Capitolo 3.
Uomini, donne, comunicazioni
3.1. La baby boom generation: mito e realtà
Il quinquennio 1968-1973 che abbiamo assunto come punto di svolta nella seconda parte
del Novecento iniziò con un ciclo di mobilitazioni studentesche che, per la prima
volta nella storia, assunse un’estensione globale, capace di attraversare simultaneamente
sia il «Primo Mondo» legato alla sfera di influenza statunitense, sia il secondo costituito
dal blocco sovietico, sia il terzo dei paesi in via di sviluppo. Il parallelo spesso
tracciato con le agitazioni del 1848, che ebbero solo in parte una dimensione europea
(la Gran Bretagna ne rimase esclusa) sottolinea ulteriormente questa inedita dimensione
planetaria. Come è stato possibile che ai più remoti angoli del globo gli stessi soggetti
sociali – studenti delle medie superiori e delle università appartenenti a famiglie
del ceto medio-alto della borghesia urbana – si mettessero in movimento nelle stesse
settimane utilizzando gli stessi metodi di lotta (assemblee, sit-in, cortei)?
Figura 3.1. Episodi di rivolte studentesche, ottobre 1967-giugno 1968.
Fonte: J. Jousellin, Les rèvoltes des jeunes, Éditions ouvrières, Paris 1968, pp. 13-15.
Una prima possibile risposta è: i media**. La generazione del Sessantotto – ha scritto
uno dei suoi protagonisti, Daniel Cohn-Bendit – fu «la prima a vivere, attraverso
un flusso di immagini e suoni, la presenza fisica e quotidiana della totalità del
mondo». Alla metà degli anni Sessanta, con il lancio del satellite Telstar, si realizzò
la possibilità tecnica della mondovisione: almeno in teoria tutta la popolazione mondiale
era collegata dalla tv. Le immagini dei cortei studenteschi, rimbalzando in ogni angolo
della Terra, potevano scatenare effetti emulativi, ma non era detto che lo facessero:
la comunicazione è una condizione necessaria ma non sufficiente per la trasformazione
sociale. Anzi, i movimenti del Sessantotto – e prima di loro la scuola filosofica
di Francoforte, anzitutto attraverso Herbert Marcuse – accusarono i media di essere
al servizio del potere e di generare un effetto opposto di conformismo e appiattimento
del dissenso. Non era vero neppure questo e proprio il Sessantotto lo dimostra.
Nel 1968 i media contribuirono alla diffusione del contagio e incentivarono la spettacolarità
delle forme di protesta, ma non furono loro a provocare le rivolte, che nacquero sempre
per motivi locali quasi sempre circoscritti all’ambito universitario: il riscaldamento
che mancava nei dormitori a Praga; la richiesta di aprirli alle studentesse a New
York o a Parigi; la presenza dell’esercito alla Universidad Nacional Autónoma de México;
la protesta contro l’imposizione di una lingua percepita come straniera a Dacca nel
Pakistan orientale (che poi diventerà il Bangladesh) e a Chennai nell’India meridionale
di lingua Tamil; il divieto di portare il velo a lezione per le studentesse di Ankara;
una sfilata di moda dal sapore neocolonialista organizzata all’University College
di Addis Abeba; l’inasprimento degli esami di ammissione al Cairo. Era poi lo scontro con la polizia a politicizzare la protesta.
Figura 3.2. Tassi di fecondità totale (nati vivi per mille donne) negli Stati Uniti, in Canada
e in Australia, medie quinquennali 1901-1995.
Fonti: J. Chesnais, The Demographic Transition: Stages, Patterns, and Economic Implications, Clarendon, Oxford 1992; United Nations, Department of Economic and Social Affairs,
Population Division, World Population Prospects: The 2015 Revision, https://esa.un.org/unpd/wpp/Download/Standard/Population.
Una seconda possibile risposta per spiegare il contagio globale, molto diffusa tra
gli studiosi, è: la baby boom generation, termine che comparve per la prima volta sulla stampa statunitense nel 1951 e da
allora ha conosciuto una considerevole e ininterrotta fortuna. Alla fine degli anni
Sessanta arrivò alla maggiore età una generazione di giovani concepiti alla fine della
guerra, quando il tasso di natalità si era impennato per due motivi: i soldati che
tornavano a casa e la prospettiva di un tempo di pace. Questa massa critica di teenager
si scontrò con una società più anziana e tradizionalista. «Alla metà degli anni Sessanta
– ha scritto Tony Judt –, le ripercussioni sociali dell’esplosione demografica postbellica
iniziarono ad essere avvertite praticamente ovunque».
Sono molti gli storici che la pensano come lui e a prima vista la loro sembra una risposta più che soddisfacente. A differenza della
prima, la seconda è stata infatti una guerra veramente mondiale e quindi il baby boom postbellico dovrebbe esserci stato dappertutto. Ad accomunare studenti cinesi, europei
o africani sarebbe stato il semplice fatto di essere di più. Ma non è così. Se si
guardano le statistiche relative al numero medio di figli per donna, confrontando
le Figure 3.2 e 3.3 si vede che la risposta di Judt è valida soltanto per i paesi
di popolamento europeo lontani dal Vecchio Continente (Stati Uniti, Canada, Australia):
solo lì si verificò quel vero baby boom prolungato tra il 1945 e il 1964, che è oggetto di numerose ricerche.
Figura 3.3. Tassi di fecondità totale (nati vivi per mille donne) in altri paesi occidentali,
medie quinquennali 1901-1995.
Fonti: cfr. Figura 3.2.
In un saggio ancora ritenuto classico, Richard Easterlin indicò nel baby bust (contrazione delle nascite) dovuto alla Grande Depressione degli anni Trenta la causa
fondamentale del baby boom sopraggiunto negli Stati Uniti dopo il 1945. Il prolungato picco di fecondità degli
anni Cinquanta era il frutto di una reazione alle incertezze del tempo di guerra,
ma anche alla disoccupazione e alle difficoltà della crisi economica prebellica. Era
dovuto a una nuova generazione che nutriva aspettative e speranze assai maggiori di
quelle dei propri genitori. Ricerche successive hanno poi articolato questo quadro di aspettative crescenti
verso ulteriori dimensioni della vita quotidiana: il miglioramento dell’assistenza
al parto e alla prima infanzia; la presenza di alternative soddisfacenti all’allattamento
materno (latte pediatrico in bottiglia e in polvere); la diffusione di elettrodomestici
in vari casi funzionali a liberare tempo alle donne e il loro conseguente maggiore
impiego in occupazioni part-time del settore terziario, già sperimentato nel periodo
bellico in sostituzione degli uomini sotto le armi: segretarie, dattilografe, telefoniste.
Ma sono appunto spiegazioni che valgono per i contesti sociali più evoluti (Usa, Australia,
Canada), dove le lavatrici e tutto il resto avevano già una larga diffusione. In Europa
ci fu un picco delle nascite alla fine del conflitto (soprattutto in Francia, dove
interruppe una peculiare piattezza demografica di lungo periodo), che però venne seguito
quasi subito da un calo e da un ritorno a livelli molto simili a quelli prebellici:
speranza e fiducia erano minori per chi la guerra l’aveva vissuta in casa. Nell’Asia
e nell’Africa, che pure erano state attraversate dal conflitto, le nascite proseguirono
praticamente indisturbate ai loro ritmi naturali e lo stesso accadde nell’America
Latina. Esiste invece un altro processo trasversale che può davvero collocarsi alla
base del Sessantotto: l’aumento degli studenti universitari. Nella Figura 3.4 sono
presenti solo alcuni paesi campione, ma le tendenze nel resto dei diversi continenti
sono simili, se non più accentuate.
Nei paesi in via di decolonizzazione l’università fu lo sbocco naturale per i figli
delle élites indipendentiste: molti dei loro padri avevano studiato all’estero, ma
per i propri figli e per la propria nazione appena nata scelsero la via di un’istruzione
superiore compiutamente nazionale. Tra il 1961 e il 1972 all’Università di al-Azhar
al Cairo il numero degli studenti quintuplicò, ma quelli iscritti ai corsi non teologici
aumentarono da 334 a 14.631. Le università delle ex colonie rimanevano elitarie: gli iscritti a quella della
capitale del Ghana, Accra, venivano per più di due terzi dalle città, mentre quattro
quinti della popolazione vivevano nelle campagne, e il reddito dei loro padri era
il quadruplo di quello medio del paese. Questa frattura tra città e campagna era un handicap suscettibile di segnare in
negativo il futuro, ma si formò comunque una nuova classe dirigente, con radici, aspirazioni
e rapporti con l’Occidente molto diversi da quelli dei padri. Situazioni non dissimili
si verificarono nell’America Latina, dove ad affollare le università erano i figli
delle borghesie urbane e dei ceti possidenti rurali, incoraggiati da governi di orientamento
populista e tecnocratico. L’impulso all’istruzione superiore, su cui si concentrava
la spesa statale di tutti i paesi latinoamericani, era infatti un retaggio dell’epoca
coloniale, ma dopo l’indipendenza servì a riprodurre il privilegio delle élites dirigenti
assieme a un livello di ineguaglianza sociale senza pari nel mondo.
Figura 3.4. Studenti iscritti all’università o al livello di istruzione terziaria, numeri indice
(1970=100).
Fonte: B.R. Mitchell, International Historical Statistics, vari volumi, Palgrave MacMillan, New York 2003-2007.
In Giappone, in Europa e in America del Nord, invece, l’università divenne tendenzialmente
di massa, aprendosi per la prima volta anche ai figli della piccola borghesia, dei
ceti medi e – sporadicamente – delle classi lavoratrici. Durante gli anni Sessanta
nelle università del Sud degli Stati Uniti il numero degli studenti neri salì da 3.000
a 98.000. Contrariamente a quanto era avvenuto nel corso dell’Ottocento, l’istruzione superiore
non corrispondeva più soltanto a uno strumento di nation building manovrato dallo Stato per omogeneizzare le proprie basi sociali di consenso e formare
i nuovi mestieri richiesti dal processo di industrializzazione, ma era anche uno strumento
di ascesa sociale utilizzato dal basso per aprire nuove prospettive occupazionali. Nel 1960 gli universitari francesi provenienti da famiglie contadine erano solo
il 7%, quelli di famiglie operaie appena il 2, mentre operai e contadini rappresentavano
insieme il 40% della popolazione attiva. In Italia fino al 1967 solo il 2% dei figli
di lavoratori dipendenti arrivava all’università, contro il 40% di quelli di professionisti
e il 35 di quelli di impiegati. Da allora in Occidente le università si sono progressivamente aperte verso il basso
della scala sociale, ma solo il Giappone poteva vantare nel 2016 una corrispondenza
piena tra società e studenti universitari: in tutti gli altri paesi i figli dei ceti
sociali meno agiati erano ancora drasticamente sottorappresentati ai livelli superiori
dell’istruzione.
3.2. Cambiano le famiglie
In ogni caso la fiducia nella scolarizzazione superiore come leva del reddito rappresentò
il dato globale di un investimento intergenerazionale che prese piede negli anni Sessanta.
I sistemi politici nazionali non tardarono a trarre le conseguenze dell’ondata di
iscrizioni all’università e furono molti i paesi ricchi che nella prima metà degli
anni Settanta abbassarono l’accesso al voto a 18 anni: Gran Bretagna, Stati Uniti,
Canada, Australia, Francia, Germania Ovest, Italia, Olanda, Finlandia, Svezia. Fu
in questo clima che Gary Becker, allievo di Milton Friedman, professore di economia
alla Columbia University e futuro premio Nobel nel 1992, elaborò la singolare categoria
(quasi un ossimoro) di «capitale umano»: prima ancora che un aspetto delle relazioni
industriali, indicava una nuova leva di teenager che erano oggetto di una scelta razionale
delle famiglie per avere meno figli, ma più curati. In Occidente la scelta per l’università accompagnò la fine della transizione demografica.
Negli Stati Uniti questo «cambiamento dell’enfasi ideologica nel matrimonio americano
dalla coppia ai bambini» ebbe un nume tutelare, destinato a divenire famoso in ogni parte del mondo: il pediatra
Benjamin Spock. Subito dopo la fine della guerra egli scrisse un manuale per genitori
che riscosse un successo immediato e travolgente: venne tradotto in 39 lingue, vendette
50 milioni di copie e soltanto la Bibbia gli stava sopra nelle classifiche dei best
seller di allora. Il messaggio era semplice: i bambini hanno dei diritti e vanno ascoltati, assecondati,
aiutati a scoprire e capire le loro libere inclinazioni. L’obbedienza non è sempre
e comunque una virtù. Così ricorda Betty Friedan, una delle fondatrici del movimento
femminista statunitense:
Nel 1949 ero concentrata ad allattare e portare al parco in carrozzina Danny, il mio
primo figlio, mentre leggevo il Dr. Spock. Stavo cominciando a chiedermi se davvero
volevo tornare a lavorare quando il mio permesso di maternità fosse finito [...].
Avere bambini e prendersi cura di loro seguendo gli insegnamenti del Dr. Spock cominciava
a strutturare le nostre vite. Prendeva il posto della politica.
Del resto questi figli furono anche i primi della storia a vivere la minaccia globale
della bomba atomica. Così la percezione di rappresentare un «capitale» prezioso accomunò le giovani generazioni
di ogni parte del mondo, senza limitarsi alle regioni più sviluppate. In grandi paesi
asiatici come l’India e il Pakistan l’università divenne rapidamente una vetrina del
successo del nuovo Stato postcoloniale. In quelli più piccoli e più vicini all’Occidente,
destinati a diventare Nics, la scolarizzazione di massa fu – insieme alla riforma
agraria – una delle condizioni alle quali gli Stati Uniti vincolarono i loro ingenti
aiuti economici in funzione anticomunista. Tra il 1948 e il 1960 le spese statali
coreane per l’istruzione salirono dall’8 al 15% della spesa pubblica e nonostante
l’autoritarismo del regime politico si rivelarono un fattore determinante per l’uguaglianza,
la coesione sociale interna e la formazione di strati operai e manageriali capaci
di governare la successiva apertura alla globalizzazione commerciale.
Alle più diverse latitudini, insomma, la generazione del Sessantotto arrivò all’università
sotto la spinta di crescenti aspettative, ma si scontrò bruscamente con strutture
inadeguate ad accoglierla. In Brasile, Polonia e Ungheria più di metà dei potenziali
iscritti non aveva un posto fisico per partecipare alle lezioni, in India solo un
quinto degli universitari poteva dormire in una foresteria. Il luogo che rappresentava al tempo stesso il simbolo e lo strumento di un futuro
immaginato come migliore di quello dei loro genitori si rivelava insufficiente e arcaico:
una specie di collo di bottiglia destinato a surriscaldarsi per effetto della frizione
esercitata da un’inedita e straripante massa critica di utenti.
Quasi in tempo reale il sociologo francese Raymond Boudon chiamò déplacement (dislocamento, ma forse con un po’ di forzatura potremmo tradurre spaesamento) la
reazione degli studenti alla frantumazione dei propri sogni. Finalmente arrivavano
a quell’istruzione superiore a cui i loro genitori non avevano potuto accedere, ma
la realtà si rivelava assai peggiore di quella che i loro stessi genitori li avevano
incoraggiati ad aspettarsi. Fu questo il minimo comun denominatore di tutte le «scintille» riportate nella Figura
3.1: il collo di bottiglia materiale di una università insufficiente dal punto di
vista quantitativo non tardò a innescare una rivolta qualitativa contro insegnanti
distaccati, retrogradi e autoritari, ben lontani dall’amorosa sollecitudine colma
di aspettative con cui quegli studenti erano stati «viziati» in famiglia. Nell’Europa
di oltrecortina un antecedente aggiuntivo fu rappresentato dalla rigida normalizzazione
ideologica dell’istruzione superiore che precedette il 1956.
Le famiglie che investirono sui figli vissero anche un altro passaggio epocale. Non
si può infatti scordare che il Sessantotto si colloca in mezzo all’unica finestra
temporale della storia umana libera da malattie trasmesse per via sessuale: negli
anni Cinquanta gli antibiotici avevano sconfitto la sifilide (almeno nei paesi ricchi)
e l’Aids comparve solo all’inizio degli anni Ottanta. Dal 1960, inoltre, negli Usa
si legalizzò la pillola anticoncezionale: alla fine del decennio la usava un quarto
delle donne sotto i 40 anni negli Stati Uniti, un quinto delle coppie sposate inglesi
(e il 10% delle donne non sposate), l’8% delle italiane sotto i 40 anni. Si aprì allora una fase di globalizzazione dei comportamenti riproduttivi che è
proseguita fino ad oggi. Dal 1960 al 2010 l’uso di anticoncezionali è salito in tutto
il mondo dal 10 al 53% delle donne in età fertile, sia pure con pronunciate differenze:
dal 27% dell’Africa subsahariana al 63 dell’Asia orientale. Non si è trattato solo di una spontanea diffusione culturale. Sempre più spesso
sono intervenuti gli Stati nazionali: nel 1955 i paesi con politiche attive di pianificazione
familiare e di controllo delle nascite erano 2 ma salirono a 113 nel 1988, con alcuni
casi-limite come quello cinese, dove tra il 1979 e il 2013 è stato vietato (seppure
con deroghe a chi poteva pagarle) di avere più di un figlio.
La rivoluzione sessuale degli anni Sessanta – ha scritto Tony Judt – fu quasi certamente
soltanto un miraggio per la stragrande maggioranza delle persone, giovani o vecchie
che fossero. Per quanto si può giudicare, interessi e pratiche sessuali in genere
non cambiarono così rapidamente e radicalmente come allora si aveva l’abitudine di
sostenere.
L’impatto del 1968 – ha affermato invece Immanuel Wallerstein – fu di portare alla
ribalta quella che era stata una lenta trasformazione dei costumi sessuali nel corso
del mezzo secolo precedente e permetterle di esplodere sulla scena sociale del mondo,
con enormi ripercussioni per il diritto, le pratiche di vita, le religioni e il dibattito
culturale.
Judt e Wallerstein sostengono posizioni diametralmente opposte e a prima vista sembra
difficile non dare ragione al primo. Amore libero, coppie aperte, «comuni» sono tra
gli aspetti del Sessantotto a cui oggi si guarda con poca condiscendenza e nessuna
nostalgia. Eppure un sondaggio condotto nel 1969 su un campione stratificato (cioè
selezionato in quanto rappresentativo dell’universo della popolazione femminile per
età, reddito, collocazione urbana o rurale) di 500 giovani donne italiane e delle
loro madri ci restituisce un quadro diverso. Solo un terzo delle madri considerava
un’attività sessuale soddisfacente come fondamento di un buon matrimonio, contro il
90% delle figlie; due terzi delle madri ritenevano il sesso lecito solo da sposate,
contro il 13% delle figlie; metà delle madri non raggiungeva mai l’orgasmo e un altro
quarto non sapeva rispondere, contro il 31% e il 12% delle figlie.
Con forza decrescente via via che ci si allontanava dall’America del Nord, ma capace
di raggiungere gradualmente tutto il mondo, si diffuse un mutamento generazionale.
I genitori «democratici» formati dal Dr. Spock furono i primi a ragionare in massa
sul matrimonio non come un destino scontato, ma come una pianta bisognosa di cure.
Nel decennio postbellico furono più di mille i libri pubblicati sull’argomento negli
Stati Uniti, seguiti a ruota dalle sit-com televisive. A loro volta i figli «viziati» da questi genitori furono incoraggiati a sperimentare
la possibilità di un uso più libero e consapevole della sessualità: convivevano senza
sposarsi, ritardavano il matrimonio, divorziavano di più e i loro comportamenti intimi
divennero oggetto di inchieste periodiche. Un tradizionale rito di passaggio maschile, come l’iniziazione sessuale nelle case
di tolleranza, declinò rapidamente. Un best seller dell’epoca, sia pure piccolo se raffrontato ai numeri del Dr. Spock,
fu La scimmia nuda dell’antropologo Desmond Morris – 10 milioni di copie in 23 lingue –, che raccontava
come l’apparato sessuale degli esseri umani fosse il più grande fra quelli di tutti
i primati e teorizzava la promiscuità sessuale come un comportamento naturale.
Figura 3.5. Tassi generici di nuzialità per mille abitanti, 1970, 1995 e 2014.
Fonte: http://www.oecd.org/els/family/database.htm, Chart SF3.1.A.
Questo mutamento generazionale ebbe un indiscutibile fulcro negli Stati Uniti, dove
tra il 1969 e il 1973 la percentuale di coloro che nei sondaggi d’opinione disapprovavano
i rapporti sessuali prematrimoniali scese dal 68 al 48%, ma al tempo stesso possedeva una specifica forza globale di attrazione. Neppure
realtà che potremmo immaginare tra le più lontane da questi estremi svolgimenti culturali,
come le Chiese cristiane, rimasero estranee al mutamento. Nel 1958 la conferenza di
Lambeth della Chiesa anglicana riconosceva che «la responsabilità per la decisione
su numero e frequenza di figli è stata data dovunque da Dio alle coscienze dei genitori;
che questa pianificazione, nei modi che siano reciprocamente accettabili da moglie
e marito in coscienza cristiana, sia un diritto e un fattore importante nella vita
della famiglia cristiana e deve essere il risultato di una scelta positiva compiuta
di fronte a Dio».
Nella Chiesa cattolica, in parallelo al Concilio Vaticano II, papa Giovanni XXIII
istituì nel 1963 una commissione che tre anni dopo consegnò al suo successore Paolo
VI un rapporto favorevole alla libertà di scelta sui metodi contraccettivi sia naturali
come l’Ogino-Knaus, sia artificiali come la pillola, nel quadro di una vita matrimoniale
improntata al comandamento della carità e del reciproco rispetto. Paolo VI però rifiutò
quel rapporto, motivando la sua decisione con la non unanimità dei pareri (7 contrari,
tra cui il presidente del Sant’Uffizio cardinale Alfredo Ottaviani, su 72 membri della
commissione) e promulgò nel 1968 l’enciclica Humanae Vitae, che ribadiva la tradizionale contrarietà ai metodi anticoncezionali artificiali:
una scelta di vertice, che provocò l’immediata opposizione di diversi episcopati (olandese,
tedesco, canadese).
Esiste un nesso tra questa tormentata evoluzione delle Chiese cristiane e il mutamento
dei costumi della generazione dei giovani del Sessantotto? Dal punto di vista storico
è impossibile affermarlo. Anche in uno degli epicentri della mobilitazione studentesca
– gli Stati Uniti – la percentuale di coloro che nel 1968 parteciparono attivamente
alle agitazioni non superava il 4% degli appartenenti alla loro generazione. Eppure
trent’anni dopo un campione rappresentativo non solo dei «sessantottini», ma di tutta
la stessa generazione ormai diventata quasi anziana, metteva in mostra stili di vita
che denotavano gli influssi sotterranei e pervasivi di quella ristretta minoranza
e di quel particolare momento di rottura: percentuali maggiori di single e divorziati,
minor numero di figli. Questi influssi sono difficili da misurare storicamente perché permeano la vita
privata delle persone, ma quella generazione fu teatro di mutamenti nella sfera biografica
individuale, che con il senno di poi è impossibile sottovalutare.
Nel 1968 il Club delle madri della Lakeside School, dove studiava l’allora tredicenne
Bill Gates, raccolse i fondi per comprare un calcolatore, che costituì la prima palestra
di esercitazione per il futuro fondatore della Microsoft. Steve Jobs, futuro fondatore della Apple, venne adottato nel 1955: «Sia mio padre
sia mia madre mi comprendevano [...]. Trovarono il modo di fornirmi continui stimoli
e mandarmi nelle scuole migliori». Una foto del Biafra segnò nel 1968 il suo distacco dalla Chiesa e «l’intero trip
della controcultura» si intrecciò con i primi passi compiuti nel mondo dell’informatica,
in omaggio a una ideologia anti-Ibm (allora massima produttrice mondiale di grandi
calcolatori) per l’accesso di massa a computer che fossero «personal». Ciò non vuol
dire che senza il Sessantotto non ci sarebbe stato il personal computer. Significa
soltanto che il Sessantotto può essere valutato non alla luce delle intenzioni e dei
programmi dei soggetti protagonisti, ma su un piano non preordinato, molecolare e
sotterraneo di intrecci e trasformazioni oggettive delle biografie degli individui.
3.3. Le donne
Anche per quanto riguarda i diritti delle donne gli anni Sessanta e Settanta furono
un momento di svolta di grande rilievo, che peraltro non riguardò tanto quelli politici
su cui si erano incentrati i primi movimenti suffragisti tra Otto e Novecento, quanto
quelli sociali e civili. Erano stati soprattutto i due conflitti mondiali, infatti,
ad accelerare l’attribuzione dei diritti politici alle donne per vari motivi, a partire
dal riconoscimento del ruolo cruciale che avevano svolto subentrando nei posti di
lavoro lasciati scoperti dagli uomini richiamati al fronte.
Fino alla Grande Guerra i paesi in cui le donne avevano accesso al voto erano soltanto
la Nuova Zelanda, l’Australia, la Finlandia e la Norvegia, seguite tra il 1915 e il
1917 da Danimarca, Islanda e Canada. Un primo aumento vi fu dopo il conflitto soprattutto
grazie a 10 paesi dell’Europa centrosettentrionale, alla Russia dei soviet e agli
Stati Uniti. Solo in minima parte questi avanzamenti si dovettero a una sorta di globalizzazione
culturale, cioè alla diffusione oltre i confini degli Stati degli argomenti emancipazionisti
e al formarsi di un clima generale favorevole alle rivendicazioni delle donne.
In parte maggiore erano il frutto di contesti specifici riguardanti per lo più la
storia di singoli paesi: per la Nuova Zelanda e l’Australia una recente autonomia
nel quadro dell’impero britannico, costruita in base alla riscoperta del senso di
appartenenza a una comunità civile più unita e coesa possibile, anche oltre le differenze
di genere; nei paesi scandinavi la guida politica esercitata da coalizioni «rosso-verdi»
(formate cioè da partiti contadini e partiti socialisti) per garantire una forte compattezza
del tessuto sociale a fronte delle particolari difficoltà frapposte dal clima e dall’ambiente;
nell’Urss la rivoluzione socialista; per gli Usa un imprinting originario di uguaglianza
assente in gran parte dei paesi europei. La svolta decisiva si verificò comunque dal
1945 alla fine degli anni Settanta, quando le donne ottennero il diritto di voto in
ben 103 Stati.
Ma già prima di allora esse avevano avuto un ruolo importante nella genesi e nello
sviluppo dello Stato sociale in materia sanitaria, assistenziale e pensionistica.
Sulla scorta di un modello elaborato dal sociologo inglese Thomas Marshall, si è a
lungo pensato al welfare State come al frutto di un’evoluzione naturale dei diritti: prima quelli civili stabiliti
dalla Rivoluzione francese, poi quelli politici derivati dall’allargamento del diritto
di voto e infine quelli sociali conseguenti allo sviluppo di economie industriali
moderne. In realtà in molti paesi le donne hanno ottenuto i diritti sociali come madri e
lavoratrici prima di avere accesso al voto e di conquistare appieno i diritti civili.
In nazioni come la Germania il raggiungimento dei diritti sociali da parte dei lavoratori
e delle lavoratrici parve inoltre limitarne lo spazio politico perché le politiche
di welfare vennero usate per prevenirne la richiesta dei diritti politici. La ricerca storica
ha infine riscoperto l’importanza della agency delle donne, che in forma individuale e collettiva svolsero funzioni sociali di welfare essenziali non solo dentro l’istituto familiare, ma anche fuori di esso, e stimolarono
le politiche pubbliche.
Dopo la seconda guerra mondiale anche nei paesi sviluppati si consolidò un modello
di organizzazione sociale che continuava a privilegiare il ruolo delle donne in quanto
mogli e madri, benché tra il 1950 e il 1970 l’occupazione femminile salisse dal 25%
al 40% negli Usa e dal 35% al 45% in Gran Bretagna e in Francia, inaugurando un percorso
che più tardi le avrebbe portate a superare abbondantemente la metà del totale. Al suo interno, inoltre, la forza lavoro femminile vide diminuire i settori tradizionali
dell’agricoltura e dell’industria tessile a vantaggio degli impieghi qualificati.
Sempre nei paesi sviluppati, oltre che in quelli socialisti, a ciò corrispose infine
una crescita del numero di donne iscritte all’università, che alla fine della guerra
coprivano una percentuale fra il 15% e il 30% e negli anni Ottanta oltrepassarono
il 50%.
Fu in questo contesto che negli anni Sessanta si sviluppò una nuova ondata di movimenti
femministi, alle origini dei quali è stato posto il libro di Betty Friedan The Feminine Mystique che, uscito nel 1963, vendette in breve tempo milioni di copie. Questo grande successo
fu dovuto alla sua capacità di esprimere «il problema senza nome» delle donne americane
di classe media, denunciando un modello patriarcale di società che riservava loro
un ruolo unicamente domestico, ne pretendeva la passività sessuale e ne frustrava
la possibilità di affermazione personale. Già prima di allora, peraltro, le donne avevano partecipato attivamente ai movimenti
pacifisti e alle lotte per i diritti civili contro la discriminazione razziale negli
Usa. Nel 1966 nacque la National Organization for Women, che si batté per l’uguaglianza
fra uomini e donne, mentre altri gruppi composti in larga misura di donne più giovani
costituirono un movimento più radicale di liberazione della donna, che perorava una
sorta di separatismo nei confronti degli uomini e l’abbattimento di ogni confine tra
vita personale e vita politica.
I movimenti delle donne, che fin dalla prima ondata tra Otto e Novecento avevano avuto
un carattere transnazionale con forti collegamenti su strategie e piattaforme di azione,
si estero rapidamente ad altri paesi occidentali. Negli anni Settanta, poi, i movimenti
femministi integrarono la rivendicazione dell’uguaglianza con quella del riconoscimento
della differenza tra uomini e donne, puntando a un modello di società che valorizzasse
le specificità degli uni e delle altre. In quest’ambito, a partire da un saggio del
1976 della storica Natalie Zemon Davis, svolse un ruolo molto importante l’elaborazione
del concetto di gender, «genere»: una categoria interpretativa che supera il determinismo biologico di quella
di sesso e nella definizione dei rapporti fra donne e uomini privilegia gli aspetti
sociali e culturali, storicamente variabili nello spazio e nel tempo.
Intrecciatisi con i movimenti giovanili, quelli femministi giunsero all’acme assieme
ad essi ed entrarono in seguito in una fase di declino, ma ebbero effetti di notevole
rilievo, come mostra tutta una serie di provvedimenti legislativi adottati negli anni
Settanta in molti paesi occidentali. In quel periodo un contributo decisivo all’affermazione
dei diritti delle donne venne dalle Nazioni Unite, che nel 1975 proclamarono il primo
«decennio della donna» (1975-85). Aperto con una conferenza internazionale a Città
del Messico, questo proseguì con quelle di Copenhagen nel 1980 e di Nairobi nel 1985.
Altre due conferenze svoltesi a Vienna nel 1993 e a Pechino nel 1995 rinnovarono infine
i termini del problema, includendo i diritti delle donne e l’uguaglianza fra i generi
nella nozione di «diritti umani». Come altrettante violazioni di questi ultimi vennero
considerati non solo i crimini di guerra contro le donne, ma anche le violenze e gli
abusi perpetrati dentro la famiglia e fuori di essa. Tutte queste iniziative rafforzarono
lo sviluppo di un autonomo protagonismo femminile transnazionale e ottennero importanti
risultati, anche se ancor oggi la parità di genere appare molto lontana.
Nel 2017 la percentuale delle donne elette nei parlamenti del mondo era ancora ben
al di sotto della metà (23% contro il 14% del 2000) e solo nei paesi scandinavi e
in pochi altri superava il 40%. Ai livelli più bassi stavano gli Stati arabi con il
18% (4% nel 2000): un dato che peraltro era poco più basso del 20% dell’Asia e non
tanto inferiore al 25% dell’Europa (esclusi i paesi nordici) e al 28% delle Americhe. Quasi due terzi degli analfabeti del mondo sono donne e la percentuale di quelle
sopra i 25 anni con un grado di scolarizzazione secondario è pari al 55%, contro il
65 degli uomini. Questa media nasconde però differenze considerevoli: nei paesi ricchi
dell’Ocse le percentuali corrispondenti, pari all’83% e all’86%, mettono in evidenza
un nesso significativo tra sviluppo economico ed emancipazione femminile. Non a caso
all’estremo opposto della scala vi sono l’Africa subsahariana con il 22% e il 32%,
mentre l’America Latina si colloca in posizione intermedia con il 54% e il 55%. Incidono
però, a riprova dell’importanza del genere come fattore decisivo, anche le differenze
culturali e religiose. Nei paesi arabi le donne scolarizzate sono il 35% contro il
48% degli uomini e lo scarto è assai più forte nell’Asia meridionale (29% e 55%),
con un primato negativo dell’India (27% e 57%). Con il 59% e il 72%, invece, la Cina
può vantare un dato superiore a quello dell’America Latina.
Alle differenze di genere in materia di istruzione fanno riscontro quelle in campo
economico. A livello globale i salari femminili superano di poco i tre quarti di quelli
maschili e a causa del più basso livello delle loro qualifiche lavorative il reddito
medio pro capite delle donne è appena il 56% di quello degli uomini. Di nuovo, la disparità di reddito
è minore nei paesi dell’Ocse (60%), anche se proprio il loro benessere ne sottolinea
la gravità. L’ineguaglianza economica appare condizionata da fattori culturali in
misura maggiore di quanto accade per la scolarità: nei paesi arabi e nell’Asia meridionale
raggiunge i livelli record del 23% e del 25%. Paradossalmente, invece, nell’Asia orientale
e nell’Africa subsahariana la disparità è ancora minore che nei paesi ricchi (65%
e 63%), ma per motivi opposti: nella prima è il frutto di recenti e rapidi processi
di crescita, che hanno messo in movimento interi nuclei familiari; nella seconda è
dovuta al perdurante predominio di un’economia agricola che ricorre ampiamente al
lavoro delle donne e dei bambini, ma garantisce un reddito complessivo pari a un quinto
di quello dell’Asia orientale.
Il fatto che circa una metà dei migranti mondiali sia costituita da donne, contro
un quarto scarso di cent’anni fa, conferma quanto sia comunque cambiata la condizione
femminile. Oggi le politiche e i progetti di sviluppo nei paesi poveri non possono
prescindere da tale mutamento. Le donne sono infatti considerate i ricettori più efficienti
degli aiuti economici (il microcredito) sia per l’uso che ne fanno sul piano lavorativo,
sia perché – a differenza degli uomini, che spesso li sprecano in consumi improduttivi
– di norma impiegano il denaro ricevuto per investire sulla scolarizzazione dei figli,
moltiplicandone la resa. Molte indagini sul campo condotte nei più diversi contesti
dimostrano inoltre l’esistenza di un nesso di correlazione stringente tra aumento
della scolarizzazione femminile da un lato, calo della mortalità e della denutrizione
infantile dall’altro. Questi cambiamenti sono altrettanti frutti della globalizzazione sviluppatasi nella
sfera culturale: le conferenze dell’Onu hanno veicolato argomenti che sono divenuti
senso comune, come dimostrano i dati comunque in ascesa della rappresentanza politica
ed economica.
Al tempo stesso le donne sono divenute agenti della globalizzazione culturale. Per
fare un solo esempio, le donne turche emigrate in Germania maturano nel paese d’arrivo
punti di vista personali antitradizionalisti su problemi delicati della vita quotidiana,
dalla contraccezione ai rapporti pre-matrimoniali, dall’aborto all’autonomia decisionale
in materia di lavoro e spese familiari. Quando rientrano nel paese d’origine – pur
senza rinnegare la propria cultura, ivi compresa l’appartenenza religiosa, e continuando
spesso a portare il velo –, esse aprono importanti conflitti nella comunità di origine.
Per quanto sia difficile che i loro punti di vista si diffondano pacificamente senza
incontrare reazioni, quelle donne divengono agenti di un processo di ibridazione culturale
che può trasformare la percezione reciproca dell’Occidente e dell’Islam. Del resto le battaglie per la liberazione delle donne non appartengono soltanto
all’esperienza occidentale: i femminismi islamici, con la loro rilettura del Corano,
sono vitali e assai interessanti.
3.4. Vecchi e nuovi media
All’inizio degli anni Settanta il sistema internazionale dei media aveva al centro,
nell’ordine, la radio e la televisione. La loro distribuzione era però ancora estremamente
ineguale. Nell’America del Nord gli apparecchi radio per abitante erano quasi due
(186%), mentre l’Europa stava al 42% e la loro presenza in America Latina, in Asia
e in Africa era ancora una rarità: 18%, 5% e 7%. Essendo più recente, la tv era meno
diffusa e in modo ancora più ineguale: la possedeva più della metà dei cittadini statunitensi,
quasi un terzo degli europei, l’8% dei latinoamericani, il 3% degli asiatici e il
6% degli africani.
La fonte di questi dati è il cosiddetto Rapporto MacBride. L’irlandese Seán MacBride era noto per essere uno dei fondatori di Amnesty International
(l’organizzazione non governativa fondata a Londra nel 1961 per difendere i carcerati)
e nel 1980 venne chiamato dall’Unesco a presiedere una commissione incaricata di stendere
un rapporto sulla situazione dei media nel mondo. Ne fecero parte, tra gli altri,
lo scrittore Gabriel García Márquez e il giornalista Hubert Beuve-Méry, fondatore
del quotidiano francese «Le Monde». Il rapporto fece epoca perché denunciò con forza
lo squilibrio globale tra un Nord del mondo che produceva informazione (vi risiedevano
tutte e cinque le maggiori agenzie di stampa mondiali: Associated Press, United Press,
France Presse, Reuters, Tass) e un Sud del mondo che la subiva.
Per protesta contro quella che ritenevano un’indebita politicizzazione, Usa e Gran
Bretagna abbandonarono l’Unesco. Era del resto una fase storica che vedeva la crescente
opposizione tra il neoliberismo di Thatcher e di Reagan e la maggioranza dei paesi
dell’Onu, che avevano ingaggiato una battaglia a colpi di risoluzioni in favore di
un «nuovo ordine economico internazionale» il quale controllasse i prezzi delle materie
prime in senso favorevole ai paesi in via di sviluppo che le producevano. Fu una battaglia
povera di risultati, se si esclude la pubblicazione di un altro testo destinato a
rimanere famoso: il Rapporto Brandt, di cui parleremo nell’ultimo capitolo.
Come sempre è avvenuto nella storia dei media, radio e televisione non avevano ucciso
il medium precedente, costituito dalla carta stampata. Vero è che in Occidente la
stampa quotidiana e periodica andò incontro a una stasi del numero di copie vendute
e di testate indipendenti, nonché a un calo costante della percentuale di introiti
pubblicitari, ma nel resto del globo continuava a godere di una crescente attenzione.
Tra il 1950 e il 1975 la tiratura globale crebbe da 230 a 408 milioni: dal 9% al 13%
della popolazione mondiale.
Ci furono foto pubblicate sui giornali che contribuirono a cambiare la storia. Nel
1968 una di esse – scattata da Eddie Adams, fotoreporter della Associated Press –
ritrasse il capo della polizia di Saigon, capitale del Vietnam del Sud, mentre sparava
alla testa di un civile. Si trattava di un partigiano del Nord che aveva sterminato
la famiglia di un ufficiale della polizia, ma quell’immagine condensava in modo inequivocabile
un contenuto politico: il Vietnam del Sud che gli Stati Uniti appoggiavano nella guerra
contro il Nord del paese non era un regime democratico. Negli Usa gli oppositori della
guerra divennero per la prima volta la maggioranza relativa. Qualche anno dopo un’inchiesta condotta dal «Washington Post» su un caso di spionaggio
ordito dalla presidenza degli Stati Uniti ai danni del Partito democratico (chiamata
caso Watergate dal nome del complesso alberghiero dove aveva sede il comitato elettorale
dei democratici) portò alle dimissioni del presidente Nixon.
Furono anni in cui agli occhi dell’opinione pubblica il prestigio dei media era superiore
a quello delle istituzioni: la loro indipendenza e capacità di controllo veniva valutata
come un requisito indispensabile della democrazia. Ma negli anni Settanta anche il
sistema dei media entrò in una fase di innovazione tecnologica senza precedenti, che
praticamente non si è arrestata fino ai giorni nostri. Tra il 1973 e il 1993 i nuovi
brevetti di rilievo crebbero di un terzo rispetto alle fasi anteriori. All’inizio
degli anni Settanta si affermò la fotocomposizione elettronica, che usava impulsi
elettrici al posto dei procedimenti ottici delle vecchie fotocopiatrici. Dalle tipografie
scomparve il piombo dei caratteri mobili inventati da Gutenberg mezzo millennio prima.
Nelle redazioni comparvero i primi videoterminali su cui i giornalisti scrivevano
i loro articoli, trasmettendoli direttamente al laboratorio di fotocomposizione. L’interazione
tra questa innovazione e il telefono produsse il telefax, che convertiva le immagini
(e quindi qualunque testo manoscritto o a stampa) in segnali elettrici trasmissibili
via cavo e via radio. Alla metà del decennio il passaggio successivo fu rappresentato
dalla tecnologia laser, che sfruttava l’emissione di luce ottenuta attraverso l’attivazione
di elettroni: si ottennero così macchine capaci di comporre più di 300.000 caratteri
l’ora e di leggere e impressionare cento righe per centimetro.
Lo sviluppo dei media e quello di una nuova società civile globale andavano di pari
passo. Nel 1971 l’ex ‘beatle’ George Harrison organizzò un concerto per il Bangladesh:
artisti di vari paesi suonarono per raccogliere fondi a favore delle vittime di un
ciclone che a nordest dell’India aveva ucciso 300.000 persone. Sulla scia delle mobilitazioni
del Sessantotto contro la guerra del Vietnam, fu la prima manifestazione di una coscienza
internazionale chiamata a soccorrere un giovane paese indipendente: nel gennaio 1969
erano stati gli studenti dell’Università di Dacca (futura capitale del Bangladesh,
allora parte orientale del territorio pakistano, distaccata dal resto del paese) a
innescare la rivolta contro il Pakistan in nome della lingua bengali. Quest’ultimo
era il primo Stato della storia fondato nel 1947 sulla base di una esplicita discriminazione
religiosa: quella che, contro il parere di Gandhi, aveva diviso l’India indipendente
tra hindu e musulmani.
Il fatto che nel 1971 il Bangladesh se ne separasse sulla base di una differenza linguistica
mostrò che la comune appartenenza religiosa poteva rivelarsi meno potente di altre
identità culturali, in modo non troppo diverso da quanto era accaduto nell’Europa
ottocentesca. Nello stesso anno un giovane medico francese, Bernard Kouchner, volontario
per la Croce rossa nelle operazioni di soccorso della popolazione del Biafra, ridotta
alla fame dalla guerra civile che infuriava in Nigeria, decise di fondare un nuovo
organismo internazionale meno legato ai governi, Medici senza frontiere. Da allora
le organizzazioni non governative contro la miseria e le malattie non cessarono di
diffondersi in tutto il mondo: poco più di 1.000 nel 1964, erano quasi 6.000 nel 1985
e più di 20.000 nel 2000.
Il quadro delle innovazioni tecnologiche a cui abbiamo accennato sarebbe incompleto
se non si tenesse conto anche dei calcolatori elettronici, benché fino agli anni Settanta
si trattasse di enormi macchinari estremamente costosi, appannaggio esclusivo di agenzie
governative, università e grandi centri di ricerca. Nel 1975, però, venne messo in
commercio negli Stati Uniti al prezzo di 400 dollari (grosso modo un mese di stipendio
medio) il primo personal computer denominato Altair 8800, che si diffuse nelle comunità
giovanili anticonformiste della California eredi del Sessantotto. Entro questa rete
di rapporti, sulla base di una filosofia «democratica» del libero accesso all’innovazione,
esordirono alcuni giovani della baby boom generation come Steve Jobs e Steve Wozniak, che nel 1977 misero a punto Apple II. Altri seguirono,
e su queste basi i pc si diffusero numerosi a partire dagli Stati Uniti, dove nel
1990 erano già 21 ogni 100 persone.
Le origini di Internet risalgono al 1969. La prima rete si chiamava Arpanet, dal nome
dell’agenzia del Dipartimento della Difesa degli Usa che l’aveva promossa (Arpa, Advanced
Research Projects Agency). Fin dal 1957, anno del lancio del primo satellite orbitale
da parte dell’Urss, agli Usa si era posto il problema di un sistema di comunicazione
in grado di sopravvivere a un attacco nucleare e la risposta fu trovata in un network
digitale, più affidabile, più veloce e meno costoso di quelli analogici. Reti gerarchiche
come quella radiofonica erano inoltre più vulnerabili perché si sarebbero bloccate
se fosse stato colpito il nodo centrale, che trasmetteva i messaggi. Questa lo era
molto meno perché si trattava di una rete distribuita, composta cioè di un numero
assai maggiore di nodi, ognuno dei quali poteva trasmettere, oltre a ricevere.
Figura 3.6. Utenti di Internet, 1995-2017.
Fonte: Internet World Stats, Internet Growth Statistics, http://www.internetworldstats.com/emarketing.htm.
Era dunque una rete interattiva, che a differenza del telefono poteva far comunicare
in tempo reale un gran numero di persone. I suoi primi quattro nodi erano tutti universitari
e nel 1971 vi entrò in funzione il primo programma di posta elettronica. Subito dopo
Arpanet si estese ad altri paesi utilizzando connessioni radio e satellitari e collegando
le altre reti che via via nascevano fuori dagli Stati Uniti. Nel 1983 la crescita
della rete aveva travalicato i limiti di sicurezza ritenuti indispensabili dalle istituzioni
militari americane, i cui nodi andarono a costituire un network a parte. Negli anni
Ottanta si perfezionarono e si standardizzarono i programmi per la trasmissione dei
dati, mentre proliferavano nuove reti accademiche, commerciali ecc. A poco a poco
esse si unificarono e nella seconda metà del decennio si svilupparono liste di discussione
e comunità particolari di utenti sulla base di una filosofia comune di accesso libero
e gratuito.
Nel 1990, quando Arpanet fu formalmente dismessa, Internet era ormai una realtà. Nello
stesso anno venne inoltre creato al Cern di Ginevra (Consiglio europeo per la ricerca
nucleare) il World Wide Web: un sistema particolarmente user friendly per l’accesso alla rete e il suo uso da parte di singoli utenti, che portò un contributo
decisivo al vero e proprio boom conosciuto da Internet negli anni Novanta. Si diffuse
allora l’espressione «surfing the Internet» (tradotto in italiano con il più serioso
«navigare in Internet») e uscirono i primi programmi finalizzati a trovare siti nella
rete. Nel 1994 apparvero i primi siti dedicati all’e-commerce, il commercio elettronico via Internet e si affermarono i grandi provider (fornitori di accesso alla rete) privati.
All’inizio degli anni Ottanta i computer connessi in permanenza alla rete erano 213;
nel 1990 erano divenuti 313.000 e da allora hanno avuto una crescita esponenziale,
fino a un miliardo e 63 milioni nel 2017. A sua volta il numero stimato degli utenti è salito da 16 milioni nel 1995 a 3,7
miliardi: quasi metà degli abitanti del pianeta. La loro distribuzione è molto diseguale
– 88% della popolazione nell’America del Nord, 28% in Africa – ma il cosiddetto digital divide si riduce velocemente perché molti paesi poveri abbreviano tempi e costi della connessione
alla rete saltando la fase della telefonia fissa per passare direttamente a quella
mobile. Dal 2000 al 2017 gli utenti africani sono cresciuti a una velocità quasi 5
volte superiore a quella dell’Asia, e 3,6 a quella dell’America Latina.
Figura 3.7. Distribuzione e penetrazione degli «internauti», 2017.
Fonte: Internet World Stats, Usage and Population Statistics, World Internet Users and 2017 Population Stats, http://www.internetworldstats.com/stats.htm (dati al 31 marzo 2017).
Dagli anni Novanta a oggi Internet ha differenziato la globalizzazione contemporanea
non solo da quella del «lungo Ottocento», ma anche dalla sua prima fase post-1945. Oltre ad essere usata sempre più per effettuare operazioni finanziarie e commerciali,
la rete ha infatti favorito lo sviluppo di relazioni sociali di tipo nuovo perché
– a differenza degli altri mass media, che Internet sta velocemente inglobando perché
stampa, radio e televisioni la utilizzano sempre di più – è uno strumento anzitutto
individuale, con cui possono comunicare non solo istituzioni e imprese, ma anche singoli
e gruppi di cittadini. Grazie a questa caratteristica la rete ha acquisito una crescente
capacità di incidere sulla sfera pubblica e sulle forme della politica, portando un
significativo contributo ai processi di democratizzazione in atto nel mondo attuale. Grazie a costi di accesso molto contenuti, Internet è divenuta il «paradigma» della
globalizzazione contemporanea, dando luogo a quella che è stata definita una «iperglobalizzazione
dell’individuo».
Agli inizi del XXI secolo tale carattere si è accentuato con il passaggio al cosiddetto
Web 2.0. Siti come Wikipedia, YouTube e TripAdvisor, social media come Twitter e Facebook
consentono a ogni utente di condividere e scambiare con altri filmati, immagini, opinioni
e pensieri. Accanto alla comunicazione verticale con cui gli utenti interrogano i
siti ufficiali, se ne è sviluppata una orizzontale con cui interagiscono tra loro,
facilitata dall’avvento di smartphone: telefoni mobili in grado di svolgere le funzioni
di un pc. La rete ha dato luogo così a nuove forme di relazione sociale, ha infranto
la separazione fra sfera privata e sfera pubblica e ha modificato quest’ultima in
profondità, consentendo la nascita e lo sviluppo di movimenti come quelli cosiddetti
no o new global, attivi in particolare in campi quali i diritti umani e civili, l’ambiente, la pace,
la giustizia e l’ineguaglianza globale. Anche le mobilitazioni di massa della gioventù
urbana scolarizzata che presero piede nel mondo musulmano («l’onda verde» del 2009
in Iran, le «primavere arabe» del 2011), di cui parleremo nel quinto capitolo, ebbero
nei social media uno strumento di informazione e collegamento libero da vincoli e
controlli. Come nel Sessantotto, i mezzi di comunicazione non originarono le rivolte,
ma dettero loro una potente cassa di risonanza.
Al tempo stesso, però, al pari di ogni altra innovazione tecnologica Internet ha messo in luce un inquietante rovescio della medaglia,
ampliando il palcoscenico potenziale di ogni opinione personale e ponendo il problema
di una verifica dell’attendibilità dei contenuti di volta in volta divulgati. Sia
la campagna referendaria britannica per la cosiddetta Brexit, sia quella per le elezioni
presidenziali negli Usa, entrambe del 2016, hanno portato alla ribalta il diffondersi
di fake news (false notizie propagate deliberatamente), fino alla costruzione artificiale di una
cosiddetta «post-verità», che la comunicazione orizzontale del Web 2.0 non può o non
vuole sottoporre alla critica dei fatti. Autorevoli inchieste sociologiche documentano
che dal 2014 negli Usa e anche nel resto del mondo social media come Facebook e Twitter
hanno scavalcato i media tradizionali come fonte di informazione politica, innalzando
a maggioranza le persone che socializzano le proprie opinioni solo con chi già le
condivide. La democrazia come forum di confronto tra opinioni diverse rischia seriamente di
ridimensionarsi, a tutto vantaggio di una polarizzazione pregiudiziale e conflittuale
degli schieramenti politici.