3. La morte della borghesia italiana
D. Torniamo indietro. Lei è stato iscritto al Pci. Che bilancio fa di questa esperienza?
R. Sono entrato nel Pci quando Giorgio Napolitano era il responsabile culturale
di quel partito. Fu lui a nominarmi responsabile per i Beni Culturali. Poco dopo arrivò
Aldo Tortorella. E lì avvenne un fatto che mi spinse alle dimissioni.
D. Di che cosa si trattò?
R. Venni consultato sulla futura nomina di Guglielmo Triches a direttore generale
del Ministero dei Beni Culturali. Era la stagione delle grandi intese tra Dc e Pci;
occorreva quindi il via libera da Botteghe Oscure per una personalità vicina alla
Democrazia cristiana. Detti parere contrario perché ritenevo la persona inadeguata.
Ma il Partito diede il via libera e io mi dimisi. E poi Tortorella non era Napolitano.
D. Ripensandoci oggi, nel nuovo millennio, con il Muro di Berlino caduto nel 1989...,
lei si è mai sentito veramente un comunista organico, come capitò a Bianchi Bandinelli?
R. Non mi sono sentito mai comunista. Puntavo sulla trasformazione del Partito in
senso riformista. Sono stato influenzato dal pensiero di Marx sulle economie pre-capitalistiche.
Nel 1979 scrissi per Einaudi Anatomia della scimmia, dedicato alla formazione economica delle società prima del capitale. Le mie ricerche
riguardavano allora la struttura del mondo romano, la sua base produttiva, la circolazione
delle merci, la produzione di valori di scambio per mezzo della cooperazione schiavistica.
Penso che Marx abbia avuto in quel campo intuizioni folgoranti: classificava le forme
pre-capitalistiche comparandole per differenza con il capitalismo industriale. Sono
stato quindi un marxiano – oggi suona come un «marziano» –, mai un marxista, che è
stata la teoria piegata al dispotismo comunista. Qualche anno prima avevo pubblicato
il pamphlet Archeologia e cultura materiale, cui ho accennato.
D. Può aiutarci a capire con qualche esempio pratico?
R. Un gruppo di antichisti con i quali lavoravo presso l’Istituto Gramsci era riuscito
a mettere a fuoco e ad aggiornare la teoria sul modo di produrre degli schiavi. Non
tutti gli schiavi venivano impiegati allo stesso modo nell’antichità. Alcuni lavoravano
singolarmente, nell’antica maniera. Altri venivano utilizzati in una cooperazione
agricola o manifatturiera, creando così valori di scambio, merci vere e proprie, diffuse
in tutto il Mediterraneo. Un prodromo del capitalismo commerciale moderno. Quando
diressi gli scavi alla villa di Settefinestre, presso Ansedonia, quel mio studio tornò
utile: la villa era gestita da gruppi di schiavi, di cui avevamo rinvenuto gli alloggi.
Se non avessi studiato Marx non sarei arrivato, probabilmente, a interessarmi alla
base socioeconomica della società romana. Avrei continuato a occuparmi di belle cose,
ignorando i «lavori senza gloria».
D. Suo fratello Guido è stato un parlamentare comunista...
R. Sì, ma poi si è dimesso anche lui dal Partito e da deputato. Qualche anno dopo,
nel 1985, propose su «Repubblica» che il partito cambiasse sostanza e nome. Ha insegnato
Economia politica e ha studiato Marx. Poi è tornato a fare l’agricoltore a Torre in
Pietra. Abbiamo avuto allora scambi intellettuali molto intensi. Sta per uscire presso
Laterza un suo libro sul capitalismo dal medioevo a oggi, Racconti della civiltà capitalista.
D. In qualsiasi scelta c’è sempre una spinta non solo razionale o culturale ma anche
legata al profondo. Qual è stato il motivo «non razionale» del suo avvicinamento al
Pci?
R. Il Partito comunista ha rappresentato un rifugio per molti intellettuali italiani
di fronte alla borghesia in rotta. La Democrazia cristiana si dedicava a più corposi
interessi. La cultura liberal-democratica pareva senza prospettive. Il Pci era un
genitore accogliente, sufficientemente doppio per persuadere fronti sociali molto
diversi, e gli intellettuali, che più dovrebbero saper pensare con la propria testa,
gradirono le sue dande, me compreso. Privo della mia classe perché dissolta e perché
l’avevo rifiutata, il Pci fece da sostituto. Il Pci era diretto anche da valenti borghesi.
Era il solo partito che avrebbe potuto accogliere e custodire i valori della borghesia
per trasmetterli a un mondo nuovo. Così parve succedere, poteva succedere, ma non
successe. Oggi sarei più contento se avessi saputo resistere alle correnti che allora
tanto prevalevano quanto illudevano. Camminando oramai senza dande, mi sento poca
cosa, ma in sintonia con me stesso.
D. Un paragone con la sinistra di oggi?
R. Il Pci non era esente da ambiguità e difetti, ma era serio e colto, sapeva di
storia e voleva fare la storia. La sinistra di oggi è ciò che resta di quanto fu.
Ha perso la statura, ma non il mio rispetto, nonostante le delusioni. La destra italiana
non fa per me. Purtroppo sia il Pci che i partiti che ne sono derivati hanno contribuito
a smantellare ogni auctoritas e merito nel campo degli studi, dove chi sa dovrebbe essere distinto dall’asino e
dovrebbe prevalere sui mediocri. Così anche l’università è decaduta, di riforma in
riforma, ed io sono contento di essere in pensione (la prima nostra università occupa
nel mondo il 174° posto!).
D. Dove si colloca il difetto di fondo nella «manovra di avvicinamento» del Pci al ceto
medio? Sto parlando della vicenda culturale del dopoguerra. Crede che abbia pesato
il legame con Mosca?
R. Quando sono entrato nel Pci la questione moscovita pareva superata... La speranza
era che il Pci potesse sfruttare il meglio dell’eredità critica borghese per elaborarlo,
aggiornarlo, purificarlo e universalizzarlo, estendendolo a fasce sociali sempre più
ampie di popolazione. Tutto questo era nelle intenzioni di qualche dirigente illuminato,
ma hanno finito per prevalere il culto della quantità e la svalutazione della qualità.
Era più importante essere di sinistra che bravi, e così è stata la bazza dei mediocri.
Il passaggio di conoscenze da un mondo sociale all’altro, dalla borghesia al ceto
medio, nel nostro paese si è arrestato. Ha prevalso il bisogno di dissolvere il mondo
borghese per un ugualitarismo verso il basso e così, persa ogni pietra di paragone,
è comparsa una mediocritas, per nulla aurea. L’università della borghesia, che mesceva buon vino per pochi, è stata travolta
da un’università di massa in cui si è distribuita acqua tinta di rosso, senza sapore.
Penso che tutti oggi avrebbero diritto ad accedere, tramite il merito, alla serietà
e alla qualità. I figli dei privilegiati hanno pensato di andare a bere buon vino
all’estero, nelle democrazie occidentali che hanno saputo conservare quelle scuole
di eccellenza di cui i grandi Paesi non possono fare a meno: penso all’Inghilterra,
dove collegi secolari e di eccellenza continuano a formare la classe dirigente. Tutt’altra
storia...
D. Vede un nesso tra questa crisi e quella più generale delle classi dirigenti in Italia?
R. La crisi delle classi dirigenti in Italia affonda le radici nella dissoluzione
troppo rapida e completa della borghesia, per cui è venuto a mancare ogni modello
elevato di riferimento nel comune sentire e nelle regole. La borghesia ha imitato
l’aristocrazia, il ceto medio attuale avrebbe potuto imitare la borghesia, come altrove
è avvenuto ma non da noi, dove forze politiche assai diverse proprio questo azzeramento
hanno voluto. I risultati? Uno spaventoso decadimento morale, politico e culturale.
Senza tradizione, senza passato, ricominciando da capo, come un unico homo novus, l’Italia si è persa, priva di retroterra civico-culturale ed entro un paesaggio
materiale e umano sempre più compromesso, che fa ridere il globo. Quando vado a Cambridge
guardano al tweed delle mie giacche come a una reliquia: si vergognano oramai di usare quella lana,
perché troppo sa di antico, di classe, ma poi le loro cerimonie riaccendono l’antico
nocciolo tradizionale di quel Paese, mentre a noi non resta più alcun rito credibile
(se non quello straniero della Chiesa). La dissoluzione della borghesia, potentemente
avviata dal fascismo che ne ha fiaccato fibre essenziali e favorita sia da forze di
destra che di sinistra sulla base di retaggi ideologici scaduti, si è tradotta nel
vuoto vertiginoso in cui siamo. Per vedere ancora qualche autentico borghese nella
sua tenue bisogna andare a una mostra o a teatro a Parigi. Abiti un po’ lisi ma degni, senza
frenesie di nuovismo, e soprattutto gesti e moeurs che filtrano dal passato del Terzo Stato nel futuro. Quanto è imbruttito il nostro
bel Paese, tra intrattenimenti volgari, cemento oppressore, stuoli di donne e parlamentari
in vendita, affaristi e fortune da pescecani. Anche alle Scuderie del Quirinale il
pubblico si è trasformato. È arrivata gente nuova, prima scartata: ma che gente! I
brillanti alle dita degli ufficiali napoleonici erano vistosi e l’aristocrazia superstite
ne rideva, ma fiammanti erano almeno quelle divise e grandioso il disegno!
Purtroppo un intero passato civile è stato cancellato e sembra perduto per l’avvenire.
La libertà individuale dei moderni, fattasi licenza, ha sostituito la libertà civica
degli antichi, per cui ci tocca rimpiangere il primo puritano, Bruto. Eppure la borghesia
italiana è stata il motore dell’unità del nostro Paese, e ha contribuito a restituirgli
dignità, anche internazionale, dopo il fascismo (fu questo il ruolo di mio padre a
Londra, tra 1945 e 1947). Sarà mancato il disciplinamento di una grande monarchia
e di un grande Stato, ma a possedere quel poco di senso dello Stato che abbiamo conosciuto
sono state la borghesia responsabile e la classe operaia matura, ambedue tramontate.
Vedo queste due tradizioni ancora vive e rinnovate nel presidente Giorgio Napolitano,
unico chiodo a cui è appesa la Repubblica, sconquassata dallo strabordare dei poteri
ch’egli cerca di ricondurre nel loro alveo, rispettatissimo e amato dalla grande maggioranza
degli italiani, stufi di esagerazioni, separatismi, odi distruttivi e fazioni.