Edizione: 2019, V rist. 2021 Pagine: 696, ril., con ill. Collana: Cultura storica ISBN carta: 9788858133637 ISBN digitale: 9788858140512 Argomenti: Storia contemporanea, Storia d'Italia
La Resistenza in montagna e quella in pianura. La guerriglia nelle città. Il sostegno della popolazione e il rapporto con la ‘zona grigia’. La collaborazione con gli Alleati e la guerra civile con gli italiani in camicia nera. A 75 anni dalla Liberazione, finalmente una ricostruzione con l’ambizione di proporre uno sguardo complessivo su fatti, momenti e protagonisti che hanno cambiato per sempre il nostro Paese.
I due anni che vanno dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945 rappresentano un momento cruciale della storia d’Italia. Sono gli anni della guerra mondiale, con le truppe straniere che occupano la penisola. Sono gli anni della guerra civile, con lo scontro tra italiani di diverso orientamento. Sono gli anni della guerra di liberazione, in cui si combatte contro il nazifascismo per far nascere un paese democratico e libero. È il ‘tempo delle scelte’ per una società italiana schiacciata sotto il tallone nazista e fascista. Una nazione divisa politicamente, militarmente e moralmente all’interno di un’Europa in fiamme. Per fare i conti con la storia della Resistenza italiana, il libro ripercorre le varie fasi delle diverse Resistenze: dalle specificità della guerriglia urbana all’attestamento nelle regioni di montagna. Affianca alla lotta armata le varie forme di supporto fornito ai ‘banditi’ dalle popolazioni e la conflittualità interpartigiana, si addentra nella cosiddetta ‘zona grigia’, evidenzia la peculiarità delle deportazioni politiche e razziali. Una ricostruzione nuova, originale, vivida, in cui lo sguardo d’insieme si alterna costantemente con l’attenzione a vicende personali e collettive poco conosciute o inedite. Un libro necessario oggi, quando il venir meno degli ultimi testimoni diretti di queste vicende lascia sempre più spazio a un uso politico della Resistenza che deforma e rimuove i fatti, le fonti e la storia.
Edizione: 2021 Pagine: 696 Collana: Cultura storica ISBN: 9788858133637
Gli autori
Marcello Flores
Marcello Floresha insegnato Storia contemporanea nelle Università di Trieste e di Siena. Si è occupato di storia dei totalitarismi e di storia dei genocidi. Con Giovanni Gozzini ha già pubblicato 1968. Un anno spartiacque (il Mulino 2018).
Mimmo Franzinelli, studioso del fascismo e dell’Italia repubblicana, è membro della Fondazione “Ernesto Rossi e Gaetano Salvemini” di Firenze. Tra i suoi più recenti libri, Fascismo anno zero (Mondadori 2019) e 1960. L’Italia sull’orlo della guerra civile (con Alessandro Giacone, Mondadori 2020).
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CONSTANTER ET NON TREPIDE
Un monito scelto dalla famiglia Laterza come esortazione alla tenacia e ad una costante crescita.
X. Politica e dinamiche della Resistenza
L’intero corso della Resistenza vive della compresenza tra spontaneità e organizzazione,
dell’alleanza tra i partiti antifascisti e dei conflitti che sorgono spesso fra di
loro, della diversità di contesto nelle zone liberate del Regno del Sud e in quelle
sottoposte all’occupazione tedesca e alla presenza della RSI del Centro-Nord, dei
rapporti lenti e contraddittori che si instaurano con gli Alleati, anch’essi diversi
dove sono già presenti come governo AMGOT e dove agiscono come aiuto alle azioni militari
di chi combatte i nazifascisti. Anche se i primi mesi dopo l’8 settembre 1943 sono
caratterizzati da una forte immediatezza – e a volte impulsività – nella formazione
delle bande partigiane, che si articola in modi diversi e reagisce con il rafforzamento
o con la crisi alle prime azioni repressive dell’esercito tedesco, è soprattutto nei
primi mesi del 1944 che si consolida la presenza dei partiti antifascisti, si organizza
il coordinamento militare della Resistenza, si manifestano le differenze e i contrasti
che accompagneranno fino alla Liberazione quella spinta unitaria.
Qualsiasi narrazione, ma anche giudizio storico o riflessione etico-politica, non
può prescindere dalla considerazione che la Resistenza italiana si muove in un contesto
anomalo, particolare e fortemente contraddittorio. Il governo del Sud – che si sposta
a Roma dopo la liberazione della capitale nel giugno 1944 – vede la partecipazione
di un partito “moderato”, quello della Democrazia del lavoro, che non è attivo nel
campo della Resistenza al Nord; dove l’egemonia sul terreno è nelle mani della sinistra
– comunista e azionista soprattutto – e dove la voce degli Alleati è meno incisiva.
Unità e divisioni tra i partiti politici
Claudio Pavone rilevava, in un pionieristico saggio di quarantacinque anni fa, il
fatto che «gli alleati come alibi di tutto il non fatto o il mal fatto da parte della
Resistenza sono divenuti un ambiguo vezzo della storiografia, specie di sinistra»1. Sottolineava, infatti, come la presenza alleata, per la potenza dei suoi eserciti
e per gli accordi internazionali che ponevano l’Italia all’interno della sfera d’influenza
occidentale, non poteva che costituire un elemento a favore di una “sostanziale continuità”
dello Stato, benché tra inglesi e americani, su questo terreno, non mancassero divergenze.
Gli accordi di Casablanca sulla resa incondizionata dell’Italia e quelli che avevano
condotto all’armistizio costituivano, così, «un avallo al governo che avesse firmato
la resa e se ne fosse reso garante». Tale governo, soprattutto agli occhi di Churchill,
non poteva che favorire «il sostegno a un massimo di continuità dello stato e dell’assetto
sociale», mentre molti resistenti «assegnarono alla guerra di liberazione un compito
di rottura, da valorizzare anche di fronte ai paesi vincitori, in modo che l’Italia
potesse poi giungere purificata alla conferenza di pace»2.
1 Claudio Pavone, La continuità dello Stato. Istituzioni e uomini, in AA.VV., Italia 1945-1948. Le origini della Repubblica, Giappichelli, Torino 1974, pp. 139-289, ora in Claudio Pavone, Alle origini della Repubblica. Scritti sul fascismo, antifascismo e continuità dello
Stato, Bollati Boringhieri, Torino 1995, p. 100.
In realtà soprattutto nella prima fase, anche da parte britannica, gli Alleati si
mostrarono molto «più antifascisti e più progressisti» di quello che era il governo
Badoglio, avendo una profonda disistima per la vecchia classe dirigente italiana che
tesero, almeno in parte, a escludere dall’amministrazione dell’Italia liberata, a
favore di un’amministrazione corretta e imparziale. «Si tratta – sosteneva nel dicembre
1943 il colonnello Stevens da Radio Londra – di ristabilire la fiducia nelle amministrazioni
statali e parastatali da parte dei cittadini, di ogni categoria, resi scettici da
vent’anni di malgoverno [...]. I prepotenti, piccoli e grandi, saranno eliminati.
A noi inglesi è stato detto che abbiamo fatto la guerra per questo; e ne siamo, tuttora,
assolutamente convinti»3.
3 Maura Piccialuti Caprioli, Radio Londra, 1939-1945, Laterza, Roma-Bari 1979, pp. 221 sg.
Anche se verrà affrontato solo in poche occasioni, soprattutto riguardo alla questione
istituzionale – che viene presto congelata e lo resterà fino al termine della guerra
–, il tema della continuità dello Stato costituisce un elemento importante per comprendere
le posizioni dei diversi gruppi antifascisti. L’alternativa è già riscontrabile nel
modo in cui i partiti intendono il ruolo del CLN, che tutti contribuiscono a formare
ma ognuno interpreta a modo suo. Soprattutto per gli azionisti i CLN sono l’abbozzo
di una nuova organizzazione statale democratica, che li si veda in un’ottica federalista
e libertaria oppure, più semplicemente, come un rafforzamento del sistema parlamentare
che eviti i pericoli corsi nel primo dopoguerra. Per la Democrazia cristiana è necessario
restaurare il “primato” del parlamento, la “stabilità” del governo e l’“autorità”
dell’esecutivo, come aveva scritto De Gasperi nelle Idee ricostruttive della Democrazia cristiana durante i quarantacinque giorni tra la caduta del fascismo e l’armistizio; l’inserimento
pieno delle masse cattoliche nella vita pubblica voleva dire, al tempo stesso, una
certa continuità dello Stato (era stato il fascismo con il concordato del 1929 a segnare
una data storica) e la possibilità di conquistarlo come forza moderata maggioritaria
(grazie anche alla nuova collocazione internazionale): privilegiando quindi l’alleanza
dei partiti dentro il governo del Sud rispetto ai CLN in cui pure molti cattolici
consumavano le proprie energie.
Il Partito comunista è quello che si muove in modo apparentemente più ambiguo, anche
se la sua linea è abbastanza coerente, soprattutto dal momento del rientro di Togliatti
in Italia, nel marzo 1944. Per il capo del partito, infatti, che ha avuto precise
indicazioni da Stalin in merito al riconoscimento del governo Badoglio, la questione
principale risiede nel privilegiare il rapporto tra i partiti di massa – che considera
la vera base della nuova democrazia – e in modo particolare con la Democrazia cristiana,
soprattutto per quanto riguarda il problema istituzionale, su cui venne sempre raggiunto
un compromesso o un accordo. Già nel luglio 1944 Togliatti aveva definito democrazia progressiva un regime capace di liquidare definitivamente il fascismo e di procedere, attorno
all’unità dei partiti antifascisti, al rinnovamento economico e sociale del paese.
La partecipazione al potere delle masse popolari – e cioè la collaborazione tra i
partiti di massa antifascisti – avrebbe dovuto continuare anche oltre l’elaborazione
della Costituzione, ma le dinamiche della guerra fredda a partire dal 1946 lo resero
sempre più difficile. Un elemento costitutivo del PCI – quella che è stata chiamata
la sua “doppiezza” – comportava tanto l’accettazione piena e leale del sistema politico-istituzionale
democratico quanto la previsione del suo superamento in un futuro orizzonte socialista:
entro questa contraddizione il partito dimostrava tutta la propria tradizione e origine
(compreso il rapporto privilegiato e ideologicamente subordinato con l’Unione Sovietica)
e insieme l’impegno a difendere la democrazia a condizione che non fosse messa in
pericolo la patria del socialismo.
L’ordine del giorno che il CLN di Roma rende noto il 16 ottobre 1943 (in cui si chiedeva
un “governo straordinario” che assumesse «tutti i poteri costituzionali», per condurre
«la guerra di liberazione a fianco delle Nazioni Unite» e decidere alla fine della
guerra «sulla forma istituzionale dello Stato»), redatto da Giovanni Gronchi e approvato
all’unanimità, fu da subito oggetto di interpretazioni controverse. Nel congresso
di Bari dei partiti antifascisti, nel gennaio 1944, e in modo più esplicito poco dopo,
la polemica sui “poteri” del governo iniziò a contrapporre i partiti “moderati” e
quelli più “radicali”, soprattutto sulla questione dell’abdicazione di Vittorio Emanuele
III, mentre sembrava unitaria l’ostilità nei confronti di Badoglio. L’arrivo di Togliatti,
comunque, e la conseguente “svolta di Salerno” (l’abbandono da parte del PCI della
discriminante antimonarchica) modificarono la situazione e rimescolarono i rapporti
tra partiti non più lungo la linea di demarcazione tra moderati e radicali. L’accantonamento
della questione istituzionale e l’escamotage, dovuto a Enrico De Nicola, di fare di
Umberto il “luogotenente del Regno”, spinsero tutti i partiti del CLN a entrare nel
governo, accettando però che a presiederlo fosse sempre Badoglio.
Una svolta ulteriore avvenne, nei rapporti fra partiti, dopo la liberazione di Roma.
Contestualmente all’ingresso degli Alleati, infatti, Umberto di Savoia venne nominato
luogotenente generale del Regno (Vittorio Emanuele III aveva annunciato il suo ritiro
il 12 aprile). Due settimane dopo, inoltre, ebbe fine il governo Badoglio, e la scomparsa
dal vertice istituzionale del vecchio generale fascista, sostituito con il presidente
del CLN Ivanoe Bonomi, segnò un mutamento rilevante nelle dinamiche sia istituzionali
sia politiche, nei rapporti con gli Alleati e nella costruzione unitaria del movimento
di Resistenza. Il primo atto significativo del nuovo governo fu il decreto legislativo
luogotenenziale n. 151 del 25 giugno 1944, che Calamandrei considerò «l’atto di nascita
del nuovo ordinamento democratico italiano». In esso si stabiliva che alla fine della
guerra sarebbe stata eletta a suffragio universale, diretto e segreto, un’Assemblea
Costituente per scegliere la forma dello Stato e dare al paese una nuova Costituzione.
Il decreto, in sintesi, sanciva de facto il ruolo e l’autorità dei partiti antifascisti, rafforzando la tregua istituzionale
tra antifascismo e monarchia. Al tempo stesso si evitava – come avrebbero voluto gli
azionisti e i socialisti – che l’unica fonte del potere risiedesse nel CLN, togliendo
però alla Corona e agli istituti ereditati dal fascismo ogni prerogativa. Fonte del
potere e garante del “vuoto” costituzionale era quindi il governo, espressione di
un accordo tra i partiti che facevano parte del CLN più che di questo organismo, come
mostrò la presenza quali ministri senza portafoglio di De Gasperi, Togliatti, Saragat,
Cianca, Sforza e Croce, ognuno responsabile per il proprio partito.
Il secondo decreto legislativo luogotenenziale di grande rilievo fu il n. 159 del
27 luglio 1944, il cardine delle sanzioni contro il fascismo e del processo di epurazione,
e quindi anche delle sue profonde ambiguità già presenti nell’articolo 2, secondo
cui «i membri del governo fascista e i gerarchi del fascismo colpevoli di aver annullato
le garanzie costituzionali, distrutte le libertà popolari, creato il regime fascista,
compromesse e tradite le sorti del paese condotto all’attuale catastrofe sono puniti
con l’ergastolo e, nei casi di più grave responsabilità, con la morte»4. Come ebbe a scrivere Pavone, su questa base «i magistrati non riuscirono a trovare
neppure un fascista di cui si potesse dimostrare che con la sua azione personale aveva
provocato quell’insieme di disastri elencati nella legge»5.
4 «Gazzetta Ufficiale», serie speciale, 29 luglio 1944, n. 41.
5 Pavone, La continuità dello Stato, cit., p. 244.
Bonomi non ha trovato, tra gli storici, particolari estimatori, almeno per quanto
riguarda questo periodo. Paul Ginsborg lo ha ritenuto addirittura peggiore di Badoglio
e Silvio Lanaro lo ha connotato come «leader di un partito inesistente, presidente
del CLN centrale solo per volontà degli occupanti e affossatore inesausto di tutte
le misure di democratizzazione dello Stato»6.
6 Silvio Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana. Dalla fine della guerra agli anni novanta, Marsilio, Venezia 1992, p. 142.
I primi mesi del governo Bonomi vedono smorzata la polemica sulla monarchia – rinviata
al termine del conflitto – anche perché «alla mancanza di scelte generali di politica
istituzionale già definite nel corso della fase preparatoria, si accompagna il vuoto
di una tradizione culturale nazionale maturata intorno al problema della strategia
delle istituzioni»7. È ovvio, di conseguenza, che rinviando di porre mano alla ricostruzione dello Stato,
almeno in alcuni suoi aspetti fondamentali, non si può che favorire il sopravvivere
di una continuità, nell’ambito dell’amministrazione e della burocrazia, che si rifletterà
necessariamente anche sul terreno politico.
7 Enzo Cheli, Il problema storico della Costituente, in «Politica del diritto», ottobre 1973, n. 4-5, p. 491.
Le difficoltà che conducono alla crisi del governo Bonomi e alla formazione di un
secondo gabinetto, sempre guidato dal vecchio politico demoliberale, mostrano come
in questa fase transitoria sia il governo a rappresentare l’elemento centrale, in
un intreccio di rotture e continuità che attribuiscono un’ambiguità di fondo a tutta
l’azione politica. «Rottura a Salerno per la presenza nuova dei partiti antifascisti
ma non per la legalità costituzionale e la continuità dello stato. Rottura più profonda
con il primo governo Bonomi per il ruolo riconosciuto, sia pure formalmente, al CLN
e per il decreto del 25 giugno. Ripristino della continuità con il secondo governo
Bonomi, con la messa in mora del CLN e l’interpretazione riduttiva del decreto di
giugno: ma ripristino che non può essere totale perché indispensabile è la presenza
dei partiti antifascisti e sempre più debole la funzione della casa reale»8.
8 Marcello Flores, Governo e potere nel periodo transitorio, in AA.VV., Gli anni della Costituente. Strategie dei governi e delle classi sociali, Feltrinelli, Milano 1983, p. 8.
CLN, CLNAI, partiti
È nel febbraio 1944 che nasce formalmente il Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta
Italia (CLNAI) su mandato del CLN nazionale di Roma. Nella lettera di investitura,
del 31 gennaio, si affidano i poteri di “governo straordinario del Nord” al CLN milanese
che era già in funzione, in realtà – come quello di Torino, Genova e altri grandi
centri – fin dal settembre-ottobre 1943. Alla guida del CLNAI viene posto il cinquantenne
banchiere Alfredo Pizzoni, che già presiedeva il comitato lombardo. Pizzoni, maggiore
dei bersaglieri e dirigente del Credito italiano, negli anni Trenta si avvicina a
Giustizia e Libertà e poi collabora clandestinamente con il Partito d’Azione: egli
è la figura centrale nel finanziamento della Resistenza9.
9 Cfr. Tommaso Piffer, Il banchiere della Resistenza. Alfredo Pizzoni, Mondadori, Milano 2005. Di Pizzoni si veda Alla guida del CLNAI. Memorie per i figli, il Mulino, Bologna 1995.
Alfredo Pizzoni, “il banchiere della Resistenza”: presidente del CLNAI dalla fondazione
all’aprile 1945.
Obiettivo del CLNAI è «colpire il nemico subito, con tutti i mezzi», utilizzare ogni
mezzo possibile, «dalla guerra di bande agli scioperi, dai sabotaggi alle manifestazioni
popolari» e preparare «l’insurrezione generale contro l’occupante»10.
10 Franco Catalano, Storia del Comitato di Liberazione Alta Italia, Bompiani, Milano 1975, pp. 116-117.
Nel giugno 1944 il CLNAI accetta l’adesione dei Gruppi di difesa della donna, creati
unitariamente già dal novembre 1943 dalla azionista Ada Gobetti, dalla socialista
Lina Merlin e dalla comunista Giovanna Barcellona. Nello stesso mese, il 14, viene
approvata la trasformazione del Comitato militare Alta Italia in Comando generale
del Corpo volontari della libertà, sotto il comando congiunto di Luigi Longo (per
il PCI), Ferruccio Parri (per il Pd’A), Luigi Bignotti e poi Enrico Mattei (per la
DC), Giovanni Battista Stucchi e poi Guido Mosna (per il PSIUP) e Mario Argenton (per
il PLI).
Il generale Giuseppe Bellocchio diventa consulente militare, sostituito a fine agosto
dal generale Raffaele Cadorna (“Valenti”), destinato ad assumerne la guida militare
una volta superati i veti dei partiti di sinistra. Cadorna viene nominato così comandante
del Corpo volontari della libertà con il contrappeso dell’azionista Parri e del comunista
Longo come vicepresidenti. Era stato il liberale Arpesani a proporre un comando unico
con potere decisionale affiancato da cinque membri di partito. Il contrasto sulla
preminenza militare o politica da dare alla Resistenza in questa fase si risolve in
ottobre con un compromesso, che sancisce il preminente ruolo militare di Cadorna,
comandante, che viene affiancato da vicecomandanti con maggiore funzione politica,
Parri e Longo, mentre il socialista Mosna diventa capo di Stato Maggiore e il liberale
Arpesani e il democristiano Mattei i suoi vicecapi. Questa riorganizzazione viene
formalizzata il 3 novembre.
Il generale Raffaele Cadorna, comandante del CVL.
È il Partito d’Azione a innescare, a fine novembre 1944, la polemica sul ruolo e i
poteri dei CLN che diventerà nota come “il dibattito delle cinque lettere”, la prima
delle quali inviata dal Pd’A il 20 novembre, cui rispondono i comunisti il 15 dicembre,
la DC il 12 gennaio 1945, ma rivolgendosi solamente ad azionisti e comunisti, i socialisti
il 20 gennaio e i liberali, infine, in febbraio.
La lettera del Pd’A, scritta da Lombardi, Foa e Spinelli, ma letta anche da Valiani,
riteneva che nel Sud liberato «le istituzioni fondamentali dello Stato italiano, quantunque
barcollanti, abbiano potuto sopravvivere al crollo del fascismo» e che ci si era limitati
a sostituire al partito unico la coalizione dei partiti antifascisti, lasciando intatto
«l’apparato statale centralizzato ed autoritario» con l’eccezione dell’epurazione.
In questo quadro il «CLN e rimasto una pura e semplice coalizione di partiti», senza
ragionare «in termini di creazione delle basi istituzionali di una vera vita democratica
del paese». Al Nord il «CLN non e pero ancora riuscito ad impedire che tra le varie
formazioni si sviluppassero antagonismi di partito che hanno danneggiato lo sviluppo
della guerra di liberazione», mentre esso dovrebbe pensare «oltre che ad attaccare
i tedeschi ed a eliminare le eventuali resistenze armate dei fascisti, anche a costituire
i quadri fondamentali della polizia e del futuro esercito popolare». Il CLNAI deve
dichiarare «di essere sin d’ora il governo segreto straordinario dell’alta Italia,
ed ordina a tutto il popolo di riconoscere come soli organi pubblici quelli che esso
ha investiti o investira». I suoi compiti principali devono essere «organizzare e
finanziare la guerra di liberazione; fissare e riscuotere una regolare imposta di
guerra e punire i casi piu gravi di tradimento del paese; aiutare le vittime della
persecuzione nazi-fascista; prendere tutte le misure necessarie per entrare immediatamente
in funzione come governo legale in caso di insurrezione o di liberazione». Nella fase
di illegalità occorre mantenere la rappresentanza paritetica dei cinque partiti e
procedere a preparare una legislazione straordinaria, il cui primo atto dovrebbe essere
«l’inserzione delle formazioni partigiane nell’organismo della democrazia italiana.
I partigiani dovranno costituire insieme il nucleo della nuova polizia democratica
e dell’armata di liberazione». Nelle future trattative per il nuovo governo dell’Italia
libera occorre evitare che «il CLNAI sia assente, e che ogni partito che lo compone
si limiti a sviluppare una politica governativa per proprio conto».
Nella sua risposta, predisposta da Emilio Sereni, il PCI si mostra soddisfatto perché
«il Pd’A concorda sostanzialmente con le posizioni e con le iniziative da noi gia
da tempo sostenute». L’insufficienza del CLN come semplice coalizione di partiti dovrebbe
permettere alle «organizzazioni delle donne e dei giovani [di] dare il loro apporto
essenziale alla lotta comune», anche perché «la partecipazione effettiva dei rappresentanti
delle organizzazioni di massa ai CLN e contestata per motivi che non sono semplicemente
cospirativi». Ne consegue che: «Nessun partito pretende certo stabilire un monopolio
o una prevalenza nella rappresentanza dei CLN: ma questa non e buona ragione per
mantenere sui CLN, sia pur nella fase della illegalita, un monopolio dei partiti
presi nel loro complesso».
La lettera del PSIUP, redatta da Rodolfo Morandi, insiste sulla necessità che «la
lotta di liberazione si diriga allo stesso modo contro il nazifascismo e contro tutti
i tentativi reazionari di opporsi alla volonta popolare. Il CLNAI deve pronunciarsi
chiaramente contro la reazione monarchica». E mette in guardia dalla ripresa del fascismo
repubblicano che «ha oggi buon gioco nello sfruttare la deliberata compressione delle
forze antifasciste praticata dagli inglesi e la impotenza cui le mene monarchico-reazionarie
riducono quel morticino di democrazia che la “liberazione” ha partorito a Roma», e
che si potrà contrastare attraverso un’«intransigente opposizione alla monarchia che
si fa centro della reazione capitalistica, e l’assoluta sua indipendenza da ogni interesse
e influenza straniere».
La Democrazia cristiana ritiene che «la ricostruzione non sara impedita, ma anzi
facilitata da una vita politica in cui, attraverso le differenti vedute dei vari Partiti,
abbiano il loro libero e opposto gioco tutte le forze e le opinioni della Nazione»,
e che non si vede «la necessita che imponga a ciascun Partito di perdere la propria
individualita e fisionomia e quindi la propria funzione in una unione»; anche se
non sarà la DC «a volere la risurrezione e la perpetuazione del vecchio corpo dello
Stato italiano prefascista», pur continuando a opporsi all’«introduzione dei rappresentanti
di varie organizzazioni che vengono indicate come “senza partito”».
Il Partito liberale, nell’ultima lettera che viene scritta da Filippo Jacini, rifiuta
l’immagine negativa dell’Italia liberata («vi e completa liberta di associazione
e di stampa») ma richiede che «ogni modifica sostanziale della struttura dello Stato
italiano» possa avvenire solo «quando tutto il popolo italiano avra modo di esprimere
la sua volonta in forme legali, cioe attraverso libere elezioni ed organi rappresentativi»;
respingendo la proposta azionista che «il CLNAI si valga della delega avuta in qualche
modo dal governo italiano – delega che noi vorremmo venisse confermata in forma ad
un tempo piu esplicita e piu giuridicamente definita – per creare nell’Italia del
nord un ente governativo delegato da contrapporre al governo delegante»11.
Gran parte della discussione, come si vede, riguarda il carattere che avrebbe dovuto
assumere la democrazia dopo la Liberazione, la necessità o no di superare i limiti
– evidenti per le sinistre – della ricostruzione istituzionale nel Sud, il forte pronunciamento
antimonarchico dei socialisti. La presa di posizione decisamente filo-CLN del Partito
comunista sembra in contrasto con quanto sta avvenendo a Roma dove, con l’apertura
della crisi di governo, Togliatti si dichiara a favore di un nuovo incarico a Bonomi
il cui governo, però, vedrà l’esclusione sia del Partito d’Azione sia di quello socialista.
La rottura dell’unità antifascista, che durerà fino alla Liberazione, riguarda solo
il governo dell’Italia liberata, ma essendo avvenuta su temi cruciali – la questione
istituzionale e la politica di epurazione – non può che proiettare la sua ombra anche
sul futuro, lasciando di fatto isolate le posizioni che più apertamente propongono
una democrazia in forte discontinuità con il passato liberale (quelle degli azionisti)
a vantaggio di chi vede nell’alleanza dei grandi partiti di massa la garanzia di una
democrazia socialmente avanzata (i comunisti) o il terreno per una libera lotta fra
loro in vista del futuro potere (i democristiani).
Mentre iniziava il dibattito delle “cinque lettere”, tuttavia, il CLNAI rispondeva
con una direttiva al proclama Alexander del 13 novembre; e il 7 dicembre siglava con
il Comando supremo alleato nel Mediterraneo (SACMED) un accordo che segnava il pieno
riconoscimento alleato del CLNAI, firmato a Caserta da Pizzoni, Parri, Pajetta e Sogno12.
12 Si veda il capitolo xiii sul rapporto tra Alleati e Resistenza.
L’organizzazione regionale e provinciale del CLNAI
Nel corso di agosto e settembre il CLNAI aveva svolto un’intensa attività legislativa,
emanando norme tanto relative all’organizzazione interna quanto proiettate verso il
futuro, dopo la Liberazione. Sono i CLN provinciali a essere investiti del compito
di creare le Commissioni di giustizia e le Corti di assise, predisporre l’assunzione
dei poteri amministrativi, proteggere gli ammassi e i depositi alimentari, mentre
si prevedono sanzioni nei confronti delle forze armate e dei funzionari pubblici della
RSI annullandone le disposizioni e sospendendone la legislazione. A settembre i delegati
dei partiti sono cambiati e troviamo tra loro quelli che firmeranno il 26 aprile 1945
il manifesto di assunzione dei pieni poteri: Sereni per il PCI, Valiani per il Pd’A,
Pertini per il PSIUP, Marazza per la DC, Arpesani per il PLI. È in questo momento
che, sul terreno organizzativo, si sente la dinamica impressa da Alfredo Pizzoni.
Pur lamentando l’indisponibilità al compromesso nei riguardi di questioni cruciali
e la necessità di rapide deliberazioni da inviare ai comitati regionali e provinciali,
si mostrava consapevole dei limiti di “eccezionalità” che caratterizzavano il lavoro
del CLNAI:
è ovvio che il nostro lavoro si riferisce ed ha effetto su un periodo d’emergenza,
e che in ogni caso regolari norme di leggi e regolamenti saranno ad inquadrare ogni
aspetto di vita e di convivenza avvenire; pertanto l’ovvia preoccupazione di ognuno
di tutelare le direttive e gli interessi del partito che rappresenta deve tener presente
che di regola quanto deciso in sede CLNAI serve per un lasso di tempo ben circoscritto13.
13 Lettera di “Longhi” (Pizzoni) ai “compagni del CLNAI”, 8 agosto 1944. Documento n.
51 in Gaetano Grassi (a cura di), “Verso il governo del popolo”. Atti e documenti del CLNAI 1943/1946, Feltrinelli, Milano 1977, pp. 154-155.
È nel corso dei dibattiti relativi alla spartizione delle cariche pubbliche nelle
più importanti città dell’Italia settentrionale (sindaco, vicesindaco, prefetto, questore,
deputazione provinciale ma anche provveditori agli studi, presidenti di casse di risparmio
e aziende elettriche e tramviarie) che emerge come, anche nel CLNAI, la logica partitica
che sempre più aveva caratterizzato il CLN di Roma tenda a imporsi con l’avvicinarsi
della Liberazione. Anche se sussiste, grazie al legame con la lotta partigiana, una
sintonia di intenti che si manifesta proprio nella ferma condanna – paradossalmente
proposta dal liberale Arpesani, del partito, cioè, che aveva aperto a Roma la crisi
del primo governo Bonomi – del modo in cui si era affrontata e risolta la crisi romana:
Il Comitato di liberazione nazionale per l’Alta Italia depreca che nel momento attuale,
quando gran parte del paese geme sotto l’oppressione tedesca e la tirannia fascista,
siasi prodotta a Roma una crisi di governo per l’intervento di forze oscure ed incontrollate,
la cui opera determinò l’avvento del fascismo, lo sostenne sino a ieri portando il
paese alla rovina, ed oggi tende di nuovo a scindere gli italiani ed inquinare i partiti
ed a ridurre la politica alla meschina difesa degli interessi personali e di gruppo,
rinnovando metodi e sistemi, dei quali la catastrofe italiana segna la condanna storica14.
14 Mozione sulla crisi di governo, 3 dicembre 1944; ivi, doc. n. 97, pp. 205-206.
Anche nel CLNAI, tuttavia, il clima unitario fu scosso da polemiche che riguardavano
l’attività condotta da diverse curie cattoliche di città dell’Italia settentrionale,
o da magnati dell’industria, per avviare trattative con i tedeschi allo scopo di giungere
a tregue provvisorie e salvaguardare la vita dei cittadini, gli impianti industriali,
i servizi pubblici essenziali. Al di là delle divisioni, comunque, fu proprio il viaggio
a sud compiuto nel dicembre 1944 per giungere a un accordo con gli Alleati a ricomporre
l’unità del CLNAI, con l’inserimento di Edgardo Sogno – esplicitamente richiesto dagli
inglesi – a fianco di Pizzoni, Parri e Pajetta. Viaggio che si concluse con un riconoscimento
ufficiale seppur caratterizzato da ambiguità e delusioni.
Le dinamiche che sono presenti in un CLN regionale – quello della Liguria – mostrano
come l’estate del 1944 abbia segnato l’inizio di una nuova fase anche politica, certamente
sull’onda della convinzione, suggerita dagli stessi Alleati, che entro l’anno si sarebbe
potuti giungere alla liberazione dell’intero territorio italiano. Fin dal 1° agosto,
infatti, e nei mesi successivi, la discussione si incentra sulle misure necessarie
che si dovranno prendere per rendere il CLN ligure capace di assumere il governo della
città. Era stato il CLNAI, il 4 agosto, a spingere i comitati regionali a favorire
«il massimo incremento» nella creazione di comitati cittadini, rionali, periferici,
in grado di creare giunte popolari con funzioni sia politiche sia amministrative.
Tra i temi in discussione la futura nomina del prefetto, che i comunisti vorrebbero
individuare in «un esponente antifascista non facente parte del CLN», mentre il rappresentante
liberale si dichiara contrario perché vede «il rischio che gli Alleati possano in
tal modo esautorare facilmente il comitato tramite il mantenimento di stretti rapporti
con un prefetto non facente parte del CLN e del quale sarebbe opportuno ridurre le
funzioni a semplice esecutore delle direttive e dei provvedimenti del CLN»15. Un elemento di conflitto, a metà settembre, è costituito dalla scelta della ripartizione
delle cariche pubbliche tra i partiti, che avviene concordemente ma in modo difforme,
secondo il Pd’A, con una decisione presa a Milano tra i rappresentanti comunisti,
socialisti e azionisti. Questo contrasto, in effetti, giungerà fino alla vigilia dell’insurrezione,
creando frizioni e malumori soprattutto tra il Pd’A e i restanti partiti del CLN.
E si sommerà a quello – che vede invece prima isolato ma poi vittorioso il PCI – sull’ingresso
nei CLN degli organismi di massa, in particolar modo le donne, i giovani e i gruppi
aziendali ritenuti, come in realtà erano in maggioranza, una sostanziale emanazione
del Partito comunista. Nell’insieme sembra delinearsi «con sufficiente chiarezza la
funzione non di promozione e di organizzazione, ma di freno e di controllo svolta
dall’organismo regionale nei confronti dell’esigenza di un radicale rinnovamento espressa
dai settori più avanzati del movimento resistenziale»16.
15 Paride Rugafiori, Nota storica, in Id. (a cura di), Resistenza e ricostruzione in Liguria. Verbali del CLN ligure 1944/1946, Feltrinelli, Milano 1981, p. 23.
È il 6 dicembre, mentre sono in corso alcune proteste aziendali, quando il PCI chiede
nuovamente il riconoscimento dei CLN di fabbrica, che in quel momento hanno una piattaforma
rivendicativa più avanzata di quella che il CLN regionale sta trattando con le dirigenze
di azienda. La decisione presa a fine anno è riconoscere i CLN aziendali se composti
da almeno due partiti presenti nel CLN regionale. Sul terreno dell’agitazione operaia
si manifestano spesso attriti tra i comunisti e gli altri partiti, che rinfacciano
al PCI di sollecitare o addirittura “imporre” agitazioni in fabbrica senza sottoporle
all’assenso e alla direzione del CLN.
La proposta comunista, sulla base di quanto ha ormai deciso da due mesi il CLNAI,
di riconoscere nei Gruppi di difesa della donna l’organismo unitario di massa di «tutte
le donne italiane», viene invece contrastata da liberali, repubblicani e democristiani.
Una momentanea soluzione di compromesso non regge al tempo e in febbraio si manifesta
una rottura definitiva che porterà i giovani e le donne dei partiti socialista e azionista
a entrare nel Fronte della gioventù e nei Gruppi di difesa della donna, accusando
gli altri partiti di non aver rispettato le decisioni del CLNAI per un coordinamento
unitario.
Il timore dei comunisti genovesi – e in particolare di Remo Scappini, responsabile
del PCI e poi presidente del CLN ligure e membro del triumvirato insurrezionale –
che un mancato legame con le masse indebolisse lo stesso organismo unitario, nasceva
da un’attenta osservazione della realtà; anche se l’idea di legittimare maggiormente
dal basso il CLN grazie a uno stretto rapporto con i lavoratori si scontrava, di fatto,
con la scelta di privilegiare i rapporti tra i partiti antifascisti che era la linea
imposta da Togliatti a Roma, sebbene non fosse sempre quella seguita dai CLN periferici
o nelle singole realtà locali. Il CLN ligure, in ogni modo, svolse «un’importante
funzione di coordinamento, di stimolo, oltre che di finanziamento, del fronte antifascista,
la cui sostanziale unità è da attribuirsi anche al suo impegno nell’evitare che gli
attriti presenti tra le formazioni politiche e militari assumano proporzioni non controllabili»17.
L’afflusso di volontari nelle brigate partigiane era cresciuto in concomitanza con
i bandi di chiamata alle armi della RSI. Quello che si era verificato nell’autunno-inverno
del 1943 aveva permesso il radicamento di molti quadri che avrebbero poi costituito
l’ossatura dell’organizzazione militare della Resistenza, coloro cioè che erano rimasti
in montagna anche in seguito ai primi grandi rastrellamenti che avevano indebolito
e in molti casi distrutto i primi gruppi combattenti. L’ondata di volontari più significativa
e ampia, tuttavia, è quella che ha luogo nella primavera e soprattutto nell’estate
del 1944, quando un’avanzata alleata che accelerasse la fine del conflitto sembrava
possibile anche a chi mancava di conoscenze militari e politiche più aggiornate e
affidabili. In taluni casi l’eccesso di richiesta costrinse i comandi partigiani a
una selezione che era al tempo stesso fisica, psicologica e politica:
Essi da un lato non potevano rifiutare l’arruolamento, pur non essendo in grado di
appurare intenzioni e qualità prima del vaglio della guerriglia; dall’altro lato,
si trovavano a fronteggiare l’acuirsi – a volte oltre ogni limite, soprattutto nell’estate
del 1944 – di tutte le necessità derivanti dall’appesantimento delle formazioni. Ciò
sotto il profilo della loro efficienza, non meno che per i rapporti con la popolazione.
Non bastavano le severe norme di autodisciplina18.
18 Mario Giovana, Guerra partigiana, in Collotti, Sandri e Sessi (a cura di), Dizionario della Resistenza, cit., vol. I, p. 223.
Non esiste un andamento omogeneo e univoco nella formazione e nel rafforzamento delle
bande partigiane. Più ancora che un grande mosaico o una diffusione a macchia di leopardo,
la Resistenza armata sembra costituire un patchwork che solo pezzo dopo pezzo acquista
una propria fisionomia e unità, agli occhi tanto di chi ne fa parte quanto dei nemici
che combatte, ma anche della popolazione inevitabilmente coinvolta nelle vicende dell’occupazione
e della lotta per porvi fine. I tedeschi sono costretti a impegnare in modo permanente
cinque divisioni per cercare di controllare il territorio e reprimere l’attività partigiana,
distogliendo quindi una forza notevole – composta da gruppi di élite, come la Divisione
“Hermann Göring” – dalla guerra sul fronte italiano o sugli altri fronti europei.
Nelle diverse regioni in cui si radica e prende piede, la Resistenza conosce dinamiche
differenti. In Piemonte cresce prima e più rapidamente, «sviluppandosi, a partire
soprattutto dalla primavera del ’44, in un articolato tessuto di bande in crescita
numerica che coprirono progressivamente vasti comprensori del territorio, stendendovi
una rete pressoché senza soluzione di continuità di forze combattenti»19 tanto in montagna quanto in collina o in città. Una perdita grave, a fine marzo 1944,
fu costituita dall’arresto della maggior parte dei componenti del comitato militare
del CLN, a partire dal generale Giuseppe Perotti che lo dirigeva e che verrà fucilato
il 5 aprile al poligono del Martinetto di Torino insieme ad altri sette membri di
partiti diversi.
19 Mario Giovana, Piemonte, in Collotti, Sandri e Sessi (a cura di), Dizionario della Resistenza, cit., vol. II, p. 502.
Anche in Piemonte è la spinta che avviene sull’onda dell’avanzata alleata e della
liberazione di Roma – e, negli stessi giorni, dello sbarco in Normandia – a favorire
non solo la crescita numerica delle bande ma anche i rapporti con diversi gruppi del
maquis francese nelle Alpi marittime. Ada Gobetti ricorda quando Livio Bianco, alla
testa delle formazioni GL del Cuneese, «aveva fatto importanti accordi con Juvénal,
capo dei maquis francesi della zona», e lei stessa con il figlio Paolo e il giovanissimo Paolo Spriano
(“Pillo”) vi avrebbe svolto una missione nel dicembre 1944, in cui vennero accolti
con «cordiale ospitalità. Erano maquisards delle Ffi, avevano quasi tutti il bouc, e cioè un’incolta barbetta da caproni: eran semplici, solidi, cari e sinceri come
i nostri montanari dall’altra parte del Passo. Ci diedero biscotti e cioccolata, e
pane, e sardine, e salmone, e soprattutto caffè, caffè vero, di cui buttai giù di
colpo due quarts che mi rimisero veramente l’anima in corpo»20.
20 Ada Gobetti, Diario partigiano, Einaudi, Torino 1956 (Kindle edition, posiz. 5553 e 4451).
Più difficile era stata la creazione delle bande in Lombardia, molte delle quali non
erano sopravvissute ai primi feroci rastrellamenti, e solo nella primavera del 1944
era stata possibile – grazie ai disertori del bando Graziani del 18 febbraio – la
ripresa dell’attività partigiana in Val Camonica e Valsassina, in Valtellina e nell’Oltrepò
pavese. Il Comando generale delle Brigate Garibaldi, a inizio giugno, così scriveva
alla delegazione lombarda dopo aver rimarcato che vi esisteva una sola brigata – a
fronte delle nove in Piemonte, sei in Emilia, quattro nel Veneto e altrettante nelle
Marche – e per giunta «inesistente»:
Ogni vallata, ogni montagna, ogni citta e villaggio deve avere il suo gruppo armato
di patrioti che disturbi con attacchi continui il nemico [...]. In ognuna delle vostre
vallate: Brescia, Sondrio, Pavia, dove avete già distaccamenti organizzati, nel Bergamasco,
nel Varesotto dove ci sono certamente dei distaccamenti partigiani di cui voi non
sapete nemmeno l’esistenza, in ognuna di queste valli dovete organizzare una brigata
Garibaldi21.
21 Gabriella Nisticò (a cura di), Le Brigate Garibaldi nella Resistenza. Documenti, Feltrinelli, Milano 1979, vol. II, pp. 28 e 30.
Tra maggio e settembre operano le nuove brigate garibaldine, quelle già esistenti
di GL, le Fiamme Verdi, le Brigate Matteotti, anche se la repressione fascista e tedesca
si intensifica e colpisce duramente soprattutto le città. A Lodi viene arrestato l’intero
CLN, a Milano il 25 maggio il generale Giuseppe Robolotti, responsabile del comando
militare del CLNAI, che viene fucilato a Fossoli il 12 luglio 1944.
In Emilia, la caratteristica della Resistenza è rappresentata dalla scelta di operare
soprattutto in pianura: una decisione presa fin dall’inizio nella provincia romagnola
di Ravenna e solo nella primavera del 1944 nelle zone di Reggio, Modena e Bologna,
dopo le difficoltà incontrate sull’Appennino dai volontari modenesi e bolognesi a
causa dei rastrellamenti fascisti.
Combattere in pianura, pur consapevoli della complessità della scelta e della pericolosità
di un’organizzazione che avrebbe dovuto coinvolgere la quasi totalità della popolazione,
era una decisione che veniva direttamente dalla volontà del mondo contadino che, secondo
le vecchie tradizioni, operava le proprie scelte, politiche e di schieramento, come
gruppo familiare e come tale agiva22.
22 Luciano Casali, Emilia Romagna, in Collotti, Sandri e Sessi (a cura di), Dizionario della Resistenza, cit., vol. II, p. 476.
Il leggendario “Bisagno” (Aldo Gastaldi), comandante della Divisione “Cichero”.
Si calcola che all’incirca la metà dei partigiani combattenti abbia partecipato alla
Resistenza nelle Brigate Garibaldi, senza dubbio le più numerose, articolate e organizzate
sia centralmente sia localmente.
Contrariamente a una diffusa convinzione, solo una minoranza dei garibaldini aderiva
a posizioni comuniste, che trovavano invece ampia rispondenza tra i commissari politici,
selezionati dai comandi regionali delle Brigate Garibaldi. Vi sono numerosi comandanti
di brigata privi di affiliazione partitica e persino alcuni di orientamento anticomunista.
Tra di essi spicca in Liguria – per combattività e levatura morale – il comandante
della Divisione “Cichero”, Aldo Gastaldi (“Bisagno”), un cattolico di sentimenti fieramente
patriottici, con un forte ascendente sui suoi uomini. Il suo carisma impedisce ai
comandi garibaldini di destituirlo, nonostante egli sia considerato inaffidabile sul
piano ideologico. “Bisagno” propugna una «democrazia dal basso» che subordina la
permanenza dei dirigenti al consenso della maggioranza dei componenti della brigata.
Ufficializza in una circolare (definita «una boiata» dai comunisti) il divieto di
far proselitismo di partito, in quanto ciò seminerebbe divisioni intestine. Il clima
teso lo induce a tenere vicino a sé, nel sonno, armi di autodifesa nel timore di spedizioni
omicide guidate da spirito settario. Il 10 aprile 1945 riassume il proprio credo nella
lettera a un amico e collaboratore di orientamento comunista:
Dobbiamo badare alla Patria e non ad altre cose. Sono venuto a combattere il metodo
fascista e mentre per conto mio non sono d’accordo di condannare un fascista solo
perché è stato fascista, condanno il metodo fascista e lo condanno in chiunque, sia
questo bianco, nero, rosso, verde o color cenere. [...]. È necessario capire che per
me, partigiano, e per i partigiani in generale, c’è prima la patria e poi il partito;
se per i comunisti la cosa è diversa, essi debbono per ora fare la volontà dei partigiani
e non la volontà di pochi elementi: altrimenti, a che serve parlare di democrazia?
[...] Continuerò a gridare ogni qualvolta si vogliano fare ingiustizie e griderò contro
chiunque, anche se il mio grido dovesse causarmi disgrazie o altro. Non debbo formarmi
quassù la posizione per domani e nulla attendo dal domani a sfruttamento del mio lavoro
di oggi. Quanto ho dato lo dò alla Patria, alla quale nulla si chiede23.
23 Lettera a Michele Campanella (“Gino”), trascritta in Sandro Antonini, Io, Bisagno… Il partigiano Aldo Gastaldi, Internòs, Chiavari 2017, pp. 185-187.
Sfuggito innumerevoli volte alle insidie belliche, “Bisagno” incontrerà la morte in
modo imprevisto e beffardo, tre settimane dopo la cessazione dei combattimenti24.
24 L’improvvisa e imprevedibile fine sopraggiunge il 21 maggio 1945 per incidente stradale,
nel ritorno dal Garda alla Liguria, al termine di una missione rivelatrice della generosità
di “Bisagno”, che mantiene la promessa di accompagnare verso casa un folto gruppo
di ex componenti della Divisione “Monterosa”, disertori nella fase finale dei combattimenti:
senza la sua scorta, correrebbero pericoli mortali in un itinerario costellato da
posti di blocco. Al decesso – dovuto a una brusca frenata che lo scaglia a terra dal
tetto del camion, sul quale imprudentemente si era sistemato con un compagno – seguono
il 23 maggio a Genova memorabili funerali, con i tratti dell’apoteosi. L’incidente
fatale suscita una scia di sospetti e dicerie sull’eliminazione di un elemento scomodo:
teoremi inattendibili (ancorché recentemente rilanciati senza alcun elemento concreto
da un noto giornalista), come dimostra la citata biografia di Antonini.
La scelta del Partito comunista di combattere ogni attendismo e di promuovere immediatamente
la lotta contro i nazifascisti porta nelle formazioni garibaldine volontari di ogni
colore politico, non solamente comunisti, anche perché agli inizi la coscienza politica
dei giovani che entrano nelle bande molto raramente è già formata. Saranno spesso
proprio i commissari politici – un’invenzione mutuata dai comunisti dall’esperienza
delle Brigate internazionali spagnole – a promuovere come compito altrettanto importante
dell’addestramento militare quello di una formazione politica e civica per giovani
cresciuti nella sola retorica scolastica del fascismo. E la loro presenza permetterà,
inoltre, di utilizzare al comando militare ufficiali con esperienza sufficiente.
Nel giugno 1944, quando l’ipotesi di un’accelerazione del processo di liberazione
sembra realistica, il PCI milanese decide di organizzare nel Nord Italia i triumvirati
insurrezionali, responsabili del collegamento tra bande partigiane e il lavoro di
massa del partito, sottoposti alla direzione comunista ma autonomi nella decisione
operativa a carattere urgente. Grazie al partito vi è un rapporto stretto tra le formazioni
che operano in montagna, in collina o nelle città, e le azioni di mobilitazione nelle
fabbriche e nelle campagne, nelle università e nelle scuole, dove avviene un continuo
reclutamento di chi dovrà andare a combattere come volontario per sfuggire all’arresto
o per convinzione.
Emanuele Artom, commissario politico di GL, catturato il 25 marzo 1944 e morto il
7 aprile a Torino dopo lunghe torture.
Anche le brigate di Giustizia e Libertà, organizzate dal Partito d’Azione, nascono
precocemente, seppure la loro diffusione sia meno omogenea, e si distinguono quelle
operanti in Piemonte, dove costituiscono il loro nucleo più consistente, in Veneto
e in Friuli. La perdita di figure rappresentative quali Duccio Galimberti (catturato
e assassinato il 4 dicembre 1944) ed Emanuele Artom (morto nelle carceri di Torino
il 7 aprile 1944 dopo terribili sevizie) non impedirà alle brigate GL, al comando
di Dante Livio Bianco, di partecipare da protagoniste agli ultimi mesi di lotta e
all’insurrezione.
Un altro caposaldo azionista è la Toscana – dove la 1a Divisione GL comandata da Athos
Albertoni combatte con la garibaldina Arno – e soprattutto Firenze, dove alcuni uomini
particolarmente rappresentativi del Pd’A sono presenti nel comando militare del CTLN
(Tristano Codignola, Enzo Enriques Agnoletti, Carlo Ludovico Ragghianti). A Padova,
nel Bellunese e sul Monte Grappa operano brigate combattive anche se non troppo numerose,
mentre in Emilia i dirigenti militari azionisti verranno in gran parte arrestati e
molti di loro fucilati.
Un leggendario comandante è il trentaduenne vicentino Antonio (“Toni”) Giuriolo, organizzatore
della Resistenza giellista dapprima nel Veneto e poi sugli Appennini bolognesi, dove
riorganizza una Brigata Matteotti e il 12 dicembre 1944 cade in combattimento: il
suo corpo sarà ritrovato dopo la Liberazione. Laureato in lettere a Padova, è allievo
del filosofo umbro Aldo Capitini e lui stesso insegnante senza cattedra (in quanto
rifiuta di prestare il prescritto giuramento di fedeltà) per una generazione di giovani
delusi dal regime ma incerti sulla strada da prendere25. Tra di essi vi è Luigi Meneghello, che gli renderà omaggio nei suoi romanzi anti-retorici
e anti-eroici sulla Resistenza, da I piccoli maestri (1964) a Fiori italiani (1976):
25 Cfr. Renato Camurri (a cura di), Pensare la libertà. I quaderni di Antonio Giuriolo, Marsilio, Venezia 2016. Si veda inoltre la biografia di Antonio Trentin, Toni Giuriolo. Un maestro di libertà, Cierre, Sommacampagna 2012.
L’incontro con lui ci è sempre parso la cosa più importante che ci sia capitata nella
vita: fu la svolta decisiva della nostra storia personale, e inoltre (con un drammatico
effetto di rovesciamento) la conclusione della nostra educazione... L’impronta che
ha lasciato in noi è dello stesso stampo di quella che lasciano le esperienze che
condizionano per sempre il nostro modo di pensare, di vivere e, se scriviamo, di scrivere26.
26 Luigi Meneghello, I fiori italiani, Rizzoli, Milano 2006 (ed. or. 1976), p. 165.
Nel 1942 contribuisce all’elaborazione del programma politico del Partito d’Azione
e nell’agosto 1943 partecipa a Venezia alla costituzione dell’organizzazione regionale
del partito. Dall’autunno il capitano “Toni” coordina il partigianato bellunese, per
spostarsi nella primavera 1944 sull’altipiano di Asiago, dove rimane ferito in un
rastrellamento che disperde il suo gruppo. Trasferitosi in Emilia, si coordina con
gli alleati per attaccare le postazioni germaniche sugli Appennini. In questa fase
dimostra una straordinaria sensibilità nel mediare con bande marginali e irregolari,
che cerca ripetutamente di ricondurre a una lotta comune, evitando i metodi spicci
utilizzati solitamente per stroncare gli elementi indisciplinati che confondono guerra
civile e tornaconto utilitaristico.
Antonio (“Toni”) Giuriolo, comandante partigiano e maestro di libertà.
Le Brigate Matteotti, le formazioni partigiane ispirate dal PSIUP, nascono nella primavera
del 1944 (anche se già nel dicembre 1943 una di esse opera nella zona del Monte Grappa),
dopo la riorganizzazione del partito al Nord, l’arrivo di Pertini a Milano, la costituzione
di un comitato che metterà Corrado Bonfantini alla guida delle bande militari, attive
soprattutto in Piemonte, nell’Oltrepò pavese e in alcune zone dell’Appennino. Esse
costituiscono una forza di gran lunga inferiore a quella degli altri partiti della
sinistra, benché il ruolo politico dei socialisti all’interno del CLNAI – anche per
le posizioni particolarmente polemiche e radicali spesso sostenute – rimanga di fondamentale
importanza.
Tra i partigiani cattolici un ruolo essenziale lo rivestono le Fiamme Verdi, che operano
nella provincia di Brescia e che nascono su iniziativa di ufficiali degli alpini (comandante
è il generale Luigi Masini), ampliando la loro forza numerica e trovando nel giornale
clandestino «il Ribelle» uno strumento di diffusione e influenza per una propaganda
volta a rafforzare il rifiuto di collaborare con il nemico e a prepararsi alle nuove
“dieci giornate” che, come quelle del 1848, permetteranno la liberazione dall’oppressore.
Nell’estate-autunno del 1944 le Fiamme Verdi sono presenti nell’Appennino reggiano,
partecipano alla creazione della zona libera di Montefiorino, si diffondono in altre
zone della Lombardia, mentre altre brigate cattoliche sorgono con vari nomi in diverse
località.
Di prevalente orientamento cattolico è anche la Divisione “Osoppo” in Friuli, che
nasce sotto la spinta di azionisti e democristiani che rifiutano l’egemonia comunista
nelle Garibaldi e si insedia nella Carnia e nelle Prealpi Carniche e Giulie. Qui,
più ancora di quanto succeda in Lombardia tra le Fiamme Verdi e le Garibaldi, i rapporti
tra le diverse brigate partigiane è difficile e spesso contrastato. I vari tentativi
di creare un comando unificato – che vedrà la luce solo nei giorni della zona libera
– non riescono a superare le differenze che riemergono con forza dopo l’offensiva
tedesca e la fine violenta della repubblica in Carnia e nell’Alto Friuli. Il rapporto
con i partigiani sloveni diventa un momento cruciale e divisivo nelle relazioni tra
la “Osoppo” e la Garibaldi “Natisone”, che precipiterà a Porzûs in uno degli episodi
più violenti di conflittualità intrapartigiana27.
Edgardo Sogno, organizzatore e dirigente dell’Organizzazione Franchi.
Tra le tante formazioni “autonome” che combattono contro i tedeschi, e che hanno spesso
storie e caratteri estremamente diversificati, ve ne sono alcune che meritano di essere
ricordate. A parte le vicende già raccontate della Brigata Maiella, ciò che segna
la presenza degli autonomi è la loro separatezza – politica e organizzativo-militare,
anche se non mancano momenti di coordinamento – con le forze presenti nel CLN e le
formazioni partigiane che ne sono l’emanazione. Il carattere apolitico è accentuato
– diversamente da quello non ideologico e unitario dei maiellini, non a caso espressamente
repubblicani –, anche se in molti di loro prevalgono una simpatia monarchica e la
volontà di essere parte delle nuove forze armate o di conformarsi comunque alle regole
della disciplina e della gerarchia militare. In queste divisioni, dove non è presente
il commissario politico e l’unità del comando politico-militare è nelle mani degli
ufficiali, i rapporti con l’esercito del generale Messe e con gli Alleati sono particolarmente
intensi, come dimostra l’esperienza della formazione autonoma “Mauri”, così conosciuta
dal nome di battaglia del maggiore Enrico Martini, il fondatore del 1° Gruppo Divisioni
Alpine che opera in Piemonte28.
28 Cfr. Luciano Boccalatte, Il primo gruppo di divisioni alpine in Piemonte, in Formazioni autonome nella Resistenza. Documenti, a cura di Gianni Perona, Franco Angeli, Milano 1996, pp. 317-426.
Altrettanto famosa e importante per i suoi successi militari è l’Organizzazione Franchi,
dal nome di battaglia di Edgardo Sogno, che la dirige in stretto rapporto con gli
Alleati e con i comandi militari del governo Badoglio, anche se i suoi rapporti con
il CLN saranno continui, benché spesso caratterizzati da contrasti, come dimostrerà
la sua presenza al fianco di Pizzoni, Parri e Pajetta all’incontro di Cosenza con
gli Alleati nel dicembre 194429.
29 Edgardo Sogno, La Franchi. Storia di un’organizzazione partigiana, il Mulino, Bologna 1996.
Emanuele Artom Dal diario di un partigiano ebreo
1° dicembre 1943 – Continuo a rendere poco e a fare poco. Ho veramente l’impressione di essere sabotato
per il problema politico. Così in Italia questa è la situazione: i cinque partiti
combattono contro i tedeschi e i fascisti, ma ora si dividono in due gruppi: quello
attivo: Partito d’Azione e Comunisti; e quello meno attivo, degli altri tre. Partito
d’Azione e Com. poi riprendono a urtarsi fra loro.
Curiosa è la situazione creatasi alla base di comando. È arrivato un certo calzolaio
Carnera, che ha combattuto nella Legione Garibaldina in Ispagna, uomo valorosissimo,
comunista, che è stato promosso ufficiale sul campo. Ecco che la maggior parte dei
soldati si ribella a questo proletario che li tratta cortesemente, e vuole essere
comandata da borghesi come Longoni o Romano. Così la rivoluzione comunista è condannata
dagli stessi soldati.
Se il Partito d’Azione saprà avere degli uomini, come ha un programma, sua sarà la
vittoria domani.
Vengo dalla signora Segre: mi dice che il giornale radio dell’una aveva annunziato
i provvedimenti antisemiti: tutti gli Ebrei in campo di concentramento, i beni confiscati
a favore dei sinistrati. Che cosa ne sarà della mia famiglia? Forse non vedrò più
né mio padre né mia madre. In questo caso chiederò al comandante di essere mandato
in una missione tale da essere ucciso.
2 dicembre – Ieri sera Gina mi diceva: «Eppure un ragazzo come te dovrebbe diventare comunista;
sei troppo intelligente per non esserlo e hai dato troppa prova di idealismo venendo
a combattere senza necessità», e intanto io pensavo al nuovo editto, alla mia famiglia,
agli altri Ebrei. [...]
I carabinieri pare minaccino l’arresto dei genitori delle reclute non presentatesi.
Il provvedimento, oltre che illegale e tale da esasperare la popolazione, è anche
inattuabile, perché gli arrestati non ci starebbero nelle prigioni, dato che mi risulta
che nella provincia di Torino si sono presentati 2000 giovani, in quella di Cuneo
30, in tutta la valle del Pellice 6; invece i genitori degli ebrei fuggiti potrebbero
essere soggetti a rappresaglie. [...]
Di ritorno incontrai due cammion pieni di partigiani che tornavano dalla più brillante
impresa compiuta fino ad ora: assalto ad un campo di aviazione, distruzione di 40
apparecchi, grosso bottino di guerra; tutto senza sparare un colpo, disarmando una
sola guardia.
Emanuele Artom, Diario di un partigiano ebreo, a cura di Guri Schwartz, Bollati Boringhieri, Torino 2008
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