Edizione: 2011, V rist. 2019 Pagine: 240 Collana: Quadrante Laterza [173] ISBN carta: 9788842097242 ISBN digitale: 9788858116739 Argomenti: Scienze della comunicazione, Storia d'Italia
La televisione cambia la testa degli italiani. Cancella la politica come progetto condiviso di futuro e la sostituisce con un'arena di gladiatori. Cancella la storia e la sostituisce con un presente senza passato. Cancella la realtà e la sostituisce con uno spettacolo continuo che divizza le persone comuni. Cancella la fatica e la sostituisce con il sogno del successo. Ma la televisione non è onnipotente. Se provoca tali effetti è perché – a differenza di chiese, partiti, sindacati – ha saputo raccogliere una mutazione individualista che si sviluppa in modo molecolare e sotterraneo nella società italiana, a partire dagli anni Settanta. Da Dallas al Grande Fratello, molte produzioni televisive hanno contribuito a cancellare l'orizzonte collettivo della storia e della politica e la realtà si è ridotta a un microcosmo di individui.
Giovanni Gozziniinsegna Storia contemporanea all’Università di Siena. Si è occupato di storia della globalizzazione e delle disuguaglianze e di storia del giornalismo e dei media. Ha scritto libri sulla storia di Firenze, sul Partito comunista nei primi anni della Repubblica italiana, sulla Shoah e sulla globalizzazione negli ultimi due secoli. È stato direttore del Gabinetto Vieusseux e assessore alla Cultura del Comune di Firenze. Tra le sue pubblicazioni, Storia del giornalismo (Bruno Mondadori 2000) e Storia contemporanea (2 volumi, con T. Detti, Bruno Mondadori 2000 e 2002).
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CONSTANTER ET NON TREPIDE
Un monito scelto dalla famiglia Laterza come esortazione alla tenacia e ad una costante crescita.
I. Il boom (1954-1967)
1. Rivoluzione in famiglia
Lungo tutto il Novecento la copertina illustrata della «Domenica del Corriere» rappresenta
un appuntamento importante per molti italiani: a tinte forti mette in scena un avvenimento
drammatico o comunque sensazionale della settimana, il più capace di emozionare i
lettori. Quella del primo numero del 1954, illustrata da Walter Molino, è dedicata
a un nuovo elettrodomestico che prova ad inserirsi nelle abitudini del paese: il suo
nome, tradotto letteralmente dall’inglese, è «televisione». La didascalia di commento
ne immagina un impatto tutt’altro che pacifico, con toni di allarme destinati a ripresentarsi
ancora per lungo tempo negli anni a seguire:
Rivoluzione in famiglia! L’arrosto brucia, i bambini dimenticano i compiti, il papà
la pipa e l’appuntamento al caffè. Dopo due anni di fase sperimentale cominciano in
Italia le trasmissioni regolari della televisione da Milano, Torino e Roma con un
programma per ora unico.
Televisione uguale morte della conversazione uguale divorzio, si era sostenuto qualche
anno prima su «Oggi» (Gullace 1950). Al suo apparire – più di trent’anni prima – la
radio aveva suscitato molta meno apprensione. L’atto di ascoltare sembrava più naturale
e domestico, poteva tranquillamente combinarsi alle attività normali di genitori e
figli, non richiedeva un’attenzione così polarizzante ed esclusiva, riusciva ad avvicinare
cittadini e istituzioni: come nel caso delle Fireside Chats, le «chiacchiere al caminetto» del presidente statunitense Roosevelt, o della voce
dell’imperatore, che per la prima volta i giapponesi poterono conoscere nel 1945 mentre
annunciava in diretta la resa delle sue forze armate e la fine della guerra.
Fin dall’inizio, invece, la televisione viene vista come una presenza ingombrante
e minacciosa, potenzialmente eversiva di rigidi equilibri familiari: le donne (neppure
nominate dalla «Domenica del Corriere») in cucina, gli uomini al bar, i figli con
i loro compiti di scuola. Paolo Monelli sulla «Stampa»ne commenta con snobistico catastrofismo di maniera i possibili effetti manipolatori
sulle coscienze:
Per qualche tempo l’alto costo degli apparecchi terrà immuni le famiglie borghesi
e operaie da questo flagello (ma vedrete come si agiteranno i giornali di sinistra
perché anche al popolo sia concesso il contagiarsi di questa tabe) ma è inutile illudersi,
gli apparecchi verranno a buon mercato, e con le vendite a rate accessibili a tutti.
Se in questi anni l’Italia è rimasta un po’ addietro riprenderà il suo posto all’avanguardia
delle nazioni in marcia verso il progresso; un progresso all’ingiù, voglio dire, una
società di analfabeti, di conformisti, di meccanizzati, per cui non ci sarà più posto
per la varietà e l’imprevisto della vita, per la libera scelta dell’attività e dello
svago. Che verso una società così si vada, è indubitato; l’umanità sarà sempre più
schiava delle macchine [...] L’anno scorso, scrivendovi dall’America, vi ho detto
che un mutamento la televisione ha portato e sta portando alla vita americana. Non
soltanto la crisi del cinematografo o una nuova violenta forma di propaganda politica,
per cui ogni famiglia si tiene in casa sua per una mezz’ora intiera, e più volte,
il candidato di uno o dell’altro partito, lo sente e lo vede parlare come lo avesse
dirimpetto, noverandogli i foruncoletti sulla pelle o le stille di sudore sulla fronte.
Ma la televisione non ucciderà soltanto il cinematografo o il teatro, è sulla via
di annullare quelli che sono stati finora i rapporti sociali e familiari, come già
oggi radio e cinematografo hanno ucciso la conversazione [...] Perché questo è l’aspetto
più deprecabile della televisione, subdolo strumento di dittatura nel campo dello
spirito e della coscienza, tanto più inavvertita quanto più le immagini e i suoni
la fanno seducente [...] E poiché, come appare, più ancora di quanto la radio e il
cinema abbiano fatto finora, la televisione sta sostituendo ogni altra forma di divertimento,
di curiosità, di istruzione [...] è chiaro che quella oligarchia di direttori coi
loro gusti discutibili, le loro simpatie politiche, gli interessi cui sono legati,
finisce con l’«imbottire i crani», come si diceva una volta, e con molta maggiore
efficacia di quando nacque quella frase, quando l’«imbottitura» era fatta solo con
i discorsi in piazza, e senza gli altoparlanti (Monelli 1953).
Argomentazioni destinate a ripetersi fino ai giorni nostri. Ma non mancano, anche
se restano in netta minoranza, voci più tranquille e ottimiste, come quella di Gianni
Granzotto, inviato della «Stampa» negli Stati Uniti e non per caso futuro amministratore
delegato della Rai tra 1965 e 1969:
Cominciamo intanto con il dire che non bisogna aver paura della televisione. Ho letto
anch’io, qui in America, il bell’articolo di Paolo Monelli sui pericoli e le minacce
della televisione. Le stesse cose si dissero e si scrissero quando la televisione
incominciò a diffondersi negli Stati Uniti. Si disse che avrebbe ucciso la cultura,
che avrebbe ucciso la conversazione, la lettura, le vecchie abitudini della vita sociale
[...] Si è cominciato in America con venti ore di trasmissione alla settimana: ora
la media è di sei ore e anche meno. La ipnosi da Tv non è un male cronico, ma una
febbre passeggera. Se la televisione prende un posto preminente nelle abitudini di
certe famiglie questo accade nelle case dove non esistevano nemmeno prima quelle forme
di vita sociale che si teme vengano distrutte: case dove non si leggeva o si leggeva
poco e male, dove non si tenevano conversazioni brillanti o concerti. In quelle case
la televisione ha colmato un vuoto, e Dio volesse che la stessa cosa avvenisse anche
in Italia (Granzotto 1954).
Granzotto si sbaglia sui dati. Secondo una prima rudimentale indagine della Nielsen
(tra le maggiori società per indagini di mercato degli Stati Uniti), nel periodo 1950-1956
il tempo medio di ascolto televisivo delle famiglie statunitensi sale da quattro ore
e mezzo giornaliere a cinque (Bogart 1956, 70). Ma non si sbaglia sulle paure, che
sono simili su entrambe le sponde dell’Atlantico. Una delle prime situation comedy trasmesse in America, The Honeymooners (1955), fin dalla prima puntata mette in scena le proteste del marito che rientra
a casa la sera e trova la moglie davanti al televisore: «abbiamo la Tv da tre giorni
e da allora non sono più riuscito a mangiare qualcosa di caldo» (Spigel 1992, 88).
Proprio allo scopo di esorcizzare le paure circa i possibili effetti eversivi del
piccolo schermo sugli equilibri familiari, i televisori Zenith ed Emerson reclamizzati
sulla stampa periodica si presentano come veri e propri pezzi di arredamento: mobiletti
che quasi nascondono lo schermo e puntano innanzitutto ad inserirsi a pieno titolo
nell’ambiente domestico. La televisione viene illustrata dalla comunicazione commerciale
come uno status symbol della classe media emergente: un puntello essenziale della coesione interna, del
decoro e della rispettabilità pubblica delle famiglie che ad essa appartengono. Tenendo
tutti a casa, la televisione funziona da deterrente contro divorzi, alcolismo, vagabondaggio,
delinquenza giovanile. Riduce sì tempi e spazi della socializzazione, ma dà un motivo
a nonni, genitori e figli per stare insieme.
L’ideale della compattezza familiare che la televisione arrivava a significare, si
accompagnava – come tutte le fantasie culturali – ad ansie mal dissimulate che riemergevano
spesso nella stampa popolare dell’epoca. Sebbene ripetessero di frequente che la televisione
riuniva le famiglie in casa, i media di larga diffusione esprimevano anche disagio
rispetto al suo ruolo nelle questioni domestiche. Un buon inserimento del televisore
nelle case dipendeva dalla capacità di eliminare ciò che «House Beautiful» [una delle
più diffuse riviste femminili] chiamava il suo «aspetto poco domestico». In un tempo
in cui c’era molta attenzione per la modernizzazione dei nuclei familiari, la stampa
femminile teneva sotto costante osservazione il rapporto tra la famiglia e la tecnologia.
Sull’argomento le riviste si mostravano esitanti, talvolta accettando, talvolta rifiutando
gli effetti della meccanizzazione (Spigel 1992, 45).
In Europa e in Italia, però, alle preoccupazioni di ordine sociale si affiancano preoccupazioni
di natura più propriamente politica. Luigi Barzini mette in guardia dalla potenza
pervasiva e totalitaria del nuovo mezzo:
Io pensavo con spavento, mentre gli altri parlavano, delle responsabilità di chi avesse
dovuto dirigere una simile spaventosa macchina. Tra breve, senza dubbio, l’apparecchio
sarà letteralmente dovunque, dove ora sono radio-riceventi, in parrocchia, nello stabilimento
di bagni, nelle trattorie, nelle case più modeste. La capacità di istruire e commuovere
con l’immagine unita alla parola e al suono è enorme. Le possibilità di fare del bene
o del male altrettanto vaste. L’Italia sarà, in un certo senso, ridotta ad un paese
solo, una immensa piazza, il foro, dove saremo tutti e ci guarderemo tutti in faccia.
Praticamente la vita culturale sarà nelle mani di pochi uomini (Barzini 1954).
È una polemica che accompagna fino ad oggi l’intera esistenza del nuovo mezzo di comunicazione
e che ne enfatizza – assai più che per tutti gli altri media – particolari capacità
non solo di distrarre da compiti e attitudini sociali (secondo il grido di allarme
della «Domenica del Corriere») ma anche di manipolare le coscienze e di trasformare
i comportamenti.
Fig. 1.1. Consumi degli italiani, 1955-1990
Eppure il televisore si diffonde nelle case degli italiani in contemporanea ad altri
beni di consumo durevoli (frigorifero, lavatrice, auto) che insieme, tra 1955 e 1965,
vanno a comporre il quadro del «miracolo economico»: il più significativo ed accelerato
miglioramento di qualità della vita nell’intera storia del paese. Tra il 1950 ed oggi,
per esempio, il consumo di carne dell’italiano medio è salito da circa 4-5 chili all’anno
a 25: ma la maggior parte di questo aumento si concentra nel periodo 1955-1965, quando
cresce da 9 a 20 chili.
L’Italia peraltro non è un’eccezione: in Francia si verificano più o meno le stesse
dinamiche (Gaillard 2006). Occorre sottolineare questo punto. In Occidente l’età dell’oro della ripresa economica post-bellica avviene all’insegna di un «sogno americano»
che coniuga consumi e cittadinanza, benessere e diritti. Nel senso comune di fasce
sempre più ampie di popolazione (non solo occidentale) il costante innalzamento dei
livelli di vita diventa la misura dominante della qualità dei regimi politici e il
possesso di beni entra a far parte delle identità individuali e collettive. Non si
capisce l’intera seconda parte del Novecento (e il crollo del comunismo, per fare
solo un esempio) se non si considera questa nuova centralità dei consumi privati di
massa.
Osservatori dell’epoca e storici (Alasia-Montaldi 1960; Fofi 1963; Diena 1963; Ginsborg
1989; Lanaro 1992; Crainz 1996) hanno tuttavia sottolineato come l’ascesa dei consumi
degli italiani non si realizzi in un ambiente statico, ma si accompagni a un incremento
della mobilità (prima individuale e poi familiare) senza precedenti per dimensioni
di scala nella storia d’Italia: tra 1955 e 1971 cambiano residenza 26 milioni di italiani,
per una media di un milione e mezzo ogni anno. In realtà i dati statistici supportano
solo in parte questa received view per due ordini di motivi. Il primo è che, analizzata in un’ottica di più lungo periodo,
l’Italia appare come un paese contraddistinto da una fisiologica e costante mobilità
geografica a raggio ridotto (in larga misura entro i confini della regione d’origine)
che neppure la legislazione restrittiva del regime fascista riesce a ridimensionare.
Negli anni del boom (1959-1962) il tasso di migrazione interna registra un picco (34‰)
che tuttavia non è sideralmente lontano da quello di periodi precedenti (lo stesso
valore si misura nel 1937) e successivi: tra 1975 e 2005 oscilla infatti tra 21 e
23‰. Il secondo motivo è che, in una dimensione comparativa, la mobilità interna italiana
anche nei suoi momenti di massima intensità appare inferiore a quella di molti altri
paesi europei.
A impressionare osservatori e storici dell’Italia sono l’impatto e la reazione di
rigetto che la concentrazione di una massa critica di immigrati meridionali nelle
città del Nord suscita nella popolazione: nasce di lì l’immagine dell’immigrato con
la valigia di cartone che arriva spaesato a Milano, che tanta parte ha nella memoria
collettiva del paese. Ma il flusso migratorio dal Meridione verso i poli urbani del
triangolo industriale nordista esercita un ruolo assolutamente minoritario, sempre
inferiore al 13% del totale. Di gran lunga maggiore (più che doppio) è il peso dei
migranti meridionali che si muovono all’interno del Mezzogiorno. Nel complesso, quasi
tre quarti di quei 26 milioni di italiani che migrano rimangono nell’area geografica
di origine, spostandosi lungo direttrici a corto e medio raggio.
A mettere in movimento questi italiani è innanzitutto una fuga dalle campagne più
povere e disastrate verso le zone agricole più ricche, le frazioni e i comuni maggiori,
le grandi metropoli. Il dato saliente della migrazione nel dopoguerra riguarda così
il calo degli addetti all’agricoltura, che tra 1954 e 1964 scendono da 8 a 5 milioni.
Si tratta di un processo di modernizzazione urbana e industriale che l’Italia condivide
con gli altri paesi europei e che è prima di tutto conseguenza dell’innovazione tecnologica:
trattori e mietitrebbia in rapidissima diffusione innalzano drasticamente la produttività
e liberano forza lavoro che cerca impiego altrove e in prevalenza si dirige verso
i centri abitati. In Italia, però, almeno fino al 1960 la fuga dalle campagne precede
la meccanizzazione del lavoro nei campi e marcia a ritmi più veloci. È l’effetto congiunto
della forza di attrazione esercitata dai nuovi posti di lavoro creati dal rilancio
dell’edilizia abitativa e di quella legata alle opere pubbliche della ricostruzione,
della reazione alle politiche di ruralizzazione più o meno coatte imposte dal regime
fascista, dell’esclusione dai meccanismi di redistribuzione clientelare delle terre
e del credito messi in atto dagli enti di riforma agraria, governati dopo il 1950
dalla Democrazia cristiana e dalla Coldiretti (la potente organizzazione contadina
fondata nel 1944 da Paolo Bonomi). Solo in un secondo tempo lo spostamento della popolazione
rurale si accompagnerà – come nel resto d’Europa – all’affermazione di un’agroindustria
privata sempre più concentrata in poche grandi imprese, alla trasformazione in senso
industriale e commerciale di colture e assetti del territorio, all’incremento straordinario
degli scambi tra campagna e città e al conseguente sviluppo di una nuova rete logistica
di servizi di trasformazione, trasporto, conservazione, commercializzazione e distribuzione
dei prodotti agricoli.
Nell’immediato, invece – a metà degli anni Cinquanta –, la fuga dalle campagne assume
spesso le forme di un conflitto generazionale. A partire verso le città sono i giovani,
che rompono l’atavica unità delle famiglie rurali (particolarmente di quelle mezzadrili,
tipiche dell’Italia centrale). Li dividono dai genitori inediti livelli di scolarità:
gli iscritti alle medie passano dai 500 mila del 1947 al milione e 600 mila del 1962
(alla vigilia dell’istituzione della scuola media unica e obbligatoria). Almeno fino
a metà degli anni Sessanta, questo surplus di formazione (rispetto al passato) trova
sbocco in una grande espansione del lavoro dipendente, soprattutto industriale: quasi
due terzi della forza lavoro che lascia le campagne si impiegano nelle fabbriche e
la disoccupazione tocca nel 1963 il suo minimo storico. Le grandi fabbriche del Nord
Italia (tra le quali spicca la Fiat di Torino, che supera i 100 mila addetti nel 1961)
acquisiscono nella vita civile e nell’immaginario collettivo una centralità destinata
a durare fino a tutto il decennio successivo. In grande maggioranza i nuovi operai
italiani sono dequalificati e occupati in mansioni ripetitive: anche per questo assimilano
una nuova cultura collettiva, sindacale e politica. Per i molti di loro che vengono
dalle campagne significa l’adesione a un modo di vita urbano che soppianta o quantomeno
delimita la vecchia cultura nutrita di particolarismo clientelare. Le città crescono
rapidamente: tra 1961 e 1971 la percentuale di italiani che vivono in centri con più
di 20 mila abitanti sale dal 59,1 al 65,4%. Si tratta di un ritmo di crescita urbana
che non ha pari in Europa: nello stesso periodo in Germania la crescita è solo dal
49,7 al 51,2%, mentre in Francia, su un arco di tempo ancora più lungo (1962-1975)
e utilizzando una soglia inferiore (le città con più di 10 mila abitanti), la crescita
è solo dal 47,9 al 51,9% (Flora et al. 1987, 267).
Fig. 1.2. Occupati in Italia (milioni), 1951-2001
Per una parte di italiani che diventa rapidamente maggioranza il flusso migratorio
campagna-città mette capo a una stabilizzazione proprietaria: tra 1951 e 1981 le abitazioni
in proprietà passano dal 40 al 59% (al Sud dal 48 al 63%), in una dinamica vicina
a quelle americana (dal 55 al 61%) e inglese (dal 30 al 55%) ma molto superiore a
quelle francese (dal 30 al 45%) e tedesca (dal 27 al 42%). La forma più importante
di «individualismo acquisitivo» prende così piede in modo silenzioso e molecolare,
mutando profondamente il modo di guardare al domani. Nelle famiglie dell’hinterland
milanese la casa di proprietà vale anche il sacrificio dell’alimentazione dei figli
(Pizzorno 1960, 190). È un mutamento antropologico in qualche modo antitetico a quello
(minoritario) determinato dall’incontro con la grande fabbrica e la cultura collettiva
da essa incarnata, perché incentiva il possesso particolare anziché la mobilitazione
di massa. Ed è di qui che trae alimento, prima di tutto, il consenso che continua
ad arridere al maggiore partito di governo.
Il doppio movimento degli italiani sul fronte dei consumi e delle migrazioni ribalta
il ciclo storico precedente, compreso tra le due guerre mondiali, quando la perdita
di sicurezze e la percezione di vulnerabilità degli individui hanno prodotto una corsa
al bene-rifugio dell’appartenenza a identità collettive forti, incarnate da regimi
dittatoriali. A quella «fuga dalla libertà» si contrappone adesso, dopo il 1945, la
nuova aspirazione a una libertà concepita innanzitutto come conquista di benessere
materiale. La televisione, che si diffonde in modo così rapido nelle case degli italiani,
campeggia al centro di questo processo decisivo: diventa la chiave d’accesso a nuove
culture e rispecchia il movimento verso il progresso.
Tra i giovani italiani il dinamismo determinato dall’istruzione si somma al primo
loro protagonismo autonomo come nicchia di consumo: tra 1953 e 1963 i dischi venduti
in Italia si moltiplicano da 5 a 22 milioni, i juke-box passano dai 4 mila del 1958
ai 40 mila del 1965. Nasce quella che i sociologi dell’epoca definiscono «la generazione
delle 3 emme»: mestiere, moglie, macchina (Baglioni 1962). Le città che si gonfiano
(Milano con 600 mila nuovi abitanti tra 1951 e 1961, Roma e Torino con 400 mila, Genova
con 100 mila) diventano gli incubatori di nuovi stili di vita: secondo un’inchiesta
Doxa del 1966 nelle città con oltre 400 mila abitanti i lettori di quotidiani e di
libri sono in proporzione il doppio che altrove (Luzzatto Fegiz 1968, 725-726). Sempre
più spesso la vita di città viene assimilata nell’immaginario collettivo alla velocità
e al dinamismo. L’utilitaria (la Seicento entra in produzione nel 1955, la Cinquecento
nel 1957) sostituisce a poco a poco lo scooter e la Giulietta (1954) diventa uno degli
emblemi di questa nuova Italia in crescita spregiudicata e arrogante, come la impersona
Vittorio Gassman nel film di Dino Risi Il sorpasso (1962). Non è inutile ricordare che i morti in incidenti stradali del 1962 (poco
meno di 10 mila) sono quasi il doppio di quelli odierni. La televisione è nello stesso
tempo veicolo e diffusore del mutamento.
La televisione, piaccia o non piaccia ai signori che ne detengono le chiavi e la vorrebbero
stupida ed addormentatrice, sta lentamente minando nelle campagne, sulle montagne,
sulle isole, tutto un modo di vivere, quieto e immobile da secoli: mette mille fermenti,
sveglia, induce alle impazienze e ai confronti; agita la sete del nuovo e del meglio,
porta un soffio di civiltà, comunque essa sia (Dallamano 1956a).
La televisione porta nelle località più squallide, con l’evidenza delle immagini,
l’aspetto del vivere moderno, con le sue tentazioni e il suo fascino. C’è da chiedersi
come reagiranno alla violenta e persuasiva forza di quelle immagini le chiuse e arretrate
comunità agricole così numerose nel nostro paese: non vi è dubbio che la televisione
accelererà un processo ormai in atto, di svecchiamento, di superamento di vecchi modi
di vita e di barriere che sembrano invalicabili. Per quante insidie una televisione
regolata e dominata dalle forze più retrive del conservatorismo italiano contenga,
essa ha in sé tanta forza di liberazione da chiudere sempre il suo bilancio all’attivo
(Dallamano 1956b).
Chi può scappa in città. In pochi anni da Pieve Delmona se ne sono andati quattrocento
su millecinquecento, altrettanto a Galesco, Ca’ de Quinzani [...] L’altro mondo, quello
della città, non è più una cosa sconosciuta, la televisione lo porta nelle osterie
di campagna, ne presenta gli aspetti più gradevoli (Bocca 1960).
In effetti la modalità dominante di ascolto televisivo nell’Italia del boom non è
quella domestica e assorbente illustrata dalla «Domenica del Corriere», che nel 1959
corrisponde a poco più di un terzo del totale. Per gli altri due terzi è quella collettiva
nei locali pubblici (bar, ristoranti, osterie) oppure in casa di amici: esprime anch’essa
un fattore di mobilità, di spostamento e ridislocazione seppur temporanea dell’unità
familiare. A differenza della radio – i cui momenti pubblici di ascolto coincidevano
con le adunate del fascismo – la televisione inventa una nuova opportunità di socializzazione,
spontanea e autogestita. Soprattutto nei piccoli centri rappresenta un momento e un
rituale di vita comunitaria che va ad aggiungersi a quelli tradizionali, organizzati
dalle istituzioni ecclesiastiche o civili e dall’associazionismo locale. Non esiste
in Italia niente di simile al movimento francese dei télé-club, cioè di fruizione collettiva organizzata (con dibattiti susseguenti) da enti civili
o religiosi (Lévy 1999): in Italia il movimento associato verso la televisione rimane
in larga maggioranza un fenomeno naturale.
Da qualche mese, nella vita dei piccoli paesi della risaia vercellese, è entrato un
elemento nuovo: la televisione, e si può però già dire che essa incida sul costume
paesano più di quanto non abbia fatto in tanti anni il cinema [...] Anche dalle cascine
più vicine ai paesi, se lo stato delle strade lo permette, le famiglie dei salariati
anziché riunirsi la sera alle stalle, come è costume, si recano al più vicino locale
con la televisione [...] Mentre nella vita delle nostre città la televisione ha ancora
un peso irrilevante, nella vita paesana si può già dire ch’essa eserciti un’influenza
sulle abitudini di vita associata: e – al contrario di quanto può parere a prima vista
– la sua fortuna si adatta particolarmente a una situazione di povertà e isolamento,
dove altri svaghi sono inaccessibili e le possibilità di spostamento limitate (Calvino
1954).
Nel paese toscano di Scarperia gli apparecchi in funzione nel 1959 sono solo 22 (metà
in locali pubblici e metà presso le famiglie più ricche), su un totale di 5 mila abitanti:
eppure sono meno di 500 quelli che dichiarano di non avere mai visto la Tv.
contadini di montagna anche decrepiti [scendono] per viottoli scoscesi, magari sotto
la pioggia, portandosi dietro la sedia per poter assistere a uno spettacolo televisivo.
Persone di ambo i sessi, che non avrebbero mai pagato il biglietto d’ingresso per
un film e si sarebbero trovate a disagio in una sala cinematografica, si recavano
invece regolarmente a vedere la Tv nel locale più vicino anche se per far questo dovevano
percorrere chilometri a piedi (Calamandrei 1959).
Nelle città maggiori, invece, la fruizione pubblica del televisore concretizza una
delle rare opportunità di incontro tra nativi e immigrati recenti, la cui convivenza
è difficile e conflittuale. Le inchieste condotte all’epoca nelle metropoli del Nord
documentano infatti l’insistenza degli stereotipi negativi associati ai «terroni»
(«fanno tanti figli e poi pretendono che siano gli altri a mantenerli», «vengono qui
senza un mestiere e poi tocca a noi mantenerli»: Anfossi 1962, 262). La televisione
è un’occasione nuova che, per tale natura, non reca con sé le differenze culturali
più tradizionali e consolidate, dal consumo di carne e carta stampata alla condizione
femminile. Accedervi nella saletta del bar o nell’appartamento dei vicini, magari
portandosi la seggiola da casa, significa per i «terroni» un mezzo di integrazione
e legittimazione che potenzialmente li parifica ai nativi.
In Italia il possesso di un apparecchio televisivo esorbita dai confini di una sola
famiglia; è proprietà e uso estensibile non tanto ai parenti e agli amici (il che
è naturale) quanto agli inquilini del piano di sopra e di sotto, fino a coinvolgere
l’intero caseggiato; nelle sere estive in quei grandi palazzoni multiformi di periferia
che allevano balconcini e terrazze in ordinata monotonia è facile accorgersi dell’importanza
sociale che viene ad assumere il possesso di un televisore. Le famiglie per così dire
fortunate tengono corte bandita: le loro terrazze, i loro balconi formicolano di gente,
bambini, vecchi, adulti, ragazzi assiepati dinanzi al piccolo schermo che lampeggia
gaio e tentatore per i meschini che spiano da lontano nell’oscurità notturna [...]
Ma è nei bar, nei caffè dove si misura in tutta la sua intensità il potere fascinatore
della televisione. Sta nascendo un nuovo costume e pochi se ne accorgono. Famiglie
intere che prima erano solite trascorrere le serate in casa ora escono all’aperto:
si stipano nei bar, nei caffè all’angolo delle strade che possiedono il televisore.
I locali si trasformano in piccoli cinema, in teatrini di varietà e di prosa con le
sedie disposte alla buona intorno all’apparecchio e i tavoli per le consumazioni,
necessari come il biglietto d’ingresso, relegati a lato. È un pubblico, si badi bene,
attento, che ride facilmente e si accontenta di poco, ma interessato e preso dall’immagine
sullo schermo. Chissà quale spinta riceveranno e in quale direzione i grandi modi
collettivi del vivere sociale: è incredibile il numero delle persone che soltanto
adesso attraverso la mediazione del piccolo schermo televisivo vengono a contatto
per la prima volta con avvenimenti che per noi sono ormai scontati e consunti, che
so, uno spettacolo d’opera, una grande corsa ciclistica, una seduta solenne al Parlamento.
Ed è un contatto immediato di irresistibile potenza al cui confronto necessariamente
svanisce e scolorisce ogni cronaca parlata alla radio (Dallamano 1955).
Possono bastare queste forme particolari di ascolto collettivo della televisione a
far ritenere il nuovo medium un solvente decisivo delle appartenenze locali, lo strumento
di una irreversibile delocalizzazione della vita familiare e sociale, un alteratore
della geografia situazionale, la dinamo di una nuova «mobile privatization»? Credo
di no. Fin dall’inizio l’uso della televisione è un uso plurale: la visione in locali
pubblici si affianca a quella elitaria privata, ma abbastanza rapidamente la seconda
soppianta la prima. La Tv rispecchia quindi l’aumento del tenore di vita e si inserisce
nel processo di modernizzazione del paese; ma l’Italia che migra si mette in movimento
prima della comparsa del piccolo schermo e la frammentazione dei nuclei domestici
è un processo che prende corpo solo in seguito, nel corso degli anni Settanta. In
nessuno dei due esempi è possibile ipotizzare un ruolo determinante della televisione.
«La televisione non è certo neutrale, ma non è neppure onnipotente» (Menduni 2004,
68).
2. «Carosello»
L’avvento della televisione muta comunque in profondità le pratiche di vita sociale
degli italiani. Ancora nel 1954 il campione rappresentativo intervistato dalla Doxa
fotografa una graduatoria di usi del tempo libero che non appare sconvolta dall’avvento
di cinema e radio. Per gli uomini le abitudini tradizionali – chiacchiere con gli
amici (44%), gioco a carte (38%) – precedono ancora largamente ascolto della radio
(23%), cinema (20%), lettura di giornali e riviste (16%), gioco con i bambini (9%),
libri (7%) e lavoro manuale (5%). Per le donne la situazione è diversa, ma soltanto
perché condizionata da un perdurante ed esclusivo orizzonte domestico: la radio (54%)
supera così le chiacchiere con le amiche (33%), la lettura di giornali e riviste (23%),
il gioco con i figli e il lavoro manuale (22%), il cinema (18%) e i libri (15%) (Luzzatto
Fegiz 1968, 84). Dieci anni dopo, un campione di giovani sotto i 18 anni mostra una
ormai avvenuta rivoluzione dei mass media, che dominano e restringono la vita sociale.
La televisione (36%) prende largamente il sopravvento nei confronti della radio (24%),
delle chiacchiere con gli amici (21%), dell’ascolto di dischi (17%), del cinema (16%),
della lettura di giornali e riviste (15%), del gioco (14%), dello sport (13%). Ma
è significativa anche tra i giovani la persistenza delle differenze di genere: tra
le femmine la radio (36%) prevale ancora di misura sulla televisione (33%) e le pratiche
private – dischi (22%), giornali e riviste (19%), lavori manuali (15%) – fronteggiano
le pratiche pubbliche, come le chiacchiere con le amiche (23%), il cinema e il gioco
(11%) (Volpicelli 1968, 385).
Che la televisione cambi la vita se ne accorge anche il Partito comunista, che passa
dall’iniziale demonizzazione in chiave antiamericana a un’attenzione più aperta (Guazzaloca
2010, 335). Il quotidiano di partito segue con assiduità le vicende di Lascia o raddoppia? e dalla fine del 1956 il titolo della rubrica di critica radiofonica e televisiva
muta da La voce del padrone in Male e bene alla Rai-Tv. Le Case del popolo e le sezioni di partito si allineano rapidamente al costume della
visione collettiva serale, acquistando apparecchi televisivi e collocandoli accanto
al biliardo e al «calcio balilla». Su «Rinascita» compare l’invito a costituire gruppi
di pressione dei telespettatori per la qualificazione culturale dei programmi e l’imparzialità
dell’informazione. Nel 1961 è già tempo di autocritica ufficiale attraverso la penna
di Aldo Natoli:
Non so se si possa dire che sia in qualche misura mancata la consapevolezza del rilievo
che la radio e più ancora la televisione hanno assunto nel campo della lotta politica
e ideale; se sia stato sempre presente il senso della potenza, della forza di penetrazione,
del grado di persuasività che è loro proprio e del condizionamento che questi strumenti
ormai operano nei confronti di tutti gli altri mezzi di informazione e di propaganda
politica, di diffusione della cultura, di ricreazione. Certo però che, abbandonando
ogni forma di disdegno aristocratico e di inerzia mentale, deve farsi più acuta e
costante la coscienza della parte che radio e televisione stanno conquistando nella
vita moderna, lo studio del complesso di fenomeni sociali e culturali che alla loro
massiccia presenza sono collegati, nella consapevolezza che attraverso questi strumenti
deve passare oramai in notevole misura la nostra battaglia culturale e politica (a.n.
1961).
Tra i contadini lucani intervistati nel 1959 dalla sociologa Lidia De Rita l’interesse
per la televisione si nutre principalmente di due motivi diversi: «c’è da apprendere»,
«c’è il divertimento» (De Rita 1964). Così rispondono giovani di poco più di vent’anni
che hanno frequentato solo qualche anno di scuola elementare:
Tutte le sere, fino a mezzanotte-l’una abbiamo visto, tutte le sere, la televisione...
Quando non tengo da fare niente, tutte le sere vengo alla televisione. Anche quando
la sera andiamo a Ferrandina, andiamo sempre alla televisione [...] Guarda, il cinema,
quando hai visto, diciamo, la pellicola, hai visto... non c’è niente più, invece la
televisione, una volta vedi un programma, una volta vedi un altro programma, la televisione
è più... sportiva del cinema (ivi, 253).
Che poi il cinematografo, certo, quando è... un buon film, allora c’è da vedere, ma
poi tutto il resto non c’è niente. Ma la televisione sono diversi programmi, durante
la serata, sono diverse cose, insomma sono più istruttive, c’è più da vedere [...]
È quistione, dottore, noi siamo della campagna, la sera ti senti stanco... io l’unico
divertimento, la sera me ne vengo alla televisione, sto un paio d’ore, poi mi vado
a ritirare [...] Ma poi... mediante la televisione insomma ci sono tante cose che...
tanti difetti che noi non l’abbiamo... non conosciamo debitamente... Mediante questa
televisione insomma, attraverso la televisione ne fanno conoscere tutti i difetti
della barbabietola, questi insetti... dove n’avvengono, quando depongono le uova...
Eh così in pratica non le puoi vedere... tante cose (ivi, 238-239).
Prima non capivano nudde [niente] invece mò vedi la televisione, vedi parecchi programmi,
vedi parecchie cose [...] si capisce di più [...] Poi lo stesso programma dopo del
Musichiere, no? «quindici uomini» [la canzone dell’Isola del tesoro] l’hanno visto anche i bambini, l’hanno visto! E vanno cantando strada strada...
È stata una cosa che (gesto ampio della mano, come per indicare una cosa enorme) (ivi,
256-257).
Forse le annunciatrici o le cantanti sono un poco scollacciate?... Eh insomma (ridacchia)...
Non vi scandalizzate voi? No, eh, no! Noi, eh, allora... Ma neanche le signorine non
si... Non si scandalizzano? No no! E quando fanno per esempio i balletti? Eh, ché
quelli andiamo cercando, signorina, proprio... I giovani vogliono vedere i balletti.
Quando è stato, signorina, quello l’altra sera... Ah sì, con Fred Buscaglione... Ah,
stavano tutti a mirare, quelli, vogghia Dio! (come dire: per carità!) C’era molta...
sentimento! [...] Io vorrei sapere, per esempio, quelle vecchie che si scandalizzano
di tutte le cose, quando vedono quelle gambe da fuori, dicono qualche cosa, o no?
Beh. Non dicono niente, signorina. Che vogliono dire, povere donne? Disce: non è che
siamo tutti come qua, ché qua se vediamo nu fatto, non so che dobbiamo dire... Insomma,
là è tutto diverso... (ivi, 259).
Non si tratta, come si vede, di una «delocalizzazione della vita sociale» (Meyrowitz
1993a), bensì di una nuova «simultaneità» (Buonanno 2006, 14), che mette a confronto
la propria situazione con altri mondi fin allora sostanzialmente ignorati: la televisione
educa alla pluralità, e incarna una inedita potenza di democratizzazione. Del nuovo
mezzo si percepisce e si apprezza la natura integrativa, che serve a conoscere realtà
diverse e in particolare «come si vive in città». I programmi più citati al riguardo
sono Il Musichiere (il quiz musicale condotto da Mario Riva tra 1957 e 1960) e Lascia o raddoppia? (il celeberrimo quiz presentato da Mike Bongiorno tra 1955 e 1959). Il primo mette
in scena le «canzonette» e viaggia quindi sull’onda di un mercato discografico in
eccezionale espansione, di per sé potente omogeneizzatore delle abitudini e dei consumi
culturali degli italiani. Ma il secondo conquista un’enorme popolarità – che il giovedì
sera costringe i cinema a interrompere per più di un’ora la normale programmazione
e a lasciare posto in sala al piccolo schermo – grazie alla corrispondenza tra la
media normalità del pubblico e quella del conduttore e dei concorrenti.
Il caso più vistoso di riduzione del superman all’everyman lo abbiamo in Italia nella figura di Mike Bongiorno e nella storia della sua fortuna.
Idolatrato da milioni di persone, quest’uomo deve il suo successo al fatto che in
ogni atto e in ogni parola del personaggio cui dà vita davanti alle telecamere traspare
una mediocrità assoluta (questa è l’unica virtù che egli possiede in grado eccedente)
ed un fascino immediato e spontaneo spiegabile col fatto che in lui non si avverte
nessuna costruzione o finzione scenica. Mike Bongiorno non si vergogna di essere ignorante
e non prova il bisogno di istruirsi. [...] In compenso Mike Bongiorno dimostra sincera
e primitiva ammirazione per colui che sa [...] professa una stima e una fiducia illimitata
verso l’esperto (Eco 1961).
Scatta con Lascia o raddoppia? un potente meccanismo di immedesimazione del pubblico con il mezzo: la televisione
fa vedere «gente come noi», permette a ciascuno di diventare un divo. Nello stesso
tempo questa spettacolarizzazione dell’italiano medio è condotta all’insegna della
conoscenza e della cultura: sia pure in una sola materia, con tratti parossistici
di erudizione nozionistica, talvolta ai confini della fissazione o dell’hobby, è necessario
essere competenti in qualcosa per avere successo (Grasso 2004, 43-57). Nei primi due
anni di vita affluiscono alla redazione di Mike Bongiorno più di 300 mila domande
di partecipazione. La televisione funziona così, fin dagli inizi, come un «dispositivo
etnografico»: mette in scena il visibile e il vivibile, documenta realtà sconosciute
ma allo stesso tempo le interpreta e le costruisce, trasforma le identità e mobilita
le soggettività attraverso l’immaginazione di altri mondi (Stella 2003, 21).
Il Musichiere e Lascia o raddoppia? sono entrambi programmi di importazione dagli Stati Uniti: di fatto la televisione
americana costituisce una delle due principali fonti di ispirazione della Rai. L’altra
è rappresentata dalla tradizione culturale del teatro di prosa, nazionale ed europeo:
dei 23 romanzi sceneggiati trasmessi tra 1954 e 1961, solo 7 sono di autori italiani
(Ruffini, Alianello, Fogazzaro, Deledda, De Amicis, Gotta, Nievo), gli altri sono
stranieri (Alcott, Brontë, Austen, Dickens, Dostoevskij, Maupassant, Stevenson...).
Il rilievo che assume lo «sceneggiato colto» rappresenta comunque una delle peculiarità
di lungo periodo della programmazione Rai. Dalla Cittadella (1964) con Alberto Lupo all’Odissea (1968), ai Promessi sposi (1967) – terzi nella graduatoria degli ascolti dell’anno (per una stima di 18,2 milioni
di spettatori) dopo il Festival di Sanremo e il varietà del sabato sera –, appare
evidente e non temporaneo l’intento di conservare e trasmettere le «radici umanistiche»
di una cultura intesa in un’accezione non strettamente nazionale.
America, teatro e letteratura sono impiegati dalla Rai in un progetto culturale di
massa senza precedenti. Secondo le stime di Todd Gitlin (2003, 21), un giorno di Tv
negli anni Sessanta costa la decima parte di un biglietto di cinema nickelodeon agli inizi del Novecento e la centesima parte di un biglietto a teatro a metà del
Settecento.
Come società non abbiamo mai agito così tanto o guardato così tante persone agire
[...] Quello che è veramente nuovo è che il dramma è insito nel ritmo della quotidianità.
Nelle epoche precedenti, il dramma era importante in un festival, durante la stagione
o come un consapevole viaggio a teatro; dall’onorare Dioniso o Cristo all’andare a
vedere uno spettacolo. Quello che abbiamo oggi è il dramma come esperienza abituale:
in molti casi, più dramma in una settimana di quello che la maggior parte degli esseri
umani avrebbe in precedenza visto in una vita intera (Williams 1989, 3-5).
Si insiste talvolta sulla frattura tra intellettuali e televisione, tra cultura d’élite
e cultura di massa (Guazzaloca 2010, 347 e la bibliografia ivi raccolta). È però una
circostanza che riguarda tutti i paesi avanzati e che accompagna fin dalla nascita
ogni mezzo di comunicazione di massa. L’idea di quella frattura nasce cioè da un pregiudizio,
legato a un concetto arcaico e aristocratico di cultura, palesemente inadeguato a
comprendere l’età contemporanea. Intellettuale è chi scrive libri e chi dirige serial
televisivi. Se è interessato a comunicare quanto produce, sia l’uno sia l’altro devono
fare i conti con il mercato e l’industria culturale: in misura diversa, ma è appunto
una differenza di quantità e non di qualità. Almeno nelle intenzioni di chi lo governa,
il mezzo televisivo funziona da potente elemento di integrazione: alla modernità dell’intrattenimento
leggero (che viene da oltre Atlantico) si affianca la matrice colta e «pesante» della
letteratura italiana ed europea. Ricorda Anton Giulio Majano, «padre» dello sceneggiato
televisivo italiano, come al primo romanzo trasmesso dalla Rai (Piccole Donne) dovette aggiungere una puntata finale per soddisfare «il bisogno di fantastico»
espresso a gran voce dagli spettatori con decine di lettere alla redazione (Majano
1985, 88). La cultura di massa che la televisione produce non è quindi il mero riflesso
di una «americanizzazione», né il frutto meccanico di una convergenza pilotata dai
ritmi crescenti dello sviluppo economico post-bellico: ogni paese ne costruisce una
propria versione plurale grazie a un equilibrio (variabile nel tempo e nello spazio)
tra stimoli esterni e radici nazionali.
In qualche modo emblema della mediazione tra gusti del pubblico e missione educativa
è Carosello, che per vent’anni (dal 1957 al 1977) incarna la via italiana alla pubblicità e ai
consumi di massa. La logica del servizio pubblico impone alla comunicazione commerciale
una formula rigida: due minuti e mezzo di «spettacolo» creativo e mezzo minuto finale
di réclame (oggi gli spot durano meno di trenta secondi). La convenzione tra Stato e Rai stipulata
nel 1957 fissa al 5% il tetto di tempo di programmazione concesso alla pubblicità:
grosso modo la metà di quanto previsto dalle regole allora vigenti negli Stati Uniti,
che concedono mediamente agli sponsor sei minuti per ogni ora di programma. Concentrata
nella fascia oraria di maggior ascolto, dopo il telegiornale serale delle 20.30, la
formula di Carosello esprime – rispetto al liberismo americano – una sorta di primato della politica:
le aziende private sono costrette a sottostare a una regola di qualità dell’intrattenimento
che antepone gli interessi degli spettatori a quelli dei consumatori. La Rai monopolista
e finanziata dal canone se lo può permettere. Al momento della sua scomparsa Carosello lascia molto rimpianto, come mostra questa lettera scritta nel 1978 al settimanale
della Rai, il «Radiocorriere Tv»:
A me piaceva Carosello, la più bella pubblicità televisiva eliminata ignorando completamente i desideri
della stragrande maggioranza dei telespettatori. Io ero convinto che almeno sarebbe
stato sostituito da una trasmissione altrettanto valida. E invece ecco pubblicità
a raffica. Perché non chiedete al pubblico cosa ne pensa? Che male ci sarebbe a riconoscere
uno sbaglio? E Carosello potrebbe tornare con soddisfazione di tutti («Radiocorriere Tv», 11 giugno 1978).
Con gusto e cautela Carosello introduce gli italiani sulla soglia del consumismo: nel 1957 apre a Milano il primo
supermarket, sia pure con carrelli più piccoli di quelli americani. Liquori, detersivi, fibre
sintetiche, brillantine per capelli corrispondono ad altrettanti personaggi di Carosello (il tenente Sheridan, il pulcino Calimero, Caio Gregorio «guardiano del pretorio»,
l’ispettore Rock), protagonisti di corti serial che incatenano l’attenzione degli
italiani. Molti dei marchi che danno vita al miracolo italiano (il Moplen della Montecatini,
Piaggio, Ignis, Candy, Ariston) passano di qui. Non è senza significato che Carosello si affermi in una congiuntura storica di espansione del reddito medio e di grandi
spostamenti di popolazione. «Nelle città del Nord si vive meglio», dicono i contadini
del Gargano a metà degli anni Sessanta (Eisermann-Acquaviva 1971, 185). Come il medium
che la trasmette, la pubblicità televisiva assolve ad una funzione di unificazione
socioculturale del paese – quasi antitetica allo spezzettamento tribale degli anni
Novanta – perché svincola l’acquisto e il consumo di generi di largo uso quotidiano
da ogni appartenenza di genere, classe, ideologia, religione.
In altri termini, perché lo trasforma in un segnale di riconoscimento che permette
agli uomini del nord e del sud, della città e della campagna, delle classi elevate
e dei ceti popolari di accettarsi reciprocamente con una naturalezza che chiesa, lingua,
partiti, istituzioni pubbliche e servizio militare non erano mai riusciti ad assicurare
(Lanaro 1992, 258-259).
Non mancano gli osservatori che già all’epoca sottolineano questo passaggio, per molti
versi decisivo.
Nel deserto perfino i miraggi sono meglio della sabbia. Questo spiega come mai lo
choc televisivo sia stato più forte nelle zone depresse d’Italia che non nelle altre.
Spiega anche, forse, lo scandalo delle antenne Tv sulle baracche delle bidonvilles:
qui il teleschermo diventa il sostitutivo di tutti i consumi mancanti d’una comunità
che era sempre vissuta al di qua di ogni forma di mercato. L’abitante della sotto-Italia,
il segregato sociale, realizzava davanti al video una specie d’uguaglianza magica
col resto degli italiani; e per averne conferma ogni sera ecco che anche le famiglie
che non possedevano nemmeno l’armadio o le scarpe, andavano a indebitarsi per comprarsi
il televisore (Ajello-Zanetti 1964).
La Tv non ha solo rivelato l’esistenza di un mondo, ha anche dimostrato che a questo
mondo esistono possibilità di benessere. In questo senso anche le trasmissioni più
inutili o negative, paradossalmente, hanno svolto una funzione di rottura. Cosa c’è
di più banale di un annuncio pubblicitario che magnifica, grazie al sorriso di una
bella figliola, le virtù di un detersivo o di un frigorifero? Eppure pensiamo per
quante donne italiane un annuncio del genere serve a ricordare ogni sera che esiste
un mondo in cui una donna «può» avere un frigorifero. L’informazione sarà fonte di
dispetto e di invidia, ma invidia e dispetto si sostituiscono a un sentimento ben
più grande: l’ignoranza, il non sapere nulla dei frigoriferi, il credere che i frigoriferi
appartenessero alla fiaba. L’annuncio pubblicitario dice invece: «comprate il frigorifero».
È una provocazione drammatica, per chi non ha neppure il cibo da mettervi dentro;
ma la storia insegna che le classi sfruttate hanno incominciato a muoversi solo quando
hanno preso coscienza che esisteva una alternativa (Eco 1964).
La «persuasione occulta» esercitata dalla pubblicità soddisfa diversi ed eterogenei
bisogni individuali: autostima, creatività, rassicurazione emotiva, senso di potenza,
coesione familiare. Al tempo stesso i veicoli mediatici che essa utilizza fanno parte
a pieno titolo di una società industriale che punta a diventare «opulenta»: ne riflettono
e trasmettono valori e regole. Molti dei prodotti che passano per Carosello hanno a che fare con la cura della casa (dado per il brodo, sughi e carne in scatola,
detersivi, elettrodomestici) e completano il processo di individualismo acquisitivo
che passa per l’acquisto dell’abitazione, mobilitando però al suo interno la componente
femminile. La donna moderna e realizzata compete con l’uomo sul fronte dei consumi
e rivendica voce in capitolo nella gestione dei bilanci domestici, ma pur sempre secondo
un’«etica della nutrice» che ribadisce l’orizzonte esclusivamente privato e casalingo
della propria identità.
Un interessante fenomeno di natura sociale mi par di notare nell’uso di questi casalinghi
arnesi elettrici, che forse è indizio di un capovolgimento non tanto remoto nei rapporti
fra i due sessi, per il quale la donna tornerebbe ad essere quello che è la femmina
presso tutti gli insetti e quasi tutti gli altri animali, il sesso dominante, e l’uomo
ridotto a poco più di un accessorio, o come lo definiva Mrs. Emmeline Pankhurst, a social excrescence (Monelli 1963, 146).
D’altra parte, quando a metà degli anni Sessanta la Esso traduce in Italia la campagna
«metti un tigre nel motore», assume un genere maschile del felino, che sfida la grammatica
ma ribadisce la tradizionale dicotomia sessuata tra privato e pubblico: donna-casa,
uomo-macchina (Bini 2010, 215-216). Calimero, pulcino apparentemente nero ma in realtà
«solo sporco», viene creato da uno dei pionieri della pubblicità italiana, Nino Pagot,
per reclamizzare un detersivo e incorpora un’elaborazione culturale significativa,
che lo stesso ideatore racconta:
Per vendere bisogna interessare le donne: che cosa attira l’attenzione delle donne?
I bambini e gli animali. Bene, il prototipo del bambino indifeso è il pulcino. Se
lo facciamo triste e disgraziato, suscita maggiori simpatie. Se lo facciamo nero,
cominciamo subito a introdurre l’idea che bisogna pulirlo. Se lo facciamo protestare,
assecondiamo uno dei più antichi vezzi degli italiani. Se gli facciamo combinare un
sacco di guai, gli togliamo il carattere troppo patetico e dolciastro che finirebbe
per urtare. C’è, caso mai, il lieto fine pubblicitario che accomoda tutto. Così è
nato Calimero, che credo costituisca il più grosso successo di Carosello (Giusti 1995,
366).
Visto col senno di poi, Carosello può anche sembrare l’emblema di un’anima non commerciale della televisione, che da
un lato difende il controllo politico democristiano e dall’altro incarna «una tradizione
culturale accademica e schifiltosa, che accantonava tutto ciò che non avesse una ‘alta’
ispirazione» (Balassone-Guglielmi 1987, 31). Ma questa è forse un’interpretazione
anch’essa troppo «accademica e schifiltosa». All’epoca Carosello rappresenta di fatto un’apertura al mercato pubblicitario: nel bilancio Rai del 1963
le entrate pubblicitarie assommano a 11 miliardi di lire, contro i 33 di abbonamenti,
quando ancora nel 1968 il canone di abbonamento copre l’85% delle entrate della televisione
di Stato francese. Nel suo complesso il mercato pubblicitario italiano mostra una
ripartizione per media non molto diversa da quella statunitense: la stampa assorbe
la grande maggioranza delle risorse (63% nel 1963, contro il 67% degli Usa nel 1956),
la televisione una quota ancora minoritaria (11% contro 21%), seppur maggiore di quella
della radio (8% contro 9%), mentre un peso rilevante è esercitato dalla pubblicità
esterna (11% contro 3%) e da quella nei cinema (6%), che è invece assente nel quadro
statunitense.
Carosello è anche il frutto di una «virata laica» (Monteleone 2009, 299) imposta all’ente televisivo
dalla nuova gestione di Marcello Rodinò (ingegnere elettronico) e Rodolfo Arata (giornalista),
che dal 1956 sostituiscono alla direzione della Rai Filiberto Guala, uomo della vecchia
guardia degasperiana. Di quest’ultimo solleva clamore la scelta immediatamente successiva
di entrare nell’ordine dei frati trappisti, vista come sintomo della sua stretta vicinanza
alla Chiesa di papa Pio XII. Ma non si deve dimenticare che la gestione Guala – arrivato
alla Rai dopo la presidenza di un ente cruciale nella costruzione del consenso di
massa alla Dc come l’Ina-casa, strumento principe dei piani di edilizia popolare negli
anni Cinquanta – tiene a bada la schiera di dirigenti più legati all’esperienza della
radio sotto il regime fascista e passati nelle file della destra democristiana. A
Guala si deve così l’assenza di chiusure pregiudiziali nei confronti della modernità
televisiva statunitense, ma anche l’istituzione di un centro didattico interno che
presiede al reclutamento dei cosiddetti «corsari»: i giovani frequentatori dei corsi
del centro stesso, molti dei quali (Eco, Vattimo, Guglielmi, Colombo) destinati ad
un ruolo di primo piano nella cultura italiana.
3. La lingua degli italiani
La Rai di Rodinò e Arata riflette da vicino l’ascesa alla guida della Dc di Amintore
Fanfani e della corrente di Iniziativa democratica, favorevoli all’intervento statale
in economia e a una maggiore autonomia dalla Chiesa. Fermo restando il ferreo controllo
di partito sull’informazione televisiva, la Rai potenzia e diversifica le proprie
fonti d’entrata grazie alla pubblicità, diventando un soggetto finanziario di primaria
importanza nel quadro delle attività dell’Iri. Mentre nel 1968 la televisione francese
ricava dalla pubblicità il 15% delle entrate, quella italiana già nel 1963 supera
il 25%. L’attivo di bilancio consente l’ampliamento della programmazione alla fascia
oraria pomeridiana – le ore di trasmissione crescono dalle duemila annue del 1956
alle 4.500 del 1964 (in Francia sono poco più di tremila) – con la nascita della Tv
per ragazzi e di Telescuola (1958), programma che propone lezioni di avviamento professionale organizzate in
collaborazione con il ministero della Pubblica istruzione e rivolte ai ragazzi residenti
in località sprovviste di scuole secondarie. Fino dal 1961 (con due anni di anticipo
sull’applicazione della riforma) la Rai dedica le lezioni ai programmi della nuova
scuola media unificata.
Rispetto al modello statunitense, questa vocazione pedagogica rappresenta la vera
peculiarità della televisione europea e innanzitutto inglese (Bourdon 2001). Anche
in Italia esemplifica un notevole grado di sintonia tra politica e società civile:
la prima (e la Rai che ne è diretta espressione tecnica) interpreta con efficacia
il dinamismo e la crescita della seconda. È un modo di «fare gli italiani» che è insieme
vecchio e nuovo. Vecchio perché mutua dal passato l’approccio illuministico e paterno,
nuovo perché al tradizionale discorso etico-politico sostituisce l’appello alla mobilitazione
individualistica per il benessere e l’espansione dei consumi privati. Telescuola e Carosello rappresentano bene questa convivenza di passato e futuro.
Il corrispettivo del collante incarnato agli occhi del pubblico degli italiani dalla
pubblicità soft e creativa di Carosello è l’effetto – probabilmente il più vistoso e significativo, sicuramente il più noto
– che la televisione determina nella lingua parlata degli ascoltatori. Tullio De Mauro
(1968) è stato il primo a indicare nel medium televisivo uno strumento decisivo di
unificazione linguistica del paese. Il cinema infatti rappresenta un’occasione di
incontro e familiarizzazione con l’italiano «nazionale» ancora troppo sporadica e
per di più in fase calante, proprio ad opera del crescente successo della Tv: tra
1958 e 1960 gli spettatori che frequentano le sale cinematografiche almeno una volta
alla settimana (il minimo indispensabile per mutare abitudini di linguaggio) calano
dal 28 al 17%. La radio ha ovviamente una diffusione e costanza d’ascolto molto superiore
e anzi ancora largamente predominante: nel 1965 dichiara di sentire la radio tutti
i giorni o quasi il 52% degli italiani, contro il 39% che dichiara lo stesso a proposito
della televisione. Ma il parlato della radio è diverso dal parlato normale: è una
lingua formale e piatta, contraddistinta dalla sintassi semplice e dalla mancanza
di enfasi («atonia prosodica» la definisce De Mauro), che non riesce più di tanto
a convincere il pubblico. Nonostante vent’anni di esercizio attivo delle trasmissioni
radiofoniche, introdotto e sostenuto con forza dal regime fascista, nel 1951 si stima
che circa un terzo degli italiani abbia abbandonato l’uso del dialetto come unico
ed esclusivo mezzo di comunicazione, ma meno di uno su cinque (19%) lo abbia compiutamente
sostituito con l’italiano. Due italiani su tre usano ancora il dialetto come idioma
normale in ogni circostanza sia pubblica sia privata. Viceversa, l’italiano della
televisione è un linguaggio plurale: da quello aulico delle trasmissioni culturali
come L’Approdo (1963) a quello informale delle commedie o di Mike Bongiorno. Per quanto l’italiano
plurale della Tv susciti le critiche della carta stampata – «antilingua», «italo-romanesco»,
sono i giudizi che, ad esempio, si rincorrono sul «Corriere della Sera» – è anche
l’unico a penetrare in profondità nelle abitudini domestiche, assai più di quanto
non siano stati capaci di fare cinema e radio. Nel 1995 le proporzioni del 1951 appaiono
quasi diametralmente rovesciate: gli italiani che parlano prevalentemente il dialetto
sono calati da due terzi a meno di un quarto, quelli che parlano anche in privato
l’italiano aumentano da un terzo a quasi metà (45%). Rimanendo sostanzialmente (e
scandalosamente, come già detto) ferma la circolazione di libri, giornali e riviste
– 38% di lettori abituali di quotidiani nel 1965, 40% nel 2001 –, è difficile non
attribuire al piccolo schermo buona parte di questa trasformazione linguistica. La
scuola, infatti, sembra influire soprattutto sulla scrittura e la lingua da essa insegnata
(a una quantità di popolazione senza precedenti nella storia d’Italia) è un italiano
«antiparlato»: una sorta di «superficie linguistica prefabbricata» ancora separata
dalla «coscienza sottostante» (Poggi Salani 1993). Viceversa «l’italiano medio, rispettoso
(talora velleitariamente) della norma anche fonetica, nonché perbenista» (Raffaelli
1994, 287) della paleotelevisione pedagogica riesce a entrare nell’uso quotidiano
perché entra in sintonia con un doppio bisogno profondo – e solo in apparenza contraddittorio
– degli italiani: il protagonismo individuale o familiare sul fronte delle migrazioni
e dei consumi, da un lato, e l’aspirazione all’omologazione, integrazione e legittimazione
sul piano sociale, dall’altro. Sia l’imprenditore del Nord proteso nella corsa allo
sviluppo e nella difesa ante litteram del «made in Italy» sui mercati stranieri, sia il contadino del Sud inurbato e occupato
nel lavoro dipendente, vivono questo doppio bisogno e la televisione – più degli altri
media, più di chiese e partiti politici – è l’unica che riesce a soddisfarlo ogni
giorno.
Non si tratta solo del contributo diretto e attivo della programmazione Rai nella
lotta contro l’analfabetismo – dato da trasmissioni come Non è mai troppo tardi (1960), condotta fino al 1968 dal maestro Alberto Manzi («prendete la vostra penna...»),
con lezioni di grammatica, esercizi di scrittura, documentari –, quanto soprattutto
della miscela di informazione e intrattenimento che ispira il resto del palinsesto
televisivo. La televisione infatti incarna il giusto mezzo tra appeal familiare e rispettabilità pubblica: non ispira soggezione, coinvolge senza traumi
o responsabilità. Abbina il linguaggio alle espressioni del volto e alle movenze della
gestualità: lo rende vivo, accattivante, imitabile. Come dicono i contadini intervistati
da Lidia De Rita, ci si istruisce anche durante Carosello perché si possono vedere tante Italie che non si conoscono. La massaia può scoprire
l’esistenza del dado per il brodo, alleviare il senso di colpa per non prepararlo
sempre in casa, assimilare così (o limitarsi a sognare) nuovi stili di vita.
Di quest’Italia nuova che entra in casa o che è possibile scoprire al bar più vicino,
fa parte anche una lingua nello stesso tempo castigata e informale. Il suo lento e
quasi inconsapevole apprendimento peraltro non cancella l’uso del dialetto: ancora
nel 1995 quasi un terzo degli italiani (28%) è abituato ad alternare ogni giorno italiano
e dialetto, a seconda del carattere più o meno pubblico delle conversazioni. La televisione
insegna un uso plurale della lingua: italiano comune, italiano regionale (quello di
Totò ed Eduardo De Filippo), dialetto italianizzante, dialetto puro.... Ma il risultato
finale non cambia: «è nato l’italiano come lingua nazionale», scrive nel 1964 Pasolini
su «Rinascita». E nasce soprattutto per opera della televisione. Ecco quanto scrive
un lettore al «Radiocorriere Tv» in occasione della messa in onda del Mastro don Gesualdo (1964) di Verga:
Io sono siciliano e dovrei essere il primo a risentirmi del dialetto un po’ approssimativo
che parlano quasi tutti gli attori non siciliani del «Mastro don Gesualdo». Ma intervengo
proprio per fare una considerazione opposta, e cioè che nulla toglie all’efficacia
drammatica della trasposizione televisiva quel dialetto così così. Anche perché, se
proprio dovessimo sottilizzare, non basterebbe reclamare il vero dialetto siciliano, ma esistono modi di parlare profondamente diversi che rendono, per esempio, il palermitano
e il catanese quasi due dialetti («Radiocorriere Tv», 9 febbraio 1964).
Per fare solo un altro esempio tra i tanti possibili, si pensi al discorso pronunciato
da papa Giovanni XXIII la sera della seduta di apertura del Concilio Vaticano II (11
ottobre 1962) – «tornando a casa troverete i bambini, date loro una carezza e dite
‘questa è la carezza del papa’» – e all’impatto che nell’immaginario collettivo degli
italiani questa lingua semplice e familiare esercita, nel senso di diminuire la distanza
ieratica che fin allora separava popolo e vertice dell’istituzione ecclesiatica. Merito
di papa Giovanni, indubbiamente. Ma anche della televisione, che con le immagini della
fiaccolata in piazza San Pietro contribuisce a diffondere e replicare l’evento, fino
a farlo diventare simbolo e significato. Anche in questo caso la parola chiave per
comprendere il mutamento torna ad essere pluralità. Al pari di ogni altro mezzo di comunicazione, la Tv non soppianta la realtà, non
schiaccia le intelligenze dell’uditorio sotto il peso di un messaggio univoco, unidirezionale
e manipolatorio, bensì propone testi che il ricevente rielabora in forme diverse secondo
la propria singolare intelligenza. Cioè impara a miscelare italiano televisivo e dialetto
secondo le circostanze. La televisione unifica il paese, dando vita a una «comunità
immaginata» (Fanchi 2002, 100).
Il mutamento linguistico è la spia di mutamenti del costume, più pervasivi e molecolari:
quindi meno visibili ma non per questo meno significativi. Una fonte possibile è rappresentata,
ancora, dalle lettere pubblicate sul «Radiocorriere Tv».
Sono una vecchia... Eccellenza. Ma ormai questo titolo non conta più. Mia figlia mi
ha riferito che la Tv ha interrogato alcune personalità sull’opportunità o meno di
usare ancora questo titolo, e mi ha detto che alcune risposte sono state particolarmente
gustose. Si potrebbero leggere sul «Radiocorriere Tv»? [...] Oriana Fallaci: «Mio
nonno diceva che eccellenza era una parolaccia borbonica. E quando ero bambina, io
la usavo quando volevo insultare qualcuno. Smisi di usarla quando mi accorsi che non
era una parolaccia, ma un complimento da rivolgere alle persone potenti di cui si
aveva paura. A me non piacciono le persone potenti, non piacciono i complimenti alle
persone potenti, e tanto meno mi piace averne paura. Di conseguenza non può piacermi
la parola eccellenza» («Radiocorriere Tv», 23 febbraio 1964).
Sempre sul settimanale della Rai Lina Wertmüller ricostruisce il senso di rottura
provocato dalla scelta di affidare la parte di protagonista del Giornalino di Gian Burrasca (1964) a una donna, cantante e non attrice: Rita Pavone.
Un incontro del tutto casuale. Rita stava incidendo delle canzoni negli studi della
sua casa discografica. Lina Wertmüller, nello studio accanto, stava ascoltando la
colonna sonora di un film [...] «Mi colpì, soprattutto, il suo modo di trattare, di
muoversi, tutto scatti, e un gestire vivace, un fare burlone, una comunicativa straordinaria.
E anche il suo modo di parlare velocissimo, non sempre raffinatissimo, se vogliamo,
ma con modi di dire stravaganti e irresistibili come quel ‘boia bastimento’ che è
la sua interiezione preferita [...] Dopo pensai: ecco il mio Gian Burrasca». Lina
Wertmüller ne parlò a Rita. E lei immediatamente rispose di sì con entusiasmo. Mamma
Pavone invece impiegò un po’ di tempo a convincersi, «la mia figliola – diceva – farle
fare la parte del maschietto, non mi par bello» [...] Infine Mamma Pavone cedette,
però non proprio volentieri. Dice: «quando me l’hanno riportata a casa, con i capelli
tagliati corti corti, proprio come un maschietto, mi son sentita una stretta al cuore»
(«Radiocorriere Tv», 17 maggio 1964).
Dietro il mutamento linguistico e di costume stanno i numeri della diffusione del
nuovo mezzo in Italia. All’inizio il televisore è senz’altro uno status symbol di nicchia: nel 1955 le famiglie che lo acquistano (1% del totale) possiedono anche
la radio (nel 98% dei casi, contro il 68% del totale delle famiglie italiane), il
telefono (80% contro 15%), il frigorifero (64% contro 9%), l’auto (65% contro 11%).
Ma questo carattere elitario si stempera rapidamente. Dieci anni dopo le famiglie
con la Tv salgono al 49% (35% nel Meridione), quelle con frigorifero al 55% (32%),
quelle con lavatrice al 23% (12%). Certo, anche negli anni del boom (1958-1966) l’incremento
del numero di case con televisore (dal 12 al 55% del totale) resta molto lontano dall’impressionante
velocità degli Stati Uniti: dal 7 all’82% nel periodo immediatamente precedente (1950-1957),
quando per raggiungere la stessa quota la radio ci aveva messo il doppio di tempo,
tra 1925 e 1940. Ma la curva di crescita degli abbonati alla Rai e degli spettatori
«sistematici» (che guardano la televisione tutti i giorni o quasi) non ha niente da
invidiare agli altri paesi europei (fatta eccezione per l’Inghilterra, partita con
vent’anni di anticipo). Nel 1963 la percentuale di adulti che guarda la Tv almeno
tre volte a settimana è pari al 49% in Italia, al 33% in Francia, al 45% in Germania
Ovest e all’85% in Gran Bretagna. A spingere in alto l’Italia è proprio la pratica
dell’ascolto fuori di casa: gli abbonati alla fine del 1962 sono infatti soltanto
il 6,8%, contro il 7,2 della Francia, il 12,6 della Germania e il 22,8 della Gran
Bretagna. Appaiono tuttavia già pronunciate alcune differenze di fondo in materia
di consumi culturali, destinate a riprodursi nel tempo fino ai giorni nostri. Gli
italiani vanno di più al cinema: 44% di spettatori (almeno una volta al mese) contro
il 30 in Francia, il 23 in Germania, il 20 in Gran Bretagna. Ma comprano molti meno
giornali: legge un quotidiano almeno tre volte a settimana il 48% in Italia, contro
il 76% in Francia, l’83 in Germania e il 93 in Gran Bretagna.
Nell’affermazione del medium televisivo a metà degli anni Sessanta colpisce la corrispondenza
tra la struttura sociale del paese e la composizione del pubblico televisivo. Tra
coloro che guardano la Tv le donne sono presenti al pari degli uomini, le casalinghe
sfiorano un terzo del totale, le percentuali di spettatori sistematici sono simili
tra dirigenti (68%), impiegati (73%), braccianti (67%), operai comuni (65%), commercianti
(67%). La distribuzione per ampiezza dei centri abitati non appare sperequata in favore
delle città maggiori (gli spettatori in città con più di 100 mila abitanti sono un
terzo del totale, mentre vi vive poco più del 40% degli italiani); gli spettatori
con solo la licenza elementare (64%, ma erano soltanto il 26% ancora nel 1958) sono
un po’ di meno rispetto a quelli reali (77%), a tutto vantaggio dei titoli di studio
superiori; il Sud appare penalizzato (28% del pubblico televisivo, contro il 34% di
popolazione presente), ma in misura non irrimediabile. Se dalle statistiche dell’ascolto
si passa a quelle del possesso la sostanza non cambia: nel 1965 è presente al Sud
un quarto dei televisori venduti in Italia, contro l’11% dei telefoni e il 17% delle
auto. Ponderata con il reddito pro capite, la penetrazione della televisione al Sud
è maggiore di quella al Nord (Ferrarotti 1968, 137; Pinto 1980, 45).
Il possesso del televisore funziona da strumento di autoidentificazione nella parte
moderna del paese: «differenziatore» e «ostentatorio» per i ricchi, mezzo di «eguaglianza»
e di «socializzazione anticipatoria» per i poveri (Ferrarotti 2005, 36-37). Ciò non
significa naturalmente che le differenze di reddito non contino. Secondo la Doxa nel
1965 gli spettatori «forti» (almeno quattro volte a settimana) corrispondono al 70%
nella classe superiore, al 60% nella classe media e al 32% nella classe medio-inferiore
e inferiore. Sono differenze (di ascolto) non molto lontane da quelle (di possesso)
degli Stati Uniti di dieci anni prima, quando la Tv è presente nell’81% delle case
di famiglie appartenenti al quarto più ricco, contro il 48% del quarto più povero.
Viceversa, rispetto all’Italia, sull’altra sponda dell’Atlantico sembrano contare
di più le differenze geografiche: nel 1955 la Tv è presente nel 74% delle abitazioni
in aree urbane (con più di 50 mila abitanti) contro il 42% delle aree rurali, nell’80%
delle famiglie degli Stati della East Coast contro il 62% di quelle del West (Bogart
1956, 14-15).
Il carattere trasversale della penetrazione del mezzo televisivo in Italia ha, ancora
una volta, molto a che fare con la pratica dell’ascolto collettivo, che funziona da
potente traino all’acquisto. Rimane il fatto che – nel panorama dei beni di consumo
durevoli – la Tv esercita un’attrazione sugli italiani e risulta accessibile alle
loro tasche in modo del tutto particolare e ben visibile già all’indomani degli anni
del boom economico: tra 1960 e 1965 gli abbonamenti Rai decollano dal 17 al 42% delle
famiglie italiane.
Per tutto il paese, milioni di persone vedono gli stessi programmi, con gli stessi
personaggi nelle stesse situazioni e gli stessi riferimenti a luoghi e personalità.
Tutto ciò produce un livello di esperienza culturale condivisa che nessun’altra società
ha mai conosciuto (Bogart 1956, 25).
Lo stupore in tempo reale del sociologo statunitense può applicarsi senza difficoltà
anche alla situazione italiana. Per quanto corrispondano a una società multietnica
e a un sistema televisivo interamente privato e senza monopolio statale, i motivi
che Bogart chiama in causa per spiegare la potenza del nuovo mezzo sembrano non perdere
efficacia nemmeno in Europa: universalità dei simboli, carattere ufficiale, prestigio
della fama, illusione di realtà e di dramma, corrispondenza con la vita quotidiana,
senso di intimità, sogno fantastico, facilità di ascolto e deresponsabilizzazione
dello spettatore. Un campione di cinquemila cittadini italiani, intervistato nel 1964,
mette in ordine di preferenza questi giudizi sui programmi della Rai: interessanti,
divertenti, istruttivi, distensivi, educativi, di buon gusto... I motivi che spingono
in misura di gran lunga maggiore gli italiani verso la Tv sono: «per essere al corrente
dei fatti del giorno», «perché è un piacevole svago», «per distrarmi e riposarmi dopo
una giornata di lavoro» (Il pubblico 1965, 39 e 44). Conoscenza e qualità guidano i gusti anche degli spettatori italiani,
forse con un peso maggiore del primo termine in confronto a un contesto, come quello
americano, in cui la televisione vanta un’utenza più antica e collaudata.
Rispetto agli altri mass media, la Tv mette in mostra fin dalle origini il suo volto
più plastico e flessibile, capace di adattarsi ad un uso plurale da parte degli spettatori
più diversi: scanzonato e realistico rispetto alla radio e al suo connaturato aplomb; invitante, domestico e intimo rispetto al cinema e alla sua forza di soggezione.
«Una caratteristica essenziale del pubblico televisivo – scrive Bogart a proposito
degli Stati Uniti – è la sua richiesta di varietà» (Bogart 1956, 46). Nella televisione
americana del 1957 i programmi su cui gli inserzionisti pubblicitari investono di
più sono, nell’ordine, film e sceneggiati, quiz e situation comedy: nuovo genere di spettacolo di immediato e grande successo – a partire da Father Knows Best, trasmessa dal 1954 al 1963 – che mette in scena, tra satirico e drammatico, le vicende
della vita familiare quotidiana e che aspetterà più di un decennio per essere importato
in Italia. Resiste infatti, non solo in Italia ma in tutta Europa, un pregiudizio
contro la rappresentazione scenica del «presente comune» che deriva dalla configurazione
pubblica del sistema televisivo e dalla conseguente missione pedadogica di nation-building che gli viene affidata: le famiglie sono considerate oggetto di una programmazione
responsabile e di un’attenzione tendenzialmente censoria per i contenuti, non già
soggetto di per sé interessante e degno di messa in scena (oltre che target decisivo
della comunicazione pubblicitaria).
A questo pregiudizio risponde anche il telegiornale della sera. Ricalcato sull’esempio
radiofonico e letto da un unico «mezzobusto», diffonde un’impressione di autorevolezza
e unitarietà dell’informazione televisiva: un potente senso di realtà accompagnato
da una pressoché totale assenza di pluralismo e dalla tradizionale inclinazione pedagogica.
In omaggio a quest’ultima ne sono sostanzialmente espulse economia e cronaca rosa:
troppo complicata la prima, poco seria la seconda. I riti del potere (prime pietre,
inaugurazioni, solennità civili e religiose) dominano la scena. Per gli italiani del
boom il telegiornale funziona come il «World», il quotidiano di Pulitzer, tra gli
immigrati di New York ai primi del Novecento: come strumento e certificato di integrazione
e legittimazione sociale.
Anche per chi il televisore non ce l’ha. Le indagini del neonato (1961) Servizio opinioni
della Rai mostrano infatti una ulteriore corrispondenza nel gradimento dei diversi
programmi tra abbonati e italiani senza piccolo schermo in casa: entrambe le categorie
mettono in ordine di graduatoria film, telegiornali, telefilm, canzoni e musica leggera,
sceneggiati, riviste e varietà, giochi a quiz. I gusti delle donne riflettono invece
il pregiudizio di genere: i telegiornali retrocedono dal secondo al quinto posto,
a tutto vantaggio di canzoni e musica leggera (che salgono in classifica gli stessi
gradini). Le preferenze degli spettatori italiani interrogati nel 1961 vanno in larga
maggioranza al varietà musicale L’amico del giaguaro (1961), seguito da Tribuna politica (1960) e Campanile sera (1960). La graduatoria delle informazioni conferma la loro funzione di identificazione
comunitaria e vede al primo posto quelle riguardanti la propria regione, seguite dalle
calamità gravi, dalla cronaca mondana e nera, dagli avvenimenti politici, dall’attualità
tecnica e scientifica; all’ultimo posto (sgradite al 74% del campione) le notizie
relative alla vita dei partiti. Sondaggi successivi (1964) confermano in larga misura
questi orientamenti: le differenze tra possessori o meno di televisori (collegabili
a un divario di reddito) si manifestano nel gradimento di programmi particolari (cultura,
opere liriche, musica sinfonica) ma non di quelli di maggiore ascolto, che sono anche
quelli di prima serata e quindi più visibili fuori di casa propria.
Non sono gusti particolari. Gli spettatori statunitensi del 1951 consegnano ai sondaggi
graduatorie simili: telegiornali (che tra le donne scendono al quarto posto), musical,
varietà e commedie, sceneggiati e film (che risentono della prolungata opposizione
di Hollywood a concedere i diritti per l’uso televisivo). Proprio il caso di Campanile sera merita tuttavia un supplemento di attenzione. Si tratta infatti di un vero e proprio
giro nelle province italiane che la Rai mette in campo con le sue unità produttive
mobili e i suoi inviati Enzo Tortora ed Enza Sampò, che decentrano nelle piazze e
nelle comunità locali il format della gara a quiz e delle prove di abilità. Attorno alla puntata televisiva in diretta
si raccolgono autorità e popolazione, che vivono insieme (seppur separati da transenne)
il proprio momento di celebrità: la Rai rafforza il loro senso di identificazione
nazionale e locale, mentre nello stesso tempo rende tangibile il proprio ruolo di
omogeneizzatore e collante dell’Italia dei comuni e dei tanti campanili. È, per ora,
la via italiana alla sit-com: non già la sceneggiatura della vita domestica con i suoi problemi di ogni giorno,
bensì la documentazione di una società civile ordinata e composta, retta dalle sue
istituzioni e chiamata a dare il meglio di sé, mettendo a tacere conflittualità e
opposizioni interne. Secondo la suggestiva immagine coniata da Horace Newcomb, la
televisione funziona come l’intagliatore delle maschere rituali nelle tribù africane:
esprime e condensa identità comunitarie locali, sistemi condivisi di simboli e significati
(Newcomb 1999, 52). Cantagiro (1962), rassegna itinerante di cantanti che va in onda fino al 1970, e poi la sua
emulazione Festivalbar (1966) proseguono la missione in provincia della Rai avviata da Campanile sera. Una delle voci più sensibili della cultura italiana, Cesare Zavattini, nota per
tempo gli effetti omogeneizzanti della televisione:
Se Attila sopraggiungesse all’improvviso e chiedesse un elenco delle persone da salvare,
la gente sceglierebbe Bongiorno, Corrado [altro presentatore televisivo], Tortora,
la Sampò, Topo Gigio [pupazzo della Tv dei ragazzi] e Angelino [personaggio di Carosello] (Zavattini 1961).
4. Pedagogia e censura
Ciò che oltreoceano è il frutto naturale e meccanico del mercato e della libera concorrenza
degli sponsor pubblicitari (alla ricerca di diverse fasce sociali di consumatori),
in Europa e in Italia è invece la conseguenza deliberata e consapevole di politiche
culturali. La precocità di Tribuna politica (quasi contemporanea alle omologhe versioni statunitensi) si spiega con lo stretto
rapporto intrattenuto dalla Rai con le istituzioni pubbliche (e anche con il tradizionale
scarso interesse per la politica di buona parte dei cittadini degli Stati Uniti).
Per gli italiani il contatto visivo con i politici rappresenta comunque una novità.
Abbiamo fatto una scommessa in famiglia. Io sostengo che anche gli uomini politici
che partecipano a Tribuna elettorale si mettono il cerone sul viso, mia moglie dice di aver letto che non se lo mettono
perché lo considerano una cosa incompatibile con la dignità parlamentare. Ci rimettiamo
alla sua cortesia per sapere chi ha ragione e chi ha torto («Radiocorriere Tv», 14
aprile 1968).
L’allora direttore del «Radiocorriere», Ugo Zatterin, risponde sottolineando il cambiamento
dei tempi:
Ci fu un tempo, molti anni fa, in cui gli uomini politici che si avvicinavano per
la prima volta a una telecamera rifiutavano sdegnosamente l’invito a «passare al trucco»:
che significava, allora come oggi, lasciarsi stendere sul viso un velo di cipria solida,
allora indispensabile, oggi – coi mezzi di ripresa più perfezionati – soltanto utile
contro i luccichii dei nasi e delle fronti e contro le ombre nere della barba sulle
guance. Un po’ alla volta si sono tutti convinti che la dignità dell’uomo riposa in
ben altri comportamenti e che l’apparire più gradevoli ai telespettatori è oltre che
un loro interesse elettorale, anche un dovere di cortesia, come presentarsi in un
salotto col vestito stirato e con le scarpe lucidate. Ora «passano al trucco» prima
ancora d’entrare nello studio, e qualcuno, ormai veterano delle riprese televisive,
indica al truccatore o alla truccatrice la sfumatura di cipria solida che, per esperienza,
ritiene gli si addica di più.
Non mancano tuttavia le resistenze, testimoniate da un’altra lettera:
Non condivido affatto la sua opinione nei riguardi del democratico uso della Rai a
servizio di tutti (ecco, forse, il suo parere sulla democraticità) per la campagna
di propaganda elettorale. No, signor mio, la propaganda se i partiti se la vogliono
fare se la debbono fare a spese loro e non del solito contribuente [...] Io pago (e
perciò vanto dei diritti) un congruo canone annuo per essere informato e divertito,
non per essere propagandato, sia pure, come lei dice, in chiave democratica (in quanto
tutti i partiti sono ammessi a servirsi, in egual misura, della Rai-Tv). Signor Direttore,
la Rai-Tv è un Ente statale, o para, e come tale non può affatto disporre delle sue
possibilità divulgative a suo beneplacito, nell’assurda pretesa di esercitare un diritto
democratico. Il diritto democratico nei riguardi [dei] politici la Rai-Tv lo esercita
già e con larga misura con i servizi riguardanti i sindacati e [la] cronaca dei partiti,
in quanto limitati alla parte informativa. La mia libertà di opinione deve essere
rispettata, nessuno deve avere il diritto di farmi ascoltare la sua propaganda [...]
ascolterò la voce di tutti i partiti, andrò ai loro comizi e leggerò i loro giornali,
ma nessuno può e deve violare la Costituzione portando in casa mia opinioni che io
ripudio perché contrarie alla mia religione e alla mia moralità. Io, capo di famiglia
responsabile, ho il diritto della paterna potestà sui miei figli [...] perciò ho diritto
a far rispettare la inviolabilità del mio domicilio garantitami dalla Costituzione
[...] Oggi la Rai-Tv si introduce di prepotenza in casa mia [...] recando per mano
figuri politici che se invece che in forma fotografica o magnetofonica si presentassero
nella loro consistenza fisica (peraltro non dissimile dalla precedente) io non esiterei
a prenderli a calci, tanto li considero repellenti. Ho detto delle verità troppo scottanti,
e i «padroni rossi» della Rai-Tv non consentiranno la pubblicazione di questa protesta,
però se la lettera non verrà pubblicata, una copia di essa sarà inviata alla Magistratura
(«Radiocorriere Tv», 21 aprile 1968).
Zatterin replica in modo cortese ma fermo, rivendicando le ragioni del servizio pubblico.
Risponderle compiutamente richiederebbe un discorsetto abbastanza lungo sul concetto
di democrazia. È convinzione diffusa che libertà sia innanzitutto facoltà di scelta,
e che per scegliere bisogna conoscere ciò che si sceglie e saperlo distinguere, a
ragion veduta, da ciò che si respinge. Mettere in condizione il maggior numero possibile
di elettori di ascoltare le idee e i programmi che animano i vari partiti in vista
delle elezioni è soprattutto un dovere della Rai. Non metto in dubbio che lei abbia
idee e aspirazioni così radicate, che le opinioni altrui non saranno mai in grado,
che dico, di modificarle? Neppure di scalfirle. E sono convinto che, stando così le
cose, a lei non importa un bel niente di ascoltare la parola dei suoi avversari politici.
Ma questa (mi consenta di aggiungere: grazie a Dio!) non è la condizione d’altri milioni
di elettori italiani, i quali avranno anch’essi delle chiare opinioni, ma desiderano
sapere anche come la pensino gli altri, magari soltanto per potersi confermare più
coscientemente nelle proprie convinzioni [...] Quanto alla inviolabilità del di lei
domicilio, a differenza di quel che avveniva in un passato non remoto, che – se sbaglio
me ne scusi – sembra calzarle a pennello, nessuno le impone di ascoltare le trasmissioni
di Tribuna elettorale. Non vorrei essere accusato di monotonia, ma ricorderò anche a lei che esiste sempre
«l’altro canale», sul quale può dirottare il suo ascolto; o, nella peggiore delle
ipotesi, quella benedetta manopola con cui può tappar la bocca a qualsiasi contraddittore
politico. A meno che – anche qui, se il sospetto è infondato, me ne scusi subito –
il suo preciso riferimento alla «paterna potestà» esercitata nella sua famiglia [...]
non nasconda l’intenzione assai poco democratica di impedire che altri ascoltino ciò
che lei non vuole sia ascoltato. E non credo proprio che la Costituzione preveda l’intervento
della Magistratura o d’altra autorità tutoria per difendere questa sua pretesa.
Non è tutto oro quel che luccica. La vicinanza della Rai alla politica si traduce
anche in un volto censorio, a lungo impersonato dal codice di autoregolamentazione
(istituito sotto la direzione di Guala e scritto da monsignor Galletto, direttore
del Centro cattolico televisivo), che vieta in Tv argomenti ritenuti particolarmente
scabrosi per la pubblica morale.
È opportuno che il delitto e il vizio non siano descritti in maniera seducente e attraente,
e che i sentimenti dello spettatore, rifuggendo da essi, siano per contro attratti
verso i principi dell’honeste vivere e del neminem laedere [...] Il divorzio potrà essere rappresentato quando la trama lo renda indispensabile
e l’azione si svolga in paesi dove questo sia ammesso dalle leggi. Il divorzio non
deve essere trattato in maniera tale da indurre a ritenerlo come mezzo indispensabile
per la soluzione dei contrasti tra i coniugi [...] Deve essere posto in rilievo che
le relazioni adulterine costituiscono grave colpa [...] Attenta cura deve essere posta
nella rappresentazione di fatti ed episodi in cui appaiano figli illegittimi [...]
L’incitamento all’odio di classe e la sua esaltazione sono proibiti [...] Sabotaggi,
attentati alla pubblica incolumità, conflitti con le forze di polizia, disordini pubblici
possono essere riprodotti o rappresentati con somma cautela, e sempre in maniera tale
che ne risulti ben chiara la condanna [...] Le relazioni (sessuali) illegali debbono
essere sempre configurate come anormali e non debbono suscitare incitamento all’imitazione
[...] Sono vietate le vicende che abbiano per oggetto o facciano cenno a malattie
veneree, a perversioni sessuali, a forme patologiche, alla prostituzione ed ai luoghi
ad essa destinati [...] Le scene erotiche sono proibite: i baci, gli abbracci, altre
pose che abbiano esplicita relazione con l’istinto sessuale, possono essere rappresentati
con discrezione e senza indurre a morbose esaltazioni [...] Le vesti e gli indumenti
non debbono consentire nudità immodeste che offendano il pudore o che abbiano carattere
lascivo (Calabrese-Volli 1995, 36).
Ecco ad esempio come lo stesso Ugo Zatterin, nel telegiornale della sera del 20 febbraio
1958, si esibisce in una serie di salti mortali per commentare l’approvazione della
legge Merlin, che abolisce le case di tolleranza, senza mai nominarle espressamente,
con un risultato decisamente criptico per gli spettatori.
Oggi, poco prima che Togliatti aprisse con un discorso fiume un dibattito sulla politica
estera che terrà impegnata per alcuni giorni la Camera, i deputati hanno approvato
(385 sì, 115 no) la famosa legge Merlin. Finisce così, senza più possibilità d’appello,
una questione decennale, apertasi esattamente nell’agosto 1948. L’Italia era ormai
l’unico paese d’Europa in cui il problema sollevato dalla senatrice Merlin non fosse
stato risolto e anche di recente l’Onu aveva sollecitato l’Italia perché lo risolvesse,
dato che il suo statuto impone a tutti i paesi membri di adottare una soluzione come
quella che è stata finalmente adottata. La legge Merlin prevede che le sue norme vengano
applicate entro sei mesi dall’entrata in vigore della legge stessa e, siccome la legge
entra in vigore quindici giorni dopo essere stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, si può calcolare grosso modo che il nuovo corso incominci nel prossimo settembre.
Insomma il canto del cigno si avrà intorno a Ferragosto. Dopo questa data, gravissime
pene penderanno sul capo di coloro che cercheranno di riorganizzare ciò che la senatrice
Merlin ha voluto distruggere. Le pene, dicevo, sono piuttosto grosse: da due a sei
anni, con molti motivi per raddoppiare il carcere e le multe (Grasso 2004, 73).
Com’è noto, vittime illustri di questa politica culturale sono nel 1962 Dario Fo e
Franca Rame, che non accettano la cancellazione dentro Canzonissima (il varietà musicale del sabato sera) di un loro sketch sugli infortuni di lavoro
nei cantieri edili. «Canzonissima, nata con il centrosinistra – dichiara Dario Fo –, ha subito pressappoco le stesse
peripezie. Quelli della Tv si debbono essere detti che quello poteva essere il momento
buono per fare il mio nome [...] poi si sono accorti che anche col centrosinistra
le cose continuavano come prima, e allora hanno cambiato musica, augurandosi che con
le prime grane avrei capito il vento che tira e mi sarei arreso» (ivi, 124). Al vertice
della Rai, che motiva ufficialmente l’inopportunità dello sketch per la concomitanza
della vertenza per il rinnovo del contratto di lavoro dell’edilizia, siede dall’anno
precedente Ettore Bernabei, che arriva dalla direzione del «Popolo», il quotidiano
organo della Democrazia cristiana. È lui a tenere il timone di un’azienda cresciuta
ininterrottamente e sempre più importante, che deve rendere conto al partito di maggioranza
relativa (e ai suoi complessi equilibri correntizi interni) in una fase di delicata
transizione politica. Ma non solo politica. Tra gli studiosi di scienze sociali sono
diverse le voci che paventano «l’eclissi del sacro» e guardano alla secolarizzazione
come tendenziale incrinatura delle più antiche radici e certezze degli italiani: una
televisione «moderata» diventa essenziale per reggere l’urto del cambiamento. Così
si esprime un lettore del «Radiocorriere Tv» all’inizio del 1964:
La sera del 26 dicembre scorso, assistendo alla scena finale di «Gran Premio» tra
le squadre della Sicilia e del Lazio, ho rilevato che la madrina del Lazio – riferendosi
alla suggestiva rievocazione del Natale cristiano – concludeva dicendo che «la bella
favola era finita» e porgeva tanti auguri ai piccoli spettatori che avevano richiesto
tale rievocazione fin dall’inizio. Io ritengo che rivolgendosi a parecchi milioni
di ascoltatori cattolici, grandi e piccoli, si dovrebbe evitare di parlare di «favola»
per l’evento storico che ha iniziato da venti secoli l’era cristiana e che ha lasciato
la Chiesa cattolica quale testimonianza perenne e vivente del Divino Fondatore. Non
favola – il Natale cristiano – ma la più documentata e comprovabile delle realtà storiche.
«È bene che ci si richiami a questa realtà e ne ringraziamo il nostro ascoltatore»
è la risposta del settimanale, che continua:
Ci sembra giusto però pregarlo di non generalizzare sui rilievi, e di tenere presente
– accanto all’espressione casuale, improvvisata nel finale di una presentazione –
il complesso delle trasmissioni nelle quali, in quegli stessi giorni, commentatori
qualificati e autorevoli hanno illustrato la realtà storica e religiosa del Natale
(«Radiocorriere Tv», 28 gennaio 1964).
Il varo del secondo canale nel novembre 1961 rappresenta il passo inaugurale del nuovo
direttore Bernabei. Sotto la sua guida la Rai sta bene attenta non solo alla politica,
ma anche a non perdere il proprio volto sfaccettato. Aumentano le ore di trasmissione
dedicate ad avvenimenti sportivi (dal 4 al 12% tra 1956 e 1963), a programmi giornalistici
e culturali (dal 12 al 25%), a film (dal 10 al 16%), a telegiornali (dal 10 al 14%);
diminuiscono quelle di rivista e varietà (dal 36 al 12%), di teatro (dal 20 al 16%)
e musica classica (dall’8 al 5%). L’organico dell’azienda cresce, in particolare nei
ruoli giornalistici, che tra 1961 e 1974 aumentano da 300 a 800 (i tecnici passano
da 2.600 a 2.900, gli amministrativi da 1.800 a 2.100).
Il rafforzamento dell’offerta giornalistica e culturale rappresenta così il punto
forte della paleotelevisione pedagogica di Bernabei: un punto non scontato (Rizza
1989, 170). Negli Stati Uniti l’intrattenimento leggero fa la parte del leone (53%
della programmazione di tutte le reti che trasmettono nella città di New York a metà
degli anni Cinquanta) anche rispetto ai film (10%) e solo l’8% del tempo viene dedicato
all’informazione (Bogart 1956, 295). In Germania la televisione di Stato (frutto dell’associazione
di nove televisioni regionali) vara il secondo canale in contemporanea all’Italia,
ma gli anni Sessanta vedono invece una crescita dell’intrattenimento rispetto all’informazione
(Rath 1990). La televisione francese dipende direttamente dal ministero dell’Informazione
e il presidente de Gaulle esercita su di essa un controllo ferreo e pressoché esclusivo
(Bourdon 1990; Vassallo 2005). Viceversa in Gran Bretagna già alla fine degli anni
Cinquanta la nascita di un canale privato finanziato dalla pubblicità (la Independent
TeleVision, creata nel 1955 da un conglomerato di società locali e fin dall’inizio
sottoposta a un’authority di controllo) sposta il ruolo della Bbc – che apre il secondo
canale nel 1966 – verso la qualità informativa e culturale, secondo un itinerario
simile a quello della Rai, ma assai più liberale. «Non è compito nostro – afferma
nel 1968 il direttore della Bbc Charles Curran – adottare una specifica moralità e
tentare poi di persuadere tutti a seguirla» (Davis 1990, 121; Black 2007). Per Bernabei
vale una logica quasi diametralmente opposta, ma con una preoccupazione specifica
per la qualità. A quest’ultima risponde il varo di programmi giornalistici e culturali
in prima serata, come Tv7 (1964) e Almanacco (1963), ma anche la nomina di Enzo Biagi alla direzione del telegiornale del primo
canale, che tuttavia si scontra con le esigenze extraprofessionali di un’azienda di
Stato. Biagi resiste meno di un anno e si dimette nell’estate 1962.
Il telegiornale già allora era un posto dove la dote principale di un direttore doveva
essere la capacità di mantenere certi equilibri. E per me erano davvero troppo complicati.
Ricordo quegli undici mesi in modo ossessivo, perché ero un uomo sbagliato in un posto
sbagliato. Infatti, dopo poco più di venti giorni a Roma, ho detto a mia moglie: «informati
su quanto ci costa il trasloco di ritorno; rimaniamo qui qualche mese ancora, e solo
per ragioni di decoro». Delle lottizzazioni non mi sono mai interessato, e il primo
giorno ho riunito la redazione per dire: «non voglio sapere da che parte sta ciascuno
di voi: se portaste una maglia con scritto il nome dei vostri protettori, mi sembrerebbe
di stare al Giro d’Italia. Quindi facciamo finta di niente e proviamo a lavorare insieme»
(Biagi 1988).
L’idea che la televisione appartenga di fatto al governo – «feudo dell’esecutivo»
la definisce in questi anni Indro Montanelli (1964) – ne accompagna la diffusione
fin dalla nascita e appare naturale agli italiani. È su questo terreno che si misura
la più significativa continuità con l’esperienza fascista: nella perdurante assenza
di una cultura civica diffusa, capace di distinguere tra Stato e governo, tra servizio
pubblico e appartenenza politica. Non si può non essere d’accordo con Aldo Grasso
quando sostiene che la Rai rappresenta il più formidabile progetto culturale elaborato
dal pensiero cattolico italiano, erede di una tradizione antica fatta di oratori e
cinema parrocchiali ma anche di una assuefazione più recente alla censura governativa
del regime fascista (Grasso 2004, xxxi). L’enciclica Miranda Prorsus promulgata nel 1957 da Pio XII apre con fiducia al nuovo mezzo e nello stesso tempo
richiama al dovere di un suo esercizio pedagogico, tanto più necessario quanto maggiori
sono le potenzialità invasive della Tv in ambito domestico. Ma la Rai rimane comunque
un progetto non monolitico, che si nutre di scontri in seno alla Dc tra ala confessionale
e ala modernizzante, di spregiudicate mutuazioni dalla prassi televisiva statunitense,
di cooptazione misurata di giornalisti e autori non particolarmente noti per fedeltà
confessionale.
Impostato secondo criteri non competitivi di ridotto allargamento dell’offerta –,
il telegiornale dura la metà – il secondo canale serve a rafforzare l’egemonia del
primo: nel 1966 i sondaggi della Rai stimano un picco di ascolto medio nella fascia
di prima serata (dalle 21.30 alle 21.45) composto da 12,4 milioni di spettatori sul
primo e 1,9 milioni sul secondo, senza particolari differenze di sesso, età, istruzione,
professione tra i primi e i secondi. Il pubblico televisivo italiano si stabilizza:
mentre finora in prima serata oscillava tra i 6 e i 10 milioni di spettatori, dal
1965 in poi non scende mai sotto i 10 milioni. In parallelo si definisce un palinsesto
settimanale che «fidelizza» il pubblico con appuntamenti fissi per genere: il film
al lunedì, il quiz al giovedì, il varietà al sabato. La regola rimane sempre quella
di privilegiare il primo canale: per esempio, quando i responsi del Servizio opinioni
misurano cali di pubblico per l’esperimento di Tv7 in prima serata di lunedì, con il film sul secondo canale, la Rai sposta Tv7 al venerdì e torna al film di lunedì sul primo canale (Pinto 1980, 64-65).
Sempre nel 1965 gli abbonamenti superano i 6 milioni e corrispondono a quasi la metà
degli utenti. Nel giro di dieci anni la pratica dell’ascolto collettivo fuori casa
si è quindi molto ridimensionata e la televisione acquista la fisionomia «americana»
di genere di consumo privato e domestico: non è più un mezzo di nuova socializzazione.
Da «evento comunitario» si trasforma in «spettacolo domestico» (Abate-Brunetto 1996,
6; Foot 1999, 384). Nel 1959 i televisori in locali pubblici coprono il 42% degli
spettatori totali, contro un 36% che la vede a casa propria e un 22% che la vede in
casa di amici. Nel 1966 le percentuali si ribaltano: tre quarti degli spettatori italiani
la vedono a casa loro, quelli che la vedono in casa d’altri sono calati al 15%, quelli
che la vedono nei locali pubblici al 10%.
Anche una delle famiglie del piano terreno possiede la televisione. Sono otto persone
in due stanze: padre, madre, sei figli fra i cinque mesi e i dieci anni. Parlo con
il padre. Quanto guadagna? «Poco», «Cinquantamila lire al mese, sessanta, secondo
i mesi». Che cosa fa? «Il manovale». Quanto spende per l’affitto? «Non molto. Il proprietario
è di Gangi, del mio paese. Mi favorisce. Gli do ottomila lire al mese. Quattromila
per stanza». E la televisione quanto costa? «Mille lire d’abbonamento e diecimila
di rata». Cioè, la televisione gli costa più dell’affitto? Allarga le braccia. Interviene
la moglie a spiegare che lei era contraria a una simile spesa ma che lui, Salvatore,
l’ha voluta a tutti i costi. Ma non preferirebbe un alloggio migliore rinunciando
alla televisione? Salvatore scuote la testa: «No, qui siamo sistemati meglio che a
Gangi. Non è una gran casa, è piccola, ma è meglio della tana in cui vivevamo giù
in Sicilia. E poi con la televisione si risparmia. Io alla sera non esco più, non
vado al bar, sto in casa. E poi è buona per i bambini che possono vedere tante cose
e conoscere il mondo e imparare» (Leydi 1964).
I timori iniziali sull’«aspetto poco domestico» del televisore lasciano il posto a
una realtà di rafforzamento e separazione dell’istituto familiare, che negli Stati
Uniti appare evidente da almeno un decennio: un sondaggio del 1951 che misura il cambiamento
di abitudini prima e dopo l’ingresso in casa della Tv, registra un terzo in meno di
partecipazione ad attività associative, due terzi in meno di uscite serali, un quinto
in più di visite serali a casa (Bogart 1956, 104). In realtà il tempo del bowling alone, dell’atomizzazione individualistica della società – che Robert Putnam colloca a
metà degli anni Ottanta (Putnam 2004) –, comincia molto prima e la televisione vi
gioca un ruolo importante. Ma non risolutivo. Quando, a partire dal Sessantotto, si
apre anche nella società statunitense un ciclo di mobilitazione pubblica, la televisione
potrà fare poco per impedirlo.
In Italia appare evidente già agli osservatori del tempo il ruolo unificante della
televisione. Nonostante la sua strutturale appartenenza a un «capitalismo aggressivo
fondato sui consumi privati» (Alberoni 1968), la Tv unisce il paese dal punto di vista
linguistico e della cultura di massa (creando nuovi divi con i programmi a quiz, nuovi
personaggi con gli spot di Carosello), ma attenua anche il conflitto generazionale riunendo attorno al piccolo schermo
giovani e anziani. In un paese storicamente contraddistinto da linee di frattura tra
Nord e Sud e processi di centralizzazione statale tormentati e autoritari, la Rai
assolve quindi una funzione particolare di nation-building, che in Europa trova un corrispettivo (non casuale) forse soltanto nella televisione
tedesca e nel suo ruolo di ponte tra i diversi Stati regionali che compongono la Repubblica
federale (Schramm 2009, 76). Il «Radiocorriere Tv» risponde a questa funzione con
la sua veste di rotocalco riccamente illustrato e le sue rubriche di utilità: L’avvocato di tutti, La donna e la casa (con moda, ricette, consigli di arredamento). Le risposte ai lettori spaziano dalle
tecniche operatorie per il distacco della retina all’indirizzo di opere di carità.
I bambini di Longarone [il comune più colpito dalla frana del Vajont] hanno scritto
alla Befana: centotrenta letterine che i funzionari della Fiera dei sogni [il quiz condotto da Mike Bongiorno dal 1963 al 1966] hanno letto. Ci sono i bambini
abituati a chiedere niente, o quelli che formulano un desiderio soltanto per rendere
felice qualcuno della famiglia; e a Longarone la famiglia è una cosa molto più importante
che altrove, perché chi l’ha persa o chi ha rischiato di perderla si stringe attorno
ai cari superstiti con molto maggior affetto di prima. Così un bambino ha chiesto
un pacchetto di «Nazionali» per il papà, un altro una gonna per la mamma [...] La
Befana annunciata da Mike c’è stata, ma per qualche attimo soltanto, impersonata da
Sandra Mondaini. Ha distribuito grandi pacchi soprattutto ai bambini [...] Vicino
era seduta una biondina con due treccioline corte corte [...] Ha otto anni. Mi ha
raccontato del suo viaggio per venire a Milano. Si sono alzati, lei e i suoi compagni,
alle tre del mattino. «Che cosa ti è piaciuto di più a Milano?» le chiedo. «La Piazza
del Duomo». «Non la televisione?». «No». «Come mai?» insisto. «Perché la televisione
la vedo anche a casa» («Radiocorriere Tv», 12 gennaio 1964).
5. Consumi culturali e opinioni
Nel 1968 il «Radiocorriere Tv» ospita sprazzi di un dibattito interessante sul ruolo
della televisione pubblica.
Io sono uno studente diciottenne perciò non pretendo di dire grandi cose. Tuttavia
non vorrei rinunciare al tentativo di mantenere aperto il discorso. Il signor Barli
accusava la televisione di essere eccessivamente prudente e un po’ dogmatica di fronte
a questioni di grande attualità e importanza, tanto da favorire l’ignoranza di questi
problemi e l’ipocrisia. Lei ha risposto che non si può essere troppo profondi e intelligenti
quando c’è un pubblico immaturo nella grande maggioranza. Ora io penso che la Tv meriti
tutta la nostra stima per l’allestimento di programmi che sono di eccellente qualità
spettacolare (tra i migliori del mondo) e per la sua attività riguardante la scuola.
Ciò però non basta, a mio avviso, perché si possa dare un giudizio globale del tutto
positivo sui programmi televisivi [...] Se è vero che si possono provocare delle «esplosioni
intellettuali» in molte famiglie italiane con programmi inadatti, è altrettanto vero
che la stampa e la Tv non debbono accentuare e conservare il livello già basso della
cultura di massa, col dare al pubblico ciò che qualitativamente equivale alla sua
maturità. Lungi dall’essere, così, stimolo efficace per l’evoluzione civile e intellettuale
del Paese. Sarebbe quindi auspicabile, da parte dei responsabili dei programmi, un
maggiore impegno ai fini dell’educazione del cittadino, in modo da contribuire all’evoluzione
della sua coscienza con un’azione lenta, intelligente e soprattutto coraggiosa («Radiocorriere
Tv», 7 gennaio 1968).
La risposta del direttore Zatterin chiarisce bene la cautela da «giusto mezzo» della
gestione Bernabei:
Non basteranno neppure le quattro chiacchiere della sua lettera, né quelle della mia
risposta, benché si tratti di cose già dette e dibattute più volte, soprattutto il
dilemma se stampa e Tv debbano dare al pubblico ciò che equivale alla sua maturità
o non piuttosto stimolarne l’evoluzione intellettuale e civile con programmi di maggiore
impegno. Anche in questo caso, il pensiero mio e, mi pare, della Tv italiana è che
si debba tenere il giusto mezzo. Stimolare troppo, può significare in pratica la chiusura
in massa dei televisori e la conseguente valanga di proteste e di insulti contro i
programmisti. Sapesse quello che abbiamo dovuto leggere e ascoltare immediatamente
dopo la trasmissione di certi film di Flaherty e di Dreyer [...] Ma il fatto che certi
programmi «impegnati» continuino [...] dimostra che non tutto quanto compare sui teleschermi
è concepito al «basso livello della cultura di massa». L’offerta di trasmissioni formative
c’è, e senz’altro superiore alla domanda. Il fatto che ci sia, significa fiducia,
da parte dei vituperati programmisti, che col tempo la domanda possa affinarsi e quindi
crescere.
Non per caso trovano spazio sul «Radiocorriere» anche lettere di tenore opposto: quasi
a giustificare la funzione di «ascolto» del pubblico svolta dalla Rai.
Ma insomma non l’avete capita ancora, che noi vogliamo dalla televisione soltanto
canzoni, divertimenti e spettacoli, e non ci f... un bel niente della politica, delle
inchieste, dei telegiornali eccetera eccetera. Perciò la pianti di prenderci in giro
con le sue risposte sciocche, per dirci che ci vuole questo ma ci vuole anche quello,
o che oltre il divertimento si deve anche informare e istruire eccetera eccetera.
La voce del popolo è una sola: quella che io le dico («Radiocorriere Tv», 9 giugno
1968).
Grazie, signor Mazzia, per averci fatto sapere qual è la volontà popolare. Penso anzi
che governo e parlamento d’ora in poi potrebbero interpellare lei ogni cinque anni
anziché spendere tanti quattrini e tante fatiche in consultazioni elettorali. L’unico
guaio è che la sua certezza non costituisce un caso isolato. Sapesse quanti altri
telespettatori, magari con idee molto diverse dalle sue, mi scrivono in nome del popolo,
di cui credono di essere interpreti unici e infallibili.
I numeri che registrano la costante ascesa del piccolo schermo nei consumi culturali
degli italiani danno ragione a Zatterin e a Bernabei. Allo stesso tempo, come di solito
avviene nella storia dei media, la televisione non uccide né la radio, né i giornali,
né il cinema. Negli Stati Uniti già nel 1954 il numero degli ascoltatori radiofonici
risale (soprattutto nelle famiglie che da più tempo hanno la televisione) e il tempo
medio di ascolto giornaliero (quasi due ore) cala di più nelle case senza televisore.
Piuttosto la radio cambia collocazione (dal soggiorno alla camera da letto, alla cucina,
all’automobile): nel 1956 si producono 14 milioni di radio (contro 7,4 milioni di
televisori), di cui 10 tra radio portatili, radiosveglie e autoradio. Per i notiziari,
la musica e i drammi a puntate la radio rimane preferita rispetto alla Tv (Bogart
1956, 123-124). In Italia le cose non vanno diversamente, almeno secondo i sondaggi
della Doxa: gli ascoltatori giornalieri della radio corrispondono al 32% degli italiani
nel 1949, al 40% nel 1963 (contro il 26% che guarda tutti i giorni la Tv), al 52%
nel 1965 (contro il 39%). In molte famiglie che possiedono il televisore aumenta l’ascolto
della radio durante il pranzo. Oggi il consumo di radio mostra una pluridecennale
stabilità.
In modo non dissimile, la minoranza di italiani che legge quotidiani e libri non sembra
accusare particolari colpi inferti dalla pratica dell’audience televisiva. Nel 1968 corrisponde rispettivamente al 31% e al 16%: i lettori di quotidiani
erano il 39% nel 1957 e il 36% nel 1963, e saranno il 40% nel 2000, mentre gli italiani
che leggono libri (almeno uno negli ultimi tre mesi) erano pari al 16% nel 1961 e
salgono al 36% nel 1990. Tra 1954 e 1962 la diffusione di quotidiani e settimanali
cresce da 3,5 e 10,7 milioni di copie a 4,8 e 14,5. Anche in questo caso l’Italia
segue una traiettoria già percorsa dagli Stati Uniti, dove tra 1946 e 1954 la diffusione
delle riviste registra un incremento pari al 28%, contro un aumento della popolazione
pari al 19%.
I primi proprietari di televisori erano anche gli ascoltatori più assidui della radio
e i lettori più frequenti di giornali e riviste. Avevano anche redditi superiori alla
media ma si concentravano attorno ai livelli medi di istruzione. Col tempo, la televisione
divenne accessibile a un numero sempre maggiore di famiglie appartenenti alle fasce
più basse per reddito e scolarità, che leggevano meno libri e riviste. Ma una quota
rilevante di persone più istruite, compresi i lettori abituali di libri, continuò
a comportarsi come prima [...] Ricerche condotte con metodi e criteri diversi in luoghi
e tempi differenti difficilmente possono produrre risultati omogenei. Tuttavia esiste
un largo accordo sul fatto che la televisione abbia ridotto il tempo che il pubblico
americano dedica alla lettura di libri e riviste, non quello per i giornali (Bogart
1956, 135 e 161-162).
Sul consumo di radio e stampa la televisione non sembra insomma esercitare un impatto
determinante. Altre variabili (reddito e istruzione in primis) mostrano di pesare in modo assai più significativo. È a queste variabili che deve
quindi essere ricondotto il gap nella lettura che continua (e continuerà) a separare gli italiani dagli altri popoli
europei: nel 1963 la percentuale (48) di lettori di quotidiani e di libri (almeno
tre volte a settimana) è poco più di metà di quella in Francia, Germania, Inghilterra.
A non leggere in Italia sono (e saranno) soprattutto braccianti e agricoltori, casalinghe
e operai comuni, che si sono fermati alle scuole elementari. Semmai la televisione
funge da traino ad operazioni coraggiose che l’editoria italiana vara a metà degli
anni Sessanta con i libri in edicola e il lancio (1965) dei tascabili. Ma nonostante
le 60 mila copie vendute in un giorno dal primo Oscar Mondadori (Addio alle armi di Hemingway) il mercato non si allarga e i lettori forti (da almeno un libro al
mese) restano in Italia una minoranza, valutata attorno al 20% nel 1980. L’altissima
quota di rese dalle vendite di libri in edicola (pari al 40%) rende ben presto insostenibili
i costi dell’operazione (Palazzolo 1993, 304-309).
Diverso è invece il discorso per il cinema. Il drastico calo che si verifica negli
Stati Uniti – dove la media di spettatori alla settimana precipita dagli 82 milioni
del 1946 ai 34 del 1956 (Bogart 1956, 163) – si ripete in Europa e, seppure con qualche
ritardo, anche in Italia. Nel 1955 l’avvento della televisione inverte infatti un
trend ascendente del numero di biglietti venduti che durava dal 1950 (da 650 a 800
milioni). Da allora in poi i biglietti staccati nei cinema si riducono senza soste
– da 740 milioni nel 1960 a 525 nel 1970, a 240 nel 1980, a 90 nel 1990 – fino a entrare
in caduta libera quando, negli anni Ottanta, si diffondono videoregistratori e videocassette
e le sale di proiezione si riducono da 8 a 3 mila. Solo tra 1999 e 2005 il numero
dei biglietti risale poco oltre quota 100 milioni (Monteleone 2009, 281; Pinto 1980,
51; www.istat.it/culturaincifre).
Non è un’eccezione: l’Italia imita quanto avviene da tempo nel resto del continente.
La crisi del cinema è quindi una crisi di lungo periodo e in Italia prosegue ininterrotta
sia in una fase di espansione della spesa delle famiglie italiane in consumi culturali
e ricreativi (istruzione, stampa, spettacoli), come quella che dura fino a tutti gli
anni Sessanta, sia in una fase di contrazione come quella inaugurata dallo shock petrolifero
del 1973. Solo negli anni Novanta la comparsa delle multisale (in forte ritardo sul
resto d’Europa) e l’aumento del prezzo d’ingresso riescono in parte a compensare sul
piano degli introiti un’emorragia di spettatori, che invece non riguarda il resto
degli spettacoli dal vivo: teatro, opera, musica classica, danza. Tutti questi ambiti
di spettacolo seguono infatti un percorso diametralmente opposto a quello del cinema,
aumentando costantemente, a partire dal 1965, il numero delle rappresentazioni e anche
(seppure in misura assai minore) il numero di biglietti venduti.
Sul cinema la televisione (insieme alle sue tecnologie accessorie di riproduzione
dei film) sembra quindi esercitare un ruolo concorrenziale più diretto e determinante.
Altri generi di consumo ricrea-tivo e culturale più «classici» mantengono nel tempo
un’attrattiva «dal vivo» che invece pare sfuggire quasi del tutto alla «differita»
cinematografica. La visione in Tv di quest’ultima appare comunque un’alternativa più
comoda e almeno apparentemente gratuita. Di fatto il consumo di cinema registra un
andamento in controtendenza rispetto al resto degli spettacoli dal vivo e degli altri
media.
È chiaro che il decollo del numero di spettatori televisivi rappresenta il fatto saliente
nell’evoluzione del consumo mediatico degli italiani (come del resto in molti altri
paesi). Ma non l’unico. A partire dal 1965 la crescita della quota di spese per balli,
mostre e fiere mostra l’emergere di vecchie-nuove forme di uso del tempo libero (discoteche,
turismo culturale e commerciale, sagre di paese ma anche luna-park, circhi, juke-box,
flipper, videogame). E ancora nel 1995 un sondaggio registra una schiacciante maggioranza
(84%) di italiani d’accordo con l’affermazione «l’informazione televisiva va bene
per conoscere le cose in generale, per approfondirle è meglio leggere i quotidiani»
(Abate-Brunetto 1996, 16). Magari predicano bene e razzolano male, perché i quotidiani
poi non li leggono, ma gli italiani continuano a leggere i giornali e ad ascoltare
la radio, seppure in misura minore rispetto ad altri popoli europei. Rimangono utenti
plurali dei mezzi di comunicazione e tra di essi esercitano in qualche misura un diritto
e una facoltà di scelta: di solito, in regimi democratici la pluralità delle tecnologie
comunicative accresce e non riduce la libertà degli individui.
Fig. 1.3. Percentuali di consumatori abituali di media, 1956-1990
Quando guarda la Tv il diritto-facoltà del popolo italiano si restringe molto, almeno
al tempo del monopolio di Stato e dei due canali complementari. È vero che, rispetto
a stampa e cinema, la televisione accentua la passività dello spettatore, la sua supina
accettazione di quanto viene proposto dalla programmazione, con l’aggiunta di un timore
reverenziale («l’ha detto la televisione») stranamente molto meno osservato negli
altri due consumi culturali. Ma la politica culturale della Rai, nel suo attento dosaggio
tra importazione del moderno americano, attenzione alla tradizione e censura, non
si esercita su una tabula rasa, bensì su una popolazione in rapido e diffuso movimento. Tra 1953 e 1964 nel bilancio
domestico della famiglia italiana media aumentano le voci di spesa relative a trasporti
e comunicazioni, igiene e salute, abitazione, combustibili ed elettricità; calano
quelle per cibo, abbigliamento, tabacco. Secondo un sondaggio effettuato nel 1964
su un campione stratificato (cioè rappresentativo per sesso, età, scolarità, professione
della popolazione totale) di 5 mila cittadini in 300 comuni, le percentuali più alte
di spettatori critici (cui i programmi televisivi piacciono «così così», «poco», «per
niente») si trovano fra gli abbonati (rispettivamente 37, 12 e 3%) piuttosto che fra
i non possessori di televisore (27, 8 e 2%). Alla fatale attrazione del piccolo schermo
resiste in ogni caso una corposa minoranza di italiani. Lo «sgradimento» non sembra
influenzato né dal sesso, né dall’età degli intervistati, bensì appare direttamente
proporzionale al livello di istruzione e di reddito: ma senza che tra agricoltori,
casalinghe, professionisti vi siano enormi differenze.
Anche in questo caso l’Italia non è un’eccezione. Secondo i sondaggi effettuati in
Francia durante le campagne elettorali del 1962 e del 1965, il medium più seguito
diventa la televisione (che sale dal 22 al 52% dell’ascolto totale), a discapito della
stampa (che cala dal 22 all’11%), mentre la radio rimane stabile (22-23%). Ma la Tv
è anche considerata il medium meno attendibile di tutti. Alla pari di quello francese,
lo spettatore italiano è uno «spettatore attivo», capace di usare la televisione per
i propri bisogni di conoscenza (come i contadini lucani intervistati da Lidia De Rita)
e di elaborare i testi televisivi alla luce della propria esperienza. Il piccolo schermo
funziona da guida e sostegno nell’impetuoso processo di modernizzazione che gli italiani
vivono, ma sono altre le variabili decisive – reddito e istruzione, in particolare
– nel mutamento delle loro condizioni e dei loro atteggiamenti (anche rispetto alla
televisione). Nelle quattro generazioni di spettatori televisivi che si susseguono
dal 1950 fino ai giorni nostri, la prima (quella che arriva alla vigilia del Sessantotto)
passa ancora poco tempo davanti al video. Solo nel 1968 la quota di utenti sistematici
(che la vedono «tutti i giorni o quasi») supera la metà della popolazione totale e
l’attenzione per il programma prescelto continua a prevalere largamente sull’attenzione
per il mezzo in sé: l’accensione del televisore non è ancora diventato un gesto automatico.
Tab. 1.1. Grado di soddisfazione per i programmi Tv: percentuali sul totale del campione (aprile
1964)
L’esposizione alla televisione non sembra, ad esempio, cambiare radicalmente le opinioni
degli italiani. Secondo i sondaggi della Doxa la quota di italiani contrari al divorzio
è pari al 68% (79% tra le donne) nel 1947 e al 71% (77%) nel 1965. Le opinioni favorevoli
rispecchiano una collocazione politica a sinistra, seppure in modo non esclusivo (tra
gli elettori socialisti e comunisti resiste grosso modo un 40% di contrari), e appaiono
in rapporto di proporzione diretta ai livelli di urbanizzazione, reddito, istruzione:
non sembrano influenzate in un modo o nell’altro dal consumo di Tv. Allo stesso modo,
i comportamenti di voto non sembrano conoscere particolari perturbazioni riconducibili
a un qualche influsso televisivo. Le tribune elettorali della Rai non sembrano giocare
un ruolo paragonabile a quello esercitato dalla televisione francese nelle elezioni
presidenziali del 1965 (Brizzi 2007). Anzi, secondo alcune ricerche condotte a metà
degli anni Sessanta, l’aumento del numero di abbonati alla Rai sembra positivamente
correlato all’aumento di voti dei partiti di sinistra, nonostante il ferreo controllo
esercitato dalla Democrazia cristiana sull’informazione televisiva (Alberoni 1968,
56). La tesi di Alberoni è che, dopo la prima fase unificante, la televisione si colleghi
adesso più strettamente a dinamiche di acculturazione e di conseguente aumento delle
aspirazioni a una mobilità sociale verso l’alto (in implicita contrapposizione alla
staticità incarnata dalle parrocchie), riaprendo nuovi conflitti generazionali.
Naturalmente non è la televisione ad accendere il Sessantotto, che è innanzitutto
l’effetto dell’arrivo all’età adulta della baby boom generation e del suo impatto con istituzioni (come l’università) concepite per élites ristrette.
Ma le immagini della guerra in Vietnam o del maggio francese contribuiscono a diffondere
oltre i confini nazionali i motivi delle agitazioni. Non è la televisione a dare origine
al movimento femminista. Ma la larga presenza di donne nel pubblico televisivo contribuisce
alla rottura del loro isolamento domestico e alla maturazione di nuovi punti di vista
più autonomi. Il piccolo schermo funziona da «segnale e motore del mutamento di valori»,
«chiave per penetrare le forme che stanno assumendo le relazioni sociali» (Ortoleva
1995, 36).
Inizia presto anche in Italia la discussione pubblica sul ruolo diseducativo della
violenza in televisione.
Sono un’insegnante elementare in una scuola di campagna e mi accorgo che la Tv ha
un ascendente molto forte sui miei scolari, i quali vedono il Telegiornale, Carosello e anche i film. Ogni giorno mi riportano ciò che hanno visto e sentito. Commentiamo
insieme e mi accorgo che questo conversare allarga i loro orizzonti, rendendoli partecipi
delle gioie e delle sofferenze dei fratelli di tutto il mondo. Purtroppo sono più
le sofferenze delle gioie. E i miei scolari lo rilevano. Costante (6 anni e mezzo)
mi confidava che voleva morire perché era stanco di soffrire. Alle mie domande ha
risposto che alla televisione vedeva tante disgrazie. Non tutti hanno la sensibilità
di Costante, ma altri mi hanno riportato ciò che li aveva impressionati in uno stato
di angoscia. Il fenomeno che si verifica nella mia piccola, simpatica classe accadrà
anche in altre. Lo sgomento che sconvolge i miei piccoli (ho chiesto a tutti ieri:
sono più i momenti in cui sei felice o quelli in cui sei triste? Mi sono sentita rispondere
dalla maggioranza: «i momenti in cui sono triste». E badi che ho cercato di approfondire
la domanda, ho cercato di farli riflettere, di farli pensare. Hanno 7 anni. E mi vengono
a dire che i giovani d’oggi sono spensierati e vuoti!) Ora le chiedo, e perdoni se
posso sembrarle ingenua, non sarebbe possibile comunicare, attraverso uno strumento
tanto influente come la Tv, notizie serene, positive, rassicuranti? Accanto alla spaventosa
descrizione delle infernali battaglie che si svolgono nel Vietnam, farebbe bene sentire
di ragazzi, uomini, donne che hanno compiuto gesti umili ma generosi. I nostri ragazzi
hanno bisogno di un ridimensionamento del concetto di eroismo e certe notizie perché
il bene è pudico, farebbero bene («Radiocorriere Tv», 10 marzo 1968).
La risposta del direttore Zatterin difende con toni di maniera il mestiere di giornalista:
Non so in che misura i colleghi del Telegiornale potranno accogliere e soddisfare
questo nobile appello [...] Che il male faccia cronaca assai più del bene, è forse
conseguenza del nostro ottimismo originario, che considera degno di nota e di rilievo
soprattutto ciò che rompe la tranquilla convivenza umana e insidia la serena sopravvivenza
degli individui.
Ma la discussione continua:
Sono una mamma e in tale qualità sono costretta a rivolgere la mia protesta per la
cruda scena del teleromanzo Non cantare spara [parodia musicale condotta dal Quartetto Cetra] dove una maestra di scuola insegna
ai suoi alunni a sparare con la pistola [...] Ai miei tempi, benché io non sono poi
tanto vecchia, una cosa del genere sarebbe stata inammissibile. Ma ora tutto è crollato,
e sui teleschermi, invece di far vedere ai ragazzi italiani il libro Cuore o altri racconti edificanti [...] gli insegniamo a sparare ed uccidere con la massima
disinvoltura («Radiocorriere Tv», 9 giugno 1968).
La risposta minimizzante di Zatterin restituisce una piena consapevolezza del ruolo
moderatore e conservativo, di difficile mediazione tra vecchio e nuovo all’insegna
dell’intrattenimento spensierato, esercitato dalla televisione.
Lo spirito che anima questa lettera merita tutto il nostro rispetto. C’è tanta ingenua
bontà, tanta «Italietta», come direbbe qualche colonnello a riposo, ma non nascondiamo
che, di fronte alla fragilità e alla crudeltà dei nuovi miti, un po’ di nostalgia
per quelli, pur così lontani, resta nei nostri cuori non più adolescenti. Ma non prenderemmo
troppo sul serio una «gag» d’un allegro spettacolo televisivo e non ci soffermeremmo
troppo su queste pagliuzze: ben più grosse travi viziano o deformano l’educazione
degli adolescenti d’oggi, e che, o si riparano presto, o ci faranno piangere molte
più lacrime.
Non è faccenda solo italiana. Già nel 1954 un sondaggio Gallup registra negli Stati
Uniti un’ampia maggioranza (70%) di adulti che attribuiscono l’aumento della delinquenza
giovanile ai fumetti e ai programmi radiotelevisivi che contengono violenza (Bogart
1956, 273). Non tardano le prime denunce allarmate degli effetti del piccolo schermo
sul pubblico dei più giovani, in termini di sostituto dell’educazione familiare e
della socializzazione primaria, di esposizione a una quantità inusitata di violenza
contenuta nei film e quindi di incentivo alla devianza (Himmelweit et al. 1958). Ma a questa enfatizzazione della Tv come agenzia formativa prevaricante si
sostituisce rapidamente una considerazione del mezzo televisivo come corroborante
– e non produttore – di attitudini e tendenze positive o negative già presenti nei
minori così come negli adulti. In Italia è ancora più precoce la voce dello psicanalista
Cesare Musatti:
non ci sono film che trasformino ragazzi normali in delinquenti; ci sono film che
possono presentare un certo grado di pericolosità per ragazzi già nevrotici per cause
familiari o sociali (Musatti 1955).
Del resto gli studi «classici» di sociologia delle comunicazioni avevano per tempo
messo in luce il carattere non diretto e non esclusivo della televisione nella formazione
delle scelte dell’elettorato statunitense. L’influsso della Tv segue infatti un percorso
«a due passi»: interviene in seconda battuta a rafforzare orientamenti già determinati
da altri opinion leaders nei diversi gruppi sociali e nei diversi contesti (di lavoro, tempo libero, socializzazione)
della vita quotidiana (Lazarsfeld-Berelson-Gaudet 1948; Katz-Lazarsfeld 1955).
Sono voci che tuttavia restano minoritarie in un contesto, come quello degli anni
Sessanta, che è naturalmente portato a enfatizzare la potenza dei media. Nel 1964
il sociologo canadese Marshall McLuhan formula l’immagine del «villaggio globale»:
attraverso la mediazione dei satelliti orbitanti attorno alla Terra (il primo a trasmettere
immagini tra le due sponde dell’Atlantico è il Telstar, nel 1962), la tecnologia televisiva
è in grado di collegare l’intero pianeta. Il limite fisico della distanza è superato
dalla mondovisione (che tecnicamente si realizza in modo completo nel 1967), capace di stringere in
unità di tempo e spazio tutti gli abitanti del pianeta, ripristinando la possibilità
di contatti visivi «faccia a faccia» che il passaggio dalla comunità premoderna alla
società moderna, anonima e spersonalizzante, aveva cancellato.
Ancora (a lungo e forse per sempre) immaginifico sul piano internazionale, il concetto
di «villaggio globale» interpreta meglio, paradossalmente, quanto avviene sul piano
nazionale, non solo in Italia. Negli anni della ricostruzione e del boom la televisione
è il mezzo di comunicazione che con maggiore efficacia rispecchia il mutamento vissuto
dagli italiani. Movimento e velocità, pluralità, conoscenza e intrattenimento, familismo
acquisitivo costruito attorno alla casa, sono le parole chiave di un processo che
impressiona per il grado di trasversalità sociale e omogeneità geografica, probabilmente
senza precedenti nella storia d’Italia.
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