4. Una pagina strappata
[Piccini 1983.]
La strategia repressiva: circolare 3c
Lo stereotipo del buon soldato italiano non è nato nel dopoguerra. Già durante il
conflitto le autorità italiane fanno spesso riferimento ad un preteso «buonismo»,
che sarebbe connaturato al popolo italiano. Esso sembra essere il principale presupposto
della aggressiva retorica e della spregiudicata normativa che accompagna le operazioni
militari e la politica di ampie collaborazioni. «La favola del ‘bono italiano’ deve
cessare!», scrive ad esempio Pirzio Biroli, «il soldato italiano è soprattutto un
guerriero. Chi non ha voluto comprendere la generosità della mano amica, senta ora
il peso del nostro pugno». Le sue parole paiono riecheggiare analoghe affermazioni mussoliniane: «Deve cessare
il luogo comune che dipinge gli italiani come sentimentali incapaci di essere duri
quando occorre. Questa tradizione di leggiadria e tenerezza soverchia va interrotta».
Spesso i militari italiani in Jugoslavia invocano il modello repressivo tedesco, in
riferimento alla sua pretesa efficacia e severità : «Dobbiamo prendere esempio dai
tedeschi, una volta tanto dobbiamo fare le cose sul serio, non essere più teneri di
loro». In realtà non si può individuare una sostanziale differenza d’impostazione nelle
pratiche occupazionali fasciste. In alcune circostanze sembra addirittura che siano
i tedeschi ad ispirarsi al modello italiano e non viceversa. Colpisce ad esempio il
tenore di un ordine emanato a Trieste nel 1944, che invoca «terrore contro terrore,
occhio per occhio, dente per dente», rievocando esplicitamente la nota circolare 3c emanata dal generale Roatta nel marzo
1942, che utilizza l’espressione «testa per dente», ribadendo il «ripudio delle qualitÃ
negative compendiate nella frase ‘bono italiano’».
Nelle intenzioni dei suoi ideatori la circolare 3c dovrebbe anche servire ad infondere
spirito combattivo a soldati troppo abituati alla comoda vita presidiara e giudicati
inadatti a compiere vaste operazioni offensive. Bisogna «reagire in ogni modo alla
mentalità statica, da caposaldo», far sì che «il carattere selvaggio della regione
si rifletta in senso positivo sull’animo del combattente. […] Alla guerriglia bisogna
opporre la controguerriglia». L’abilità militare passa attraverso la spietatezza repressiva, ribadiscono ossessivamente
i generali italiani: «Bando alle tolleranze – picchiare sodo», scrive Robotti.
La circolare di Roatta rappresenta la sintesi più chiara ed efficace della strategia
repressiva italiana. Disposizioni analoghe sono già state emanate nei mesi precedenti,
in particolare dal generale Robotti in Slovenia e da Pirzio Biroli in Montenegro ma
esse vengono sistematizzate globalmente all’inizio dei cicli operativi del 1942. Le
«santissime norme» della circolare 3c, ripetutamente aggiornate, precisate da altre clausole e affiancate
da disposizioni simili valevoli per il Montenegro, rimangono poi in vigore fino all’armistizio. Queste disposizioni repressive rappresentano,
secondo le autorità italiane, «non vana minaccia ma incrollabile decisione di punire,
attraverso le popolazioni favoreggiatrici e succubi, gli eventuali nuovi delitti politici
che si verificassero». La circolare 3c accoglie esplicitamente il principio di correità della popolazione
residente in un’area di attività partigiana e assume come metodo la politica del terrore
contro i civili, ordinando rappresaglie, deportazioni, confische, catture di ostaggi,
fucilazioni:
Si procederà ad internare [...] le famiglie da cui siano o diventino mancanti, senza
chiaro e giustificato motivo, maschi validi di età compresa fra i 16 e i 60 anni [...];
si procederà a designare, fra la parte sospetta della popolazione, degli ostaggi,
che verranno tratti e mantenuti in arresto [...]; si stabilirà che gli abitanti di
case prossime al punto in cui vengono attuati sabotaggi [...] siano considerati corresponsabili
[...]. Il loro bestiame verrà confiscato, e le loro case distrutte [...]; saranno
trattati come ribelli [...] i maschi validi che, pure non essendo colti colle armi
alla mano [...] siano catturati [...] nella zona in cui si è svolto o si svolge il
combattimento.
In sostanza la distinzione fra partigiano combattente e civile sospettato di solidarizzare
con la resistenza è molto labile: quando catturati in zona d’operazioni, gli uni e
gli altri vanno giustiziati senza processo, secondo le disposizioni emanate. «Non
si portino a casa i prigionieri: in genere rappresentano un peso morto che rende poco
o niente». «I colpevoli sicuri [...] ‘facciamoli fuori’ senz’altro».
«Avevamo l’ordine di fucilare sul posto chiunque fosse trovato in possesso di armi.
In realtà questi ordini draconiani non venivano eseguiti», scrive un reduce. Accusato personalmente di crimini di guerra, il comandante della
divisione Granatieri di Sardegna Taddeo Orlando afferma, nel 1948: «Dalla mia divisione
nessuno è stato passato per le armi, e ciò nonostante gli ordini del comando d’Armata». Mente sapendo di mentire. Nell’agosto 1942 ad esempio ha esplicitamente ordinato
via radio: «Eseguite i miei ordini e fucilate!». La sua unità si merita gli elogi di Robotti proprio per la mancanza di scrupoli
nella fucilazione quotidiana di semplici sospetti. Quasi ogni giorno nei mesi centrali
dell’anno il diario storico della divisione riporta asetticamente cifre di condannati.
Sono ragazzi, anziani, contadini, le cui ultime ore di vita vengono drammaticamente
raccontate nel toccante diario di guerra del cappellano militare don Pietro Brignoli. Anche parecchie donne, quando riconosciute partigiane, vengono fucilate; in un caso perfino una prigioniera incinta.
La fucilazione dei sospetti rimane una prassi anche nei mesi successivi alle grandi
operazioni militari. Nel febbraio 1943 Robotti rimprovera un suo generale che non
ha «fatto fucilare sul posto» una ventina di partigiani catturati. E il suo successore all’XI corpo d’armata, Gastone Gambara, precisa: «Ritengo conveniente
proporre che sia mantenuto in vigore – in linea di massima – il vecchio sistema di
fucilare i catturati in combattimento, subito dopo la cattura e l’interrogatorio». «Questa del passaggio per le armi è e rimane la regola. La facoltà concessa di mantenerli
in vita costituisce una eccezione», ribadisce Robotti ancora dopo il 25 luglio e la caduta del fascismo.
Si può obiettare che in Jugoslavia i tedeschi esercitino una violenza repressiva più
sistematica e quantitativamente superiore a quella italiana. Questa differenza d’intensità è ben evidenziata dalle quote di ostaggi da fucilare
per rappresaglia. In Serbia i tedeschi stabiliscono un rapporto numerico di 100 a
1, molto più drastico del 10 a 1 adottato in Italia dopo l’armistizio. Anche gli italiani
in Jugoslavia catturano ostaggi (preferibilmente parenti di partigiani o sospetti
comunisti) oppure utilizzano prigionieri e internati da fucilare per ritorsione. Un
bando emanato in Slovenia nell’aprile 1942 minaccia la fucilazione di ostaggi nel
caso di «sabotaggio di qualsiasi natura», ma più spesso vengono fissate delle quote rispetto ai caduti italiani. Un ordine
emanato da Pirzio Biroli il 12 gennaio 1942 prevede la fucilazione di «50 ostaggi
per ogni ufficiale e 10» per ogni soldato italiano ucciso. Nello stesso anno è Robotti a proporre analoghe iniziative: un comunista fucilato
per ogni collaborazionista ucciso e due per ogni italiano, oppure dieci sloveni per ogni «vittima dei comunisti». In una occasione vengono fucilati fino a 15 ostaggi per vendicare la morte di un
fascista, in un’altra 24 per l’omicidio di un leader collaborazionista. Il Duce sembra condividere del tutto la logica repressiva adottata dai suoi generali.
Già nel novembre del 1941 propone «che per ogni nostro ferito ne vengano fucilati
due, e venti per ogni morto». «La migliore situazione si ha quando il nemico è morto. Occorre quindi poter disporre
di numerosi ostaggi e applicare la fucilazione tutte le volte che ciò sia necessario», afferma nel maggio 1942. Le esecuzioni di massa in definitiva sono però rare, così
come il reale rispetto di queste proporzioni che, date le consistenti perdite italiane,
avrebbe comportato vere e proprie stragi. Alcuni casi però non mancano, a dimostrazione
che la logica repressiva è comunque quella. Succede in particolare in Montenegro,
ad esempio a Pljevlja, dopo l’attacco del dicembre 1941, quando vengono fucilate 46
persone, oppure il 25 giugno 1943, quando viene «effettuata, per rappresaglia – in seguito
ad ordine del Governatore – la fucilazione di 180 comunisti», scelti in tutti i presidi della regione. Tale esecuzione sarebbe stata effettuata
in seguito alla presunta fucilazione di 9 ufficiali, con un rapporto numerico addirittura
di 20 a 1. In definitiva tra le Fosse Ardeatine, la strage di Kragujevac e i 180 montenegrini fucilati da Pirzio Biroli esiste solo una differenza numerica,
non di ordine strategico o morale. Bisogna ricordare infatti che si sta parlando di
esseri umani, spesso del tutto innocenti, uccisi senza processo.
«Cara mamma, ti scrivo per l’ultima volta. Stasera siamo stati avvertiti che domani
saremo fucilati. So che questo ti rattrista molto ma devi essere coraggiosa e non
affliggerti poiché sappi che vado alla morte pura e serena». Così scrive Darinka, una ragazza di vent’anni, la sera prima dell’esecuzione.
Tribunali e deportazioni
Concretamente il sistema repressivo passa attraverso diversi strumenti. Quello della
fucilazione sommaria è più scioccante ma anche meno significativo di altri, da un
punto di vista numerico. I tribunali, attraverso il quale passano decine di migliaia
di imputati, spesso per reati minori, economici o di propaganda sovversiva, rappresentano
uno strumento di controllo capillare del territorio. Sono dispositivi essenziali per
garantire l’ordine pubblico nelle retrovie, per imporre il sistema occupazionale soprattutto
nei centri maggiori, meno toccati direttamente dalla guerriglia. Diverse sono le corti
straordinarie create nei territori annessi all’Italia nei primi mesi. Istituito l’11
ottobre 1941, il tribunale straordinario della Dalmazia non prevede alcuna forma di
grazia; opera solo fino al 29 ottobre ma in quei pochi giorni riesce a comminare almeno
28 condanne a morte. Esso viene sostituito da un tribunale speciale, istituito con bando del Duce il
24 ottobre ma che emette la prima sentenza solo il 16 dicembre 1941. Il tribunale straordinario di Lubiana si riunisce invece una volta sola, il 7 ottobre
1941, condannando a morte tre persone che tuttavia non vengono fucilate. Queste diverse corti vengono affiancate e poi sostituite dal tribunale di guerra
della II armata. Esso si compone di due sezioni distaccate, una a Lubiana e una a Sebenico, con giurisdizione
sul Governatorato e sulle regioni occupate dello Stato indipendente croato. A Cetinje
opera invece il tribunale militare del XIV corpo d’armata, istituito il 13 maggio
1941.
Questi tribunali istruiscono decine di migliaia di processi ma, nonostante l’ovvia
parzialità dei giudici e le sentenze comprensibilmente sbrigative, le condanne a morte
sono una percentuale infinitesimale. In Slovenia ad esempio sono complessivamente
84 le condanne alla pena capitale, di cui 54 eseguite. Nello stesso periodo nella provincia di Lubiana si contano ben 146 esecuzioni di
ostaggi per rappresaglia, mentre vengono fucilate 1569 persone catturate durante i
rastrellamenti. A Cetinje i fucilati sono 44 di cui 3 italiani. Moltissimi vengono pure condannati a diverse pene detentive.
Forse lo strumento principale adottato dagli italiani per imporre il proprio controllo
sulle popolazioni soggette è infatti quello dell’internamento. All’inizio sono imprigionati migliaia di ufficiali serbi catturati dopo la sconfitta
dell’aprile del 1941. Questi vengono in parte liberati e assegnati alle forze collaborazioniste
cetniche a partire dal marzo 1942; i rimanenti riusciranno a fuggire dopo l’8 settembre
1943 e aderiranno in massima parte alla resistenza italiana. La maggior parte dei deportati jugoslavi, però, non sono prigionieri di guerra ma
civili evacuati da territori di attività della guerriglia, o in via protettiva-preventiva,
cioè per evitare che entrino nella resistenza; oppure in forma repressiva, perché
già appartenenti alla guerriglia, simpatizzanti o parenti di partigiani. Queste differenze
si perdono poi nel corso dell’inserimento all’interno del sistema concentrazionario,
ma in ogni caso la maggior parte dei deportati sono individui catturati durante rastrellamenti,
rappresaglie o nel corso delle grandi operazioni militari. Sono uomini, donne, bambini,
anziani, sospettati di parteggiare in qualunque forma per la resistenza.
Alcune migliaia di civili vengono internati per la prima volta durante le operazioni
di riconquista del Montenegro nell’agosto del 1941. Le deportazioni in massa di cittadini
sloveni cominciano invece all’indomani della chiusura di Lubiana, nel febbraio 1942
e proseguono con le retate successive. Dal capoluogo sloveno vengono preventivamente
deportati studenti, professionisti, intellettuali. Durante le grandi operazioni militari di quell’anno decine di migliaia di jugoslavi
provenienti da Slovenia, Croazia, Bosnia, Montenegro e Dalmazia vengono ancora internati.
In totale si parla di circa 100.000 individui, metà dei quali sloveni e montenegrini.
Dalla provincia di Lubiana viene deportato circa il 7,5% dell’intera popolazione,
il che, contestualmente alle affermazioni mussoliniane circa la necessità di far coincidere
«i confini politici con quelli razziali», lascerebbe intendere un preciso piano di snazionalizzazione della regione ad opera
delle autorità fasciste. Un progetto per il trasferimento dall’intera popolazione
slovena viene effettivamente discusso nell’estate del 1942, nel pieno delle manovre
antipartigiane. Esso nasce da una delle tante boutades mussolinane, la famosa frase: «Non sarei alieno dal trasferimento di masse di popolazioni», che infatti il comandante militare a Lubiana cita testualmente nelle sue comunicazioni:
«Il Duce non sarebbe alieno...». Si tratta comunque di uno studio di fattibilità , da rendere operativo eventualmente
a fine guerra.
I cittadini jugoslavi deportati vanno a popolare un universo concentrazionario geograficamente
molto variegato. I montenegrini arrestati nell’agosto del 1941 vengono prima trasferiti
in Albania, in seguito nel campo di Bar (Antivari) e nell’Italia centro-meridionale.
Dei primi 5000, almeno 2000 vengono «liberati e restituiti alle famiglie ed al lavoro» nel corso del 1942. Gli altri vengono concentrati, a partire dal gennaio 1943 a Colfiorito,
in provincia di Perugia. Gli sloveni sono invece condotti in località situate del Nordest italiano, in particolare
Gonars e Visco (provincia di Udine), Chiesanuova (frazione di Padova), Monigo (provincia
di Treviso), ma anche a Renicci (provincia di Arezzo).
Durante i cicli operativi del 1942 l’enorme massa di deportati crea una vera e propria
congestione nel sistema di accoglienza e gestione. A luglio la II armata è costretta
a dotarsi in fretta e furia di un suo campo: un’enorme tendopoli recintata, solo più
tardi attrezzata con baracche in legno, sull’isola di Rab (Arbe), in territorio annesso
alla provincia di Fiume. Nella stessa estate viene anche istituito, sull’isola di Molat (Melada), un campo
di concentramento amministrato dal Governatorato della Dalmazia.
Il sistema è molto complesso, caratterizzato da strutture e forme di gestione amministrativa
molto differenti. Ci sono ex caserme, ex prigioni, campi costruiti per l’occasione,
fino al cosiddetto «internamento libero» in piccoli comuni italiani. Nella maggior
parte dei casi si tratta di strutture piccole, mentre i campi più noti arrivano a
ospitare 5000 internati alla volta; solo Arbe raggiunge la quota di circa 10.000 prigionieri. Alcuni campi dipendono dal regio esercito, altri dal ministero degli Interni; una
gran parte degli internati resta invece sotto la giurisdizione della II armata o dei
singoli corpi d’armata. Nel gennaio 1943 il campo del Governatorato di Dalmazia, a
Molat, accoglie 1627 persone, di cui 552 tra donne e bambini. Ad aprile 1943 la II armata gestisce direttamente quasi 19.000 internati, mentre
altri 5000 dipendono dai quattro corpi d’armata sotto il suo comando: tra di essi
5444 donne e 2380 bambini.
Condizioni di vita drammaticamente precarie sembrano accomunare tutte queste realtà ,
qualunque sia la gestione o la categoria di appartenenza attribuita agli internati.
Non si tratta di campi di sterminio, questo va detto con chiarezza, non ci sono strutture
per la soppressione dei prigionieri e la cremazione dei cadaveri. Gli episodi di brutalitÃ
gratuita, ad esempio da parte del direttore del campo di Arbe, Vincenzo Cuiuli, non
sembrano essere rari, ma si segnalano anche singoli casi di particolare sensibilitÃ
nei confronti degli internati. Tuttavia la privazione della libertà , la fame, le malattie connesse con la denutrizione
e le pessime condizioni igieniche, concorrono a portare alla morte un notevole numero
di persone. Senza considerare il fatto che talvolta dai campi siti in territorio jugoslavo vengono
prelevati gli ostaggi da fucilare per rappresaglia.
«In campo concentramento si sta siguro peggio da qui in galera», scrive in un italiano
stentato un prigioniero, dopo essere passato dall’internamento alla prigione nel giugno
1943. Le peggiori condizioni di vita sono riscontrabili nel campo di concentramento più
noto, quello di Arbe, dove si contano almeno 1500 morti. A questi andrebbero però sommati molti deportati periti poco dopo il trasferimento
in altri campi. Sarebbero almeno 4000 gli jugoslavi deceduti a causa dell’internamento
italiano.
Al di là delle difficoltà di gestione e di amministrazione, della carenza di fondi
e strutture, dei problemi logistici e burocratici, che spiegano in parte le drammatiche
condizioni di vita cui sono costretti gli internati, è evidente che lo stato di denutrizione
e di forte privazione psicofisica obbedisce ad una precisa volontà politica. Le principali
autorità italiane responsabili di queste strutture sono ben consapevoli delle penose
condizioni in cui versano i prigionieri. Lo dimostra, ad esempio, uno scambio di note
fra le massime autorità in Slovenia, dove si afferma che gli internati di Arbe presentano
«nell’assoluta totalità i segni più gravi della inazione da fame». Negli stessi giorni monsignor Ivo Bottacci, cappellano militare della II armata,
ha il coraggio di sostenere che ad Arbe c’è «tutto quanto è necessario alla vita moderna»,
tanto che «parecchi internati hanno dichiarato di non voler più ritornare ai loro
luoghi d’origine, ma di rimanere con gli italiani, non essendosi mai trovati così
bene». Il cinismo di questi individui, responsabili di gravi crimini contro civili innocenti,
è aberrante: «Campo di concentramento non significa campo di ingrassamento. Individuo
malato = individuo che sta tranquillo», scrive il generale Gambara nel 1943.
Terra bruciata
La stessa strategia sembra essere perseguita nei confronti di tutto il territorio
jugoslavo sottoposto all’occupazione italiana. Spesso le operazioni militari sembrano
avere l’esplicito obbiettivo della «distruzione di tutte le possibilità di vita nel
territorio [...] al fine di assicurare [...] una zona di sicurezza inabitabile dalle
bande ribelli». La tattica della terra bruciata non ha effetti immediati sui partigiani, che ogni
volta abbandonano il territorio per spostarsi in un altro non sottoposto alla repressione,
tuttavia, alla lunga, rende oggettivamente inospitali molte delle regioni interne
della Jugoslavia, per l’impoverimento, lo spopolamento, la diffusione di malattie
e della diffidenza verso qualunque esercito.
Incendi e distruzioni di case e villaggi per rappresaglia sono esplicitamente prescritti
dalle norme antiguerriglia e vengono eseguiti con impressionante frequenza. Il modello
esemplare è il seguente: «i ribelli hanno fatto un’azione di fuoco contro i nostri
reparti; per rappresaglia il paese è stato dato alle fiamme». Dalla Slovenia al Montenegro lo scenario non cambia: «Durante un rastrellamento
siamo stati attaccati dai ribelli [...], dopo di che abbiamo catturato tutto il loro
bestiame e bruciato centinaia di case». «Tutta la notte il lamento delle donne e dei bambini che piangono le case distrutte
[...]. E sotto di noi le fiamme dei villaggi che bruciano». «Siamo atterriti e inebetiti dalle urla dei militari e dall’atteggiamento di terrore
dei poveri abitanti», rammentano alcuni reduci. Uno degli stereotipi più diffusi nello spazio jugoslavo
descrive i soldati italiani come bruciacase (palikui) e rubagalline. Questi sembrano essere i tratti distintivi dell’occupazione, presente
in maniera significativa sia nella memoria storica jugoslava che nella stessa memorialistica
italiana. «Nessuno di noi ha sparato e nessuno è stato preso di mira dai ribelli.
Abbiamo ‘soltanto’ incendiato e rubato. Come i vandali o gli unni della storia. Ci
ricorderanno per questo, i montenegrini», scrive un alpino. Le requisizioni o i furti puri e semplici sono ampiamente documentati
e spesso ammessi dai reduci, anche se giustificati dalla smania di integrare i magri
pasti o dalla speranza di un minimo arricchimento personale: «Per questi uomini di
modestissima vita e fortuna i tempi di guerra furono tempi di larghezza e di scialo». «Abbiamo trovato delle bestie vaccine cavalli e tutte portate via vino presciuti
galline patate e tutta la notte a cucinare», scrive a casa un soldato. Furti e devastazioni sono in realtà esplicitamente vietate
dal codice penale militare italiano, che addirittura prevede la pena di morte per
il reato di saccheggio. La circolare 3c infatti precisa: «Sarà praticata la confisca (non per iniziativa
personale, ma per disposizione dei comandanti responsabili). [...] Il saccheggio delle
abitazioni [...] sarà impedito». Ma è chiaro come manchi la volontà di reprimere questi fenomeni. «Non impietositevi
della miseria del popolo la cui terra oggi voi occupate» raccomanda il generale Pirzio
Biroli ai suoi soldati: «Questa miseria è stata voluta dallo stesso popolo montenegrino». Quasi con le stesse parole si esprime Mussolini a proposito della Slovenia: «Non
vi preoccupate del disagio economico della popolazione. Lo ha voluto! Ne sconti le
conseguenze».
Tali pratiche hanno l’effetto di portare alla fame buona parte delle popolazioni residenti
nella zona d’occupazione italiana, e in particolare nelle aree investite dalle grandi
operazioni del 1942 e 1943. Nello Stato indipendente croato la fame comincia a imperversare
nell’inverno precedente, ad esempio nelle cittadine bloccate dalla neve e dai ribelli,
dove per molti mesi è impossibile far giungere rifornimenti. La situazione si aggrava
durante la primavera, colpendo anche il Montenegro. Qui il deficit alimentare si dimostra
uno dei principali problemi per i partigiani locali. «La fame è la nostra più grande
nemica», scrive un leader comunista a maggio, anche perché le autorità italiane la sfruttano
come deterrente: «Sarà sospesa la distribuzione di viveri a quelle popolazioni che
parteggiassero per i ribelli».
La denutrizione provoca malattie epidemiche, in particolare il tifo petecchiale o
esantematico, che miete il maggior numero di vittime, soprattutto fra i partigiani,
durante l’inverno seguente. All’inizio del 1943 nelle zone attraversate dalle operazioni
militari «il territorio presenta un aspetto di squallore: campagne incolte, villaggi
semidistrutti, assenza di popolazione valida al lavoro, denutrizione del bestiame». Non è la terrificante carestia greca che, circa negli stessi mesi, miete decine
di migliaia di vittime, tuttavia anche qui la fame non è un effetto collaterale della
guerra ma è parte integrante della strategia del terrore voluta dagli occupanti.
La nostra reazione è stata, senza dubbio alcuno, necessaria ed inevitabile; ma ha
le sue inevitabili conseguenze [...]: intere zone distrutte, la gente, anche non combattente,
ammazzata senza pietà ed a volte, purtroppo, anche le donne, seguono la stessa sorte;
i campi resi deserti e squallidi. Vere mandrie di relitti che di umano non hanno più
nulla, vecchi, donne e bambini, laceri, scalzi, affamati e spesso ammalati di tifo
petecchiale, erranti da una contrada all’altra, quasi sempre senza nessuno che li
aiuti, nella loro orrenda, tragica miseria.
Così scrive il console a Mostar Renato Giardini, evidenziando la stretta correlazione
esistente tra la violenza repressiva e il drammatico impoverimento delle popolazioni.
Roatta reagisce furiosamente, ottenendone l’immediata rimozione.
Una guerra coloniale
La strategia adottata da Roatta nel 1942 ha molte caratteristiche in comune con le
politiche coloniali. La netta superiorità tecnologica e militare; la brutale repressione della guerriglia
mediante atti di terrorismo contro la popolazione civile; l’ampio utilizzo di truppe
ausiliarie appartenenti a diversi gruppi «etnici» e l’accordo col notabilato tradizionale
sono tutti elementi tipici delle guerre coloniali. Diversi protagonisti di questa
fase politica d’altronde hanno maturato un’esperienza militare in Libia o in Etiopia.
Tra loro, oltre a Pirzio Biroli, ben quattro comandanti di corpo d’armata. Uno di loro scrive: «Questa situazione è stranamente simile a quella da me in varie
riprese trovata nelle colonie». Anche la circolare 3c specifica che «la lotta che conduciamo non è un duello [...],
è una lotta paragonabile invece a quella coloniale, in cui conviene dare all’avversario
la sensazione netta ed immediata della nostra schiacciante superiorità ».
Insomma, non c’è dubbio che la recente esperienza africana fornisca un modello di
riferimento ai generali italiani in Jugoslavia. Lo rivela anche un altro elemento:
l’ipotesi, più volte avanzata, di utilizzare gas tossici contro i partigiani. Come
si sa le armi chimiche, in particolare i gas come l’iprite, bandite dopo la Prima
guerra mondiale nel contesto europeo, sono state invece ampiamente utilizzate in ambito
coloniale. Soprattutto l’Italia fascista ne fa largo uso in Etiopia contro le truppe
del Negus prima e la resistenza amhara dopo. Nel novembre del 1942 Roatta avanza la proposta di utilizzo di questo strumento
in Jugoslavia, in considerazione del fatto che «i ribelli non sono provvisti di protezione
contro le armi chimiche». Tale ipotesi viene rilanciata in più occasioni sia dagli ustascia, che propongono
di usare i «gas velenosi» contro i partigiani «per stanarli dai boschi che sono inaccessibili
alle unità militari», sia dai cetnici, che si dichiarano disposti ad assumere la responsabilità morale
dell’utilizzo dei «gas asfissianti». Almeno in una circostanza, nel marzo 1942, quest’eventualità viene vagliata anche
ai massimi livelli gerarchici, ma viene poi accantonata per evitare un precedente
che potrebbe ritorcersi contro l’Italia stessa.
Al di là delle considerazioni pratiche circa la probabile inefficacia militare (oltre
l’effetto terroristico) di tali strumenti in un ambiente montagnoso e boscoso, l’utilizzo
delle armi chimiche viene escluso principalmente per ragioni di opportunità politica:
non è consigliabile e forse neppure concepibile nel contesto europeo. In questo elemento
sta dunque anche la fondamentale differenza con la realtà coloniale. Al di là della
violenta propaganda anticomunista e dell’evidente e radicato pregiudizio antislavo, la percezione circa la distanza razziale è senz’altro molto differente dal contesto
africano e comporta un diverso livello di disumanizzazione dell’avversario.
I crimini del bravo italiano
Come ammette un testimone, «nel turbine terrificante di quei giorni di tregenda qualcuno
arrivò a commettere delitti innominabili...». Spesso tali gesti di particolare brutalità vengono attribuiti dalla memorialistica
alle truppe fasciste, tuttavia i documenti a disposizione dimostrano come essi non siano affatto prerogativa
della Milizia o delle unità squadriste. Quasi tutti gli organi di polizia ad esempio
utilizzano ampiamente la tortura, mentre non sono rari i casi di violenze sessuali
o le morti in carcere nel corso degli interrogatori. Anche nel corso delle normali operazioni militari avvengono crimini di ogni genere.
Durante un rastrellamento, racconta un testimone, «il fuoco si era propagato a una
gran parte del paese. La truppa, eccitata dagli scoppi e dalle fiamme, era inspiegabilmente
impazzita e si era data al saccheggio. [...] I soldati facevano gazzarra e due di
loro avevano violentato una ragazzina di meno di quattordici anni». Lo stesso testimone racconta di aver lui stesso derubato una vecchia che «strillando
come una gallina, tentò di riprendere la sua roba ma io, con molta gentilezza, le
misi sotto il naso la pistola [...]. Non mi passò neppure per la mente di aver fatto
una rapina a mano armata».
Il popolo e l’esercito italiano, come qualunque gruppo umano, comprendono anche ladri,
stupratori, sadici, assassini e violenti di ogni tipo. L’eccesso di potere e il clima
d’impunità diffusa consentono a questi pochi individui di agire indisturbati e spingono
molti altri ad adottare comportamenti contrari alle convenzioni sociali. I militari
italiani sono intoccabili, autorizzati a qualunque abuso, addirittura rimbrottati
quando non fucilano abbastanza: «Si ammazza troppo poco!», commenta Robotti in un’occasione. «Si sappia bene che eccessi di reazione, compiuti
in buona fede, non verranno mai perseguiti», ricorda esplicitamente la circolare 3c:
«Perseguiti invece, inesorabilmente, saranno coloro che dimostrassero timidezza ed
ignavia». E i giornali di propaganda per le truppe sono ancora più schietti: «Non sono ‘nemici’;
sono fuori legge. Non hanno il diritto di essere chiamati uomini. Ucciderli senza
pietà !». Emblematico è il caso di due operai sloveni freddati da un sergente dietro denuncia
di un collega di lavoro italiano ubriaco. Il sottufficiale viene addirittura encomiato dai comandi per avere «agito immediatamente
con l’energia che esigono i tempi e che viene costantemente raccomandata ai nostri
militari».
La violenza repressiva, le fucilazioni indiscriminate, le prevaricazioni di stampo
razzista sono connaturate all’ideologia fascista. In un’occasione Mussolini confessa
a Ciano «che ama un solo generale – mi sfugge il nome – il quale in Albania disse
ai suoi soldati: ‘Ho sentito dire che siete dei buoni padri di famiglia. Ciò va bene
a casa vostra: non qui. Qui non sarete mai abbastanza ladri, assassini e stupratori’». Tuttavia va ricordato che la strategia antipartigiana è ideata e messa in pratica
soprattutto dal regio esercito, mentre le autorità politiche spesso invocano una certa
moderazione, specie nelle zone annesse.
Il modello repressivo adottato dagli italiani in Jugoslavia a partire dal 1942, d’altronde,
non è prerogativa esclusiva dell’esercito fascista né tanto meno della Seconda guerra
mondiale. Pratiche analoghe sono state portate avanti da molti eserciti d’occupazione,
fossero essi in guerra per la democrazia o per imporre ideologie più o meno autoritarie.
Si tratta, come sostiene uno dei generali italiani accusati di crimini di guerra alla
fine del conflitto, di «ordini impartiti in ogni tempo, in qualsiasi guerra di partigiani,
condotta in qualsiasi regione». Ciò non diminuisce la gravità morale di tali scelte, che vanno però comprese nel
contesto di un modello occupazionale e repressivo dal quale ben pochi eserciti nella
storia recente si sono distanziati. Va aggiunto che un certo tipo di strategia militare
è connessa con le capacità , le possibilità concrete, i mezzi tecnologici, economici,
ideologici e psicologici di cui ogni contendente dispone. La creazione di un sistema
concentrazionario, l’impiego di un notevole materiale militare, l’utilizzo di armi
chimiche o batteriologiche, sono prerogative di eserciti moderni e società complesse
ma non evidenziano connotazioni morali più elevate da chi uccide col coltello o infierisce
sui cadaveri.
Almeno entro certi limiti, le autorità italiane sono convinte di agire nella legalità .
La resistenza jugoslava non viene riconosciuta quale legittimo belligerante e dunque,
secondo le convenzioni internazionali, i partigiani sono trattati alla stregua dei
franchi tiratori. Arresti indiscriminati e fucilazioni sono considerati legittimi e la maggior parte
dei soldati, soprattutto quelli appartenenti all’élite del regio esercito, come granatieri ed alpini, esegue disciplinatamente gli ordini.
I casi di resistenza passiva, che consiste di solito nell’arrestare invece che fucilare
i sospetti catturati o nell’evitare la distruzione di un abitato, sono rari. È raro trovare anche solo una voce critica, a qualunque livello gerarchico, durante
e dopo il conflitto. L’alpino aostano Willien, che pur concorre con le sue truppe
alle operazioni antiguerriglia, è uno di questi sporadici esempi. In una pagina del
suo diario di guerra scrive: «La pagheremo sicuramente per quello che stiamo facendo.
Non possiamo rimanere impuniti». Sbagliava. Per una serie complessa di circostanze, i crimini di guerra commessi
dagli italiani durante il periodo fascista non vennero nella maggior parte dei casi
perseguiti. La mancanza di una «Norimberga italiana» e l’acritica difesa ad oltranza
da parte delle autorità italiane del dopoguerra dei 750 individui di cui la Jugoslavia
chiedeva l’estradizione per crimini di guerra, hanno certamente contribuito alla diffusione globale dello stereotipo giustificativo
degli «italiani brava gente».
Fucilati
L’autodifesa dei generali inquisiti dopo la fine della guerra si basa essenzialmente
su un elemento: la presunta brutalità mostrata dai partigiani jugoslavi verso i militari
italiani. Quest’immagine di barbara violenza esercitata dai comunisti slavi si è poi
sedimentata nell’immaginario italiano, soprattutto grazie all’attenzione politico-mediatica
dedicata al fenomeno delle foibe. Già nel dopoguerra un simile modello stereotipato viene utilizzato dai reduci come
strumento giustificatorio. «Se dalle truppe italiane, nelle operazioni di cui trattasi
sono stati commessi atti eccessivi la causa di ciò deve ricercarsi nello sdegno creato
nell’animo dei nostri soldati dagli atti barbarici compiuti dai partigiani di Tito
contro italiani», scrive ad esempio un generale nel 1946. Anche Roatta, che nello stesso anno pubblica
in clandestinità il suo libro di memorie, sostiene che i partigiani «si sono generalmente
comportati nel modo più selvaggio, seviziando e massacrando centinaia e centinaia
di militari italiani». «La caccia all’uomo è inesorabile da parte dei ribelli più spietati, i nostri invece
cercano di contenersi dentro i limiti fissati dalle leggi internazionali»: la differenza di comportamento sembra evidente. «D’altra parte sarebbe stato ingenuo
aspettarsi dal nemico un contegno meno incivile. I popoli sono quelli che sono e i
balcanici per lunghi secoli, fino a ieri, hanno avuto la passione delle stragi».
Le fonti storiche mostrano però una realtà sostanzialmente diversa. La stragrande
maggioranza delle brutalità che sarebbero state commesse dai partigiani jugoslavi,
descritte dalla propaganda o dalla memorialistica quasi mai da testimoni diretti,
non hanno trovato alcun riscontro nei documenti dell’epoca. Non è detto si tratti
sempre di pura invenzione, ma gli episodi di violenza gratuita verificati dalle fonti
sono rarissimi. Un caso di soldati sgozzati in Lika viene riferito da un diarista
partigiano, mentre le sevizie sui cadaveri delle camicie nere uccise in Montenegro nei giorni
della rivolta del luglio 1941 rappresentano un’eccezione. Lo stesso generale Pirzio
Biroli ne evidenzia l’anomalia, «specie in confronto del trattamento fatto alle altre
truppe», disarmate e imprigionate senza alcuna brutalità , e le attribuisce alla «rabbiosa
propaganda» antifascista.
Occasionali brutalità dunque ci sono, ma si tratta di casi isolati, dovuti a gruppi
scollegati dal comando centrale e in netta contraddizione con gli ordini ricevuti.
Spesso in verità si tratta di fucilazioni di prigionieri, analoghe a quelle compiute
quotidianamente dai reparti italiani, che colpiscono l’immaginario, vengono ingigantite
dalla propaganda con l’aggiunta di strani e inverosimili riti, improbabili sevizie. D’altronde non va dimenticato il contesto generale, come fa, giustamente, sempre
l’unica voce fuori dal coro, l’alpino Willien: «Che differenza c’era ormai tra noi
e i partigiani? Ci eravamo macchiati degli stessi delitti, salvo che essi li compivano
per liberare la loro terra, e noi, invece li facevamo per conquistarla».
Rispetto a questi eventi esiste anche un’evidente sproporzione numerica fra le migliaia
di fucilati e deportati da parte italiana e le poche decine di esecuzioni compiute
dai partigiani. Questi infatti, secondo la stessa prassi adottata verso i nemici interni
e coerentemente con la logica della guerra antifascista, risparmiano solitamente i
soldati semplici mentre «ufficiali, sottufficiali, membri dell’Ovra, fascisti e carabinieri
vanno fucilati in ogni caso». In tutta la Slovenia, ad esempio, l’unico caso accertato di esecuzione di prigionieri
italiani riguarda otto carabinieri, fucilati nel maggio 1942 in quanto membri dell’apparato
repressivo fascista. Numerosi ufficiali vengono anche giustiziati dopo la resa dei presidi italiani durante
la battaglia della Neretva, mentre i medici sono solitamente risparmiati e impiegati nelle strutture di sanitÃ
costituite dai partigiani.
In un’unica fase specifica del conflitto, nei primi cinque mesi del 1942, la leadership
partigiana montenegrina in difficoltà ordina una serie di fucilazioni per ritorsione.
«Alle rappresaglie (incendi e altro) bisogna rispondere in maniera ancora più violenta
anche con rappresaglie (fucilazioni di massa), che devono essere ordinate dai nostri
comandi». «Nonostante l’amore per il popolo italiano [...] la nostra vendetta sarà senza alcuna
pietà e voi pagherete col vostro sangue ogni villaggio bruciato, ogni cittadino ucciso», dichiarano i dirigenti comunisti. A quell’epoca i partigiani creano sul Durmitor
alcuni centri di raccolta di soldati italiani catturati nei mesi precedenti. «Siamo
convinti che davvero sia necessario fucilare 30 soldati invasori e che informiate
il comando», ordina Djilas a marzo. Qualche settimana dopo altri 87 militari italiani vengono
fucilati «e seppelliti sul luogo dell’esecuzione in una buca comune», il tutto «a causa dei misfatti commessi dalle truppe d’occupazione».
Queste esecuzioni suscitano la violenta reazione italiana, innescando un terribile
circolo vizioso: «diversi nostri camerati, caduti prigionieri nelle loro mani, dopo
mesi di umiliazione [...] sono stati barbaramente trucidati. [...] Comunisti in nostre
mani hanno già pagato questo crimine con la giusta proporzione», annuncia Pirzio Biroli il 12 aprile. Le rappresaglie incrociate si ripetono per
due mesi senza soluzione di continuità : all’inizio di maggio si contano 33 e 92 esecuzioni
di ostaggi da parte italiana nel corso della stessa settimana. A fine mese il nucleo centrale dell’esercito di liberazione lascia la zona per dirigersi
verso la Bosnia occidentale, insieme a quel che resta dei partigiani montenegrini.
Prima di ripiegare, Tito stesso ordina un’ultima esecuzione di massa: «fucilate immediatamente
tutti gli italiani che si trovano presso di voi. Di questo informate il comando italiano
di Nikši. Motivazioni della fucilazione: come risposta per la fucilazione dei nostri compagni
a Podgorica, Pljevlja e ajnii. Attirate l’attenzione del comando italiano sul fatto che con noi si trovano molti
prigionieri italiani e che per ogni nostro compagno fucileremo due italiani». È questo l’ultimo evento del genere: fino alla fine del conflitto non verranno più
effettuate fucilazioni di massa di soldati italiani.
Prigionieri
Quella della prigionia è sempre un’esperienza traumatica: fame, freddo, paura, disorientamento,
talvolta malattia e morte. Nei primi mesi i comandi partigiani danno ordine di «rilasciare
i soldati italiani catturati subito dopo il loro disarmo». «I comunisti vogliono darci prova di generosità . Ci inviano di ritorno sei nostri
prigionieri feriti, venendo a smentire con quel gesto, tutte le false voci che s’erano
sparse in mezzo a noi al loro riguardo a scopo propagandistico», racconta un soldato nel gennaio 1942.
Solitamente appena dopo la cattura i soldati italiani vengono «interrogati ed invitati
ad entrare nelle file partigiane», e qualcuno accetta. Nella maggior parte dei casi si tratta di slavi della Venezia
Giulia o antifascisti convinti. È questo il caso del soldato Lorenzo Carraresi, che «chiese spontaneamente di farsi
partigiano, professandosi iscritto al partito comunista italiano», del capitano Riccardo Illeni, triestino, che avrebbe favorito la resa del presidio
di Jablanica nel febbraio 1943 o di Francesco Simonelli – «il più indegno di tutti», secondo le fonti italiane –
«che cercava in tutti i modi di convertire alla causa partigiana i soldati prigionieri».
A partire dal 1942 gli italiani che non aderiscono alla resistenza vengono spogliati
delle divise, rivestiti di stracci e impiegati per lavori di assistenza ai feriti
o trasporto di materiali e munizioni, in condizioni più o meno dure a seconda delle
situazioni. Nella stragrande maggioranza dei casi comunque riescono a rientrare nel proprio
esercito, mediante liberazione, fuga o scambio. È questa la norma, tanto che i generali italiani cominciano a temere che
«s’ingeneri nell’animo dei nostri soldati la falsa convinzione che i partigiani usino
un buon trattamento verso i prigionieri e che sia agevole ottenerne la restituzione». Gli alti comandi impongono ai rilasciati lunghi interrogatori e una fase di rieducazione
nelle retrovie ma molti ex prigionieri non esitano ad ammettere: «I capi partigiani si sono sempre
mostrati gentili verso di noi». Talvolta queste negoziazioni vengono impedite dagli alti comandi. In un caso, ad
esempio, si ordina che «siano troncate le trattative in corso per lo scambio di prigionieri
fra una divisione dipendente ed i partigiani, perché questi ultimi hanno rifiutato
di restituire alcuni nostri militari, che risultano incorporati nelle formazioni partigiane».
Il fenomeno della diserzione è in verità molto raro; «la propaganda comunista fra
le truppe [...] ha avuto finora risultati pressoché negativi: i volantini e le poche
altre manifestazioni di carattere comunista, non hanno avuto alcuna presa sull’animo
del soldato», sostiene Robotti nel 1943. Gli appelli dei resistenti assumono quasi sempre un carattere
prettamente antifascista: «I banditi fascisti sono responsabili che i figli del colto e laborioso popolo italiano,
che i successori del Mazzini, Garibaldi ed altri gloriosi italiani, portino oggi il
vergognoso nome di carnefici e delinquenti». «Noi combattiamo anche per la vostra libertà , per le vostre famiglie, per la vostra
felicità [...] riunitevi con noi, desertate con le armi in mano dalle vostre formazioni,
desertate tutti. Venite a noi, portate le armi con sé, noi vi prenderemo come frattelli».
I pochi casi di diserzione noti sono comunque significativi, le motivazioni varie.
Un solo esempio: Ferruccio Giuggiolini sostiene di «essere stato indotto al passo
fatale dalla giovane Simovic Anna Maria nella cui casa si recava giornalmente a passare
le sue ore libere. [...] La giovane è conosciutissima [...] per la sua leggerezza
di carattere, tanto è vero che tutti i militari di quel presidio hanno avuto occasione
di avvicinarla a scopi di libidine. È figlia di un sottufficiale maniscalco dell’esercito
croato [...]. La madre è stata da poco dimessa da un campo di concentramento croato,
dove era stata internata perché serba». In questo piccolo nucleo famigliare c’è tutta la disperazione prodotta dal conflitto.
La storia finisce come previsto: le due donne vengono internate, il soldato fucilato.
Una noia mortale
«Uscimmo su una pietraia aspra, bucherellata da piccole e avare doline. Era il Montenegro.
I più fortunati di noi ci sarebbero rimasti tre anni. Gli altri per sempre». Alla luce di quanto raccontato finora sembra di poter immaginare un esercito italiano
in continuo movimento, impegnato a tenere a bada ribelli e alleati, costantemente
in guerra. La memoria dei protagonisti però ci restituisce un’immagine del tutto diversa.
I volumi di ricordi esprimono un evidente «disagio della memoria», di fronte all’incapacità di collocare la propria esperienza di antiguerriglia nel
contesto postbellico caratterizzato dall’esaltazione retorica della guerra partigiana.
Insieme ai pochi diari disponibili, questi testi mettono in risalta due elementi,
apparentemente in contraddizione fra loro: una quotidianità annoiata di cui si evidenziano
soprattutto i buoni rapporti stabiliti con la popolazione civile; una serie di improvvisi
eventi drammatici, che mostrano la brutalità della guerriglia.
L’esperienza dell’occupazione e la vita di presidio sono fatte soprattutto di ozio.
«Qui come sempre niente di nuovo, sembra che i giorni siano fatti con lo stampo»; «facciamo una vera villeggiatura», scrivono i militari italiani. «Secondo il solito non si faceva niente dalla mattina
alla sera. Le uniche occupazioni erano le cagnare fatte a mensa». «Nelle ore più calde del pomeriggio, stesi nudi sulle rocce, facevamo la cura del
sole. Nella casetta devastata dove si era installato il comando, passavo la maggior
parte delle mie ore diurne a distillare la noia». Non è solo la memoria che tende a cancellare gli avvenimenti più spiacevoli fornendo
un quadro idilliaco; anche i documenti coevi parlano lo stesso linguaggio: «La nostra
sta diventando troppo una linea allegra. Alpini che vanno e vengono da tutte le parti,
in tutte le tenute, magari disarmati: vigilanza allentata: schiamazzi la sera, ululati
di richiamo [...]. Lo pensavo proprio stamane mentre mi lavavo al pozzo. Prima si
andava in pattuglia, poi io e l’attendente, ora io da solo». Spesso i comandanti denunciano questa eccessiva rilassatezza: «I soldati vengono
lasciati inoperosi ed inattivi e nulla lima più lo spirito che questa neghittositÃ
fatalistica ed immutabile».
In questo contesto le preoccupazioni maggiori dei soldati sono di ordine pratico:
rarissime sono le licenze, scarso l’igiene, poco il cibo, molto sentita l’astinenza
sessuale. «Non sembriamo certo dei conquistatori, ma piuttosto bande armate che portano a
spasso per il mondo la loro miseria. [...] Facciamo ridere. Nient’altro. [...] E abbiamo
sempre fame», «una fame immensa e cattivissima», cui si cerca di sopperire con i «numerosi orti di guerra che ogni reparto ha creato», oltre che con scambi, acquisti e purtroppo frequenti furti ai danni della popolazione
civile.
Molte unità rimangono di presidio nella stessa zona per tutta la durata dell’occupazione,
«stabilendo equivoche relazioni con la popolazione». Le testimonianze italiane e jugoslave parlano di scambi continui di tutti i generi:
materiali, sessuali, sentimentali. «Li abbiamo anche amati come essi hanno amato noi,
perché abbiamo visto gli uni negli altri la stessa umanità sofferente». Dopo settimane, mesi, anni si impara a convivere, a comunicare, non solo a gesti.
In alcune unità nella provincia di Lubiana vengono organizzati persino corsi di sloveno
per la truppa ma, nella maggior parte dei casi, i militari imparano autonomamente
qualche parola slava. «Ne approfitto per studiare il serbo-croato con un manuale acquistato
in un mercatino», racconta un soldato, «i miei maestri sono i ragazzini del luogo
che ci vengono a trovare soprattutto per chiederci qualche piccolo dono o qualche
pezzo di pane, o altri eventuali, ma rari, avanzi di cibo». Ma c’è anche chi, di origini triestine, istriane o dalmate, parla già un po’ la
lingua del luogo, o chi riesce a impararla abbastanza bene. Molti sono anche gli jugoslavi
che conoscono o imparano un po’ di italiano.
I rapporti con i civili vengono comunque scoraggiati dalla propaganda e dagli alti
comandi: «Non fidatevi di chi vi circonda. Ricordatevi che il nemico è dovunque». La memoria dei reduci rimanda questo sentimento di diffidenza ma anche di attrazione
verso un mondo diverso e sconosciuto, affascinante ma spaventoso. Molti osservatori
italiani, specie se con un buon grado d’istruzione, adottano uno sguardo antropologico,
spesso ingenuo, venato da forti elementi razzisti. «Trattasi di gente di costumi ed
indole alquanto primitivi», scrive un soldato, colpito, come molti altri, soprattutto dagli elementi percepiti
come più esotici della cultura musulmana: veli e minareti, muezzin e abiti turcheggianti.
Le descrizioni dei rapporti con le donne locali evidenziano in maniera particolarmente
significativa questa ambivalenza, questo sentimento di attrazione-repulsione. Da una
parte ci sono le partigiane, descritte come autentici mostri di cattiveria, virago,
«maschi mal riusciti», pronte a sovvertire i sacri valori della famiglia e della patria. Ad una modernitÃ
maschile caratterizzata da gerarchia, disciplina e subordinazione si contrappone una
modernità femminile negativa che lega il potere sessuale femminile alla corruzione
morale, all’impotenza politica e al disordine sociale. Dall’altra ci sono le «civili», caratterizzate da un’atavica soggezione all’uomo
e da comportamenti di estrema leggerezza sessuale, per le quali non vale la pena di
scomodare gli stereotipi dell’amore romantico. Eppure sono diversi i casi di innamoramento,
le vere e proprie storie d’amore, come quella di un soldato che impiega la maggior
parte della sua permanenza in Montenegro per ottenere l’assenso al matrimonio con
una bella quattordicenne del luogo.
Spesso i rapporti con la popolazione sono effettivamente molto ambigui ed è forte
la sensazione, spesso confermata dai fatti, che la maggior parte degli interlocutori
parteggino per la resistenza. Così ad esempio descrive il suo incarico un ufficiale
del servizio informazioni: «Avevo una baracchetta fra gli alloggiamenti e lì stava
il mio ufficio, composto da un tavolo, un paio di sedie, un deposito viveri [...].
All’ora stabilita [...] arrivava il delatore. Lo ascoltavo, mi facevo un’idea sull’attendibilità ,
poi a seconda dell’importanza [...] lo ricompensavo o con denaro oppure, se preferiva
(e preferivano sempre) con viveri». Un altro soldato racconta: «La giustificazione della violazione del coprifuoco era
immancabilmente la ricerca di un medico o di una medicina per un parente ammalato.
Forse era vero, forse no; fingevamo di crederci; poteva trattarsi di un partigiano
che approfittava dell’oscurità per abbracciare i familiari. Questa tolleranza consentiva
a noi e agli abitanti della cittadina di vivere in una relativa tranquillità ». Come molti altri commilitoni, un reduce racconta la sua storia d’amore con una ragazza,
una studentessa universitaria che però si rivela una spia: «Ero io in torto, l’invasore;
lei cercava di difendere la libertà del proprio paese», commenta alla fine.
Questa vita quotidiana fatta di giornate tutte uguali, di preoccupazioni ben poco
guerresche, è scandita da rari e brevi rastrellamenti. «Sono essenzialmente giri dimostrativi,
propagandistici: si sfila con un mucchio di armati, si spara qualche colpo di mortaio
intimidatorio in mezzo ai monti», racconta un soldato. Durante queste operazioni è rarissimo incontrare il nemico,
spesso già informato dei movimenti delle truppe. «Il capitano cristona perché la montagna
è piena di ribelli e bisogna andar su... di nascosto. Ma se lo sanno anche i sassi
che dobbiamo andare a Ubli! Ne parlavano persino al mercato di Cattaro. Ne parlavano
persino i pescatori che venivano a portarci il pesce la mattina. ‘Quando Ubli? Domani,
dopodomani?’».
Come ammettono gli alti comandi, anche le manovre di più ampia portata «hanno fin
qui conseguito modesti risultati perché il nemico, esperto nella guerriglia, evita
il combattimento rifugiandosi sulle montagne, donde improvvisamente riappare per imboscate
e sorprese». I partigiani vengono percepiti come imprendibili: «Non si vede mai nessun ribelle,
né di giorno né di notte. Ma intanto muoiono soldati quasi ogni giorno». Talvolta si tratta anche di individui di un certo rango, come il prefetto di Zara,
Vezio Orazi, ucciso il 26 maggio 1942 vicino a Ervenik, o l’attaché militare a Zagabria, ferito sulla strada tra Lubiana e Zagabria il 13
marzo 1942. Più spesso però le imboscate investono piccole colonne di soldati in trasferimento
lungo le strade principali. Questi uomini si trovano a combattere in situazioni disperate,
senza vie di fuga, come racconta un testimone: «Lo spettacolo è indescrivibile, impressionante,
terrificante. Siamo tutti sparsi in quell’enorme tomba affondando certe volte nel
fango fino al petto. [...] Voci che gridano aiuto, urla che non hanno niente di umano.
Ognuno pensa a salvare la propria pelle».
Le guarnigioni italiane si ritrovano a «vivere quasi asserragliate nei vari presidi
attendendo di essere attaccate». Non rari sono i momenti di panico, in cui si sparano «inutili raffiche di mitragliatrice
nell’oscurità » contro un nemico invisibile. «Noi partigiani non se ne prendeva mai nessuno, se ne
prendevamo qualcuno per sospetto erano gente tranquilla che non si interessava di
politica, quelli pagavano per gli altri». Imboscate da una parte e fucilazioni di civili dall’altra. È questa la guerra di
guerriglia, «guerra sempre paurosa ed atroce», che disorienta il soldato, confonde l’ufficiale.
Il fascino del ribelle
In questo contesto si diffonde addirittura la percezione distorta che i partigiani
siano meglio armati degli stessi italiani. In realtà essi impiegano soprattutto armi
automatiche, di cui l’esercito italiano è quasi del tutto privo, ma hanno pochissime
munizioni ed utilizzano le armi pesanti catturate agli avversari solo in rarissime occasioni. L’esercito italiano d’altronde mostra qui come su tutti
gli altri fronti, i limiti ben noti: vestiario inadatto, mezzi militari insufficienti
non tanto per quantità ma perché generalmente antiquati. Ha invece ampia disponibilitÃ
di armi pesanti, che si rivelano però sostanzialmente inutili in quel tipo di guerra:
i bombardamenti aerei, ad esempio, paiono del tutto inefficaci, al di là del puro
effetto terroristico.
Una lunga relazione del Comando supremo dell’aprile 1943 riassume esemplarmente la
situazione psicologica oltre che materiale in cui combattono le truppe italiane in
Jugoslavia:
I comandanti [...] abitano le più ridenti ville della zona – conducono vita agiatissima,
allietata da feste, divertimenti e da qualche orgia; coltivano molti, anche di grado
elevato, relazioni amorose con donne del paese pur avendo, alcuni, la famiglia sul
posto e pur conoscendo tutti quale enorme danno producono tali relazioni al segreto
militare; si abbandonano, infine, [...] a un illecito commercio di moneta, di viveri,
di pellicce, di argenterie [...] In contrapposto, le minori unità [...] sono quasi
abbandonate; vivono una vita continua di disagi, di agitazioni, di preoccupazioni
per un nemico che non vedono ma che è dovunque e sempre pronto ad assalire in qualsiasi
ora del giorno e della notte. Sono soldati che da due anni non conoscono riposo, non
rivedono la famiglia, non si tolgono le scarpe, non fanno un bagno e sono quindi tormentati
da cimici e pidocchi; che dormono a terra senza paglia [...]. È facile ora comprendere
in quali condizioni le nostre truppe combattono [...]. In generale non combattono!
[...] La stanchezza o meglio la prostrazione fisica e morale e la sfiducia nelle proprie
forze sono tali che al primo colpo di fucile i reparti indietreggiano o, come spesso
avviene, si abbandonano a una fuga precipitosa per raggiungere al più presto il presidio.
[...] Spesso sono i presidi che vengono attaccati dai ribelli, dopo averne valutato
esattamente la consistenza. La difesa è in genere sempre effimera per l’apatia, la
sfiducia, il panico e la mancanza di direttive [...]. I rinforzi non arrivano o se
qualche comandante prende l’iniziativa d’inviarne, essi, che sono sempre autocarrati
anche per le grandi distanze tra presidio e presidio, vengono spesso arrestati e dispersi
[...]. Nell’animo dei nostri soldati si forma sempre più l’errata convinzione che
i partigiani sono imbattibili.
Il problema non sono i mezzi ma gli uomini. Come notano tutti i protagonisti, «le
truppe italiane [...] non hanno in generale spirito combattivo», mentre gli ufficiali hanno «poca attitudine alla disciplina, scarso senso della
responsabilità e di sacrificio, preparazione professionale inadeguata». I generali sono disorientati, non sanno che strategia adottare, invocano il «ginger»,
la «grinta dura», ma poi sono costretti a soffermarsi continuamente su norme militari elementari:
«Vince chi si muove – vince chi impone la propria volontà all’avversario», chi ricorda le «quattro S: Silenzio – Segreto – Sorpresa – Successo». «Stiamo convincendoci della dannata incapacità dei nostri comandi supremi a formulare
un piano veramente efficace per arrivare alla conclusione di questo stillicidio», scrive un soldato già alla fine del 1941.
«Per non subire, bisogna creare nel soldato una speciale forma mentis. Quella dell’individuo
che non teme perché si sente superiore. Superiore di spirito, superiore d’armi», sostengono i generali. Il senso d’inferiorità , militare e morale, rispetto all’esercito
partigiano, si diffonde invece a tutti i livelli. Perfino i vertici dell’esercito
dimostrano di subire il fascino dei ribelli. «Si deve all’energia, alla bravura, all’astuzia
di capi come Tito [...] se le già robuste formazioni partigiane, battute e disperse
[...] hanno potuto raccogliersi, riprendersi, riorganizzarsi». «Bisogna riconoscere che questi partigiani hanno magnificamente manovrato, ed hanno
saputo ‘sganciarsi’ dai nostri battaglioni ogni qualvolta l’hanno voluto. E questo...
mi fa star male», commenta amaramente un generale nel luglio 1943.
Non è facile poi combattere una guerriglia che ha un grande supporto popolare: «Ogni
uomo che è fatto prigioniero da queste parti è un ribelle ‘in fieri’. O lo è stato
o lo è o lo sarà . Non ci sono alternative. Prima o poi ognuno di essi sente il bisogno
d’imbracciare un fucile e combattere per la sua terra e la sua idea. Soltanto noi
combattiamo senza ideali», scrive un reduce. Perfino il governatore Bastianini si esprime con accenti di inconcepibile
ammirazione per i partigiani: «Il comunismo ha preso piede in virtù della capacitÃ
e della fede con cui i comunisti perseguono i loro ideali. Siamo noi invece che non
sappiamo fare altrettanto».
Sembra mancare una strategia efficace ma soprattutto una motivazione valida per combattere.
Eppure la propaganda è intensamente impegnata a motivare i propri soldati. Soprattutto
a partire dal 1942 le autorità italiane editano in Jugoslavia diversi fogli di propaganda,
giornali, periodici, opuscoli e volumi. È un grande sforzo, che affianca i bandi e
le circolari dei comandi superiori, rivolto sia verso i propri soldati che verso le popolazioni occupate, mediante specifiche pubblicazioni bilingue.
La propaganda tenta di inquadrare questo conflitto all’interno della crociata internazionale
anticomunista contro «l’eterno nemico di Roma, il bolscevismo asiatico antieuropeo». Qui «si combatte il comunismo, nemico numero uno dell’Italia e dell’Europa». «O Roma o Mosca. Non v’è possibilità di compromesso alcuno tra queste dottrine politiche
che sono due mondi avversi, due religioni», scrivono giornali e generali. «Tu fai la guerra ai comunisti, non alla popolazione
del Montenegro, che, anzi, sei qui per proteggere e liberare dall’atrocità dei suoi
nemici», ricorda un bollettino del 1942. Al tempo stesso però si vuole «alimentare nel soldato
l’odio contro gli slavi; [...] russo vuole dire slavo, vuole dire comunista: negatore
della Patria, della famiglia, della religione». La propaganda usa alternativamente, per definire i partigiani, i termini «crucchi» e «briganti comunisti», accostando elementi di guerra ideologica e nazionale. D’altronde,
come dice il generale Pirzio Biroli ai suoi soldati: «Oggi il Fascismo è l’Italia.
Chi odia il fascismo odia l’Italia».
L’identificazione dello slavo col nemico nazionale e col comunista, dunque contemporaneamente
anti-italiano e antifascista, consente di accettare psicologicamente la campagna di
terrore contro le popolazioni civili. Tuttavia come inquadrare l’ampio fronte collaborazionista
se tutti gli slavi vanno considerati come nemici dell’Italia e del fascismo? «Facciamo
una guerra fascista e armiamo i cetnici perché uccidano i fascisti locali», commenta un soldato disorientato. Il trattamento umano riservato dai partigiani
ai prigionieri italiani, l’ampio e sempre più evidente appoggio popolare alla resistenza,
la confusione anche logistica provocata dalla presenza di tante milizie locali, le
impressionanti carneficine compiute da questi alleati davanti agli occhi dei soldati
italiani, provocano una sensazione di spaesamento, un disagio che è certo una delle
principali fonti di debolezza dell’esercito occupante in Jugoslavia.