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Pulizia etnica
Il 2 dicembre 1943 a Pljevlja, in Montenegro, viene ufficialmente costituita la divisione
partigiana italiana Garibaldi. È una formazione composta da migliaia di soldati italiani
che hanno scelto di aderire alla Resistenza jugoslava per combattere contro il nazismo.
Rimarranno in armi fino al rimpatrio, nel marzo del 1945. Un’altra unità italiana,
la divisione Italia, combatte in Jugoslavia fino alla fine della guerra e partecipa
alla liberazione di Belgrado, nell’ottobre 1944. Nella primavera di quell’anno si
calcola che siano tra i 20.000 e i 30.000 i partigiani italiani integrati singolarmente
o in unità nazionali nell’esercito jugoslavo. Sono cifre incredibili. Per avere un
termine di paragone, i partigiani in Italia sono, nella stessa epoca, numericamente
equivalenti.
Ciononostante, nel discorso pubblico si continua a fare riferimento alle violenze
compiute dai partigiani al confine orientale nell’autunno del 1943 e nella primavera
del 1945 come a una pulizia etnica condotta contro la componente italiana della popolazione.
Ciò avviene anche al più alto livello istituzionale. Già nel 2007 l’allora presidente
della Repubblica Giorgio Napolitano aveva parlato di “un moto di odio e di furia sanguinaria
[...] che assunse i sinistri contorni di una ‘pulizia etnica’”, suscitando le sdegnate reazioni dei presidenti di Croazia e Slovenia. Sebbene i
discorsi presidenziali successivi abbiano usato toni meno accesi, Sergio Mattarella
ha nuovamente parlato, nel suo ultimo discorso commemorativo, di una “vera e propria
pulizia etnica”. D’altronde questa espressione, entrata nell’uso comune durante le guerre jugoslave
degli anni Novanta, viene utilizzata perlopiù in relazione al mondo balcanico, come
se i popoli slavi fossero “naturalmente” portati alla violenza su base etnica.
Ma come è possibile parlare di una pulizia etnica condotta dall’esercito partigiano
jugoslavo contro gli italiani al confine orientale se, nello stesso tempo, si contano
a decine di migliaia gli italiani in armi nello stesso esercito? In effetti non si
tratta di una pulizia etnica, né nel 1943, come è stato argomentato nel capitolo precedente,
né alla fine della guerra, nella primavera del 1945. Le violenze commesse dai partigiani
jugoslavi, infatti, non hanno una logica nazionale (né tanto meno “etnica”) ma politica.
Ciò è ancora più evidente alla fine della seconda guerra mondiale, quando le truppe
di Tito liberano l’intero paese e arrivano fino alle porte d’Italia.
Il contesto in cui accade il fenomeno aiuta a comprenderlo meglio. È stato già spiegato
ciò che succede nel settembre 1943 e quel che accade subito dopo, in seguito al violento
rastrellamento tedesco nell’Istria centrale. Nei diciannove mesi che vanno dall’inizio
di ottobre 1943 alla fine di aprile 1945, l’intera regione è inclusa nella cosiddetta
Zona d’operazioni del Litorale Adriatico (Operationszone Adriatisches Küstenland). Quest’area comprende, oltre all’Istria e alla Venezia Giulia, il Friuli e la Provincia
di Lubiana annessa all’Italia dopo l’invasione della Jugoslavia nel 1941. Tutta questa
regione ricopre un interesse strategico straordinario ed è dunque sottoposta a uno
statuto speciale: non è lasciata a collaborazionisti locali come la Repubblica Sociale
di Mussolini o la Croazia di Ante Paveli, ma è amministrata direttamente dai tedeschi.
In questa zona gli italiani in armi, ad esempio la Decima Mas comandata da Junio Valerio
Borghese, operano come truppe volontarie agli ordini dei nazisti. E lo stesso accade
alle unità slovene e croate che collaborano coi tedeschi, i quali si presentano come
arbitri nelle rivalità, che loro stessi contribuiscono a tenere vive, fra i diversi
gruppi nazionali. In questi mesi, inoltre, si acuisce il livello di violenza, già
elevatissimo. I rastrellamenti diventano ancora più feroci, come quello che colpisce
il paese di Lipa, vicino a Fiume, distrutto il 30 aprile 1944 da truppe fasciste e
naziste, che uccidono 269 persone (molte delle quali bruciate vive). L’arresto indiscriminato
e la tortura diventano pratiche comuni, portate avanti dalla Gestapo, ma anche da
gruppi paramilitari che operano quasi autonomamente, come la “banda Collotti” a Trieste.
Inoltre proprio a Trieste si costituisce l’unico campo con pratiche di sterminio presente
sul territorio italiano: la Risiera di San Sabba. Utilizzata per la deportazione della
popolazione ebraica verso i lager della Polonia, la Risiera funge anche da campo di
eliminazione per i partigiani locali, sia italiani che jugoslavi. Le vittime dirette
del lager, gestito dalle autorità naziste ma a cui contribuiscono attivamente le delazioni
e gli arresti compiuti dai fascisti italiani, sono circa 5000.
Occupazione tedesca, 1943-1945.
Nel Litorale Adriatico sono attivi diversi gruppi partigiani, la maggior parte dei
quali, anche se composti da italiani, aderisce alla Resistenza jugoslava, più forte
e organizzata. Ma esistono anche bande, come le brigate Osoppo attive soprattutto
in Friuli, che non riconoscono la leadership comunista jugoslava e che operano in
una logica nazionale italiana. Tutto ciò crea un ulteriore elemento di instabilità,
con episodi di vero e proprio conflitto fra le due anime della Resistenza. È questo
il caso della strage di Porzûs, la soppressione di un distaccamento della Osoppo ad
opera di partigiani comunisti, nel febbraio 1945, o della contrapposizione fra la
Resistenza jugoslava e il CLN locale a Trieste. Quest’ultimo, nel tentativo di preservare
l’italianità del capoluogo giuliano, si rifiuta di sottostare al movimento partigiano
jugoslavo, contravvenendo così alle disposizioni provenienti dal CLNAI (l’organo di
coordinamento della Resistenza nel Nord Italia).
È in questo contesto di estrema violenza repressiva e di diffidenza fra diverse bande
partigiane che si arriva alla conclusione della guerra. Alla fine di aprile del 1945
si compie una vera e propria “corsa per Trieste” tra gli Alleati occidentali e i partigiani
jugoslavi, che risalgono verso nord lungo le sponde opposte dell’Adriatico. Per entrambi
gli eserciti si tratta di portare più in là possibile il proprio controllo militare,
per trovarsi in condizioni migliori al momento delle trattative per la costituzione
dei nuovi confini. Distogliendo forze da altri scenari (Zagabria e Lubiana vengono
liberate solo l’8 maggio) e al prezzo di più di mille caduti nelle battaglie finali,
i partigiani jugoslavi occupano per primi tutte le località di confine: Fiume, Pola,
Gorizia e soprattutto Trieste, raggiunta già il 1° maggio.
Per poco più di un mese l’intera regione resta sotto il totale controllo delle autorità
jugoslave. Solo il 9 giugno si giunge ad una ridefinizione dell’amministrazione del
territorio liberato, diviso lungo la Linea Morgan: all’esercito jugoslavo rimarrà
la città di Fiume, mentre Gorizia, Trieste e Pola passeranno sotto il controllo degli
Alleati occidentali.
Nel corso dei cosiddetti “quaranta giorni” di amministrazione jugoslava le nuove autorità
operano in tutta questa vasta area una serie di arresti. La situazione è molto cambiata
rispetto al settembre del 1943. Ora la Jugoslavia è uno Stato vero e proprio, ha un
suo esercito, riconosciuto come forza belligerante antifascista, che conta circa 500.000
soldati, e un governo, monopolizzato dal Partito comunista di Tito, che si è insediato
già da tempo nella capitale Belgrado. Le autorità che governano l’area di confine
nella primavera del 1945 non sono più organi partigiani locali più o meno disorganizzati
(come nel 1943), ma rappresentanti di uno Stato comunista in via di consolidamento.
Anche in questa fase però, come nel 1943, all’entusiasmo di una parte della popolazione
per la fine della guerra e la liberazione si accompagnano violenze e vendette private.
Della confusione dovuta al passaggio di autorità approfittano criminali comuni come
i membri della cosiddetta “Squadra volante”, responsabile delle uccisioni commesse
presso l’Abisso Plutone, sul Carso triestino. Tuttavia gli arresti sono in larga parte
ordinati dall’alto, dalle autorità centrali jugoslave, e vengono eseguiti fisicamente
dall’OZNA, la polizia politica, sulla base di liste pre-stilate e di obiettivi politici
precisi.
Quali sono dunque gli scopi delle autorità jugoslave nella primavera del 1945? Le
indicazioni che arrivano dall’alto sono chiare: occorre effettuare una vasta epurazione,
ma non sulla base dell’appartenenza nazionale. L’obiettivo primario infatti, come
accade peraltro nel resto della Jugoslavia liberata, è quello di eliminare i responsabili
dell’occupazione nazista e i collaborazionisti. Tra i primi e più numerosi prigionieri
ci sono pertanto i soldati tedeschi, ma anche militari di altre nazionalità o comunque
uomini in divisa al servizio dei nazisti. A questa categoria appartengono ad esempio
i 97 membri della guardia di finanza, un corpo a quell’epoca militarizzato, arrestati
all’inizio di maggio. Fra i collaborazionisti veri o presunti ci sono anche membri
del partito fascista o della passata amministrazione nazista, e diverse persone identificate
come spie o delatori (tra cui qualche sporadico caso di donne).
Questo fenomeno, che è una sorta di “resa dei conti” col passato regime, avviene contestualmente
in tutta l’Europa liberata. La regione altoadriatica presenta tuttavia alcune peculiarità.
Rispetto ad altre zone dell’Europa occidentale, qui ad operare non sono bande partigiane
che si fanno giustizia da sole, ma un vero e proprio Stato con i suoi organi repressivi.
Uno Stato, per di più, che si sta strutturando come regime comunista, seguendo un
modello che all’epoca è quello stalinista. Sul confine orientale, dunque, la violenza
colpisce anche persone che in altri contesti non sarebbero state individuate come
obiettivi della repressione. Oltre a punire i collaborazionisti e i criminali di guerra,
le autorità jugoslave operano per eliminare gli eventuali oppositori politici, in
un contesto ancora fluido nel quale è necessario ottenere il maggior consenso possibile
al nuovo regime. Si tratta di una vera e propria epurazione preventiva, che serve
ad intimorire quella parte di popolazione che non accetta l’ipotesi di annessione
della regione alla Jugoslavia. La stragrande maggioranza dei possibili oppositori
è composta da rappresentanti dell’élite politica e sociale italiana che ovviamente
preferirebbero che l’area ritornasse a far parte dello Stato italiano. Si tratta,
nella maggior parte dei casi, di persone che non fanno mistero della propria avversione
alla Jugoslavia e all’ideologia comunista. L’esempio più estremo di questa tipologia
di vittime è rappresentato dall’arresto di alcuni membri del CLN triestino che, come
si è detto, già da tempo si era opposto alla leadership jugoslava sulla Resistenza.
La repressione opera dunque in base a obiettivi ideologici e non nazionali, e colpisce
in maniera simile (anche se con diversa intensità) in tutti i territori jugoslavi
liberati alla fine della guerra. Logicamente in quest’area di confine la maggior parte
degli arrestati è composta da italiani, sia perché legati al passato regime o alla
collaborazione con le forze naziste negli ultimi due anni, sia perché contrari al
nuovo sistema politico e alla Jugoslavia comunista. In ogni caso, non c’è nessuna
volontà manifesta di colpire gli italiani in quanto tali.