione locale e passeggera, che sia la vita di un umano rispetto alla società o della vita in generale rispetto agli spazi e ai tempi dell’inorganico.

La seconda stazione, “Sopravvivere”, è dedicata invece ai molteplici e manchevoli tentativi che noi umani abbiamo escogitato per darci un’altra chance, altra vita dopo la vita. Un modo di prolungarla come Shahrazād con il suo sultano. Per esempio, minimalisticamente e massimalisticamente insieme, di celebrare un trionfo della fama sulla morte, cercando di lasciare qualche vestigio dopo che tutto è finito per noi. Con il dubbio risultato di consumare – su papiro o al computer, come me in questo momento – del tempo utile per far qualcosa di buono, se non per noi, almeno per altri. E sì che ce ne sarebbero di cose da fare, dal tagliar l’erba in giardino alla raccolta differenziata dei rifiuti; mentre spesso dilapidiamo i nostri giorni nel raccogliere e custodire le tracce da lasciare per il futuro, come i kamikaze che, prima delle loro missioni senza ritorno, deponevano in un astuccio le loro unghie e i loro capelli, tutto ciò che era destinato – se il termine non suonasse totalmente inappropriato – a sopravvivere allo schianto.

La terza stazione, “Previvere”, riguarda la giovinezza, l’unica fase della vita in cui abbiamo davanti tanto tempo, almeno in linea di principio e dando credito alle statistiche. Non è necessariamente un’età allegra, e personalmente non ne nutro alcun particolare rimpianto. Non sappiamo cosa ci riserva la vita che verrà, qui, sulla terra. La guardiamo spingendoci in avanti come qualcosa che non c’è ancora, anche se ci siamo già dentro sino al collo. Un po’ come, finita la scuola, i primi giorni non contavano come vacanza perché quella vera iniziava con la partenza per il mare. Certo si è colmi di speranze che non hanno nome e di curiosità ingenue o bizzarre, e la prefigurazione del dolore non è così limpida e tremenda come da adulti. E poi da adolescenti, si dice, si sottostimano i pericoli per via dei neuroni sovrabbondanti e non ancora stabilizzati. È in questi anni che, per farsi un’idea di come la vita può accadere, si leggono molti romanzi, ci si appassiona alla vita degli altri, scritta o vissuta. La letteratura entra in noi, un po’ come le fiabe nell’infanzia, e prosegue a modellare una natura che non è mai prima, è sempre seconda, contaminata, influenzata, condizionata.

La quarta e ultima stazione, “Convivere”, raccoglie il sugo della storia. A lungo anch’io mi sono coricato di buonora, maledicendo le portiere delle auto che si chiudevano sbattendo e dei motori di avviamento di quelli che uscivano dall’ultimo spettacolo di un cinema vicino alla casa in cui vivevo da bambino e da ragazzo. Per un periodo ancora più lungo, per decenni, fino forse al giorno della caduta, ho coltivato il mito di una vita non dico eroica ma quantomeno solitaria, un po’ come Faust nel suo studio. Di certo per l’influenza delle letture fatte, ma anche per una questione di carattere. Il convivere mi sembrava un obbligo imposto dalla nostra natura di animali sociali, una sorta di caduta e di ingiunzione sociologica o zoologica. La convivialità restava confinata a ricreazioni più o meno obbligate, a pranzi di famiglia e simili (le feste di compleanno tra compagni di scuola erano ancora una rarità), mentre la vita beata, che spesso confondevo con la vita attiva, anzi, fattiva, e principalmente solitaria, era un gioco aperto e spesso promettente.

La grande bellezza l’ho trovata per lungo tempo in certi agosti torinesi degli anni Settanta del secolo scorso, con la città deserta, la casa vuota, la tesi da scrivere perdendo un mare di tempo in letture secondarie e marginali. Oggi mi chiedo chi me lo facesse fare e cosa ci trovassi di bello nelle fantasticherie di un passeggiatore solitario che attraversava piazze e strade deserte come dopo un attacco nucleare o il passaggio della peste nera. Non c’era niente di bello, se non la speranza, sfocata al punto da non farmi capire che se c’è un senso del vivere sta proprio nel convivere, nel passare il proprio tempo con i propri simili, e nell’eleggerne alcuni come portatori di significati unici. Come diceva Rabelais? “Non costruisco che pietre vive, sono degli uomini.” E le pietre, lasciate sole, combinano poco, magari sono d’inciampo, e di sicuro non costruiscono niente; soprattutto se sono vive, e dunque non sono pietre, ma organismi destinati, in solitudine, a morire di fame, o di sete, o di noia.

Per simmetria con questo prologo o apologo, chiuderò con una coda, in senso zoologico o musicale, come si preferirà, o magari con una coda di paglia, che fa da controcanto alla caduta che ho appena raccontato, e costituisce l’inventario di quello che mi sembra di avere imparato in un corso di vita che, purtroppo ma in realtà per fortuna (avrei potuto essere caro agli dèi e morire giovane), è ormai lungo abbastanza da avermi fatto superare quella sottile linea rossa che separa l’uomo maturo dal vecchio. Ma anche il prologo si è fatto troppo lungo, è tempo di passare dai parerga all’ergon, dalla cornice al quadro, sperando che non vi deluda troppo (e qualora ciò avvenisse, beninteso, “credete che non s’è fatto apposta”).

[>> Maurizio Ferraris, Imparare a vivere]

Israele-Palestina: discutere la guerra

[Nell’intenzione di offrire un contributo alla discussione di una vicenda così difficile da comprendere in tutte le sue componenti, abbiamo rivolto alcune domande ad autori della casa editrice e studiosi competenti delle diverse questioni implicate nel conflitto in corso.
La situazione cambia di giorno in giorno e nuovi elementi potranno integrare l’analisi.

Dopo gli interventi di Anna Foa e di Marcello Flores e Giovanni Gozzini, pubblichiamo il contributo di Claudio Vercelli, storico contemporaneista e docente di Studi ebraici, che con la casa editrice ha pubblicato, tra l’altro, Storia del conflitto israelo-palestinese e Israele. Una storia in 10 quadri.]

 

Parole dure, parole necessarie: andare oltre l’abituale orizzonte

No, nulla sarà più come prima. Ammettiamolo, anche se ciò scardina non tanto certezze (quali – poi – se non quelle espresse da tifoserie contrapposte?) bensì l’abitudine a pensare che quel novero di attori, luoghi, circostanze e condotte, definito come «conflitto israelo-palestinese» sia comunque destinato a ripetersi, nella sua apparente inesorabilità, attraverso il fluire del corso del tempo. Quindi, in fondo sempre eguale a sé. Poiché se era così sembrato, illusoriamente, per il passato, del pari si riteneva che potesse essere ancora reiterato per il tempo a venire. Quindi, per l’oggi.

Il cosiddetto «status quo», tale poiché basato non su un’apparente immobilità dei protagonisti bensì sull’imposizione di fatto di rapporti di forza, è stato invece divelto e scoperchiato. Una volta per sempre. Siamo quindi ad un bivio storico. C’era da attenderselo, in fondo. Due debolezze non fanno una forza. Mentre la colonizzazione israeliana di ciò che resta dei Territori palestinesi (la Cisgiordania, altrimenti qualificata come West Bank, Giudea e Samaria, territorio «amministrato», «occupato», «conteso» e così via) è proseguita nel tempo in maniera spregiudicata, la risposta che ne è derivata dalla controparte non è stata in alcun modo la ricerca di una via nazionale, e come tale unitaria, alla contrapposizione con Israele, bensì la frammentazione in una serie di entità in lotta tra di loro. Il ruolo di Hamas, ad oggi, deriva essenzialmente da un tale stato di cose. Dove si misura la debolezza del campo palestinese, frammentato e scomposto, nel lasciare spazio a protagonisti tanto intransigenti come anche, e soprattutto, intolleranti. Tra di loro in competizione per il controllo non solo di alcune terre (la cui rilevanza è marginale) ma anche, e soprattutto, dei benefici di una diffusa economia illegale che da decenni si nutre, in stile puramente camorristico, soprattutto del saccheggio della società locale. Il computo dei generosi aiuti internazionali rivolti ai profughi palestinesi (deviati perlopiù verso destinazioni discrezionali), e l’azione corporativa esercitata da una parte dell’Unrwa, vero e proprio soggetto politico radicatosi nei Territori palestinesi, dovrebbe indurre, da subito, a riflettere oltre la mera cortina delle immagini di circostanza.

Vittime e carnefici, prevaricatori e prevaricati – così come l’armamentario che si accompagna, nell’uno caso come nell’altro, al ricorso alle reciproche accuse di «genocidio», «terrorismo» al pari dell’incauto riferimento al «colonialismo» (storicamente fuori tempo massimo, se non ci si riferisca agli studi sul colonialismo di insediamento, che sono invece tutt’altra cosa), del pari al «nazi-sionismo» (un termine che non data ad oggi, avendo una sua storia che inizia in Urss negli anni Sessanta), all’«apartheid», per così proseguire – rivelano la loro sostanziale inefficacia euristica. Ossia, se espresse da subito come giudizio di valore e non come complessa valutazione di fatto, maturata quindi nel tempo, costituiscono una sorta di esercizio retorico, informato ad un feticismo intellettuale debitore non dell’impegno dello sforzo di comprensione bensì della deriva inscritta nell’incomprensione dei segni del tempo corrente. Quest’ultima, come tale, in sé compiaciuta, poiché radicata nel bisogno di giudicare senza comprendere né, tanto meno, concorrere a modificare.

L’onanismo intellettuale, che si ammanta di indignazione perpetua, è peraltro uno dei propellenti della deriva populista collettiva. La stessa società israeliana, ad oggi, è infatti sottoposta ad una tensione e ad una torsione senza pari. Poiché le spinte regressive non sono solo quelle che derivano dall’esterno (sempre meno gli Stati arabi e musulmani, con l’eccezione dell’Iran e della Turchia), come sempre di più dai movimenti di re-islamizzazione che, nell’indicare in Gerusalemme ebraica lo scandalo della contemporaneità, invece si adoperano in un’opera di distruzione del pluralismo espresso, con grande fatica, dalle società nazionali arabe. In quanto in Israele, ed in particolare negli insediamenti colonici presenti in Cisgiordania, si sta invece manifestando appieno l’onda lunga di una destra eversiva, che dagli anni Settanta in poi è andata progressivamente montando. Passando per l’assassinio del primo ministro Yitzhak Rabin (1995). Ad oggi, nel governo Netanyahu, una tale compagine riesce ad esprimere alcuni ministri. Che rivendicano la loro visione razzista e messianica, senza tanti giri di parole. Godendo pertanto di un seguito per nulla marginale. Esiste un problema, in campo israeliano, ed è quello del suprematismo etnico. Il quale, da originaria nicchia a sé, nel tempo si è esteso, minacciando quindi – per prima – la vitalità stessa del Paese. Nonché la sua futura evoluzione.

Con il sionismo, tutto ciò ha poco o nulla a che fare. Al netto di coloro che, invece, ritengono di saperla lunga, affermando semmai che «il vizio stia nel manico». Ossia, nel vecchio nazionalismo ebraico. Se così altrimenti fosse, allora, anche il nazionalismo palestinese dovrebbe altrimenti essere censurato e obliato. Dopo di che (come i seguaci di Trump negli Stati Uniti, gli apologeti di Bolsonaro e Milei in America latina, i ferventi devoti dei vari Putin e Orbán e così via, ritengono che la “soluzione” stia nel distruggere quello che già c’è) anche in Israele si è formato un blocco della guerra e della terra, una sorta di alleanza elettorale «Blut und Boden», che intende destrutturare non solo i “nemici” ma anche, e soprattutto, la fragile democrazia interna. È come una sorta di mucchio selvaggio, composto da ferventi zeloti di varia estrazione, tuttavia accomunati dalla “santificazione della terra”. Lords of Land, come li hanno definiti diversi studiosi di vaglia. Tali poiché animati da una totale intolleranza verso il pluralismo (di qualsivoglia genere); comunque, in completa sintonia con le spinte maniacali che agitano il sovranismo e l’identitarismo che attraversano il mondo delle pencolanti democrazie liberali e sociali.

La crisi, a conti fatti, è quindi dentro le due entità nazionali, non importa se esse stesse ad un diverso grado di sviluppo. Poiché le medesime non sono simmetriche ma, storicamente, espressioni di due percorsi paralleli (il nazionalismo sionista e quello arabo-palestinese), per nulla sovrapponibili e quindi omologabili. Non per questo, tuttavia, tra di loro estranei. Nei tempi, nei modi, nei pensieri, così come nelle azioni.

In un tale contesto, l’Onu, ovvero la sua Assemblea, è oramai non solo un organismo debole, collaterale, a tratti anacronistico. È soprattutto il risultato di contrapposte coalizioni di interessi che, sempre più spesso, guardano a Pechino e a Mosca (ed in subordine a Teheran) per esprimersi con risoluzioni di dubbia consistenza e ancora minore applicabilità. Anche questo è in sé un esercizio retorico ma, al netto della sua concreta inanità politica, serve comunque a consolidare simbolismi collettivi che fingono di giudicare quando, invece, non intendono capire né, tanto meno, trasformare alcunché. L’emissione di condanne a ripetizione non rimanda ad una qualche potenziale ricomposizione consensuale bensì al riscontro della frantumazione dell’ordine internazionale. Ogni attore in campo cerca di giovarsene, fingendo di evocare e rappresentare interessi insindacabili e principi incontrovertibili.

In tutto ciò sono subentrate, ad oggi, variabili per nulla gestibili, quanto meno adottando la strumentazione della vecchia politica, quella del Novecento. Nel feroce conflitto autocratico tra il governo Netanyahu e la leadership di Hamas (poiché di ciò, a conti fatti, si tratta), da entrambe le parti sono giunti chiari segnali di una precisa volontà, ovvero quella di destrutturare il pluralismo delle rispettive comunità nazionali. La guerra, ancora una volta, non è solo un esercizio belluino e ferino contro l’avversario bensì uno strumento di mobilitazione e allineamento della comunità nazionali che ne sono chiamate in causa. Azzerandone la dialettica interna. I criminali di Hamas, il 7 ottobre 2023, a modo loro ben lo sapevano. Hanno operato in tale senso, calcolando sapientemente che avrebbero trovato una controparte (non Israele nel suo insieme bensì esponenti della sua attuale leadership), tanto cedevole quanto disponibile a prestarsi ad un tale gioco così efferato.

Pensare la guerra, allora, implica il ripartire da tutto ciò, ossia da un quadro molto confuso che, proprio come tale, registra in sé il disfacimento dei vecchi ordinamenti internazionali del pari alla fatica di comprendere quel che resta degli Stati nazionali e dei nazionalismi in via di dismissione, dinanzi al globalismo dei mercati. Il ripetuto confronto tra israeliani e palestinesi risponde, non a caso, ad un tale ordine di considerazioni. Ne è quindi uno specchio. Molto problematico, pieno di insidie, assediato da pregiudizi come anche da etichettature di circostanza. Nonché da identificazioni tanto acritiche quanto puramente moralistiche, dove l’assolutismo cristallizzato del vittimismo si sostituisce al fluire del giudizio, non solo quello storico, bensì al senso della comprensione del mutamento politico, economico, sociale e culturale in atto.

Abbandonando invece il tutto al piagnisteo compulsivo, all’ossessiva reiterazione di cliché, alla maniacale necessità di mettere etichette, ci consegneremo tutti, minoranze come maggioranza, al ritorno del dispotismo feudale, alla frammentazione tra corporazioni ossidate, al declino di quella democrazia inclusiva, nata sulle macerie del 1945, che ad oggi misura invece il suo diffuso affaticamento. Siamo ad una svolta. Chi se ne avvede, potrà cercare di salvare almeno sé stesso. Questo, in fondo, è ciò che ci consegna l’attualità del groviglio mediorientale e, con esso, quello israelo-palestinese. Poiché, de te fabula narratur.

 

 

L’invenzione del bene e del male

Come abbiamo imparato a distinguere il bene dal male? Siamo sempre stati capaci di farlo? E lo saremo ancora, nel mondo a venire?
Una grande storia universale della morale nell’epoca della sua crisi più buia. Un appassionante tour de force che abbraccia cinque milioni di anni di evoluzione umana.

Hanno Sauer racconta L’invenzione del bene e del male.

 

La Resistenza vista da dentro

Giovanni De Luna | La Stampa | 18 ottobre

Un libro come questo è una novità assoluta. Con Storia passionale della guerra partigiana (Laterza) Chiara Colombini ha colmato una lacuna offrendoci una straordinaria storia “dal basso” della Resistenza, un suo racconto corale. I protagonisti non sono i partiti politici, le bande partigiane, gli operai, i contadini, gli intellettuali, i grandi soggetti collettivi che hanno scritto la storia del ‘900, ma gli uomini e le donne che quella storia l’hanno fatta in prima persona nei venti mesi della drammatica guerra civile che sconvolse l’Italia dal 1943 al 1945.

L’obbiettivo dichiarato è quello di indagare su «cosa accade nell’animo e nel comportamento egli essere umani quando vivono circostanze eccezionali» e, quindi, di riflettere sui «sentimenti» di quelli che scelsero di armarsi contro i fascisti e i nazisti, sulla loro capacità di amare e di odiare, sulle loro speranze di futuro e sulla cupa realtà che li avvolgeva nel presente, sui lutti e i dolori che accompagnarono la loro lotta ma anche sulla felicità e le tempeste emotive dalle quali furono attraversate le loro vite, sospese tra l’eccezionalità di quei tempi e una grande voglia di quiete e di normalità. E poi il pensiero della morte, la paura di non essere all’altezza, di poter tradire i compagni sotto tortura, in una dimensione in cui l’eroismo, già noto, di figure come Fanciullacci o Capriolo si intreccia con i dubbi e le incertezze che, oltre che al movimento partigiano, appartenevano alla gente comune.

Per scriverlo Colombini si è affidata alle testimonianze di chi impugnò le armi, scritte nel corso stesso della lotta, rifiutando le razionalizzazioni offerte dal “senno di poi”: lettere, diari, carteggi confluiscono in un materiale gonfio di passioni, inquieto, turbolento, che l’autrice padroneggia grazie alla solidità delle sue categorie interpretative.

La Resistenza, per lei, scaturì da una scelta individuale di riappropriazione della propria sovranità, dopo vent’anni in cui si poteva soltanto ubbidire, tutti ossequiosi dell’ordine costituito e delle gerarchie. Fu quindi una scelta politica ma fu soprattutto una rifondazione esistenziale: alle certezze del regime si contrapposero i dubbi dei partigiani («Che cosa sei disposto a fare? Fino a dove sei disposto a spingerti? Quale è il limite che sei disposto a superare?») che per la prima volta sperimentarono l’ebbrezza e le difficoltà di essere padroni delle proprie azioni. Proprio per questo fu sempre difficile imporre una disciplina alle bande, evitare quell’alto tasso di conflittualità che caratterizzò i loro rapporti. La Resistenza non fu una “rinascita” o un “risorgimento”, ma una nuova nascita; non una ricostruzione ma la costruzione di una nuova Italia, immaginata come una Patria inclusiva e democratica. L’impegno contro l’attendismo (al quale sono dedicate pagine molto significative) era il risvolto identitario della lotta, il tentativo di combattere tutti i luoghi comuni familistici che si addensavano sugli stereotipi dell’“italianità”. Il “miracolo” della Resistenza si realizzò grazie all’intreccio, ben riuscito, tra la spontaneità, dal basso, e l’organizzazione, dall’alto. Quali fossero gli obbiettivi politici, dei vari partiti, quali fossero le perplessità che serpeggiavano nelle file dei partigiani, il risultato fu l’approdo a una democrazia piena, sorretta dalla comune convinzione (tipicamente novecentesca) «che la politica fosse uno strumento capace di trasformare e di plasmare la realtà».

C’era uno scoglio impervio da affrontare nel percorso di ricerca che ha portato a questo libro. Quando si parla di “sentimenti” si fa riferimento a uno “spirito del tempo” segnato da un’educazione fascista che aveva coinvolto i giovani e i giovanissimi che divennero partigiani, ma anche i loro coetanei che scelsero la Repubblica di Mussolini. Tutti ne avevano introiettato alcuni valori, avevano respirato l’aria mefitica dell’Impero e delle leggi razziali, del maschilismo e della retorica sull’onore. Era uno spirito del tempo in cui era veramente difficile che, come nei versi di Calvino, “tutto il bene” fosse da una parte, “tutto il male” dall’altra.

Partigiani e fascisti avevano fatto insieme un passo irreversibile, impugnando le armi e inoltrandosi in un territorio in cui si entrava solo per uccidere o farsi uccidere.

Un’esperienza estrema, parossistica, inconcepibile in tempi di pace. Ma qui subentravano le prime, radicali differenze: per gli uomini e le donne della resistenza uccidere non era scontato. Certo che c’era l’odio per il nemico, la voglia di vendicare i propri compagni caduti; per il resto, però, non c’era traccia del corteggiamento della “bella morte”, dell’ossessione funebre che affiorava dai teschi grotteschi, dai simboli plumbei che trionfavano sulle divise nere e nelle canzoni “disperate” cantate dai fascisti. A differenza di questi ultimi, per i partigiani uccidere era una necessità, a volte era il solo modo per sopravvivere e quel gesto estremo non era mai scontato: «Se uccidere non mi ripugna sto snaturando le ragioni per cui combatto? Quale differenza resta tra me e gli altri, quelli che voglio sconfiggere», erano gli interrogativi che si affollavano nelle loro teste e che oggi Colombini ripropone. Ed è lei stessa, in conclusione, a indicarci la differenza fondamentale tra gli uni e gli altri, ritrovandosi, i fascisti «in un mondo che stava crollando e gli altri in un mondo che stava nascendo: gli uni guardavano al futuro gli altri si rifiutavano di farlo e guardavano al passato». A un passato che, speriamo, non ritorni mai.

I campi incolti in cui fiorisce la solidarietà

Adriano Favole | la Lettura | 19 novembre 2023

Kili significa «l’ago», il grande ago di legno che serve per cucire con possenti liane i fasci di paglia sui tetti delle grandi capanne kanak, regione Hoot-ma-Waap, estremo Nord della Nuova Caledonia. Alla fine degli anni Novanta, un artista caledone, Norman Song, intitolò Kili la sua slanciata scultura che riproduce il grande ago ed è oggi esposta al Centro culturale Jean-Marie Tjibaou, voluto dai kanak per celebrare l’arte, la creatività e le connessioni tra i popoli che abitano il Pacifico e progettato, per la parte architettonica, da Renzo Piano. Kili, si legge nella locandina, «e il simbolo di tutti i legami che uniscono la gente e i clan attorno alla Grande Capanna che essi costruiscono per il loro capo, il primogenito». Come diceva Jean-Marie Tjibaou a cui il Centro è intitolato, leader kanak ucciso nel 1989, «le nostre feste sono il movimento dell’ago che serve a legare la paglia sulla sommità della nostra casa, affinché tutti i fili non formano che un solo tetto, così come tutte le nostre parole non formano che un solo discorso».

L’ago che cuce e tiene insieme, così come l’intreccio di vimini che crea le ceste o quello delle foglie di pandano con cui si realizzano stuoie sono potenti metafore della socialità umana in molte isole dell’Oceania: si ritrovano spesso nelle mitologie e nella retorica politica contemporanea. Il grande antropologo francese Claude Lévi-Strauss usò la metafora dell’ago che cuce per introdurre la sua teoria più importante, quella dell’alleanza: attraverso i matrimoni e lo «scambio» di donne (e di uomini, diremmo oggi), le società tessono i fili delle alleanze che danno spessore di stoffa al «tessuto» sociale. L’alleanza attraverso il matrimonio ovvero l’obbligo di sposarsi fuori dal proprio gruppo di appartenenza (l’esogamia) è per Lévi-Strauss il fondamento della reciprocità dei sistemi di scambio, che sono alla base della coesione e del legame sociale. Lévi-Strauss e il suo maestro Marcel Mauss avevano tratto la metafora dell’ago dal pastore Maurice Leenhardt che, a sua volta, l’aveva ascoltata nelle parole dei kanak della Nuova Caledonia, durante il suo lungo soggiorno a inizio Novecento. La metafora dell’ago ha viaggiato dai miti nativi ai testi degli antropologi, con curiosi ritorni: Tjibaou, il leader indipendentista kanak che abbiamo citato in precedenza, studiò etnologia a Parigi negli anni Sessanta e ritrovò la metafora dell’ago nei libri degli antropologi, riportandola poi nei contesti nativi!

Il nuovo libro di Stefano Allovio edito da Laterza, Ricreare mondi. Mobilità e mutuo aiuto tra Kinshasa e Cape Town («Città del Capo»), prende avvio dall’ago che cuce e da un curioso aneddoto che riguarda Lévi-Strauss e il suo maestro Marcel Mauss. Pare che quest’ultimo si fosse un po’ risentito quando Lévi-Strauss gli espose per la prima volta un abbozzo della sua teoria dell’alleanza e che gli avesse risposto: «Ne sono io il teorico!». Si sa che nelle accademie a volte i maestri non sono pronti a riconoscere l’originalità degli allievi e tuttavia non è questo il punto che interessa sollevare ad Allovio. Piuttosto l’aneddoto introduce una considerazione che percorre tutto il libro e che possiamo riassumere così. Perché gli esseri umani sono solidali tra loro? Perché si legano in stretti rapporti sociali attraverso la parentela, l’amicizia, lo scambio? Qual è il contributo dell’antropologia culturale, con i suoi «giri lunghi» tra le culture, alla comprensione della socialità umana?

Allovio torna alle premesse della disciplina. Capire la solidarietà umana era la questione chiave che animava Emile Durkheim, uno dei fondatori delle scienze sociali. Suo nipote Mauss portò avanti questo lavoro e ne fece anche occasione di un forte impegno politico, dato che militava attivamente nel Partito socialista, nei primi decenni del Novecento. Mauss non era un ricercatore di casi, esempi, narrazioni di differenti forme di socialità umana, come quelle che si manifestano nel «dono», a cui dedicò il celebre Saggio (Einaudi, 2002). Mauss però si ferma alla teoria, alla proposta di una cornice d’insieme della reciprocità umana. Lévi-Strauss invece, con il suo strutturalismo, va alla ricerca dei fondamenti, della base, dello strato roccioso su cui si ancora lo scambio e lo identifica nella proibizione dell’incesto e nell’obbligo di sposarsi fuori dal gruppo. Il libro di Allovio ci mette in guardia contro queste «fughe» verso la ricerca del Sacro Graal della natura umana. Molta scienza contemporanea si basa sull’idea che i comportamenti umani siano radicati in «basi» o «fondamenti» che stanno «al di là» delle loro manifestazioni concrete e che questo sia il «vero» oggetto delle scienze sociali.

AI contrario, nel suo saggio, Allovio preferisce indugiare sui «repertori» della socialità. Le sue ricerche etnografiche si svolgono tra Kinshasa, la capitale della Repubblica democratica del Congo, e Città del Capo, in Sudafrica. In entrambi i luoghi, tra i migranti congolesi, l’antropologo ritrova una grande efflorescenza di associazioni di mutuo aiuto. Dai gruppi che assicurano un funerale decoroso e a volte il rimpatrio della salma; alle tontine (il microcredito che fornisce a turno agli aderenti una piccola somma per gli investimenti); alle associazioni che prendono in carico l’organizzazione di cerimonie per il ciclo di vita, le nascite, i matrimoni e appunto la morte; dalla curiosa associazione Sape, un acronimo che sta per Società delle persone creatrici di Atmosfera (ambianceurs) e di Persone Eleganti, che promuove il «ben vestire»; alle muziki, associazioni di empowerment femminile, queste forme di mutualismo appaiono diffusissime nei contesti migratori che attraggono i congolesi dai villaggi alla città (Kinshasa) o dal loro martoriato Paese ad altri Stati africani (Città del Capo, Sudafrica). Ù

Allovio si era già occupato di questi temi, in contesti più tradizionali, in un libro precedente, La foresta di alleanze (Laterza, 1999). Aveva studiato i riti di iniziazione maschile mangbetu come forme di tessitura di alleanze. Ricreare mondi indaga i processi di cucitura sociale in luoghi di migrazione caratterizzati da anomia, difficoltà di integrazione, spazi ristretti. Sarebbe facile quanto superficiale interpretare il mutualismo congolese come espressione di una socialità in qualche modo «innata», riportandola a una comune natura umana. A queste spiegazioni universalistiche, in realtà, sfuggono i dettagli che fanno la ricchezza dell’umanità. I congolesi in diaspora si mettono insieme certo anche per ragioni «utilitaristiche»: capitalizzare come si può le poche risorse monetarie, culturali, di spazio che si hanno a disposizione. La ragione economica universale, tuttavia, spiega solo in parte e soprattutto non vede la ricchezza dell’agire sociale. Il modo in cui si creano e ricreano i mondi associativi a cui i congolesi danno vita sono imprevedibili, come fiori in un campo incolto. Significa che siamo in balia dei fenomeni, prigionieri di foreste culturali che non possiamo che descrivere? No, Allovio ci invita piuttosto a costruire teorie senza cercare fondamenti, a indugiare nelle etnografie delle società umane (tutte le società umane), «percorrendo in lungo e in largo questi repertori (i propri e quelli altrui) fin quando il terreno inizia a essere segnato da piste e sentieri più o meno intricati».

La proposta di Allovio riecheggia quella che Marshall Sahlins formulò qualche anno fa in un fortunato libro appena pubblicato in traduzione italiana, Nonostante Tucidide. La storia come cultura (Elèuthera). Attraverso una raffinata e complessa comparazione tra la guerra del Peloponneso narrata da Tucidide e le guerre tra i regni figiani di Bau e Rewa (1843-1855), Sahlins difende la rilevanza della cultura per la comprensione della storia. Per capire la solidarietà è bene aggirarsi nelle pratiche del mutuo aiuto di migranti congolesi e allo stesso modo per capire la violenza è inevitabile addentrarsi nelle sue forme concrete, tra la Grecia antica e l’Oceania moderna. Tucidide ha dato forma e legittimato un’idea di natura umana concepita «come la concepiamo noi: facendo riferimento alla razionalità pratica universale degli esseri umani, scaturita dal loro innato egoismo». Si tratta tuttavia solo di uno dei tanti modi culturali di vedere l’essere umano, non di un fondamento universale, come dimostra la storia divergente e, come diceva Gregory Bateson, «schismogenetica», di Atene e Sparta, di Bau e Rewa.

Forme di socialità e di creatività continuamente risorgenti percorrono ovunque il nostro mondo: aggirarsi curiosi in queste foreste, provare a creare sentieri teorici che rendano un po’ più agevole il cammino sembrerebbe insomma un buon modo per capire qualcosa dell’umanità. Tagliare la foresta per scoprire il fondamento su cui poggia, viceversa, è un’operazione alquanto azzardata.

Israele-Palestina: discutere la guerra

[Nell’intenzione di offrire un contributo alla discussione di una vicenda così difficile da comprendere in tutte le sue componenti, abbiamo rivolto alcune domande ad autori della casa editrice e studiosi competenti delle diverse questioni implicate nel conflitto in corso.
La situazione cambia di giorno in giorno e nuovi elementi potranno integrare l’analisi.

Dopo l’intervento di Anna Foa, pubblichiamo il contributo di Marcello Flores e Giovanni Gozzini, che con la casa editrice hanno pubblicato, tra l’altro, Il vento della rivoluzione e Perché il fascismo è nato in Italia.]

 

Nella introduzione del suo libro su Guerre giuste e ingiuste (Laterza, 2009), Michael Walzer affronta il tema della guerra asimmetrica e delle responsabilità tanto degli «insurgents» che dell’esercito regolare che risponde, mostrando quanto sia complicato, dal punto di vista del giudizio morale, prendere in considerazione tutti gli elementi che compongono l’azione di entrambi i contendenti.

È proprio la complessità delle azioni da giudicare, e la difficoltà di averne una conoscenza piena e affidabile, che manca in genere nel dibattito pubblico, dove domina la scelta dello schieramento insufflata da talk show ormai del tutto incapaci di svolgere un ruolo di informazione e di formazione.

Pensiamo che non dovrebbe esserci problema nel definire il crimine commesso da Hamas e nemmeno la risposta sproporzionata del governo Netanyahu e dell’esercito israeliano (crimini contro l’umanità e crimini di guerra): anche se sarebbe utile poter conoscere meglio le forme di sequestro dei civili attuate da Hamas e i tentativi compiuti dall’esercito israeliano per contenere l’uccisione di civili mentre combatte i militanti di Hamas.

E sarebbe opportuno adoperare con cautela – e precisione tanto giuridica che storica – parole che hanno significati ben precisi, invece di postulare analogie sensazionalistiche ma infondate. Genocidio, ma anche apartheid, hanno poco a che fare con quanto sta accadendo a Gaza perché il primo indica la volontà deliberata e non provocata di eliminare un intero gruppo umano e il secondo significa un regime sistematico di controllo e dominio.

Com’è noto, dal 2005 Israele si è ritirato dalla striscia. Se Hamas ha utilizzato il potere che ne è derivato per espellere con la violenza i rappresentanti dell’Autorità Palestinese e preparare una guerra anziché il benessere dei propri cittadini, questa è sua piena responsabilità. L’attacco del 7 ottobre è un crimine contro la pace e un crimine contro l’umanità perché tortura, uccide e rapisce civili inermi per il solo fatto di appartenere a uno dei gruppi di cui si compone la diversità e la ricchezza del genere umano. La risposta armata di Israele è un crimine di guerra perché coinvolge deliberatamente civili nel conflitto.

Il paradosso è che l’opinione pubblica si divide con una scelta di campo che prescinde dalle rappresentanze politiche reali: o con i palestinesi rimuovendo Hamas o con Israele rimuovendo le scelte di Netanyahu. Si genera così l’illusione che l’uscita dalla guerra e la ricerca di pace siano legate alla sola decisione militare israeliana (sospendere l’attacco o portarlo fino in fondo).

Se è individuabile – tranne ai fanatici dello schieramento per una o l’altra parte – la condanna della condotta di guerra e in primis di chi l’ha iniziata, le cose sono più complicate in relazione ai motivi, alle ragioni e alle possibili soluzioni del conflitto.

Si può dire che fin dal 1948, nonostante le diverse svolte successive, la guerra si ripete perché non vince la soluzione politica dei due stati proposta dalle Nazioni Unite con la risoluzione 181 del novembre 1947. Quella soluzione è stata prima rifiutata per decenni dagli stati arabi che puntavano prioritariamente alla distruzione dello stato d’Israele. Oggi per diversi motivi nessun stato arabo della regione – tranne l’Iran, non arabo e non danneggiato territorialmente dalla fondazione di Israele – pensa a una guerra contro l’“entità sionista”. Chi ci pensa sono forze non statali come Hamas e Hezbollah che non hanno responsabilità di governo e pensano innanzitutto alla propria sopravvivenza sopra (e contro) i popoli che pretendono di rappresentare, anziché a una improbabile vittoria. Ma la soluzione dei due stati è stata anche accantonata dai governi israeliani non laburisti e post-Rabin che hanno incentivato l’ampliamento di colonie impedendo di fatto sul terreno la possibilità stessa di uno stato palestinese.

Nel mondo sono oggi molti i conflitti armati a bassa intensità condotti da insorgenti non statali (quello dei Balcani negli anni novanta ne è stato laboratorio) cui è molto difficile porre fine perché le bande paramilitari sono le prime ad essere interessate alla prosecuzione endemica di guerre che gli consentono di estrarre risorse dalle popolazioni civili che sottomettono col terrore. Il salto di qualità segnato dall’attacco del 7 ottobre trasforma il conflitto a bassa intensità in guerra dichiarata e può quindi avvicinare una risposta politica, che però non può venire da chi la rifiuta (Hamas e Netanyahu) perché solo con la guerra sopravvive. Sono diversi i casi storici (Liberia, Sierra Leone) in cui l’interposizione dei caschi blu dell’ONU ha prodotto vere paci. E anche nei Balcani evita tuttora lo spargimento di sangue. Questa è la strada anche in Medio Oriente. Ma è una strada che necessita la sconfitta – storica, non contingente – degli estremismi palestinese ed israeliano.