Edizione: 2021 Pagine: 280, ril., con ill. Collana: Cultura storica ISBN carta: 9788858143056 ISBN digitale: 9788858144183 Argomenti: Storia dei partiti e dei movimenti politici e sindacali, Storia contemporanea, Storia d'Italia
Grande Guerra e Rivoluzione Russa: sono questi gli eventi che presiedono alla nascita del Pci. È il vento della rivoluzione, il sogno – prima ancora che il programma politico – dei comunisti italiani. Un sogno abbattuto quasi subito dal fascismo. Un sogno che sopravvive in forma organizzata seppure clandestina, tra mille difficoltà, fino alla guerra di Liberazione. Poi, il Partito comunista italiano sarà uno dei grandi partiti di massa della Repubblica e in milioni lo voteranno. Tornare al momento della sua fondazione un secolo fa, nel gennaio 1921, significa spiegare questa storia. Dalla nascita alla fine.
È passato un secolo dalla fondazione del Partito comunista italiano a Livorno, nel gennaio 1921. Nasce allora un piccolo partito, destinato però a diventare uno dei pilastri della Repubblica italiana. Nasce insieme alla vittoria di Lenin e della rivoluzione bolscevica in Russia. E morirà nel 1991, ancora insieme all’Unione Sovietica. Milioni di italiani lo hanno votato, altre decine di migliaia sono stati suoi militanti dedicandogli il loro tempo libero. Eppure all’inizio è una piccola «falange d’acciaio», come la chiama uno dei suoi fondatori, Antonio Gramsci: pochi uomini e qualche donna, uniti dal sogno di «fare come in Russia». Sono destinati a essere sconfitti sanguinosamente dal fascismo di Mussolini. Ma resisteranno, tra mille difficoltà, continuando a inseguire quel sogno. Il libro ripercorre non solo le vicende organizzative e la storia politica del partito, ma anche gli itinerari personali di vita di alcuni dei suoi dirigenti: Bordiga, Gramsci, Togliatti, Tasca, Bombacci. Cerca così di rispondere alla domanda più attuale: come ha fatto quella piccola falange a trasformarsi in un grande partito di massa? Quali bisogni degli italiani è stato capace di interpretare e rappresentare? Che ruolo ha avuto nella politica italiana? Perché è nato? E perché è morto?
Marcello Floresha insegnato Storia contemporanea nelle Università di Trieste e di Siena. Si è occupato di storia dei totalitarismi e di storia dei genocidi. Con Giovanni Gozzini ha già pubblicato 1968. Un anno spartiacque (il Mulino 2018).
Giovanni Gozziniinsegna Storia contemporanea all’Università di Siena. Si è occupato di storia della globalizzazione e delle disuguaglianze e di storia del giornalismo e dei media. Ha scritto libri sulla storia di Firenze, sul Partito comunista nei primi anni della Repubblica italiana, sulla Shoah e sulla globalizzazione negli ultimi due secoli. È stato direttore del Gabinetto Vieusseux e assessore alla Cultura del Comune di Firenze. Tra le sue pubblicazioni, Storia del giornalismo (Bruno Mondadori 2000) e Storia contemporanea (2 volumi, con T. Detti, Bruno Mondadori 2000 e 2002).
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CONSTANTER ET NON TREPIDE
Un monito scelto dalla famiglia Laterza come esortazione alla tenacia e ad una costante crescita.
4. Dal fronte unico alle Tesi di Lione
4.1. Ideologia e conoscenza
La cultura politica che presiede alla nascita del Pcd’I esclude il concetto stesso
di una strategia unitaria e antifascista. In un appunto scritto a Mosca nel giugno
1923, Gramsci sostiene che la tattica del fronte unico proposta dal Comintern non
trova «in nessun paese partito e uomini che sapessero concretarla»1. Le cosiddette Tesi di Roma, approvate nel marzo 1922 al III congresso del Pcd’I,
ricapitolano questo orientamento antiunitario nel quadro di una concezione del partito
come organo separato.
1 A. Gramsci, La costruzione del partito comunista 1923-1926, Torino: Einaudi 1971, p. 457.
Il proletariato appare ed agisce nella storia come una classe quando appunto prende
forma la tendenza a costruirsi un programma e un metodo comune di azione, e quindi
ad organizzare un partito [...] [e il partito è tale] in quanto raggruppa nelle sue
file quella parte del proletariato che ha superato nell’organizzarsi la tendenza a
muoversi soltanto per gli impulsi immediati di ristrette situazioni economiche2.
2Tesi sulla tattica, «L’Ordine Nuovo», 3 gennaio 1922. I relatori sono gli stessi della mozione comunista
al congresso di Livorno: Bordiga e Terracini.
La partecipazione alle lotte operaie è vista come una passerella strumentale – «allenamento»
è il termine usato – per l’adesione al partito, da cui discende la direttiva della
iscrizione dei militanti ai sindacati unitari. Ma le riforme in regime democratico
o sono impossibili o distraggono dalla rivoluzione. Non è un caso che il fascismo
quasi sparisca dal quadro: gli spunti innovativi di analisi del movimento di Mussolini
avanzati da Bordiga sono messi da parte e ogni tentativo di coalizione ampia contro
la violenza degli squadristi deve essere respinto come un inganno. Il fulcro delle
tesi rimane la previsione di una fase socialdemocratica e la susseguente deduzione
di una necessaria intransigenza, non priva di sofismi involuti3. «Un esempio tipico di bizantinismo» le definirà (molto) retrospettivamente Gramsci4. Ma lui stesso al congresso rovescia sul Psi tutte le colpe e combatte la direttiva
del fronte unico e del governo operaio come frutto di quella alleanza tra forze borghesi
e forze socialdemocratiche5. Il II congresso del Pcd’I segna così il momento di massima subalternità di Gramsci
a Bordiga. Anche l’ipotesi di un colpo di stato reazionario – in una lettera del 1924
Gramsci sostiene di aver combattuto perché rimanesse nel corpo delle Tesi – appare
talmente sfumata da risultare irrilevante. Le posizioni ordinoviste tornano semmai
a fare capolino nelle Tesi dedicate al tema dei sindacati, che sembrano però una concessione
di Bordiga su un tema ritenuto ormai marginale nella strategia del partito.
3 Per un esempio: «il partito comunista solleciterà le masse ad esigere dai partiti
della socialdemocrazia, che garantiscono della possibilità di realizzazione delle
promesse della sinistra borghese, il mantenimento dei loro impegni, e colla sua critica
indipendente ed ininterrotta si preparerà a raccogliere i frutti del risultato negativo
di tali esperienze dimostrando come tutta la borghesia sia in effetti schierata su
di un fronte unico contro il proletariato rivoluzionario, e quei partiti che si dicono
operai, ma sostengono la coalizione con parte di essa, non sono che i suoi complici
e i suoi agenti».
4 A. Gramsci, Quaderni del carcere, v. 2, Torino: Einaudi 1975, p. 1133.
5 P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano, v. 1, Da Bordiga a Gramsci, Torino: Einaudi 1967, pp. 186-7.
Un caso a parte rappresentano invece le Tesi presentate al II congresso del Pcd’I
sulla questione agraria. È l’unico campo in cui Bordiga ha conoscenze non superficiali,
provenienti dalla sua vita precedente, che si riflettono in una profondità di analisi
molto diversa sia dal resto dell’elaborazione teorica del partito, sia da quella grossolana
del partito russo e del Comintern. Il nucleo di tale differenza è dato dal rispetto
per la piccola proprietà contadina, di cui si auspica l’organizzazione.
È perfettamente logica, anziché essere (secondo le compassionevoli interpretazioni
di certo socialismo da dottrinetta) conseguenza di «pregiudizi», la tendenza del contadino
a divenire proprietario della terra su cui lavora. Quando domani tutto il prodotto
sarà suo ed egli sarà sicuro che un aumento di valore della sua azienda non potrà
di un solo colpo rientrare a vantaggio del padrone che non vi ha merito alcuno, egli
porterà maggiore attività nell’opera propria6.
6 A. Bordiga, La questione agraria, «Il Comunista», 5 giugno 1921.
Le terre delle aziende agrarie di ridotte dimensioni e a conduzione familiare non
vanno socializzate perché in esse i mezzi di produzione non sono separati dal lavoro.
Intendiamoci: queste generali categorie allegoriche (azienda agraria, piccola proprietà)
soffrono – e continueranno a farlo per parecchio tempo nelle analisi delle sinistre
italiane – di una mancanza di dettaglio analitico. Non ci sono cifre e misure relative
alle diverse sezioni geografiche di cui si compone il mondo rurale dell’Italia, bilanci
domestici delle famiglie contadine, livelli di diffusione dei mezzi meccanici. Tuttavia
rimane abbastanza singolare e significativa questa attenzione nel contesto di una
cultura politica piattamente marxista, come quella della Terza Internazionale (ma
per molti aspetti anche della Seconda), che è abituata a trasporre nelle campagne
la realtà industriale e quindi a individuare nei braccianti senza terra i proletari
rivoluzionari e in tutti gli altri, proprietari o conduttori a vario titolo di fondi
e poderi, gli avversari di classe. È uno dei tanti paradossi di questa storia che
buona parte delle rivoluzioni comuniste successive a quella russa – Cina, Vietnam,
Cuba – si siano fondate sulla parola d’ordine della «terra ai contadini». La socializzazione
successiva attraverso le «comuni» ha poi complicato le cose, fino ad imporre un ritorno,
in forme e modi diversi, alla reintroduzione del profitto privato in agricoltura.
Valcorrente (Catania) 1924. Riunione clandestina delle sezioni comuniste di Adrano,
Biancavilla e Misterbianco, con la partecipazione di alcuni dirigenti provinciali
del partito, per festeggiare il 1° maggio. Archivio di Stato di Catania. Fondo Franco
Pezzino.
Ma per quel che riguarda la storia del Pci, si rivela qui una circostanza di carattere
più generale. Tra settarismo ideologico e conoscenza si stabilisce quasi sempre una
relazione di proporzione inversa. Al crescere del primo diminuisce la seconda e viceversa.
Non è un caso che gli spunti innovativi che abbiamo fin qui rammentato nella storia
della fondazione del Pcd’I – i consigli di fabbrica, l’analisi sociale del fascismo,
la piccola proprietà contadina – nascano da una vicinanza diretta o indiretta con
le situazioni di cui si parla. Di per sé, la conoscenza è sempre l’antidoto più efficace
contro l’ideologia ed è quindi lo strumento di una buona politica. Perché osserva
la realtà, la scompone in fattori, mette in rilievo analogie e differenze, coglie
i mutamenti nel tempo e nello spazio. Evita di costruire rappresentazioni allegoriche,
funzionali alla divisione fiabesca del mondo in buoni e cattivi. Non è senza significato
che l’insediamento organizzativo ed elettorale storicamente più perdurante di socialisti
e comunisti italiani si trovi nelle regioni centrali dove le agitazioni del primo
e secondo dopoguerra portano alla conquista di miglioramenti concreti nei patti agrari
di mezzadria e affitto (quote di riparto del prodotto, garanzie contro escomi e disdette,
salari per la manodopera aggiuntiva a carico del proprietario). Cioè dove le sinistre
hanno pensato alla salute, e non alla salvezza. Viceversa, l’occupazione di terre
nel Mezzogiorno si risolve nelle leggi di riforma degli anni cinquanta che garantiscono
un accesso alla proprietà fondiaria ristretto e clientelare, funzionale al consenso
elettorale del partito di governo ma incapace di dare impulso sostanziale all’occupazione.
Le conseguenze, nel tempo del «miracolo economico» alla fine del decennio, sono urbanesimo
e migrazione verso le industrie del settentrione.
Il Pci ha vissuto sulla pelle dei propri dirigenti e militanti la contraddizione tra
ideologia e conoscenza. Anzi, l’intera sua storia può essere interpretata come una
dinamica a doppio senso di marcia tra questi due estremi. Il settarismo del Pcd’I
negli anni venti, su cui insistiamo, non è una contorsione della mente. Alle sue spalle
c’è il tradimento che i socialisti europei hanno consumato nel 1914 aderendo alla
guerra. Si pensi alla traiettoria politica di Eduard Bernstein, il socialdemocratico
tedesco e teorico del revisionismo secondo cui il movimento delle riforme è tutto,
contro il «nulla» del fine rivoluzionario. In opposizione alla guerra si ritrova nel
1917 a fondare il nuovo partito dei socialisti indipendenti insieme alla stessa Luxemburg
che anni addietro ne aveva chiesto l’espulsione dalla socialdemocrazia. Certo, i socialisti
italiani nel 1914 hanno fatto eccezione e non hanno tradito: il che spiega la posizione
di Serrati e complica la strada della frazione comunista. Ma non è affare da poco
essere (ritenuti) corresponsabili della più sanguinosa catastrofe della storia umana.
Senza questa drammatica rottura pregressa non si capisce la pervicace chiusura dei
comunisti europei. Ci vorrà molto tempo – e una nuova svolta ai vertici del Comintern
– perché l’idea di una alleanza con le socialdemocrazie nei fronti popolari possa
tornare a prendere piede nel movimento operaio europeo a metà degli anni trenta. Di
questa svolta né Bordiga né Gramsci saranno parte.
D’altro canto, il settarismo antisocialista nella sua connaturata carenza di intelligenza
emotiva (la capacità di mettersi nei panni degli altri) rappresenta la scorciatoia
psicologica per crearsi alibi ed evitare una vera analisi critica della situazione.
Capire perché i regimi borghesi europei hanno resistito alla guerra e al dopoguerra
significa rivedere i propri strumenti di analisi e soprattutto mettere in discussione
la visione ideologica di un capitalismo in crisi perenne. Molto più facile e rassicurante,
come sempre, dare la colpa a qualcun altro. Questo qualcun altro, però, non può essere
parte del fronte avversario, perché equivarrebbe ad ammettere che loro sono stati
più bravi di noi e quindi riconoscere la sconfitta. Il qualcun altro deve essere un
traditore, cioè uno del nostro fronte che ci pugnala alla schiena: nella fattispecie,
i socialdemocratici. Se la colpa è loro, non dobbiamo cambiare niente, basta eliminarli
e tutto può, anzi deve, continuare come prima. Che è la cosa più importante: perché
cambiare è doloroso, traumatico, sconvolgente. Mette in crisi equilibri, sicurezze
e posti di lavoro. Ma Dolchstoss, «pugnalata alla schiena», si chiama anche uno dei miti fondativi del nazismo tedesco:
riferito agli ebrei, ai socialisti e ai comunisti pacifisti che hanno sabotato la
Germania in guerra.
4.2. Interpretazioni del fronte unico
Mosca, c. 1928. Da sinistra: Ruggero Grieco, Angelo Tasca, Willi Münzenberg, Francesco Misiano, Chiarini. Seduti: Palmiro Togliatti, Marcel Cachin, Henri
Barbusse. Mosca. Archivio famiglia Misiano.
Inizia col II congresso una dura polemica con i vertici del Comintern che per anni
ruota attorno alla strategia proposta da Mosca del fronte unico con i socialisti e
della fusione con la frazione terzinternazionalista del Psi. Le Tesi del Pcd’I, esaminate
da Trockij e Radek, sono condannate in termini di «infantilismo», «sterile radicalismo»,
«paura settaria»7. Nel Pcd’I la nuova analisi del fascismo non muta e anzi approfondisce la condanna
della socialdemocrazia, percepita come unità di supporto e complemento del fronte
avversario. Di fatto, questo è il precipitato che rimane al fondo del dibattito nazionale
e internazionale che accompagna la scissione di Livorno. La socialdemocrazia fa parte
del blocco nemico. «Noi, comunisti – ha scritto allora Bordiga –, faremo la rivoluzione,
nella misura in cui avremo saputo sbarazzarle anzitutto la via dai farisei socialdemocratici»8. La tattica del fronte unico tra comunisti e socialisti lanciata dal Comintern alla
fine del 1921 viene intesa come un espediente per erodere «dal basso» le basi di consenso
dei partiti alleati e portare i loro militanti dalla propria parte. Per Serrati, che
a Livorno ha difeso senza riuscirci l’unità del Psi, il fronte unico segna invece
la strada che lo porta a riconciliarsi con l’Internazionale e il Pcd’I9. Bordiga, nella sua ostinata ritrosia ad accettare la fusione con Serrati, rimane
coerente all’idea della purezza solitaria. Alla fine la fusione si realizza nel 1924,
solo dopo che il gruppo dirigente comunista si è diviso a lungo sulla materia trascurando
il lavoro di massa e l’opposizione al fascismo.
8 A. Bordiga, Il Partito Comunista, «L’Ordine Nuovo», 1° maggio 1921. Cfr. anche s.f., Tra le gesta fasciste e la campagna elettorale, «Rassegna comunista», 15 aprile 1921: «il fascismo, strepitosamente battuto nell’urna
del 1919, dominerà – grazie agli alalà, al piombo e alla fiamma – le situazioni elettorali.
È utilissimo che sia così. Nessuna prova migliore della giustezza delle direttive
rivoluzionarie dei comunisti. Se veramente la borghesia andrà sino in fondo e nella
reazione strozzerà la socialdemocrazia, preparerà – non sembri un paradosso – le migliori
condizioni per la sua rapida sconfitta da parte della rivoluzione».
9 F. De Felice, Serrati, Bordiga, Gramsci e il problema della rivoluzione in Italia 1919-1920, Bari: De Donato 1971; T. Detti, Serrati e la formazione del Partito comunista italiano. Storia della frazione terzinternazionalista
1921-1924, Roma: Editori Riuniti 1972.
Per parte sua, il Comintern si adopera a smorzare le riserve ancora presenti in molti
partiti europei. Nell’aprile 1922 la conferenza delle tre Internazionali (compresa
quella chiamata «due e mezzo», che raccoglie le posizioni intermedie) sortisce solo
un accordo generico che non porta nessun mutamento concreto. Che la rivoluzione sia
in ritirata in tutta Europa diventa incontrovertibile solo alla fine del 1922, quando
il 5 novembre si apre a Mosca il IV congresso del Comintern, con 400 delegati che
rappresentano oltre sessanta organizzazioni. Per la prima volta si è costretti a parlare
del fascismo, che una settimana prima è andato al potere in Italia, subito dopo che
il Psi ha finalmente espulso i riformisti come chiedeva l’Internazionale prima della
scissione di Livorno. Al di là delle apparenze, il gruppo dirigente del Comintern
è diviso. In maggio Lenin è stato colpito da un ictus che ne menoma le capacità. Il
progressivo venir meno della sua indiscussa autorità priva il partito russo del punto
di sintesi e di equilibrio. Sulla questione del fascismo, ad esempio, i poli opposti
della discussione sono rappresentati da Zinov’ev, che riduce il fascismo a reazione
agraria e quindi a una contraddizione in seno al fronte avversario, e da Radek, che
ne individua la base di massa piccolo-borghese e considera il governo Mussolini una
grave sconfitta della rivoluzione, non solo in Italia. Ma a differenza di prima, non
si produce una mediazione positiva tra le diverse tesi. La maggioranza del Pcd’I,
raccolta attorno a Bordiga, rifiuta di valutare la marcia su Roma tanto un colpo di
stato quanto un evento rivoluzionario. Terracini, anticipando il rapporto di Bordiga
sul fascismo al congresso dell’Internazionale, sintetizza così per i compagni stranieri
il significato della marcia su Roma.
Si tratta di una crisi ministeriale un po’ mossa. Nessun’altra definizione convien
meglio agli avvenimenti che si sono svolti in Italia dal 27 ottobre al primo novembre.
Colpo di Stato? Rivoluzione? Noi respingiamo l’uso di tali termini per quelle circostanze.
Possano i proletari italiani capire finalmente che le classi conservatrici, che si
sono servite del terrore bianco, e lo Stato democratico, che si pone al loro servizio,
sono alla stessa stregua i loro mortali nemici10.
10 H. Terracini, Le Déclin du Capitalisme Italien, «La Correspondance Internationale», a. II, n. 86, 11 novembre 1922.
In realtà il dibattito sul fascismo è solo parte di un più generale dibattito sulla
strategia del fronte unico. Soprattutto Zinov’ev si spinge a ipotizzare le formule
governative più disparate che possono scaturire per ogni paese europeo dalle alleanze
fra partiti di sinistra. Abbastanza scoperta sembra l’intenzione di disegnare una
politica estera sovietica capace di sfruttare – a differenza di tutte le altre – il
doppio binario delle relazioni fra stati e fra partiti «fratelli». Zinov’ev e Radek
sono però uniti nel criticare le resistenze che Bordiga e il Pcd’I continuano ad opporre
a tale prospettiva: tanto più incomprensibili ora che il Psi ha finalmente espulso
Turati. Il problema è che Serrati si risolve a fare quello che ha evitato ostinatamente
negli anni precedenti, per una valutazione sbagliata (e simile a quella dei comunisti):
ora che la rivoluzione è rimandata, non c’è più bisogno di un partito unito e forte,
basta aspettare sulle giuste posizioni, restare immobili di fronte alla reazione che
avanza. Ritorna, anzi non è mai sparito, lo spettro di Pulcinella e della cieca fiducia
astratta nei tempi della storia.
Nel Pcd’I, invece, lo spettro che circola è quello di tornare alla situazione prima
di Livorno e di annullare così due anni di lavoro politico. L’opposizione ostruzionistica
alla direttiva cominternista del fronte unico nasce prima di tutto da una ragione
identitaria, tutta rivolta al passato e senza alcuna ambizione e capacità di costruire
un futuro diverso. Ma è una ragione imprescindibile: Bordiga e Terracini offrono le
loro dimissioni come atto di disciplinata sottomissione all’Internazionale. Togliatti
oscilla: i motivi identitari valgono anche per lui ma non vuole rompere con Mosca.
A schierarsi decisamente per il fronte unico è la destra del Pcd’I: Tasca e Graziadei11. Il che – unito alla minaccia di dimissioni di Bordiga – apre la prospettiva del
tutto inedita di un asse tra il Comintern e una minoranza che fin qui ha contato molto
poco nella breve storia del partito. Non è una prospettiva da sottovalutare: nel gennaio
successivo un nuovo gruppo dirigente e un nuovo segretario del Partito comunista francese
(Pcf) vengono nominati a Mosca. Nel dibattito in seno alla commissione russa-italiana
(dove sono presenti per i sovietici Lenin, Trockij, Rákosi, Zetkin) Trockij se la
prende con Gramsci, che cerca di convincere a prendere il posto di Bordiga incontrando
però le sue resistenze (Gramsci è appena uscito dal sanatorio di Mosca dove è stato
ricoverato per sei mesi).
11 P. Spriano, La mancata fusione Pci-Psi nel 1923, «Studi storici», 7, 1966, 4, p. 114; E. Rota, A Pact with Vichy: Angelo Tasca from Italian Socialism to French Collaboration, New York: Fordham University Press 2013, pp. 32-3.
È il punto di massima divergenza tra il Pci e l’Internazionale comunista. Più in là
vi è la rottura [...] Gramsci vuole un privilegio di intransigenza per l’Italia. Sulla
questione del fronte unico voi avete fatto blocco con la Francia e la Spagna. Gli
altri hanno già riconosciuto il loro torto, voi no [...] Voi ripetete in ogni questione
lo stesso errore [...] Se voi non avrete le simpatie delle grandi masse, non potrete
agire legalmente. Se voi volete restringere la vostra base rimarrete senza base e
sarete considerati una setta12.
12 Il dibattito viene pubblicato su «Lo Stato Operaio», 13 marzo 1924.
Gramsci cede: pone alcune condizioni (ostracismo verso alcuni socialisti, due terzi
del nuovo Comitato centrale assegnati ai comunisti), ma accetta la prospettiva della
fusione con il Psi. Rimane il problema di Bordiga: formalmente è ancora il capo del
partito, di fatto è all’opposizione e chiede la convocazione di un congresso straordinario
in Italia. Su «Il Lavoratore» di Trieste che, dopo la soppressione de «L’Ordine Nuovo»
all’indomani della marcia su Roma, rimane l’unico quotidiano del Pcd’I (ma in luglio
farà la stessa fine), si pubblica l’appello di Zinov’ev.
Un partito comunista unificato in Italia sarà simbolo per tutta la classe operaia,
aprirà una nuova era nel movimento operaio italiano e renderà alla classe la fiducia
in sé stessa che ora ha perduto [...] La fusione stimolerà le masse operaie alla lotta
contro i riformisti e i fascisti. È per questo che la fusione è assolutamente necessaria
e deve essere realizzata13.
In realtà la situazione rimane caotica. Al rientro in Italia Bordiga e Serrati vengono
arrestati, nell’ambito di una retata che cattura circa cinquemila militanti: per la
già ristretta organizzazione comunista è un colpo durissimo.
Il Partito è stato terribilmente colpito dagli ultimi avvenimenti. Però, malgrado
le perdite subite (arresti, emigrazioni, stanchezza e passaggio al fascismo) ci resta
un’élite di qualche migliaio di compagni che rappresentano senza dubbio un’avanguardia
ammirevole e molto selezionata. Ma i nostri legami con le masse, che del resto il
partito ha nel passato molto trascurato, sono ora debolissimi: non abbiamo né stampa
(il «Lavoratore» di Trieste ha un’influenza prevalentemente locale e non arriva nel
resto d’Italia che molto tardi) né organizzazione sindacale o cooperativa: il partito
è veramente staccato dalle masse, almeno per ora14.
14 A. Tasca a Chiarini (C. Haller), 18 marzo 1923, cit. in Spriano, Storia, cit., p. 271.
Nel Psi si afferma una maggioranza contraria alla fusione guidata da Nenni: con una
forzatura un po’ maliziosa Tasca spiega a Mosca che è l’effetto delle condizioni pretese
da Gramsci15. Zinov’ev propone allora che tra i due partiti si formi un «blocco politico» senza
fusione. Ma in Italia è una drammatica commedia degli equivoci: due partiti ridotti
al minimo dalla repressione fascista continuano a scambiarsi accuse reciproche che
corrispondono ancora alle ruggini della scissione di Livorno. Gramsci rimasto a Mosca
e Togliatti che, insieme a Tasca, dirige quel che rimane del Pcd’I in Italia, condividono
un dilemma senza apparente via d’uscita: difendere le ragioni della scissione di Livorno
o abdicare alle direttive del Comintern. Entrambi scelgono il primo corno del dilemma
grazie a un salto mortale logico: l’ipotesi che in Italia si stia andando verso una
situazione rivoluzionaria e che quindi il partito debba rimanere fermo al proprio
posto. Torna l’«autosuggestione» che abbiamo già visto all’opera nel 1920. Dal carcere
Bordiga scrive un manifesto che addirittura assegna al Pcd’I un ruolo internazionale
di lotta contro la «revisione verso destra» del Comintern16.
15 A. Tasca, Relazione della minoranza all’Esecutivo allargato dell’Internazionale comunista, giugno 1923, in P. Togliatti, La formazione del gruppo dirigente del Partito comunista italiano nel 1923-1924, Roma: Editori Riuniti 1984, pp. 72-87.
16Il «Manifesto» di Bordiga, scritto in carcere, estate 1923 (https://www.quinterna.org/archivio/1921_1923/manifesto_bordiga.htm).
L’Esecutivo allargato del Comintern che si tiene a Mosca nel giugno 1923 somiglia
da vicino a un processo nei confronti dell’intero gruppo dirigente del partito. La
soluzione adottata ricalca quella presa nei confronti del Pcf: un nuovo esecutivo
formato da tre membri della vecchia maggioranza (Fortichiari, Scoccimarro e Togliatti)
e due della minoranza (Tasca e Vota). Come nota Spriano17, la scelta dell’Internazionale di non affidare la direzione del partito italiano
a Tasca, l’unico a condividere la nuova linea del fronte unico, ha diversi motivi.
Il primo è di non creare maggiori fratture, dal momento che Tasca viene considerato
da tutti un «destro», di cui diffidano non solo Gramsci e Togliatti ma anche gli stessi
emissari del Comintern. La seconda è la logica della disciplina come valore assoluto
che deve funzionare a prescindere dal merito delle posizioni: l’abbiamo già vista
all’opera nel caso Levi in Germania seppure Lenin fosse d’accordo con quest’ultimo.
Infine c’è la sua personale ritrosia: «non mi riconosco le qualità di capo politico»
afferma in una nota lettera al dirigente del Comintern Rákosi dell’aprile 192418. Tasca rimane così minoranza, anche nel momento – quasi unico e molto breve – in
cui le sue posizioni si allineano a quelle del Comintern.
18 S. Soave, Angelo Tasca comunista, in Id. (a cura di), Un eretico della sinistra. Angelo Tasca dalla militanza alla crisi della politica, Milano: Franco Angeli 1995, p. 69.
Peraltro l’ukase di Mosca non cambia granché. Bordiga dal carcere ordina di non accettare le cariche
proposte dall’Internazionale e ottiene le dimissioni di Fortichiari. Ma tutti gli
altri tentennano. Nella disfatta generale restare attaccati alla scissione di Livorno
e al suo presunto significato appare quasi un motivo di identità personale: salvare
almeno l’idea che non tutto è stato sbagliato. Ma come abbiamo detto, il Comintern
è parte integrante (e in qualche misura decisiva) della scissione di Livorno e quindi
è difficile salvare l’una senza l’altro. Da questo momento prende avvio il ripensamento
di Gramsci che lo porta, nel giro di un anno, a diventare l’uomo di Mosca per sostituire
Bordiga alla guida del partito italiano. Il suo passo più importante in questa fase
è il progetto di un nuovo quotidiano del Pcd’I, che vedrà effettivamente la luce all’inizio
del 1924.
Io propongo come titolo «l’Unità» che avrà un significato per gli operai e avrà un
significato più generale, perché credo che dopo la decisione dell’Esec. All. sul governo
operaio e contadino, noi dobbiamo dare importanza specialmente alla questione meridionale
[...] Personalmente io penso che la parola d’ordine «governo operaio e contadino»
debba essere adattata in Italia così: «Repubblica federale degli operai e contadini»19.
19 A. Gramsci al Comitato esecutivo del Pcd’I, 12 settembre 1923, in Spriano, Storia, cit., p. 298.
La morte di Lenin nel gennaio 1924 coglie il Comintern nel mezzo di una travagliata
revisione. Senza la sua autorità, il gruppo dirigente di Mosca si frantuma quasi immediatamente.
Riprendono forza le posizioni di coloro che negli anni precedenti hanno ingoiato a
malincuore i «passi indietro» tattici intrapresi in politica interna con la Nep e
in politica estera con il fronte unico. Già alla fine del 1923 Trockij esprime le
sue prime critiche alla «degenerazione burocratica» della rivoluzione sovietica. Sotto
la spinta del triumvirato Zinov’ev-Kamenev-Stalin, il V congresso del Comintern, che
si svolge nel giugno-luglio 1924, ritorna a una valutazione ottimistica delle prospettive
rivoluzionarie europee, che accentua la polemica con la socialdemocrazia e apre la
fase di «bolscevizzazione» dei partiti aderenti. È importante notare come la valutazione
altalenante della fase politica che si determina al vertice dell’Internazionale prescinda
abbastanza da criteri «marxisti» di analisi della base economico-sociale dei diversi
paesi e discenda in larga misura da priorità della politica estera sovietica. Così
la via d’uscita da una situazione progressivamente peggiore per il comunismo mondiale
è meno creativa e più introversa rispetto alle parole d’ordine precedenti del fronte
unico e del governo operaio. La direttiva di «bolscevizzare» i partiti aderenti all’Internazionale
significa sottoporli (come prima, del resto) al controllo di Mosca ma anche renderli
più omogenei possibile alla composizione sociale e alle regole interne del partito
russo. Avere in ogni paese europeo partiti comunisti più forti e più coesi, attrezzati
per durare nel tempo e modellati secondo uno stretto criterio classista che sostituisce
le sezioni di strada con cellule per luoghi di lavoro, significa un vantaggio non
indifferente per la diplomazia sovietica. In subordine vi è una nuova accentuazione
(dopo la breve pausa del fronte unico) della polemica con la socialdemocrazia. Per
il Pcd’I comunque non cambia la scomoda posizione sul banco degli accusati.
Si sono create delle leggende intorno a noi. Si è detto che noi vogliamo essere un
partito di minoranza, una piccola élite o cose simili [...] Noi ci siamo sempre opposti
a questa tendenza, e significa proprio capovolgere le cose presentarci come terroristi
o partigiani dell’azione di minoranze armate, eroiche, ecc.! [...] Noi siamo assolutamente
convinti dell’impossibilità di intraprendere la lotta con qualche centinaio o qualche
migliaio di comunisti armati [...] Al contrario, vogliamo conquistare la direzione
delle masse proletarie, vogliamo l’unità di azione del proletariato; ma vogliamo anche
utilizzare le esperienze del proletariato italiano che insegnano che delle lotte sotto
la direzione di un partito non consolidato – anche se di massa – o di una coalizione
improvvisata di partiti portano necessariamente alla sconfitta. Vogliamo la lotta
comune delle masse lavoratrici nelle città e nella campagna, ma vogliamo la direzione
di questa lotta da parte di uno stato maggiore con una linea politica chiara, cioè
del partito comunista20.
20 A. Bordiga, Rapporto sul fascismo al V congresso dell’Internazionale comunista, seduta del 2 luglio 1924, (https://www.quinterna.org/archivio/1924_1926/rapporto_di_bordiga_sul_fascismo.htm).
La excusatio petita di Bordiga, assolto e scarcerato nell’ottobre 1923, conferma la sua coerenza adamantina
e refrattaria ad ogni soggezione nei confronti del Comintern. Anzi testimonia la sua
volontà sempre più determinata di dare battaglia contro quella che ritiene una deviazione
di destra dell’Internazionale. «Mi fa ridere che ci si allarmi della mia cocciutaggine
– scrive a Terracini –, non la si conosce ancora abbastanza»21. Ha ormai intrapreso la strada che lo conduce dalle parti di Trockij contro Stalin.
Ci torneremo in un prossimo capitolo. Ma la situazione del Pcd’I, sotto l’attacco
concentrico della repressione fascista e delle reprimende sovietiche, rimane critica.
A una base di massa sempre più ristretta corrisponde un gruppo dirigente sempre più
diviso e incerto. Il giudizio di Gramsci (espresso in sede riservata) è impietoso.
21 A. Bordiga a U. Terracini, 18 aprile 1924, in Spriano, Storia, cit., p. 337.
Amadeo [Bordiga] è capace di giungere ai più gravi estremi se vede che la situazione
del partito diventa difficile per causa sua. Egli è fortemente e recisamente convinto
di essere nel vero e di rappresentare gli interessi più vitali del movimento proletario
italiano e non indietreggerà neanche dinanzi alla eventualità di una sua espulsione
dall’Internazionale [...] Tasca appartiene alla minoranza avendo condotto fino alle
estreme conseguenze la posizione assunta fin dal gennaio 1920 e culminata nella polemica
fra me e lui. Togliatti non sa decidersi com’era un po’ sempre nelle sue abitudini;
la personalità «vigorosa» di Bordiga lo ha fortemente colpito e lo trattiene a mezza
via in una indecisione che cerca giustificazioni in cavilli puramente giuridici. Umberto
[Terracini] credo sia fondamentalmente anche più estremista di Amadeo, perché ne ha
sorbito la concezione, ma non ne possiede la forza intellettuale, il senso pratico
e la capacità organizzativa22.
22 A. Gramsci ad A. Leonetti, 28 gennaio 1924, in Togliatti, La formazione, cit., p. 183. La polemica con Tasca cui Gramsci si riferisce risale ai primi mesi
del 1920 e riguarda il ruolo (che Tasca ritiene preminente) delle camere del lavoro
sindacali rispetto ai consigli di fabbrica. Sul punto cfr. A. Gramsci, Il programma dell’«Ordine Nuovo», «L’Ordine Nuovo», 14 agosto 1920; Spriano, Storia, cit., pp. 59-60; L. Paggi, Antonio Gramsci e il moderno Principe, Roma: Editori Riuniti 1970, p. 310; Soave, Angelo Tasca, cit., pp. 33 sgg. Da notare la concordanza non casuale (i due sono amici) del giudizio
di Gramsci su Togliatti con quello espresso negli stessi anni da P. Gobetti, La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia, Torino: Einaudi 1964, p. 108: «vittima della sua inquietudine che pare cinismo inesorabile
e tirannico ed è indecisione».
4.3.La crisi Matteotti
Quello di Gramsci è (e rimarrà, come vedremo) un percorso particolarmente travagliato.
Fino alla fine del 1923 è stato a Mosca, poi a Vienna per dirigere un centro di coordinamento
tra partiti comunisti europei fino al maggio successivo. Con lucidità spietata vede
i limiti della situazione e anche la loro genesi storica. Ma «anguilleggia» – come
lui stesso ammette in un’altra lettera dello stesso periodo23 – perché non vede molte vie d’uscita e si sente schiacciato dalla prospettiva, che
giudica realistica, di una dissoluzione stessa del suo (sempre più) piccolo partito.
Qualche settimana dopo, a metà marzo 1924, riceve una lettera dall’amico Piero Sraffa,
adesso libero docente di economia politica a Perugia.
23 A. Gramsci a M. Scoccimarro e P. Togliatti, 1° marzo 1924, in Togliatti, La formazione, cit., p. 229: «che cosa sarebbe avvenuto se io non avessi ‘anguilleggiato’ come
purtroppo ho dovuto fare? [...] si sarebbe avuta la crisi del Partito a distanza,
senza un accordo con voi, [Bordiga e la sua maggioranza] si sarebbero dimessi e la
minoranza, ancor meno preparata di quanto sia stata in seguito, avrebbe avuto in mano
un pugno di mosche».
Mi pare che sia anche un errore il mettersi apertamente contro esse [le opposizioni
democratiche] e d’insistere troppo (come fa per es. «l’Unità») nella derisione della
«libertà» borghese: bella o brutta è la cosa di cui più fortemente sentono oggi il
bisogno gli operai ed è il presupposto di ogni conquista ulteriore [...] Il Partito
comunista [...] commette un grave errore [...] quando dà l’impressione di sabotare
una alleanza delle opposizioni.
Gramsci la pubblica e la commenta su «L’Ordine Nuovo»: «sono contenuti in questa lettera
tutti gli elementi necessari e sufficienti per liquidare un’organizzazione rivoluzionaria
com’è e dev’essere il nostro Partito. Eppure tale non è l’intenzione dell’amico S.
il quale, quantunque non iscritto [...] ha fede nel nostro Partito»24. Questa almeno è la sua opinione pubblica. Nel privato di una lettera scritta qualche
giorno prima, le osservazioni di Sraffa sono prese molto più seriamente.
24Problemi di oggi e di domani, «L’Ordine Nuovo», 1-15 aprile 1924.
Noi dobbiamo prospettare tutte le possibili soluzioni che l’attuale situazione può
avere, e per ognuna di queste soluzioni dobbiamo fissare delle direttive. Ho letto,
per esempio, il discorso di Amendola che mi pare molto importante: c’è un accenno
in esso che potrebbe avere degli sviluppi. Amendola dice che le riforme costituzionali
ventilate dai fascisti pongono il problema se anche in Italia sia necessario scindere
l’attività costituente dalla normale attività legislativa. È probabile che in questo
accenno sia contenuto il germe delle direttive politiche dell’opposizione nel futuro
Parlamento: il Parlamento, già screditato ed esautorato per il meccanismo elettorale
da cui è sorto, non può discutere di riforme costituzionali, ma ciò può essere fatto
solo da una Costituente. È probabile che la parola d’ordine della Costituente ridiventi
attuale? Se sì, quale sarà la nostra posizione nei suoi riguardi? Insomma: la situazione
attuale deve avere una soluzione politica: quale forma è più probabile che tale soluzione
rivesta? È possibile pensare che si passi dal fascismo alla dittatura del proletariato?
Quali fasi intermedie sono possibili o probabili?25
25 A. Gramsci a P. Togliatti et al., 21 marzo 1924, in Togliatti, La formazione, cit., pp. 245-6.
Com’è noto, questo problema della «fase intermedia» destinata a succedere al fascismo
(ma anche a raccogliere prima le forze per combatterlo) è destinato a dominare l’itinerario
politico di Gramsci. È proprio in questo periodo che scrive il già citato articolo
Contro il pessimismo che contiene una critica severa del carattere astratto e meramente internazionale
della scissione di Livorno26. La preparazione di una fase intermedia significa studiare l’Italia. Ma di lì a poco
diventa materia incandescente di cronaca politica nel corso della crisi Matteotti.
26 s.f. [ma A. Gramsci], Contro il pessimismo, «L’Ordine Nuovo», 15 marzo 1924. Cfr. il capitolo 2 alla nota 2.
Nella Conferenza di partito che si svolge a Como in maggio, la grande maggioranza
della sessantina di funzionari presenti si schiera con Bordiga. Gramsci non firma
le tesi che Togliatti presenta a nome di un gruppo considerato «di centro» perché
equidistante dalla maggioranza ma anche dalla minoranza di Tasca fedele al Comintern
e alla direttiva del fronte unico. Ancora prevale in lui lo scetticismo e un isolamento
sterile. Si sente sempre più lontano dall’estremismo dominante, che l’allora «bordighiano»
critico Giuseppe Berti così ricorda.
Conformemente allo spirito estremista che appare nelle tesi del centro del 15 maggio
1924, i dirigenti comunisti che appartenevano a questo gruppo e facevano parte del
ristretto nucleo direttivo del Partito, impiegavano tutte le loro energie non tanto
nel tentativo di preparare e dirigere il distacco del Partito da Bordiga, quanto per
far fallire la fusione coi socialisti o per realizzarla in modo che essi non avessero
peso alcuno nel Partito unificato27.
27 G. Berti, Appunti e ricordi 1919-1926, in I primi dieci anni di vita del Pci. Documenti inediti dell’archivio Angelo Tasca, Milano: Feltrinelli 1967, p.171.
Le tesi del centro presentate da Togliatti assomigliano a un gioco d’equilibrio: un
buon esempio della «indecisione» che Gramsci gli rimprovera. Si difende a spada tratta
l’Internazionale «contro ogni tendenza ad attenuare la centralizzazione di essa, nel
nome sia della autonomia dei partiti aderenti che del riconoscimento di particolari
condizioni dei diversi paesi». Ma si oscilla tra la previsione che «una parziale ripresa
di fiducia del capitalismo favorisca la tendenza a ritornare a metodi più o meno liberali
di Governo» e la possibilità che «un regime di dittatura permanente armata apra per
l’Italia un periodo di ‘rivoluzione permanente’»28. Quest’ultima formula è un vero inciampo involontario perché tra poco diventerà lo
slogan dell’opposizione trockijsta in seno al Partito comunista russo. Si sottoscrive
la direttiva del fronte unico ma accentuandone il carattere «dal basso» di pratica
movimentista senza accordi permanenti «dall’alto». A sostenere le ragioni del fronte
unico e della fusione con il Psi rimane la minoranza che fa capo a Tasca. Ma quasi
nessuno parla di quanto accade in Italia.
28 Le tesi sono pubblicate su «Lo Stato Operaio», 15 maggio 1924.
Nei fatti si manifesta a Como una natura «estremista» del Pcd’I connaturata alla sua
stessa nascita. In piena crisi Matteotti, Gramsci sostiene nel Comitato centrale di
agosto: «alle stolte campagne dei giornali di opposizione rispondiamo dimostrando
la nostra reale volontà di abbattere non solo il fascismo di Mussolini e Farinacci,
ma anche il semifascismo di Amendola, Sturzo, Turati»29. Il problema della «fase intermedia» sparisce così sullo sfondo. Si cede al vento
dell’estremismo che soffia anche da Mosca. Il V congresso del Comintern, che si svolge
a giugno-luglio 1924, è dominato da Zinov’ev, che per la prima volta definisce la
socialdemocrazia un’ala del fascismo – il cadavere di Matteotti evidentemente non
conta – e propone una versione del fronte unico «dal basso» come manovra strumentale
per staccare la base operaia dai partiti socialisti. L’«autoillusione» della rivoluzione
in Europa torna all’ordine del giorno.
La sconfitta dell’Aventino e la riscossa di Mussolini vengono anche di qui. Da una
divisione dell’antifascismo che replica quella degli anni precedenti e che il Pcd’I
non fa niente per attenuare. Nell’attesa di un moto popolare che non arriva mai perché
tutti lo invocano ma nessuno lo prepara: da tempo la Confederazione generale del lavoro
non si mostra sorda alle pressioni del presidente del Consiglio perché qualcuno dei
suoi dirigenti entri nel governo. È tangibile, nelle tracce scritte lasciate dai dirigenti
comunisti durante i giorni più acuti della crisi, il compiacimento per la constatazione
della inanità delle altre opposizioni al fascismo. La proposta di sciopero generale
– come quelle successive dell’Antiparlamento (in cui trasformare l’Aventino) e dei
comitati operai e contadini – viene avanzata più per smascherare gli altri che non
per essere accolta: predomina il calcolo dei vantaggi che possono arridere al partito
piuttosto che il cambiamento della realtà30. Continua a dominare una forma mentale – cosa ovviamente diversa da una cultura politica
– mutuata dalla Russia e applicata a Livorno: quella di una crisi in corso delle società
capitalistiche destinata a precipitare in rivoluzione comunista. Il risultato pratico,
non diverso dal 1919-1920, è una non-strategia dell’attesa che concede a Mussolini
il tempo di salvarsi. Il nostro Virgilio immaginario, Turati, ne scrive alla moglie.
Non ti dico come sono pentito del nostro gesto che tu approvi [l’uscita dal Parlamento
e la secessione dell’Aventino] e in verità a noi parve necessario; ma il ministero,
più furbo di noi, ne profittò subito per liberarsi della Camera per sette mesi [...]
Nelle riunioni di questi giorni, ufficiali ed intime, io fui decisamente per forzare
la situazione. Puoi immaginare qualcuna delle mie proposte, che trovarono qualche
seguace autorevole e deciso, ma naufragarono nella resistenza passiva o dilazionista
dei più [...] Io sento invece che ogni quarto d’ora perduto è un tradimento. Ieri
l’altro eravamo i vincitori senza quasi saperlo e quello [Mussolini] era il vinto
e lo sapeva. Ieri si sono già rinfrancati31.
31 F. Turati ad A. Kuliscioff, 14 e 17 giugno 1924, in F. Turati-A. Kuliscioff, Carteggio, v. 6, Torino: Einaudi 1959, pp. 200-8.
Nella riunione del Comitato centrale che lo nomina segretario del Pcd’I nell’agosto
1924, Gramsci ripropone la «forma mentale russa» con la previsione di un passaggio
delle «forze reali dello Stato borghese (esercito, magistratura, polizia, giornali,
Vaticano, Massoneria, Corte)» dalla parte delle opposizioni.
Occorre pertanto suscitare un largo movimento nelle fabbriche che possa svilupparsi
sino a dar luogo a una organizzazione di Comitati proletari di città eletti dalle
masse direttamente, i quali nella crisi sociale che si profila diventino il presidio
generale degli interessi generali di tutto il popolo lavoratore [...] La misura in
cui il Partito, nel suo complesso, e cioè tutta la massa degli iscritti, riuscirà
a svolgere il suo compito essenziale di conquista della maggioranza dei lavoratori
e di trasformazione molecolare delle basi dello Stato democratico, sarà la misura
dei nostri progressi nel cammino della Rivoluzione32.
32 A. Gramsci, Relazione al Comitato Centrale, giugno 1924, cit. in Spriano, Storia, cit., pp. 398-9.
Com’è noto, questo ordinovismo riveduto e corretto è destinato a rimanere senza esito,
tranne l’uscita del Pcd’I dall’Aventino. Alla fine è il portato settario e antiunitario
della scissione di Livorno che ritorna come imprinting di fondo del partito. L’idea che comunque e nonostante tutto fascisti e (social)democratici
si metteranno d’accordo riduce in un angolo l’iniziativa del partito. Ma è chiaro
che le responsabilità della sconfitta nel 1924 appartengono a tutto il fronte antifascista,
in diretta proporzione alla forza che le diverse componenti hanno nel parlamento e
nel paese: il che pone il Pcd’I nei ranghi meno importanti di questa ignominiosa classifica.
Ma, seppure in dosi diverse, gli ingredienti che compongono la miscela della sconfitta
sono i medesimi: la sottovalutazione combinata di democrazia e fascismo, l’egoismo
di partito, la carenza di un’intelligenza emotiva capace di lasciar spazio agli altri
e far prevalere le ragioni dell’unità assieme alla conseguente incapacità di delineare
misure tattiche condivisibili volte a isolare Mussolini.
4.4. Il «miracolo» di Lione
Può sembrare un vero miracolo che, in questa situazione e con questa leadership, un
partito comunista sia sopravvissuto nella clandestinità, unico tra tutti i partiti
antifascisti a mantenere in vita un’organizzazione sul suolo italiano, seppur ridotta
al minimo, per tutta la durata del regime fascista. Mentre da Mosca si susseguono
giravolte tattiche – dal socialfascismo ai fronti popolari, fino al patto con Hitler
del 1939 – capaci di mettere a dura prova qualsiasi fedeltà.
Effettivamente, un miracolo lo è. Anche in chiave comparativa. Una ricerca di lungo
periodo condotta su 19 paesi dal 1830 al 1980 dimostra che il 42% dei quasi 350 partiti
presi in esame è scomparso prima della terza competizione elettorale e solo un terzo
(64) dei partiti rimanenti (195) ha mantenuto inalterata la propria fisionomia. Tra
le cause di mortalità e trasformazione figurano ai primi posti le guerre e il mancato
accesso al potere: circostanze che – è inutile ricordarlo – riguardano entrambe da
vicino la storia del Pci33.
33 Cfr. R. Rose-T. Mackie, Do Parties Persist or Fail? The Big Trade-off Facing Organizations, in K. Lawson-P.H. Merkl (a cura di), When Parties Fail: Emerging Alternative Organizations, Princeton NJ: Princeton University Press 1988, pp. 533-58.
Dopo il 1945 il «miracolo» è sotto gli occhi di tutti. Tra 1948 e 1956 il Pci conta
mediamente due milioni di iscritti. Anche il modello sovietico, al confronto, si ridimensiona
a un piccolo partito di quadri: tre milioni di iscritti su 170 milioni di abitanti,
quasi quattro volte la popolazione italiana. Il Partito comunista francese, la socialdemocrazia
tedesca, lo stesso Partito laburista inglese senza le affiliazioni sindacali, sono
partiti che superano di poco il mezzo milione di tesserati. Il rapporto tra iscritti
al Pci ed elettori comunisti è di 1:3, la misura corrispondente per la Dc supera abbondantemente
l’1:10, per i partiti socialisti di Francia e Germania oscilla attorno a 1:8-9, per
i laburisti inglesi sull’1:5-634.
34 Di «strategia dell’obesità» scrive L. Cafagna, La grande slavina. L’Italia verso la crisi della democrazia, Venezia: Marsilio 1993. Il tasso di adesione (la percentuale di iscritti sulla popolazione
totale sopra i 21 anni) del Pci nel periodo considerato è mediamente pari a 6,94;
quello del Pcf è pari nel 1946 a 2,96 e nel 1954 a 1,22, quello della Spd nel 1950
è pari a 1,92, quello del Labour Party a 2,85. Per i dati cfr. M. Barbagli-P. Corbetta,
Partito e movimento: aspetti e rinnovamento del Pci, «Inchiesta», 8, 1972, 31, tabella 2; M. Lazar, Maisons rouges. Les partis communistes français et italien de la libération à nos
jours, Paris: Aubier 1992, p. 398; H. Grebing, Die Parteien, in W. Benz (a cura di), Die Geschichte der Bundesrepublik Deutschland, v. 1, Frankfurt am Main: Fischer 1984, p. 177; D. Butler-A. Sloman, British Political Facts 1900-1975, London: Macmillan 19754, p. 136.
La parola miracolo nel lessico degli storici non deve comparire. I miracoli siamo
tenuti a spiegarli. Come ha fatto il piccolo partito settario di Bordiga a diventare
questo grande partito di massa?
Una prima spiegazione è quella fornita dallo stesso gruppo dirigente del Pci: una
autorappresentazione storicistica che dipinge un gruppo dirigente raccolto attorno
a Gramsci, che espelle Bordiga ed elabora una cultura politica nazionale, in crescente
autonomia dal Cremlino. Un buon esempio è la lapide affissa nel 1949 su quel che restava
del teatro San Marco.
Tra queste mura il 21 gennaio 1921 nasceva il Partito comunista italiano avanguardia
della classe operaia. Alla testa della democrazia nella ventennale battaglia contro
il fascismo popolò dei suoi migliori le carceri e i campi di guerra. Sorretto dalla
ideologia di Marx di Engels di Lenin e Stalin dall’esempio di Gramsci sotto la guida
di Togliatti prosegue la lotta per rompere le catene di un duro servaggio per la pace
e l’indipendenza d’Italia nella realtà del socialismo. I comunisti livornesi nel 28°
anniversario.
Il punto di svolta storico per tale spiegazione è rappresentato dalle Tesi di Lione,
presentate da Gramsci al III congresso del Pcd’I che si svolge nella cittadina francese
nel gennaio 1926. Le sue Tesi sono il manifesto programmatico di un partito che riflette
finalmente in modo autonomo sulla storia d’Italia. Isolandosi da sé, Bordiga ha perso
piano piano influenza nel partito. È questo un approccio apologetico e continuista,
fondato sulla diversità del Pci sia nel quadro della politica nazionale, sia nei confronti
dei partiti fratelli sparsi nel mondo, sia rispetto alle famiglie di partiti politici
variamente tipizzate dalla politologia35. Sostanziale punto di appoggio di tale interpretazione è il rigetto del bordighismo
come tendenza estranea al Pcd’I che matura ai vertici del partito nei primi anni trenta36. Suona un po’ strano dichiarare estraneo il fondatore effettivo del partito, ma il
tempo dello stalinismo è pieno di foto in cui spariscono (purtroppo spesso anche fisicamente)
personaggi di primo piano. In effetti, se si confrontano tra loro i progetti di tesi
presentate a Lione da Gramsci e Bordiga una diversità radicale di approccio pare evidente37. Il secondo parte dai principii del comunismo e la sezione dedicata alla realtà italiana
del momento occupa uno spazio minimale. Le conclusioni sono quelle solite.
35 Per un buon esempio di ricostruzione continuista cfr. G. Amendola, Storia del Partito comunista italiano 1921-1943, Roma: Editori Riuniti 1978.
36 Cfr. P. Togliatti, Appunti per una critica del bordighismo, «Lo Stato Operaio», aprile 1930; G. Berti, Il gruppo del «Soviet» nella formazione del Pci, ivi, dicembre 1934.
37 Il documento congressuale più noto come Tesi di Lione è il quarto, dedicato alla
situazione politica; gli altri quattro vertono su situazione internazionale, questione
coloniale, questione agraria, questione sindacale. Cfr. Spriano, Storia, cit., p. 490. Il Progetto di tesi presentato dalla sinistra di Bordiga appare su
«l’Unità», 12-26 gennaio 1926 e si trova in www.quinterna.org.
Come rivendicazione politica centrale il partito eviterà di porre l’avvento di un
governo che conceda garanzie di libertà, non porrà come obiettivo delle conquiste
di classe l’esigenza della libertà per tutti, ma postulati che rendano evidente come
la libertà per gli operai consista nella lesione della libertà degli sfruttatori e
dei borghesi.
Il cuore e la novità delle Tesi presentate da Gramsci è invece la ricognizione storicista
della situazione nazionale. Come ha notato Vacca, è il trasferimento sul suolo italiano
di un punto di vista che fin qui ha sofferto il momento internazionale: prima la rendita
di posizione derivante dal prestigio del Comintern, che ha «viziato» a lungo il partito,
poi la defatigante diatriba sul fronte unico che lo ha indebolito e reso pressoché
incapace di un concreto lavoro di massa38. Quello italiano è un capitalismo debole perché territorialmente circoscritto, che
a sua volta produce un Risorgimento senza mobilitazione popolare. Il fascismo è prima
di tutto l’effetto di una borghesia meno capace di riforme che altrove. Come in Russia,
spetta alla classe operaia un compito di unificazione nazionale attraverso l’alleanza
con i ceti contadini del meridione. Il partito socialista non ha mai concepito né
quindi poteva realizzare tale progetto. Come in Russia, l’esito non può che essere
la rivoluzione: per avvicinarla, la direttiva tattica è il fronte unico attraverso
la formazione di comitati operai e contadini. Ma si tratta solo di una soluzione strumentale,
alla pari di altre parole d’ordine – assemblea repubblicana, antiparlamento – che
hanno il mero compito di distruggere l’influenza degli altri partiti socialisti e
democratici.
38 G. Vacca, Gramsci a Roma, Togliatti a Mosca, in C. Daniele (a cura di), Gramsci a Roma, Togliatti a Mosca. Il carteggio del 1926, Torino: Einaudi 1999, pp. 91-2.
Il Partito comunista ottiene i migliori risultati agitando le soluzioni stesse che
dovrebbero essere proprie dei partiti sedicenti democratici se essi sapessero condurre
per la democrazia una lotta conseguente, con tutti i mezzi che la situazione richiede.
Questi partiti, posti così alla prova dei fatti, si smascherano di fronte alle masse
e perdono la loro influenza su di esse.
Il fine è lo stesso di Bordiga ma la sua realizzazione non passa per il rafforzamento
autoreferenziale e dottrinario dell’organizzazione, bensì per il confronto «democratico»
con gli altri. È quasi niente: di certo non si trova qui (e per lungo tempo anche
dopo il 1945) un’adesione al valore della democrazia. Ma è quanto basta per iniziare
a uscire dal cerchio di gesso dell’introversione. Già in una lettera a Terracini del
marzo 1924 Gramsci riprende il suo vecchio argomento, formulato al momento della scissione
di Livorno, della «preparazione amministrativa» necessaria e lo unisce alla consapevolezza
che in una direzione centralizzata da Mosca per tutte le situazioni nazionali c’è
qualcosa che non funziona.
Bisogna lavorare, noi, nel nostro paese, per costruire un partito forte, politicamente
e organizzativamente bene attrezzato e resistente, con un bagaglio di idee generali
ben chiare e ben ferme nelle coscienze individuali, in modo che sia impossibile la
disgregazione a ogni urto di tali quistioni che sorgeranno ogni giorno più numerose
e pericolose39.
39 Masci (A. Gramsci) a U. Terracini, 27 marzo 1924, in A. Gramsci, Lettere 1908-1926, Torino: Einaudi 1992, p. 303.
Nascono di qui le idee di una Assemblea Costituente, di una Repubblica federale degli
operai e dei contadini, della questione meridionale come questione nazionale, che
accompagnano l’elaborazione delle Tesi di Lione. La «bolscevizzazione» del partito
deve accompagnarsi all’assunzione di un punto di vista di maggioranza nazionale. Un
partito nato per fare subito la rivoluzione a imitazione dei bolscevichi deve trasformarsi
in un partito capace di durare nel tempo della «stabilizzazione relativa» del capitalismo.
Il problema è che questo rigetto del bordighismo arriva ormai fuori tempo massimo,
quando il partito è ridotto a una rete clandestina di qualche migliaio di elementi
difficilmente raggiungibili da un mutamento di linea così importante e soprattutto
pressoché impossibilitati a tradurlo in pratica. Per gli italiani che continuano a
sentirsi comunisti sotto il fascismo, le Tesi di Lione non sono che un’eco lontana
e confusa; il mito sovietico conta molto di più, almeno è qualcosa di concreto cui
aggrapparsi per resistere.
Insomma ci pare tutto sommato ancora condivisibile il giudizio di Salvadori, secondo
cui le Tesi di Lione chiudono una fase della storia del Pci, quella bordighiana, ma
non ne aprono una nuova destinata a durare, senza soluzioni di continuità, fino al
«partito nuovo» costruito da Togliatti nel secondo dopoguerra40. Molte cose accadono in questo frattempo – tra cui anche, come vedremo, un sostanziale
distacco tra Gramsci detenuto in carcere e il suo partito – e molto forte rimane l’ipoteca
stalinista perché si possa sostenere quella diretta continuità. D’altra parte, nel
deserto culturale dello stalinismo le Tesi di Lione si segnalano sul piano internazionale
come una potente eccezione alla regola, per capacità di confronto con una tradizione
di pensiero nazionale e una conseguente profondità di analisi autonoma. Dopo il 1945
la presenza di questo documento nei programmi delle scuole di partito rappresenta
un contrappeso al Breve corso di storia del partito comunista bolscevico, la «bibbia»
dello stalinismo.
40 Cfr. M.L. Salvadori, Gramsci e il problema storico della democrazia, Torino: Einaudi 1970, p. 184.
Ustica 1927. Gramsci (secondo da sinistra, in seconda fila) con un gruppo di confinati
politici. Roma. Fondazione archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico
– AAMOD.
Una interpretazione diversa e più riduttiva è quella di Luciano Cafagna, secondo cui
l’elemento centrale delle Tesi di Lione è la perdurante scelta di campo al fianco
del Comintern41. È grazie a questa scelta che il Pci rimane sospeso, prima e dopo il 1945, tra la
pratica democratica del riformismo e l’attesa messianica della rivoluzione: ciò che
gli impedisce fino alla fine (e anche dopo) di ripercorrere per intero la strada verso
la socialdemocrazia, profetizzata da Turati. Proprio la debolezza congenita della
borghesia italiana che provoca il fascismo rende meno praticabile la via della democrazia.
Solo il socialismo può garantire davvero dal pericolo della reazione. Non è quindi
una contraddizione che le Tesi di Lione accompagnino la bolscevizzazione del partito,
l’espulsione dei dissidenti e l’adesione alla teoria del socialfascismo. È questa
preminenza del fattore internazionale, come vedremo, a determinare un rinnovato isolamento
di Gramsci in carcere dopo il 1926 e quasi un «ripudio» della propria creatura. Il
paradosso sarà che il carcerato, per riconquistare la libertà, dovrà fare affidamento
sull’Unione Sovietica e diffidare invece del proprio partito. Ma sarà ugualmente inutile
perché la diplomazia di Stalin considererà la sua morte in prigionia un trascurabile
«danno collaterale». Per il Pci il mito dell’Unione Sovietica continuerà a inficiare
la sua elaborazione in materia di democrazia.
41 L. Cafagna, La debolezza storica della borghesia italiana e le Tesi di Lione, in AA.VV., Le Tesi di Lione. Riflessioni su Gramsci e la storia d’Italia, Milano: Franco Angeli 1990, pp. 79-94.
4.5. Un’altra storia
Quella dopo il 1945 è davvero un’altra storia rispetto al partito bordighiano delle
origini. Solo una ristretta élite dei quadri comunisti proviene dalla scissione di
Livorno e dall’esilio antifascista. Sono stati piallati dall’osservanza ideologica
al Comintern e spesso hanno campato grazie all’ospitalità e agli aiuti dell’Unione
Sovietica. Per loro la fedeltà al Cremlino è questione innanzitutto di riconoscenza,
ma Gramsci e le Tesi di Lione rappresentano un significato importante da cui ripartire.
Almeno per il momento non sembra difficile tenere insieme le due cose. Anzi. La svolta
di Salerno compiuta da Togliatti – con cui il Pci accantona la questione repubblicana
a tutto vantaggio della più ampia unità contro tedeschi e fascisti – lo dimostra42. Poi ci sono le poche migliaia di militanti che hanno resistito in Italia sotto il
regime. A loro non li ha aiutati nessuno ma sono l’anima vera del Pci: la gente, anche
quella non comunista, li guarda con rispetto. Poi c’è la massa che arriva con la Resistenza
e la Repubblica: sono generazioni giovani in senso sia anagrafico, sia politico. Per
loro Stalin è quello che ha vinto la guerra. Del gulag non sanno niente e non vogliono
sapere. L’Unione Sovietica è il paradiso terrestre e là bisogna arrivare. È una cultura
politica pasticciata, che mette insieme mito dell’Unione Sovietica, Gramsci martire,
la Costituzione, il socialismo. Ma pasticciata è tutta l’Italia del secondo dopoguerra.
42 Per le connessioni tra svolta di Salerno e politica estera dell’Urss cfr. E. Aga
Rossi-V. Zaslavsky, Togliatti e Stalin. Il Pci e la politica estera staliniana negli archivi di Mosca, Bologna: il Mulino 2007.
Tremiti, 15 maggio 1932. Donato Settimelli e la moglie Rina Cofarrini (a sinistra)
davanti alla baracca costruita dal compagno di confino (a destra) per le due coppie.
Roma. Archivio fotografico Wladimiro Settimelli.
L’opposto simmetrico di questo approccio al Pci come felice eccezione è la sua rappresentazione
come protagonista di un «ritardo cronico»: una lettura del Pci condotta alla luce
del «dover essere» anziché dell’«essere» («ciò che il Pci non ha fatto», «ciò che
il Pci non è stato») e delle occasioni mancate per una compiuta trasformazione in
senso socialdemocratico43. In entrambi i casi si rischia di mettere il carro avanti ai buoi, giudicando la
storia da un punto di vista anacronistico perché posteriore di alcuni decenni e costringendola
entro un binario lineare e prefissato.
43 Cfr. P. Lange, Dilemmas of Change: Eurocommunism and National Parties in Postwar Perspective, in P. Lange-M. Vannicelli (a cura di), The Communist Parties of Italy, France and Spain: Postwar Change and Continuity.
A Casebook, Cambridge MA: Harvard University Press 1981, p. 15; R. Mieli, Un ritardo cronico, in Id. (a cura di), Il Pci allo specchio, Milano: Rizzoli 1983, p. 199; J.B. Urban, Moscow and the Italian Communist Party. From Togliatti to Berlinguer, London: Tauris 1986, pp. 226-7. Per una critica cfr. M. Flores-N. Gallerano, Sul Pci. Un’interpretazione storica, Bologna: il Mulino 1992, p. 11.
Ustica 1926. Da sinistra: Fabrizio Maffi, Bruna Maffi, Cesare Marcucci, Mandruccioni,
Oreste Acquisti, Giuseppe Sbaraglini, Piero Ventura, Amadeo Bordiga. Santa Maria Capua
Vetere (Caserta). Antonio Ventriglia.
Un po’ «bordighiano» è invece lo stereotipo analitico largamente dominante tra gli
avversari, che dipinge il successo dei partiti comunisti come il frutto di un’organizzazione
ferrea, usata come arma di penetrazione e consenso nella società civile44. In questa visione il caso italiano incarna un’eccezione nel quadro delle nazioni
occidentali, laddove l’arretratezza sociale si coniuga con l’anomalia politica rappresentata
dalla presenza del più forte partito comunista d’Occidente. Sulla base della diversità
del Pci, della sua «natura antisistema» determinata dalla matrice leninista, dalla
vocazione anticapitalistica e dal legame di ferro con l’Urss e quindi della irriducibilità
del Pci alla democrazia occidentale – tutto ciò che, con fortunata formula giornalistica,
si indica come «fattore K» – si costruiscono le maggiori interpretazioni del sistema
politico italiano. La politica italiana viene allora definita in termini di «bipartitismo
imperfetto» per sottrazione e deviazione rispetto a presunti modelli stranieri (nella
fattispecie la democrazia anglosassone bipolare), anche quando la responsabilità dell’assenza
di alternanza al governo si sposta sulla conventio ad excludendum stipulata dalla Dc e dai suoi alleati minori, oppure in termini di «pluralismo polarizzato»
per la presenza di una opposizione di destra e di sinistra ad alta rigidità ideologica
e costituzionalmente aliene dai vincoli di responsabilità del governo45.
44 Cfr. S. Bertelli-F. Bigazzi (a cura di), Pci: la storia dimenticata, Milano: Mondadori 2001; G. Donno, La Gladio rossa del Pci 1945-1967, Soveria Mannelli: Rubbettino 2002. Il capostipite di questa linea interpretativa
è P. Selznick, Vie traverse. Strategia e tattica del comunismo, Bologna: Cappelli 1954 (ed. or. New York 1952). Per l’importanza di questo libro
nella formazione dei dirigenti della Cia, cfr. la testimonianza di W. Colby-P. Forbath,
La mia vita nella Cia, Milano: Mursia 1981 (ed. or. New York 1978), p. 86.
45 Cfr. A. Ronchey, La sinistra e il fattore K, «Corriere della Sera», 30 marzo 1979; G. Galli, Il bipartitismo imperfetto. Comunisti e democristiani in Italia, Bologna: il Mulino 1966; L. Elia, Governo (forme di), in Enciclopedia del diritto, v. 19, Milano: Giuffré 1969, pp. 634-75; G. Sartori, Teoria dei partiti e caso italiano, Milano: Sugarco 1982.
Curiosamente anche questo approccio, che nella sostanza riduce il Pci a un tumore
alieno e inspiegabile, ha originato il proprio «doppio» contrario. La progressiva
istituzionalizzazione del sistema politico italiano ispira una lettura reciproca e
omogenea dei due maggiori partiti italiani (Dc e Pci) come partiti «pigliatutto»,
caratterizzati dall’attenuazione del richiamo ideologico, dall’autonomia del quadro
dirigente, dal ridimensionamento del ruolo degli iscritti, dal programma interclassista
e dal rapporto organico con gruppi di interesse socio-economico. Anziché l’espressione
di tare e difetti, la «Repubblica dei partiti» diventa allora l’effetto di una capacità
di rappresentanza sociale congiunta a un lealismo costituzionale di fondo in grado
di garantire la sostanziale tenuta – malgrado strappi reiterati e manovre oscure –
del tessuto civile nazionale. I due partiti maggiori diventano gli interpreti di una
«coabitazione degli opposti» reciprocamente funzionale, attraverso la spartizione
dei compiti di unificazione e copertura istituzionale dei corporativismi sociali.
Nella sua declinazione negativa, questa interpretazione si chiama partitocrazia46. Ma è bene ricordare che la crescita organizzativa della Dc può contare sulle risorse
di due paesi in crescita (Italia e Stati Uniti), mentre quella del Pci avviene in
un contesto proibitivo di repressione che non ha eguali in Europa47.
46 Cfr. P. Scoppola, La repubblica dei partiti. Profilo storico della democrazia in Italia 1945-1990, Bologna: il Mulino 1991; S. Fabbrini, Quale democrazia. L’Italia e gli altri, Roma-Bari: Laterza 1994; A. Mastropaolo, La repubblica dei destini incrociati. Saggio su cinquant’anni di democrazia in Italia, Firenze: La Nuova Italia 1996. Il termine partitocrazia appartiene a G. Maranini,
Democrazia deliquescente, «Corriere della Sera», 21 ottobre 1958, poi compreso in Id., Il tiranno senzavolto, Milano: Bompiani 1963, pp. 48-51.
47 Tra 1948 e 1950 sono condannati 15.249 comunisti a un totale di 7.598 anni di carcere.
Per avere un termine di raffronto, nei suoi 16 anni di attività tra 1927 e 1943 il
Tribunale speciale fascista commina 4.596 condanne per un totale di 27.735 anni di
carcere. Ai sensi della legge n. 36 del 15 febbraio 1974, sono stati riconosciuti
come «perseguitati politici», tra gennaio 1948 e agosto 1966, 12.981 lavoratori e
2.078 lavoratrici. Nel periodo 1948-1952 i morti in manifestazioni di piazza in Italia
sono 65, in Francia 3, in Gran Bretagna e Germania 6. Per le fonti di questi dati
cfr. G. Scarpari, La Democrazia cristiana e le leggi eccezionali 1950-1953, Milano: Feltrinelli 1977, p. 9; A. Dal Pont-A. Leonetti-P. Maiello-C. Zocchi, Aula IV. Tutti i processi del Tribunale speciale fascista, Milano: La Pietra 1976, p. 548; C.L. Taylor-D.A. Jodice (a cura di), World Handbook of Political and Social Indicators, v. 2, New Haven CN-London: Yale University Press 1983; F. Manescalchi, Movimento operaio e discriminazione in fabbrica. Firenze 1943-1960, Firenze: Polistampa 1995, pp. 246-7.
Che cosa ha in comune questo partito «per famiglie», costruito secondo la logica «una
sezione per ogni campanile», con la «falange d’acciaio» fondata da Bordiga?
Lipari 1927. Confinati emiliano-romagnoli. Da sinistra a destra cominciando dall’alto:
Baroncini, Giovanni Fusconi, Arnaldo Guerrini, Renato Tega, Mazzoli, Bulzamini, Grossi,
Pilati, Berardi, Masina. Chiaravalle. Famiglia Amleto Bittoni.
Soltanto tre cose, a nostro giudizio. La prima è un filo sottile, fatto di poche migliaia
di uomini che sotto il fascismo hanno tenuto in vita una parvenza di organizzazione
clandestina, ridotta a poco più di un’esistenza simbolica48. Di questi uomini e del loro silenzioso coraggio – insieme alle famiglie affrontano
un’esistenza grama, povera ed emarginata, non di rado punteggiata da prigione e confino
– molti si ricorderanno al momento della caduta di Mussolini. Gli daranno volentieri
il voto, sicuri che si tratti di persone «oneste», come vent’anni prima ha detto Turati
al momento della scissione di Livorno. Sono questi anonimi militanti a tenere in piedi
la continuità e il prestigio del partito. Molto più dei loro dirigenti rimasti all’estero
e tutti più o meno compromessi con i crimini dello stalinismo, di cui ancora nel 1978
scrive Giorgio Amendola49. Paradossalmente il rispetto che i comunisti di base conservano silenziosamente presso
il popolo italiano nasce dal loro antifascismo, dal loro coraggioso mantenere un profilo
di opposizione alla dittatura trionfante. Cioè proprio quel tipo di cultura politica
che Bordiga e il resto del gruppo dirigente comunista hanno sempre considerato una
deviazione opportunistica e un pericoloso cedimento al nemico. Sbagliandosi di grosso.
48 Per un piccolo esempio locale cfr. G. Tagliaferri, Comunista non professionale. Il lavoro clandestino a Firenze, Milano: La Pietra 1977; G. Gozzini (a cura di), I compagni di Firenze. Memorie di lotta antifascista 1922-1943, Firenze: Clusf 1979.
49 Amendola, Storia, cit., p. 43: «sono presenti, ancora oggi, nel Comitato Centrale uomini che parteciparono
alla fondazione del partito, o vissero quelle prime esperienze: Terracini, Longo,
Camilla Ravera, Colombi, Roasio, Vidali».
Lipari, 21 marzo 1927. Da sinistra a destra, dall’alto in basso: D’Auria, Riccardo
Momigliano, Zanardi, Ulivelli, Gian Battista Canepa, Barbagelata, Testa, Ciriello,
Luigi Basso, Renato Tega, Pelloni, Menin, Grassi, Gugliatti, Acquarone, Cardamene,
Alberto Trebbi, Jaurés Busoni, Pasquale Binazzi, Zelmira Peroni Binazzi, sig.ra D’Auria,
sig.ra Angeloni, Angeloni, Bittoni, Briglia, Nitti, Monzani, Chioffa, Penna, Lupia,
Tagli, Pisaniello. Chiaravalle. Famiglia Amleto Bittoni.
La seconda è la capacità di rappresentare interessi sociali. Nel tempo della guerra
fredda il Pci si consolida in un ambiente istituzionale ostile (nazionale e internazionale)
che cerca di rigettarlo come un corpo estraneo e dal 1947 lo ha espulso per sempre
dal governo. Deve quindi sopravvivere facendo forzatamente a meno dei due poteri che
sono la forza dei partiti politici moderni e dei loro gruppi dirigenti: il potere
di indirizzo delle politiche governative e di distribuzione delle correlate risorse
di spesa pubblica, il potere di nomina dei propri uomini negli organismi di governo
e sottogoverno. Nondimeno, la macchina organizzativa del Pci riesce a far approdare
in parlamento operai, contadini e donne: cosa che alla Dc, specializzata nella gestione
del consenso dei ceti medi, riesce molto meno. I comunisti sono italiani che emergono
nel vivo di battaglie sindacali concretamente combattute nelle fabbriche del nord
e nelle campagne del centro-sud. Le sezioni di partito aperte nelle periferie delle
metropoli accolgono e ascoltano il disagio dei cittadini. Nel tempo della Repubblica
la loro cultura politica si nutre della Costituzione: il Pci collabora alla sua stesura,
a differenza del Partito comunista francese che a più riprese nei referendum popolari
di approvazione dei diversi progetti costituzionali sceglie la via dell’opposizione.
Per la cultura di entrambe le generazioni comuniste italiane che vengono da una pratica
di rottura della legalità – quella forgiata negli anni della clandestinità e quella
affluita al partito sull’onda della Resistenza – questo nuovo punto di riferimento
segna un salto di qualità determinante. Dal dettato costituzionale scaturiscono le
«riforme di struttura», parola d’ordine generica e onnicomprensiva, che però concretamente
presiede alla faticosa strutturazione del welfare state nazionale: sanità e scuola
gratuite, fondi speciali per il Mezzogiorno, diritti dei lavoratori nelle fabbriche.
Paradossalmente il Pci continua a soffrire un difetto già diffuso nel Psi di primo
Novecento: la sottorappresentazione negli organismi dirigenti centrali di quello strato
di amministratori locali e dirigenti di leghe, sindacati, cooperative, che ha maggiore
pratica quotidiana delle riforme. Il gruppo dirigente nazionale non possiede direttamente
tale pratica ed è legato a una cultura politica più astratta, cioè una sorta di «gramscismo»
fondato su una lettura storicista della realtà italiana che trae legittimazione dal
passato: Risorgimento incompiuto, mancata rivoluzione agraria, borghesia debole e
sovversiva, compiti nazionali di supplenza che spettano alla classe operaia, questione
meridionale. È una cultura che procede per grandi quadri generali popolati di attori
allegorici collettivi (borghesia, classe operaia) e fatica a trovare un raccordo organico
e costante con le scienze sociali (economia, sociologia, psicologia) che studiano
il mutamento della nazione. Le trasformazioni del capitalismo italiano – da sempre
letto in termini «gramscisti» come arretrato, parassitario, conservatore, statalista
– colgono il partito di sorpresa. È significativa, in tal senso, la discussione che
ancora durante gli anni sessanta, tra miracolo economico e governi di centrosinistra,
oppone Amendola a Ingrao, con il primo che insiste sulla tradizionale interpretazione
«gramscista» documentata dal ritardo abnorme del Mezzogiorno e il secondo che sottolinea
gli sviluppi «neocapitalistici» delle industrie settentrionali sia private come la
Fiat, sia parapubbliche come l’Eni50. Alle pratiche locali degli amministratori comunisti che in centro Italia facilitano
l’insediamento dei distretti di piccole e medie aziende, fa riscontro una cultura
politica centrale che li interpreta in termini di perdurante parzialità, lentezza
e fragilità dello sviluppo capitalistico nazionale.
50 E. Taviani, Il Pci nella società dei consumi, in R. Gualtieri (a cura di), Il Pci nell’Italia repubblicana 1943-1991, Roma: Carocci 2001, pp. 295-304.
La terza cosa è il legame di ferro con l’Unione Sovietica. Nel tempo del fascismo
l’esistenza dell’Urss rimane l’ultima e unica cosa concreta cui i comunisti possono
aggrappare le loro speranze. E Stalin che finalmente sconfigge Hitler e Mussolini
cancella in un lampo tutte le contraddizioni della dittatura sovietica. Ciò che orgogliosamente
distingue i comunisti è l’idea di una meta finale palingenetica che trascende il quotidiano.
Il mito di un paradiso terrestre appartiene da sempre a tutte le culture popolari,
ma qui si nutre del fatto che in Russia l’avrebbero realizzato. In un posto abbastanza
lontano per poterne ignorare le storture e ridurre a propaganda le informazioni che
ne danno conto. L’idea che il sogno si può fare rappresenta il collante vero per la
grande maggioranza di iscritti ed elettori comunisti. Ancora a cavallo tra 1977 e
1978, un campione di iscritti al Pci dell’Emilia Romagna risponde positivamente quasi
all’80% alla domanda sull’esistenza del socialismo in Urss e meno di un quarto si
dichiara contrario all’intervento militare in Cecoslovacchia (1968). Un altro campione
di delegati al XVII congresso del 1986 considera per quasi un terzo l’Urss come il
paese più vicino a un modello di società giusta; la percentuale sfiora i due terzi
se si includono anche Cina e Jugoslavia. Solo con il congresso successivo, svoltosi
nel 1989 quando ormai l’Unione Sovietica è alla vigilia del crollo, quest’ultima percentuale
cala al 26%51. Lo stesso Amendola, che negli anni sessanta auspica la riunificazione con il Psi,
nel 1979 appoggia l’invasione sovietica dell’Afghanistan: senza il blocco che fronteggia
gli Stati Uniti la stessa esistenza del Pci è a rischio. Non si sbaglia. Come è nato
con i ventuno punti della nuova Internazionale comunista che fa capo a Lenin, così
il Pci muore insieme alla dissoluzione dell’Unione Sovietica.
51 M. Barbagli-P.G. Corbetta, Una tattica e due strategie. Inchiesta sulla base del Pci, «il Mulino», 27, 1978, 260, pp. 922-66; A. Accornero-N. Magna, Il nuovo Pci: due congressi a confronto, supplemento a «Politica ed economia», 1989, 6.
Il punto merita però una piccola digressione che nuovamente connette Amendola a Turati.
Nel suo discorso al congresso di Livorno rivolto ai comunisti «onesti», Turati dice
un’altra cosa significativa sul bolscevismo oltre a quella sul nazionalismo russo
che abbiamo citato al primo capitolo.
La forza del bolscevismo russo è in un nazionalismo russo che avrà una grande influenza
nella storia del mondo come opposizione all’imperialismo dell’Intesa, ma che è pur
sempre una forma di nazionalismo orientale che è conseguenza della necessità statale
di trasformare o perire e si aggrappa a noi, al Partito socialista italiano [...]
si aggrappa a noi disperatamente per salvare se stesso, che non possiamo seguire ciecamente
perché diventeremmo gli strumenti di quel nazionalismo orientale che avrà, ripeto,
anche esso la sua grande funzione nella storia del mondo, aprirà l’Oriente alla vita
civile e chiamerà la Cina, il Giappone, l’Asia Minore le vecchie razze che sono negli
ipogei della storia, alla vita della storia, ma non si può sostituire, né distruggere,
né imporre alla Internazionale Maggiore dei popoli più evoluti nel cammino della storia.
Al di là di un colonialismo d’antan che stabilisce gerarchie tra popoli evoluti e non, Turati ci vede lungo anche stavolta.
Più di un grande storico come Hobsbawm – per noi è stato un amico e un maestro – che
propone una ben nota interpretazione del Novecento come «secolo breve», fondato sul
confronto tra comunismo sovietico e capitalismo occidentale, con il primo nei panni
di sfida positiva nei confronti del secondo52. In realtà, a noi pare che storicamente il capitalismo abbia dimostrato notevoli
capacità di resilienza, cioè di autoriformarsi da sé passando attraverso le crisi
– come quella del 1929 – grazie alla dialettica tra stato e mercato, tra partiti socialisti
o laburisti e partiti conservatori. Con tutte le esiziali contraddizioni (ineguaglianze,
fame e povertà, inquinamento, finanziarizzazione) che continua a portare con sé. Mentre
l’Unione Sovietica – senza considerare purghe e gulag – ha sempre viaggiato con un
reddito pro capite stabilmente appiattito attorno a un terzo degli Stati Uniti e a
meno di metà della media dell’Europa occidentale, più o meno come ai tempi dello zarismo53. Ha rivaleggiato sempre con l’Occidente in termini di armamenti, ma appunto al prezzo
di una compressione dei consumi di massa alla lunga rivelatasi insostenibile.
52 E.J. Hobsbawm, Il secolo breve, Milano: Rizzoli 1995 (ed. or. New York 1994).
53 Groningen Group and Development Center, Maddison Historical Statistics (http://www.ggdc.net).
Grafico 2. Reddito medio pro capite (dollari internazionali 1990 Geary-Khamis): Unione Sovietica,
Italia, Stati Uniti 1900-1989.Bittoni. Fonte: Groningen Group and Development Center, Maddison Historical Statistics (http://www.ggdc.net).
Piuttosto, il ruolo storico dell’Unione Sovietica e dell’Internazionale comunista
ci sembra proprio quello preconizzato da Turati: aver protetto e sostenuto rivoluzioni
nazionali e anticoloniali in molti paesi extraoccidentali – Cina, Vietnam, Cuba –
con esiti alterni e talvolta anche disastrosi (Cambogia, Afghanistan) ma che comunque
hanno ridisegnato il mondo contemporaneo54. È chiaro che la logica del «campo socialista» condiziona queste rivoluzioni a una
ragion di stato che tollera e difende regimi autoritari e militari, modellati a immagine
e somiglianza dell’Unione Sovietica: i vincoli di alleanza strategica sono considerati
ben più importanti della fisionomia popolare e comunista delle politiche governative.
Del resto, non è che gli Stati Uniti si comportino molto diversamente. Nel tempo della
guerra fredda, Amendola considera con realismo questa situazione. Se in Afghanistan
non ci vanno i sovietici, ci vanno gli americani e anche per noi comunisti italiani
è peggio. Amendola non poteva prevederlo, ma è proprio in Afghanistan contro gli invasori
russi che lo sceicco Osama bin Laden muove i primi passi militari e politici (foraggiato
anche dagli Stati Uniti).
54 S. Lorenzini, The Socialist Camp and the Challenge of Economic Modernization in the Third World, in N. Naimark-S. Pons-S. Quinn Judge (a cura di), The Cambridge History of Communism, v. 2, The Socialist Camp and World Power 1941-1960s, New York: Cambridge University Press 2017, pp. 341-63.
Questa collocazione globale del comunismo realizzato nel quadro delle rivoluzioni
anticoloniali del mondo extraoccidentale non è priva di significato. Soprattutto se
unita alla separazione che ancora oggi sussiste sul piano dei diritti democratici
tra paesi ex comunisti dell’Europa orientale ed ex repubbliche sovietiche55. Questo ci dice qualcosa sulla Rivoluzione d’Ottobre che ci pare rafforzi la nostra
critica di Hobsbawm. Contrariamente alla «autoillusione» (o alla paura simmetrica)
che si diffonde in Occidente dopo il 1917, quella rivoluzione appartiene più alla
storia dell’Asia che non a quella dell’Europa. Vi appartiene per una storia diversa
che ancora oggi manifesta il proprio retaggio in materia sia di qualità delle istituzioni
centrali e periferiche, sia di caratteri della società civile e dell’economia.
55 Ancora nel 2018 Freedom House (https://freedomhouse.org/countries/freedom-world/scores)
classifica 7 delle 17 ex repubbliche sovietiche (tra cui la Russia) come non libere,
altre 7 come parzialmente libere e 3 (gli stati baltici) come libere. Tutti i paesi
est-europei sono classificati liberi tranne Ungheria, Bosnia e Serbia (parzialmente
libere). La banca dati Polity 5 del Center for Systemic Peace (http://www.systemicpeace.org/inscrdata.html)
classifica 4 ex repubbliche sovietiche come autocrazie, 3 come anocrazie (una condizione
intermedia che include la Russia) e 10 come democrazie. Tutti i paesi est-europei
sono considerati democrazie.
4.6. La caduta
Naturalmente sottolineare la simultaneità del decesso di Unione Sovietica e Pci non
significa azzerare il travagliato cammino di autonomia da Mosca percorso dai comunisti
italiani: la via italiana al socialismo nel 1956, le condanne degli interventi militari
in Cecoslovacchia nel 1968, in Afghanistan nel 1979 e in Polonia nel 1981, l’effimera
stagione dell’eurocomunismo vanificata dal perdurante stalinismo dei partiti fratelli
di Spagna e Francia. Ma l’appartenenza al campo socialista e il mantenimento del mito
sovietico – Togliatti è stato complice o quantomeno spettatore di molti crimini di
Stalin – impedisce a lungo un’adesione piena del Pci al concetto della democrazia
«formale e borghese» come valore in sé: cornice permanente e intoccabile delle regole
del gioco. Si pensa sempre, alla fine, di sostituirla con qualcos’altro. Anche per
questo nella cultura del Pci fatica molto ad entrare il concetto (molto legato a quello
di democrazia) dell’alternanza al governo. Soprattutto per ragioni contingenti: la
guerra fredda impedisce anche solo l’idea di un governo delle sinistre in Italia e
il massimo cui il Pci può aspirare è un governo come quello di unità nazionale sperimentato
tra 1944 e 194756. A questo vincolo esterno si ispira ancora la strategia del «compromesso storico»,
elaborata da Berlinguer negli anni settanta e finalizzata a ricostruire un’alleanza
di governo tra comunisti, socialisti e cattolici. Ma vi sono anche ragioni più profonde
di cultura politica. Nella democrazia socialista che ha in mente Berlinguer, una società
politica omogenea al proprio interno discute e sintetizza soluzioni da proporre alla
società civile: non vi è molto spazio per l’alternanza tra forze diverse. La mediazione
prevale sull’idea (troppo pericolosa) del conflitto.
56 Per l’ipotesi di intervento militare Usa in caso di vittoria del Fronte popolare
alle elezioni del 1948 cfr. il Report del National Security Council, Position of the United States with respect to Italy in the light of the possibility
of communist participation in the government by legal means (Nsc 1/3), 8 marzo 1948, «Foreign Relations of the United States», 1948, 3, pp. 775-9
(https://history.state.gov/historicaldocuments/frus1948v03/d475); Report by the National
Security Council (Nsc 67/1), 21 aprile 1950, ivi, 1950, 3, pp. 1486-91 (https://history.state.gov/historicaldocuments/frus1950v03/pg_1486).
Dunque la fine dell’Unione Sovietica determina inevitabilmente la fine del Pci? No.
Esistono almeno tre processi che vi contribuiscono in misura importante.
Il primo è la chiusura progressiva degli spazi di manovra, che si produce nella politica
italiana dopo l’assassinio di Moro, l’avvento della segreteria De Mita alla guida
della Dc e di quella di Craxi nel Psi. Le sponde e i margini per la strategia del
compromesso storico (ma anche per quella di una alternativa di sinistra, mai realmente
praticata dal leader socialista) si riducono drasticamente e a Berlinguer non rimane
altra carta che quella improbabile del «governo degli onesti»57.
57 La formula ricorre per la prima volta nell’intervista di E. Berlinguer, Un’altra Italia deve governare, «l’Unità», 28 novembre 1980. Sul punto cfr. S. Pons, Berlinguer e la fine del comunismo, Torino: Einaudi 2006; F. Barbagallo, Enrico Berlinguer, Roma: Carocci 2006
Il secondo processo è la recrudescenza della guerra fredda tentata dalla dirigenza
sovietica dopo la sconfitta statunitense in Vietnam. Tra invasione dell’Afghanistan
ed euromissili, passando per le ingerenze in Africa, ognuno di questi nuovi fronti
aperti dal Cremlino si risolve in una secca sconfitta. Ma per il Pci la distensione
internazionale rappresenta una condizione indispensabile di avanzamento, anche elettorale.
L’esperimento fallito dell’eurocomunismo lo dimostra. Se anche non vale più per gli
italiani, il richiamo all’ordine di Mosca funziona nei partiti fratelli. È il limite
di fondo della politica del Pci: non riuscire mai a trasformarsi compiutamente in
partito socialdemocratico e quindi a mutare le proprie appartenenze internazionali
(come anche i margini di manovra sul piano nazionale).
Il terzo processo riguarda il mutamento della società italiana. L’esplosione di soggettività
del Sessantotto si traduce anche in una nuova generazione di imprenditori privati.
Nelle regioni centrali si sviluppa una «terza Italia» diversa dal nord industriale
e dal Mezzogiorno, fatta di piccole industrie e dei loro distretti territoriali, di
lavoratori autonomi, di campagne urbanizzate. Sulla spinta di quella stessa generazione
molti corpi professionali (medici, psichiatri, poliziotti, architetti, magistrati)
vivono processi di modernizzazione e apertura alla società civile. Nessun partito
italiano capisce il cambiamento, nemmeno il Pci che pure era riuscito negli anni sessanta
a interagire con la nuova mobilità sociale che, sempre in Italia centrale, inurbava
i mezzadri e li trasformava in ceto medio. Dal 1987 cala costantemente la partecipazione
elettorale. La generazione del Sessantotto perde progressivamente fiducia nella capacità
della politica di corrispondere al cambiamento. Piccola impresa, lavoro autonomo,
mondo delle professioni rimangono privi di rappresentanza. Nei partiti italiani rimangono
i «peggiori» – absit inuria verbis – cioè gli uomini e le donne che pensano di avere meno frecce al loro arco e non
si ritengono in grado di tentare l’avventura della autoimprenditorialità, sperimentata
invece dai loro coetanei che animano i distretti industriali e il rinnovamento delle
professioni. Sono questi «giovani» meno creativi e meno indipendenti ad affrontare
con meno fantasia la sfida del 1989 e del crollo del muro di Berlino. Non succede
solo al Pci. Ma succede anche al Pci. I partiti italiani si rattrappiscono e si difendono.
Obbedendo alla «ferrea legge delle oligarchie» formulata da Michels all’inizio del
XX secolo, si prodigano per salvare il posto di lavoro e perdono quasi ogni capacità
di analizzare il presente e disegnare il futuro. Ma la fine della guerra fredda priva
i partiti italiani della loro necessità sul piano internazionale e la magistratura,
rifondata dalla generazione del Sessantotto, riguadagna la libertà (eccessi e sconfinamenti
inclusi) di giudicare il loro livello di corruzione. Nuovi partiti nascono al posto
di quelli vecchi: tuttavia solo in apparenza questa sarà un’altra storia. Le incapacità
di studio, rappresentanza, progettualità dei vecchi partiti si trasferiscono in quelli
nuovi. Ma con tratti assai maggiori di improvvisazione e ignoranza.
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