Edizione: 2020, II rist. 2021 Pagine: 640, ril., con ill. Collana: Cultura storica ISBN carta: 9788858141618 ISBN digitale: 9788858143704 Argomenti: Classici della filosofia contemporanea, Storia d'Italia
Storia della Repubblica Sociale Italiana 1943-1945
Tra il 1943 e il 1945 l’Italia conosce la sua ora più buia: il Paese diviso in due; la guerra tra le truppe alleate e gli occupanti nazisti; lo scontro tra la Resistenza e i tedeschi supportati dai fascisti. È l’estrema stagione politica di Benito Mussolini, la pagina più sanguinosa e dolorosa del Novecento italiano.
La Repubblica Sociale Italiana ha avuto una storia breve: venti mesi convulsi che vanno dal settembre del 1943 all’aprile del 1945. Un periodo che rappresenta la pagina più buia del nostro Paese, in cui gli italiani sperimentarono la fine dello Stato, la fine della monarchia sabauda, la fine del fascismo e la sua rinascita, l’occupazione tedesca e la guerra civile al Nord. Un dramma di grande complessità, destinato a lasciare un segno duraturo nelle esperienze individuali e in quelle collettive. Questo libro, avvalendosi delle più recenti ricerche e di fonti poco conosciute, restituisce al lettore l’immagine complessiva delle sue varie (e contraddittorie) componenti: l’azione di governo, il dispiegamento repressivo, il collaborazionismo, lo scarto tra i progetti e le concrete realizzazioni. Un’attenzione particolare viene rivolta al ritorno di Mussolini, all’apporto fornito allo sforzo bellico germanico, alle formazioni armate (Brigate nere, X Mas, SS italiane, ‘ausiliarie’, polizie semiautonome), alla ‘guerra sporca’ ai partigiani e ai civili, alla caccia agli ebrei, fino alla transizione al dopoguerra tra giustizia sommaria e amnistie. Il risultato è un lavoro che ancora mancava nella pur vasta storiografia sull’argomento, capace di catturare il lettore raccontando un’epoca di eroismi e viltà, opportunismi e solidarietà.
Edizione: 2021 Pagine: 640 Collana: Cultura storica ISBN: 9788858141618
L'autore
Mimmo Franzinelli
Mimmo Franzinelli, studioso del fascismo e dell’Italia repubblicana, è membro della Fondazione “Ernesto Rossi e Gaetano Salvemini” di Firenze. Tra i suoi più recenti libri, Fascismo anno zero (Mondadori 2019) e 1960. L’Italia sull’orlo della guerra civile (con Alessandro Giacone, Mondadori 2020).
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CONSTANTER ET NON TREPIDE
Un monito scelto dalla famiglia Laterza come esortazione alla tenacia e ad una costante crescita.
VII. Le armi della Repubblica
Quel tempo, se durò solo venti mesi, pure concentrò in sé una così fiera e sconvolgente drammaticità quale difficilmente ci è data incontrare
nella storia della nostra patria. In quei mesi si scatenò sull’Italia una carica così
intensa di violenza e di morte che fece dell’anno 1944 il più terribile della nostra vita; e ci fece testimoni
e protagonisti di un’immensa tragedia: dalle città distrutte dai bombardamenti ai
paesi incendiati e alle popolazioni decimate per rappresaglia; dalle camere di tortura delle carceri italiane ai forni crematori dei campi di sterminio tedeschi, ai quali cittadini italiani consegnavano a migliaia i loro
fratelli; dalle fucilazioni alle impiccagioni, alle distruzioni, ai saccheggi, a quella
atmosfera di terrore che opprimeva giorno e notte senza respiro le creature umane.
Bianca Ceva, Cinque anni di storia italiana 1940-1945, Edizioni di Comunità, Milano, 1964
Un problematico riarmo
La priorità della Repubblica Sociale Italiana è il combattimento. Solo fiancheggiando
l’esercito tedesco, infatti, è possibile lavare l’onta del tradimento e ristabilire
l’onore della patria. Questa valutazione di Mussolini – condivisa dai suoi seguaci
– pone l’imperativo di allestire l’Esercito e inviarlo al fronte. Arduo compito, visto
che la Milizia rimase inerte dinanzi al «colpo di palazzo» del 25 luglio, e l’Esercito
si dissolse all’armistizio: bisogna insomma ripartire da zero, senza ricadere negli
errori del passato, quando si imbarcarono opportunisti e carrieristi.
A ridosso dell’8 settembre, centinaia di fascisti si mettono al servizio dei tedeschi,
a fronte delle decine di migliaia di militari del Regio Esercito oppostisi – in patria
e nelle zone d’occupazione – all’intimazione di resa, e alle centinaia di migliaia
di soldati e ufficiali internati nei Lager.
Ancor prima della nascita del governo repubblicano, i quotidiani riproducono i dispacci
delle forze occupanti, inneggianti alla fratellanza italo-germanica: «Durante la resa
delle unità italiane in Atene, soldati italiani hanno cantato inni fascisti, gridando
in coro “Vogliamo continuare a combattere con i tedeschi!”»1.
1 «Battaglioni di Camicie Nere a fianco delle truppe tedesche», dispaccio da Berlino,
13 settembre 1943, pubblicato sui quotidiani italiani del giorno successivo (ad esempio
«Il Gazzettino» di Venezia).
A metà settembre 1943, quando il fascismo è ancora un’entità fantasmatica, il collaborazionismo
riafferma la fedeltà all’Asse, in un volontariato indirizzato principalmente verso
la X Mas e le SS italiane2.
2 Sugli italiani volontari nelle SS: Ricciotti Lazzero, Le SS italiane. Storia dei 20.000 che giurarono fedeltà a Hitler, Rizzoli, Milano, 1982; Sergio Corbatti, Marco Nava, Sentire, pensare, volere. Storia della Legione SS italiana, Ritter, Milano, 2001; Primo de Lazzari, Le SS italiane, Teti, Milano, 2002; Giuliano Bortolotti, Non per guardarmi ma per ricordare. Memorie di un volontario della Legione SS italiana, Bottazzi, Voghera, 2007; Enzo Caniatti, Legione SS italiana. Storia degli italiani che giurarono fedeltà a Hitler, Aliberti, Reggio Emilia, 2010.
Molti volontari sono giovani, se non addirittura giovanissimi. E anche quando poi
entreranno in una delle tante formazioni della RSI, continueranno a provare ammirazione
per i camerati germanici. Uno di questi collaborazionisti (divenuto nel dopoguerra
storico contemporaneista di area antifascista) così motiverà la scelta compiuta da
quattordicenne:
La nostra adesione ai tedeschi fu spontanea e incondizionata. Ci apparivano come alleati
traditi, ai quali era doveroso mostrare con l’amicizia e la solidarietà che non tutti
gli italiani erano traditori. L’Italia aveva ormai due volti, ma il volto della nostra
Italia era quello consueto, cioè il volto che ci avevano insegnato ad amare sin dall’infanzia.
Non eravamo noi ad essere cambiati3.
3 Roberto Vivarelli, La fine di una stagione. Memoria 1943-1945, il Mulino, Bologna, 2000, p. 23. In questo scritto autobiografico Vivarelli (Siena,
1929-Roma, 2014), affermato storico di scuola salveminiana autore di importanti studi
sull’avvento del fascismo, nonché a lungo eminente membro dell’Istituto storico della
Resistenza in Toscana (e relatore a vari convegni sull’antifascismo), riflette problematicamente
sulla propria scelta giovanile: «Avevamo torto? Ancora oggi, malgrado il senno di
poi, io non ne sono affatto certo».
La propaganda germanica esalta la collaborazione militare italo-tedesca.
Nell’autunno 1943 Mussolini è angosciato dall’impotenza bellica: «è il suo assillo
quotidiano, il problema dei problemi», annota il suo segretario Giovanni Dolfin4. L’autonomia del nuovo Stato repubblicano richiederebbe altresì il superamento della
subalternità all’alleato-occupante, con la riconduzione delle energie militari nell’alveo
istituzionale: le forze armate della RSI.
4 Giovanni Dolfin, Con Mussolini nella tragedia, Garzanti, Milano, 1949, p. 39 (annotazione del 16 ottobre 1943).
Il comando dell’Esercito – su designazione tedesca, ratificata da Mussolini – spetta
al maresciallo Rodolfo Graziani (Filettino [Frosinone], 1882-Roma, 1955)5, caduto in disgrazia per l’incapacità di contrastare l’avanzata britannica in Libia:
destituito l’11 febbraio 1941 dal duce e posto sotto inchiesta, esce ora da due anni
e mezzo di sdegnoso ritiro; a giovargli è la storica rivalità col maresciallo Badoglio, traditore per antonomasia. Graziani è un protagonista del colonialismo
italiano, macchiatosi di spietate repressioni della guerriglia abissina e libica (la
Commissione delle Nazioni Unite lo inserirà tra i criminali di guerra); viceré d’Etiopia,
il 19 febbraio 1937 rimase ferito in un attentato ad Addis Abeba, cui fecero seguito
il massacro di oltre cinquemila civili inermi (donne, vecchi e bambini inclusi) e
migliaia di deportazioni in durissime colonie penali6.
5 Per un quadro biografico cfr. il lemma «Graziani, Rodolfo» nel Dizionario biografico degli italiani, vol. 58, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma, 2002 (ne è autore Angelo Del
Boca); e Romano Canosa, Graziani. Il maresciallo d’Italia, Mondadori, Milano, 2004. Relativamente al secondo dopoguerra: Alfredo Villano, Rodolfo Graziani fascista conteso, Storia Ribelle, Biella, 2011.
6 Sui crimini coloniali del maresciallo, cfr. Angelo Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, vol. 3, La caduta dell’impero, Laterza, Roma-Bari, 1986 e Id., Italiani, brava gente?, Neri Pozza, Vicenza, 2005; nonché Giorgio Rochat, L’attentato a Graziani e la repressione italiana in Etiopia nel 1936-37, «Italia contemporanea», n. 118, 1975, pp. 3-38.
Divenuto ministro della Difesa il 27 settembre 1943, Graziani vorrebbe imprimere un’impostazione
apolitica e nazionale alle forze armate, da strutturare sulla classica triade Esercito-Aeronautica-Marina,
senza ingerenze della Milizia e sulla base della coscrizione7.
7 Per un quadro d’insieme sull’allestimento delle Divisioni della RSI cfr. Marino Viganò,
Estate 1944: le Divisioni dell’Esercito di Salò. Una interpretazione critica, «Studi bresciani», n. 20, 2010, pp. 29-49.
I primi passi, incerti e contraddittori, risultano sostanzialmente fallimentari. Dopo
alcuni rinvii, il maresciallo Graziani convoca gli ufficiali il pomeriggio del 1°
ottobre 1943, al Teatro Adriano, nel centro di Roma, per la «presa di contatto con
il generale Stahel, comandante germanico in Roma»8. Ma i tedeschi diffidano di un esercito italiano, per sfiducia nella sua combattività
e nel timore di nuovi tradimenti.
8Graziani alla riunione degli Stati Maggiori delle Forze Armate, «Il Gazzettino» [Venezia], 1° ottobre 1943.
Il 6 ottobre Graziani – d’intesa con i tedeschi – ordina il disarmo dei carabinieri
romani: brucia, nella capitale, il ricordo del 25 luglio, quando l’Arma fu il più
fedele strumento del re e di Badoglio nel rovesciamento di regime e nell’arresto del
duce. L’indomani mattina reparti di paracadutisti, SS e camicie nere circondano la
caserma Pastrengo, sede del Gruppo Squadroni Carabinieri Reali, e disarmano 800 carabinieri,
destinati all’internamento. Nel volgere di alcune ore, identica operazione viene ripetuta
in altre caserme dell’Urbe, con un bilancio di circa duemila prigionieri, presto deportati
in Austria, Germania e Polonia9.
9 Anna Maria Casavola, 7 ottobre 1943. La deportazione dei Carabinieri romani nei Lager nazisti, Studium, Roma, 2008.
Il maresciallo Graziani e il ministro Buffarini Guidi. Sullo sfondo, un cimelio mussoliniano
sopravvissuto al 25 luglio.
La «neutralizzazione» dei carabinieri è condivisa da Pavolini e Ricci, che puntano
su una Milizia elitaria e politicamente fidata. La parola d’ordine è discontinuità: non più generali burocrati e coscritti coatti, ma strutture snelle, imperniate sul
volontariato.
La propensione ai «pochi ma buoni» – adottata anche dal PFR – viene tuttavia sopraffatta
dal «continuismo»: il volontariato spiace a Graziani (come – da sempre – alla casta
militare), che spinge per l’esercito di leva, secondo i tradizionali modelli di reclutamento
delle forze armate, con suddivisione in Comandi regionali e articolazione in Comandi
provinciali10.
10 Sulle forze armate della RSI cfr. Virgilio Ilari, Il ruolo istituzionale delle Forze Armate della RSI e il problema della loro “apoliticità”, in La Repubblica Sociale Italiana 1943-45, a cura di Pier Paolo Poggio, Fondazione Luigi Micheletti, Brescia, 1986, pp. 415-454;
e Id., L’impiego delle Forze Armate della RSI in territorio nazionale, in L’Italia in guerra: il quinto anno (1944), a cura di Romain H. Rainero e Renato Sicurezza, Commissione italiana di storia militare,
Roma, 1995, pp. 171-230. Si segnala inoltre la recente monografia di Pier Paolo Battistelli,
Storia militare della Repubblica Sociale Italiana, Amazon Italia Logistica, Torino, 2020.
Nell’incontro con Hitler e col comandante della Wehrmacht Wilhelm Keitel (Rastenburg,
9 ottobre), Graziani prospetta la costituzione di 25 Divisioni, che inquadrino gli
oltre 600 mila militari italiani internati nel Reich, ma gli viene concesso di allestirne
quattro, meno di un sesto del suo obiettivo.
La Legge fondamentale sulle forze armate (27 ottobre) prevede la mobilitazione dai
17 ai 37 anni. Le modalità d’arruolamento s’imperniano sulla coazione, rafforzata
da ritorsioni sui congiunti di chi non si presenti in caserma. Il generale Gastone
Gambara, capo di Stato Maggiore dell’Esercito, ordina l’arresto dei capifamiglia dei
renitenti e frequenti operazioni di polizia nei comuni con elevate percentuali di
disaffezione alla leva11.
11 Circolare del generale Gambara al Comando della GNR sulle «Misure di rappresaglia»,
13 febbraio 1944 (ACS, Carte Griffini). Gambara, incluso negli elenchi dei criminali
di guerra per le crudeltà inflitte ai civili a Lubiana e dintorni, verrà nel dopoguerra
richiesto dagli jugoslavi per l’estradizione, negata dal governo italiano.
A fine 1943, la stampa diffonde i dati ufficiali sul numero degli armati: seimila
«nelle unità germaniche operanti in Italia», ottomila «volontari italiani isolati
e combattenti nelle unità tedesche». Con sofisma propagandistico, il «Corriere della
Sera» contrabbanda quel fallimento in preannuncio di vittoria, poiché «i quattordicimila
soldati italiani presenti in armi sul fronte meridionale, a fianco delle agguerrite
e salde truppe del Reich, costituiscono la prima avanguardia del nuovo Esercito repubblicano»12.
12 Dispaccio del «Quartier generale» in data 27 dicembre, riportato e commentato l’indomani
in prima pagina sul «Corriere della Sera» col titolo Quattordicimila italiani a fianco delle unità germaniche.
I bandi di arruolamento escono a fine ottobre; da metà novembre si predispone l’addestramento
in Germania, ma – per contraccolpo – i provvedimenti spingono migliaia di giovani
alla renitenza, preliminare al passaggio alla Resistenza. A fine novembre Mussolini
evoca questo rischio in un colloquio col portavoce del Reich Rahn: «Dal punto di vista
interno, le classi chiamate alla leva, oltre a non poter essere tutte mobilitate in
ragione dell’insufficiente equipaggiamento esistente, non si presenterebbero o addirittura
raggiungerebbero i partigiani nel sentire che ciò che li aspetta è il trasferimento
in Germania». Per evitare un simile disastro, propone di costituire le Divisioni «con
i migliori elementi che si trovano tra i militari internati»13, senza trovare ascolto. Non stupisce dunque che lo stesso duce – sul finire dell’anno
– tragga sul piano militare un bilancio negativo dei primi tre mesi di vita della
RSI:
13 Telegramma di Rahn a Ribbentrop, 29 novembre 1943 (trascrizione in Nicola Cospito
e Hans Werner Neulen, Salò-Berlino: l’alleanza difficile. La Repubblica Sociale Italiana nei documenti segreti
del Terzo Reich, Mursia, Milano, 1992, pp. 92-93).
Ho potuto definitivamente convincermi che non avremo mai un Esercito. I tedeschi non
lo vogliono. Essi non desiderano avere debiti di sorta da pagare il giorno della pace.
Non è la prima volta che l’affermo e credo di avere ragione. Con la tattica manovrata
che stanno usando sul nostro fronte possono d’altronde agire da soli, ritirandosi
lentamente, passo passo, sino alle Alpi! [...] Dobbiamo una buona volta convincerci
che non c’è proprio nulla da fare!14
14 Dolfin, Con Mussolini nella tragedia, cit., pp. 172-173 (annotazione del 25 dicembre 1943).
Contestualmente, giocando sulla debolezza governativa e sulla compiacenza dell’alleato-occupante,
singoli ufficiali – sospinti da spirito collaborazionista o da ambizioni personali
– costituiscono raggruppamenti autonomi, con denominazioni magniloquenti e divise
variopinte, fuori dal controllo dello Stato Maggiore: «Quando queste formazioni –
annota Dolfin, segretario del duce – si sono consolidate, vengono quasi sempre agganciate
dai tedeschi, che con la loro congenita incomprensione le adibiscono ai vari servizi
di retrofronte, massacrando fisicamente e spiritualmente gli uomini. In pieno secolo
ventesimo, stiamo ritornando all’epoca singolare dei capitani di ventura. “Anche questo
– dice Mussolini – fa parte del carattere e della tradizione italiana!”».
Mese dopo mese, si conferma l’incapacità della RSI di costituire un valido Esercito,
anche per i condizionamenti tedeschi, avversi all’utilizzo degli internati quale bacino
d’arruolamento. Inutilmente il generale Emilio Canevari, segretario generale dell’Esercito
repubblicano, perora la causa degli arruolamenti15. Hitler e i suoi generali disprezzano le Badogliotruppen: preferiscono sfruttare i lavoratori militarizzati nelle fabbriche e nei campi del
Reich, per sopperire alle carenze di manodopera e alimentare la macchina bellica.
In questa direzione spingono – come si è accennato (cfr. pp. 113-115) – il ministro
degli Armamenti Albert Speer, il direttore della RuK, generale Hans Leyers, e tutta
l’organizzazione Todt (che arruola decine di migliaia di giovani, esentandoli dalla
leva: molti di essi sono legati ai partigiani)16. In effetti, solo il 5% dei soldati e il 28% degli ufficiali internati uscirà dai
Lager per arruolarsi nelle costituende forze armate fasciste.
15 Cfr. Emilio Canevari, Graziani mi ha detto, Magi-Spinetti, Roma, 1947.
16 Cfr. Roberto Spazzali, Sotto la Todt. Affari, servizio obbligatorio del lavoro, deportazioni nella zona d’operazioni
Litorale adriatico 1943-1945, LEG, Gorizia, 1998; Edoardo Braschi, Lavoravo alla Todt. La costruzione della Linea Gotica nel Mugello, Protagon, Siena, 2010; Paolo Savegnago, Le organizzazioni Todt e Pöll in provincia di Vicenza. Servizio volontario e lavoro
coatto durante l’occupazione tedesca (novembre 1943-aprile 1945), 2 voll., Cierre, Sommacampagna, 2010; Elvio Bez, Ferruccio Vendramini, Fame, paura, speranza. La Todt nel Longaronese e dintorni (1943-45), Cierre, Sommacampagna, 2015.
La propaganda dipinge realtà rosee, con reclute sorridenti in partenza per l’addestramento,
ma chi sale sulle tradotte per il Reich lo fa per forza maggiore, attanagliato dall’incertezza
e dalla nostalgia di casa.
Nell’inverno 1943-44 il ministero della Cultura popolare ordina alla stampa di tacere
sui tanti punti critici e di lodare invece la solidità delle strutture militari:
I direttori dei quotidiani e dei periodici devono abbandonare le critiche alle Forze Armate Repubblicane. Tale atteggiamento della
stampa serve alla propaganda nemica e provoca sfiducia nel popolo italiano. Bisogna che la stampa in questo campo passi dalla fase positiva dell’illustrazione della vita delle caserme, dell’addestramento dei reparti e della
reciproca collaborazione italo-tedesca17.
17 Trascrizione in Claudio Matteini, Ordini alla stampa, Editrice Polilibraria Italiana, Roma, 1945, p. 48.
Una fotografia di reclute avviate in Germania per l’addestramento, scattata dal Nucleo
di propaganda della RSI.
Le reclute firmano i moduli del giuramento (conservati dai Comandi militari provinciali),
nella formula patriottica decisa dal maresciallo Graziani, senza riferimenti al fascismo né al duce: «Giuro
di servire e difendere la Repubblica Sociale Italiana nelle sue istituzioni e nelle
sue leggi, nel suo onore e nel suo territorio, in pace e in guerra, fino al sacrificio
supremo. Lo giuro dinanzi a Dio e ai caduti per l’unità, l’indipendenza e l’avvenire
della Patria».
Il 6 gennaio 1944 il ministero della Difesa nazionale si ridenomina ministero delle
Forze Armate e punta tutte le sue carte sulle reclute addestrate nel Reich: gli alpini
della Divisione «Monterosa», i bersaglieri della «Italia», i granatieri della «Littorio»
e i fanti di Marina della «San Marco». Mussolini (accompagnato da Graziani) ispeziona
i reparti il 24 aprile 1944 e poi a metà luglio, riportandone un’impressione positiva,
anche per la conferma del suo carisma18.
18 Sull’addestramento dei reparti in Germania e le visite del duce cfr. Mario Avagliano,
Marco Palmieri, L’Italia di Salò, 1943-1945, il Mulino, Bologna, 2017.
Nel frattempo, il bando d’arruolamento delle classi 1922-23 e primo semestre del 1924,
con la previsione della fucilazione per renitenti e disertori, predisposto da Graziani
e Mussolini il 18 febbraio 1944, produce esiti deludenti. Nei mesi successivi, la
situazione non migliora.
Le licenze rappresentano per molti la tentazione di darsi alla macchia. Lo documenta
il rapporto dell’aprile 1944 del comandante del Battaglione Alpini «Asti», con un
preoccupante bilancio di assenze arbitrarie e mancati rientri dai permessi:
– Non rientrati dalle licenze: 209.
– Arruolati dal Centro di reclutamento del 3° Comando Provinciale e non presentatisi
alla chiamata dopo essere stati lasciati in licenza: 59.
– Assentatisi arbitrariamente e non presentatisi più: 241.
totale: 509
Nonostante tutti gli accorgimenti posti dal Comando di Btg. per eliminare od almeno
diminuire le diserzioni, seralmente vengono segnalati mancati rientri di alpini dalla
libera uscita.
In accordo con la GNR sono state bloccate le vie principali di uscita dal Presidio;
la stazione e le autocorriere sono sorvegliate in permanenza per impedire l’allontanamento
di alpini dalla città; i comandi di stazione di Torino, Alessandria, Casale e Chivasso
sono stati avvertiti di bloccare gli alpini tramite: agenti in borghese hanno l’incarico
di mantenersi in stretto contatto con gli alpini per individuare gli elementi civili
che tentano di invitare gli alpini alla diserzione, inoltre alcuni alpini fidati sono
incaricati di uno speciale servizio di sorveglianza simile. Risulta che una intensa
propaganda esterna cerca di minare la disciplina e la coesione del battaglione. Questa
propaganda si basa in special modo sull’affermazione che il battaglione è destinato ad essere trasferito in breve tempo in Germania19.
19 Rapporto del comandante del Battaglione Alpini «Asti» al 206° Comando militare regionale,
19 aprile 1944 (trascrizione in Franzinelli, Disertori, cit., pp. 328-330. Cfr. Nicoletta Fasano e Mario Renosio, Un’altra storia. La RSI nell’Astigiano tra guerra civile e mancata epurazione, Israt, Asti, 2016).
Le misure proposte dal comandante sono unicamente di carattere repressivo: «Ritengo
che se il battaglione assistesse ad una sola fucilazione di renitenti odisertori rappresenterebbe per esso la lezione più salutare, che convincerebbe gli alpini e i loro parenti sulla serietà del momento e sulla
severità dei provvedimenti penali a carico dei renitenti e dei disertori».
Il fenomeno appare inarrestabile. A inizio maggio 1944, per il capo di Stato Maggiore
dell’Esercito, «il numero di 22.783 assenti arbitrari rende assai problematica la
possibilità di completare le Divisioni “Littorio” e “Italia”».
A metà giugno vengono chiamate alle armi le classi 1920-21 e i diciottenni del primo
quadrimestre 1926. Di nuovo si registrano estese renitenze, traffici di esoneri e
licenze di convalescenza e altri ingegnosi metodi per evadere la leva (persino – previo
pagamento di migliaia di lire – la falsificazione dei registri delle università, per
far risultare il superamento di esami e ottenere il congedo militare)20.
20 La sentenza 23 giugno 1953 del Tribunale di Roma su «Registri universitari e carriera
scolastica – Servizio nell’esercito della RSI – Esonero dello studente mediante falso
certificato» documenta tecniche e diffusione della corruzione universitaria per motivi
bellici a inizio 1944 (cfr. «Foro Italiano», vol. 76, n. 10/1953, pp. 199-204).
Nel Parmense – secondo le informative della Guardia nazionale repubblicana – nel giugno
1944 «la chiamata alle armi delle classi 1920-21 e 1926 sta dando un esito molto infelice
poiché quasi tutti i giovani passano a ingrossare i gruppi dei banditi o si nascondono
per evitare di essere inviati in Germania»21.
21 Notiziario GNR Parma, 17 giugno 1944 (AFM Ng-GNR).
Graziani definisce «pressoché nullo» l’esito della sua ordinanza. E i dirigenti del
fascismo piemontese raccomandano a Mussolini di sospendere la chiamata alle armi,
ufficialmente per consentire la regolarità dei lavori agricoli ma in realtà per bloccare
l’afflusso dei richiamati alle bande dei «ribelli».
In effetti, il comportamento delle reclute è preoccupante. Il Battaglione alpino costituito
nella primavera 1944 ad Asti alle dipendenze del maggiore Vitali è demotivato. La
caserma – a quanto risulta dalle intercettazioni delle lettere a parenti e amici22 – è monotona e frustrante:
22 Le trascrizioni dei brani censurati sono riprese da Marco Ruzzi, Presenza ed attività delle forze delle RSI in provincia di Asti, «Asti contemporanea», n. 6, 1996.
La vita è sempre quella, sveglia alla mattina alle 6,30, dopo c’è l’adunata per l’appello
e non si fa più niente fino all’ora del rancio; ci hanno dato un rancio senza gavetta:
due mele mezze marce, una pagnotta, un formaggino.
Allarme di notte, ore 6,30 sveglia [...] ore 7 caffè di acqua sporca con saccarina
al mille per cento, ò la barba lunga un cm., non mi lavo da domenica, scarpe con la
suola alzata, ancora in borghese, dormiamo sul nudo pavimento [...] ora su pagliericci
con un mucchio di cimici.
Siccome le licenze sono ghiotta occasione di fuga, gli ufficiali vorrebbero bloccarle,
ma la pressione della massa è irresistibile:
Il capitano aveva detto che alla sera non ci sarebbe stata libera uscita, poi, invece,
dopo il rancio delle 5, ci siamo messi tutti alla porta e capirai quasi in 2000 e
l’ufficiale di picchetto ha messo davanti al portone tre sentinelle con la baionetta
innestata ma queste le abbiamo travolte, allora il capitano dà ordine di aprire il
fuoco [...] e fanno partire alcune decine di colpi, erano a salve.
La coercizione incoraggia gli incerti a tornarsene a casa o a unirsi ai «ribelli».
Una recluta lo confida al padre:
Devi immaginare che costì nella nostra caserma siamo poco più di un migliaio e ne
mancano ogni giorno all’appello circa 500; nella nostra compagnia su 300 uomini 70
circa sono mancanti, nell’altra compagnia, la 7a composta da anziani del 22 colla
Russia sulle spalle, ne rimangono la metà cioè 150 circa.
La prospettiva dell’invio nel Reich per l’addestramento suscita – come sempre – diffusi
malumori; chi può, tenta la fuga, o almeno si attrezza per cogliere al volo l’occasione
di riacquistare la libertà. Una lettera sequestrata testimonia l’avversione istintiva
al trasferimento in Germania, che il soldato comunica ai genitori, senza immaginare
di essere spiato:
Devo darvi una brutta notizia: parto per la Germania domani mattina alle 7, così ci
hanno detto. Ho certe idee che mi passano per la testa, ma non so neanche io se seguirle
o scacciarle, ad ogni modo avrete presto notizie. (N.B. asportato il francobollo si
è trovato scritto: «appena posso scappo» [annotazione del censore]).
Ordini di cattura compilati dai Tribunali militari della RSI contro i disertori.
In Germania, non tutto fila liscio nell’allestimento dell’Esercito repubblicano, tanto
è vero che il rimpatrio viene differito di mese in mese: inizia nell’agosto 1944 per
le Divisioni «Monterosa» (19.803 uomini) e «San Marco» (15.331), a ottobre per la
«Littorio» (17.204) e a fine anno per l’«Italia» (14.183).
Le forze armate vengono allestite con rilevante ritardo: a quasi un anno dalla nascita
della RSI. Nel frattempo, i tedeschi hanno drenato la Guardia nazionale repubblicana
e il PFR si è militarizzato nelle Brigate nere; il peso del fronte è sostenuto dai
tedeschi, mentre polizie e formazioni paramilitari italiane si specializzano nella
repressione antipartigiana. A comandare le truppe di Graziani sono i vertici dell’apparato
d’occupazione.
Nella seconda metà del 1944 – contrariamente alle promesse d’invio sulla linea di
fuoco – le Divisioni rimpatriate vengono dislocate sul fronte interno, in funzione
antiguerriglia. La percezione dell’ostilità popolare disillude e sgomenta molti giovani,
che disertano, trasformandosi in «ribelli». Rappresaglie e fucilazioni non riducono
il fenomeno, e i magistrati militari compilano migliaia di ordini di cattura contro
i fuggiaschi. Nemmeno severe pene carcerarie o le condanne a morte sortiscono effetti
deterrenti23.
23 Cfr. Sergio Dini, La bilancia e il moschetto. I Tribunali militari nella Seconda guerra mondiale, Mursia, Milano, 2016, e Samuele Tieghi, Le Corti marziali di Salò. I tribunali militari della RSI tra repressione e controllo
dell’ordine pubblico (1943-1945), Edizioni Oltre, Boca, 2016.
Il disastro s’intravede già nell’agosto 1944 dal progressivo disfacimento della Divisione
«San Marco», attestata in provincia di Savona. Alcune notizie riprese dal Diario storico
del reparto:
10 – Due batterie del Reggimento Artiglieria si sfasciano, per diserzioni e assenze arbitrarie.
Fucilato a Piana Crixia (Savona) un disertore del III Gruppo Esploratori.
14 – Fucilati a Varazze due graduati e due soldati del 3° Reggimento Artiglieri.
15 – Fucilati a Varazze un marò e due a Bastia di Albenga.
16 – Si allontanano arbitrariamente 790 militari; fucilazione della ventisettenne Ines
Negri, per incitamento alla diserzione.
18 – Durante i pattugliamenti per il recupero dei disertori (ne vengono catturati 2)
una ventina di elementi del 6° Reggimento passano ai partigiani e fanno catturare
5 commilitoni che non vogliono disertare.
19 – 70 fuggiaschi, quasi tutti armati; 6 disertori fucilati a Borgio Verezzi, Peagna
e Quiliano.
20 – Fucilati a Peagna un graduato e un marò.
21 – Fucilati a Peagna e Savona due marò.
22 – Fucilato a Borgio Verezzi un marò.
24 – Fucilata a Vado Ligure, per incitamento alla diserzione, Clelia Corradini.
26 – Fucilato a Peagna un marò.
27 – Due disertori in divisa catturano, d’intesa coi partigiani, una squadra del 6° Reggimento.
29 – Diserzione di un plotone del 6° Reggimento (1 sottufficiale, 4 graduati e 28 marò),
con uccisione del comandante e di due soldati tedeschi24.
24 Notizie desunte dal Diario storico della Divisione «San Marco» (nella raccolta di
documenti San Marco... San Marco... Storia di una Divisione, a cura di Pieramedeo Baldrati, Associazione Divisione Fanteria di Marina «San Marco»,
Milano, 1989, vol. I, pp. 69-88).
Nei due mesi successivi, sono ben 800 – secondo i dati pervenuti a Mussolini – a disertare
dalla «San Marco».
La situazione della Divisione «Monterosa» non è migliore, a quanto risulta dal memoriale
inviato al duce il 17 ottobre 1944:
Molti elementi della «Monterosa» continuano a defezionare. È recente un passaggio
ai banditi con tutte le armi e le salmerie di un reparto di 40 alpini.
Elementi della stessa Divisione, che è dislocata parte in Liguria e parte in Piemonte,
si dedicano all’accaparramento e al commercio di qualsiasi genere di merce e praticano
anche su larga scala il commercio di quadrupedi, cambiando muli e cavalli buoni con
altrettanti scarti. [...] Il morale delle truppe va affievolendosi25.
25 Notiziario GNR, Promemoria per il Duce e il Capo di SM della GNR, 17 ottobre 1944
(AFM Ng-GNR).
Tra gli alpini della «Monterosa» passati ai «ribelli» – attraverso una dolorosa revisione
di valori – spicca il piemontese Angelo Del Boca (Novara, 1925), divenuto a fine 1944
comandante partigiano (e nel secondo dopoguerra pioniere degli studi sul colonialismo
italiano: cfr. la fotografia di p. 326)26.
26 Angelo Del Boca, Nella notte ci guidano le stelle. La mia storia partigiana, a cura di Mimmo Franzinelli, Mondadori, Milano, 2015.
Di renitenti alla leva e disertori dall’Esercito si occupa il Servizio politico della
GNR, che ne rastrella quasi cinquemila (solo una minima parte del totale), ricondotti
ai reparti d’appartenenza o ai distretti militari. L’andamento delle catture dal luglio
1944 al gennaio 194527:
27 Specchio numerico disertori Esercito e renitenti, febbraio 1945 (ACS, SPD CR RSI,
b. 5, f. Servizio Politico della GNR).
disertori
renitenti
totale
da luglio a ottobre 1944
39
1.221
1.260
novembre
305
1.120
1.425
dicembre
337
427
764
gennaio 1945
725
119
844
totale
1.406
2.887
4.293
Il recupero delle spoglie di un militare della RSI, caduto durante un’azione antipartigiana.
Mussolini vive in una realtà schizofrenica, che gli fa vantare negli interventi pubblici
la combattività del fascismo repubblicano, tranne ammettere negli sfoghi privati il
fallimento del riarmo. Eloquente il messaggio di metà gennaio 1945 per il capo della
missione militare italiana a Berlino, generale Umberto Morera:
Caro Morera,
nel luglio 1944, fui pregato di andare a Monza, per parlare ad alcune centinaia di
soldati italiani in partenza per la Germania. [...] Io dissi loro che andavano in
Germania per un periodo di istruzione e che, come era accaduto per la «Monterosa»,
sarebbero ritornati in Italia. Ora le promesse non sono state mantenute affatto. Gli
uomini sono stati dispersi in tutte le direzioni, al lavoro, senza il minimo impiego
od addestramento militare. Tutto ciò è deplorevole e deleterio. Quegli uomini sono
stati ingannati, e avrebbero e hanno ragione di giudicarci molto severamente. Vi prego di farli rintracciare e entweder = oder o tornano in Italia o restano in Germania come soldati, perché io, non intendo di
turlupinare alcuno28.
28 Mussolini al generale Umberto Morera, 12 gennaio 1945 (ACS, SPD CR RSI, b. 71).
Angelo Del Boca, alpino della «Monterosa», inviato di presidio nell’Appennino piacentino
e passato ai «ribelli».
Le quattro Divisioni conducono un’esistenza difficoltosa, esposte ai contraccolpi
della guerra civile e dissanguate dall’esodo di soldati e ufficiali. Come si è accennato,
le truppe si posizionano principalmente tra Liguria e Piemonte in funzione antipartigiana,
e in una piccola zona del fronte, in Garfagnana.
L’atteggiamento delle popolazioni è sconfortante. A inizio 1945 il prefetto di Genova
trasmette al Comando della «Monterosa» le lamentele pervenutegli per il comportamento
dei bersaglieri. La risposta del colonnello Giorgio Milazzo (vicecomandante della
Divisione) è stizzita e autoassolutoria: «La truppa si sente e si vede dileggiata,
a disagio, sottoposta alla propaganda disfattista di tutti coloro che non credono
alla rinascita italiana e riceve solo inviti alla diserzione per darsi alla vita del
ribelle, si vede ovunque accolta con ostilità palese e occulta»29. Il condizionamento ambientale contribuisce alla disgregazione della «Monterosa»,
dalla quale disertano tremila alpini e una quindicina di ufficiali.
29 Il colonnello Milazzo al prefetto di Genova, 18 gennaio 1945 (ASG, Documenti RSI,
Divisioni arrivate dalla Germania, b. 5; debbo a Sandro Antonini questo e altri documenti
conservati all’Archivio di Stato di Genova).
Il generale Guido Manardi, comandante dell’«Italia» – ultima Divisione a rimpatriare
dalla Germania – a fine gennaio 1945 sventola bandiera bianca:
Per molteplici cause dirette o indirette, la compagine dei reparti che nei primi giorni
del rimpatrio davano molto affidamento per quanto riguarda la preparazione morale,
la disciplina e lo spirito combattivo (come è chiaramente apparso nell’operazione
«Totila» effettuata contro i fuori legge) va di giorno in giorno disgregandosi, annullando
così in gran parte gli sforzi compiuti al campo di addestramento.
Dopo pochi giorni dal rimpatrio, mentre si sperava di poter realizzare quanto è stato
preparato in tanti mesi di duro lavoro, si sono fatte sentire le prime deficienze
d’ordine tecnico e organizzativo che sono andate man mano accentuandosi fino a provocare
l’attuale situazione, caratterizzata da numerose e continue defezioni, conseguenza
diretta della depressione morale della truppa. [...]
Così la Divisione, che col nome «Italia» avrebbe dovuto presentarsi di fronte ai connazionali
come unità-tipo, rappresentando la più bella espressione del combattente italiano
per ardimento, senso di onore e generoso amor patrio ed uno (se non il più bello)
dei quattro pilastri sui quali dovrebbe posare la rinascita dell’Esercito e del Paese,
allo stato attuale vede fallito il suo compito30.
30 Relazione del comandante della Divisione «Italia», generale Manardi, 25 gennaio 1945
(ACS, SPD CR RSI, b. 39).
Nel febbraio 1945 Manardi viene sostituito dal comandante della Divisione «Monterosa»,
Carloni (il cui posto è assegnato al colonnello Milazzo).
La RSI, sebbene nata (grazie ai tedeschi) in un contesto bellico, si ritrova in guerra
senza Esercito, dato che – tranne isolate e poco significative eccezioni (enfatizzate
dalla propaganda bellica e, nel dopoguerra, da pubblicisti nostalgici alla Pisanò)31 – le sue truppe, tenute lontano dal fronte per decisione germanica, combattono altri
italiani. Quel che si riesce a costruire è una struttura composta da elementi poco
convinti, con tensioni e conflitti interni. Gli ostinati sforzi di Mussolini e Graziani
in campo militare puntano essenzialmente a dare una parvenza di legittimità e verosimiglianza
a una repubblica con fondamenta deboli e pericolanti.
31 Giorgio Pisanò, Gli ultimi in grigioverde. Storia delle Forze Armate della Repubblica Sociale Italiana, 3 voll., FPE, Milano, 1967 (opera d’impianto giornalistico, basata sulla documentazione
raccolta da Pieramedeo Baldrati).
Junio Valerio Borghese e la X Mas
Nel dopoguerra Junio Valerio Borghese affermerà che, anche senza Mussolini, dopo l’armistizio
sarebbe comunque nata un’entità politico-militare per riscattare l’onore patriottico;
ovvero – nelle circostanze date – per continuare a battersi con i tedeschi, sebbene
in un contesto strutturalmente mutato, in presenza del governo monarchico e della
Resistenza.
In effetti, Junio Valerio Scipione Ghezzo Marcantonio Maria dei principi Borghese
(Roma, 1906-Cadice, 1974) non è incasellabile, come i vari Pavolini e Mezzasoma, tra
i «mussoliniani»32. Del resto, la stampa della «Decima» rivendica la propria indipendenza, con pochi
accenni al duce. Tipico l’editoriale de «La Cambusa» (sottotitolo: «Ritrovo dei marò
della X Flottiglia Mas») Come la pensiamo noi della Decima, che non cita Mussolini né il fascismo, e ammonisce: «Non si pensi di far di noi,
né oggi né domani degli uomini di parte. Gli uomini possono esercitare su di noi un
ascendente ed hanno diritto alla nostra devozione soltanto in virtù delle loro opere»33. Sul giornale, come sugli altri fogli legati alle formazioni di Borghese, «prevalgono
gli articoli di autoesaltazione, di sprezzante condanna per i “disfattisti” e i “disertori”;
motivo ricorrente è l’elogio della “bella morte”, e non vengono date notizie della
guerra in corso tranne azioni riuscite della X Mas»34. Comunque, il 6 ottobre 1943 Borghese – in compagnia di Enzo Grossi – illustra a
Mussolini, a Rocca delle Caminate, la propria strategia, ed è incoraggiato a proseguire
nel riarmo del suo gruppo, puntando a un successo militare che consoliderebbe la Repubblica
quantomeno sul piano dell’immagine35. Seguiranno, sulla falsariga di questo incontro, altre udienze, stavolta nell’ufficio
di Gargnano.
32 Cfr. Sergio Nesi, Junio Valerio Borghese. Un Principe, un Comandante, un Italiano, Lo Scarabeo, Bologna, 2004; Junio Valerio Borghese e la X Flottiglia Mas. Dall’8 settembre 1943 al 26 aprile
1945, a cura di Mario Bordogna, Mursia, Milano, 2007 (ed. or. 1995); Jack Greene, Alessandro
Massignani, Il principe nero. Junio Valerio Borghese e la X Mas, Mondadori, Milano, 2017, e Massimiliano Capra Casadio, Storia della X Flottiglia Mas, 1943-1945, Mursia, Milano, 2017.
33Come la pensiamo noi della Decima, «La Cambusa», 15 maggio 1944.
34 Vittorio Paolucci, La stampa periodica della Repubblica sociale, Argalìa, Urbino, 1997, p. 47.
35 Riferimenti all’udienza del 6 ottobre 1943 figurano sia nella relazione di Borghese
sul proprio operato (redatta il 14 gennaio 1944: ACS, SPD CR RSI, b. 73), sia nell’autobiografia
di Enzo Grossi, Dal “Barbarigo” a Dongo, Aurora, Stradella, 2001 (ed. or. 1959), pp. 51-52.
Un manifesto propagandistico della X Mas, disegnato da Gino Boccasile.
Borghese, volontario nel 1937 in Spagna, durante la seconda guerra mondiale effettua
incursioni di sommergibili nei porti nemici, e nel maggio 1943 assume ufficialmente
il comando della X Flottiglia Mas, che in tre anni di guerra aveva affondato circa
200 mila tonnellate di naviglio nemico. Uomo d’azione e – a suo modo – impolitico,
è condottiero di un esercito attrezzato per la guerra con mezzi non convenzionali.
Egli vanta il suo status di militare, ma scelte di fondo e posizionamento dei reparti
hanno un contenuto altamente politico.
Colto dall’armistizio nella base di La Spezia, Borghese rimane a fianco del Reich,
mentre la maggioranza dei suoi marò si congeda e quelli che seguono il comandante
lo fanno volontariamente. Ammainato il tricolore, viene issato sul pennone il vessillo
col leone di San Marco, emblema della formazione.
La flottiglia, riconosciuta dai tedeschi quale unità combattente autonoma – con parità
di diritti e doveri – nel quadro della strategia operativa della Marina germanica,
confluirà formalmente negli organici della Marina repubblicana (senza però giurare
fedeltà alla RSI), per trasformarsi nel maggio 1944 in Divisione Fanteria di Marina
Decima, strutturata sui reggimenti «San Marco», «San Giorgio» e «Littorio».
Vi è incertezza sugli organici della formazione: in assenza di dati ufficiali, si
può stimare una forza media di diecimila uomini, per i quattro quinti di età inferiore
ai 25 anni.
Courgnè (Torino), giugno 1945. Junio Valerio Borghese con i marò del «Barbarigo».
Dietro il comandante, si notano l’interprete germanico Joseph Gross e Umberto Bardelli;
appoggiato all’automobile, Umberto Bertozzi.
Alcuni reparti della Decima sono tra le poche unità italiane a battersi contro gli
anglo-americani: il Battaglione «Barbarigo» si posiziona nel marzo 1944 sul fronte
di Anzio, battendosi valorosamente e lasciando sul terreno circa mezzo migliaio di
uomini, pari alla metà degli organici. E il Battaglione «Lupo» si trincera a metà
dicembre 1944 per tre mesi sul fiume Senio, in difesa del Ravennate.
La propaganda per l’arruolamento viene effettuata mediante accattivanti manifesti
murali, i migliori dei quali – disegnati da Boccasile (cfr. pp. 307-311) – mostrano
giovani vigorosi dallo sguardo diritto, ottimamente equipaggiati e armati, animati
dal desiderio di battersi per la patria. Si accolgono anche le donne, inquadrate nel
Servizio ausiliario femminile (cfr. pp. 380-389).
Il volontariato è favorito da lauti ingaggi, ben superiori alla paga corrisposta da
Esercito e GNR. Il regolamento è a suo modo egualitario: prevede promozioni unicamente
per merito di guerra, mensa comune, severe punizioni per le infrazioni all’onore militare.
Tra i più giovani marò vi è il sedicenne liceale Piero Vivarelli (Siena, 1927-Roma,
2010), appartenente a una famiglia fascista: il padre è caduto nel 1942 in Jugoslavia
con le camicie nere, la madre è segretaria di Pavolini, il fratello minore Roberto
è lui pure volontario (nel dopoguerra, Piero Vivarelli – diventato comunista senza
rinnegare il passaggio dell’arruolamento nella Decima – rivisiterà quell’esperienza
in un documentario e in un romanzo autobiografico il cui titolo è ripreso dal motto
dei Nuotatori Paracadutisti: Più buio che a mezzanotte non viene)36.
36 Piero Vivarelli, Più buio che a mezzanotte non viene, Ed. dell’Oleandro, Roma, 1999. Dopo un anno di latitanza, Vivarelli viene arrestato
dagli Alleati; liberato nel 1948, militerà a sinistra e per valutazioni terzomondiste
riceverà da Fidel Castro – suo amico personale – la tessera del Partito comunista
cubano. Acquisirà notorietà come sceneggiatore e paroliere di testi musicali di successo,
particolarmente per Adriano Celentano (da 24 mila baci a Il tuo bacio è come un rock).
Borghese e i suoi uomini sono invidiati e spiati. I vertici della Marina, a partire
dal sottosegretario Ferruccio Ferrini, odiano i rivali – meglio armati e più ardimentosi
– e vorrebbero riassorbirli: al confronto, la Marina repubblicana è una confraternita
di burocrati.
Le tensioni esplodono il 13 gennaio 1944, quando il comandante della Decima, convocato
dal duce, viene disarmato e arrestato nell’anticamera. Gli si rinfacciano propositi
d’ammutinamento (addirittura un complotto per catturare Mussolini), contatti segreti
col nemico e molto altro. Dopo una dozzina di giorni di reclusione a Brescia (nei
quali il prigioniero redige un memoriale sulla propria attività)37, le pressioni di marò e tedeschi gli valgono la liberazione. La vicenda costa il
posto a Ferrini, responsabile del teorema accusatorio; il sottosegretariato è offerto
a Borghese, che però lo rifiuta (verrà assegnato il 14 febbraio al contrammiraglio
Giuseppe Sparzani, vicino alla Decima).
37 Documentazione accusatoria e materiali difensivi di/su Borghese sono conservati in
ACS, SPD CR RSI, b. 73.
Riacquistata la libertà, Borghese – d’intesa con i Comandi germanici, attraverso il
conte Erwin von Thun – stabilisce il quartier generale in provincia di Brescia, tra
Lago d’Iseo e Franciacorta, prendendo il controllo della fabbrica di aerei Caproni,
in località Montecolino. La sua famiglia vive nell’incantevole isoletta lacustre di
San Paolo, di proprietà degli industriali Beretta, che riforniscono di armi la X Mas.
Dell’ingombrante presenza sono al corrente sia il servizio segreto della RSI sia gli
Alleati, che intensificano i raid aerei nella zona38.
38 Cfr. Mino Botti, Bombardamenti sul lago d’Iseo tra RSI, Decima, occupazione tedesca, «Studi e ricerche di storia contemporanea», n. 93, giugno 2020, pp. 56-62.
L’8 settembre 1944 – ricorrenza del «tradimento» italiano – il generale Wolff conferisce
a Borghese, su incarico di Hitler, la Croce di Ferro di I classe, a riconoscimento
di un anno di fedele fiancheggiamento.
La Decima è schierata sui confini orientali, in azioni di controguerriglia, nel contenimento
dei partigiani slavi. Nella zona di Gorizia, combatte il IX Korpus delle formazioni
titine. In autunno si posiziona tra Veneto e Venezia Giulia, nell’ambito delle operazioni
tedesche contro le formazioni garibaldine e la «Osoppo», con oltre duecento uccisioni,
circa centoventi ferimenti e mezzo migliaio di catturati: quell’offensiva agevola
l’insediamento dei reparti cosacchi in Carnia (l’effimera e crudele Kosakenland)39.
39 Cfr. Rosanna Rossa, Venti cammelli sul Tagliamento. L’avventura cosacca in Friuli dal 1944 al 1945, Istituto friulano per la storia del movimento di liberazione, Udine, 2007; e Fabio
Verardo, I cosacchi di Krasnov in Carnia, Aviani & Aviani, Udine, 2010.
Un settore particolarmente sviluppato è il controspionaggio, con infiltrazioni dietro
il fronte e contatti segreti a tutto campo, inclusi contatti con gli anglo-americani
e il partigianato autonomo, nella prospettiva degli assetti del dopoguerra, con la
prevedibile scomposizione dei vincitori tra Stati capitalisti e l’Unione Sovietica.
La figura carismatica di Borghese alimenta spirito di corpo e cameratismo che sovrastano
ogni altra valutazione, determinando terribili ritorsioni per le imboscate ai marò.
Dall’estate 1944 la formazione svolge azioni antipartigiane, in una guerra sporca
che s’imprime nell’immaginario collettivo con impiccagioni, sevizie e fucilazioni
di gruppo.
Nel giugno 1944 la Decima viene assoggettata al generale Gustav-Adolf von Zangen.
Le tessere di riconoscimento personale – bilingui – portano l’avvertenza:
Il titolare appartiene alla Divisione “Decima”, alleata alle FF.AA. Germaniche, ed
è autorizzato a circolare armato.
Tutte le autorità militari e civili italiane e tedesche sono pregate di dargli assistenza
in caso di necessità.
Tessera bilingue della X Mas, rilasciata a un ventenne ligure, inquadrato come sottotenente.
L’antiguerriglia viene condotta secondo le direttive del feldmaresciallo Kesselring
e del generale Wolff, con particolare intensità nel Piemonte e – come si è accennato
– contro il partigianato slavo. Una misura di carattere preventivo è il prelievo di
cittadini in qualità di ostaggi; se ne avvisa la popolazione mediante manifesti murali,
precisando che «ad essi non sarà fatto alcun male se nessun atto di sabotaggio, attentato
alla vita, o delitti in genere saranno compiuti nella zona a carico di uomini o cose
appartenenti alla Divisione X».
Gli eventi di Valmozzola, piccola località appenninica tra Emilia e Liguria, rivelano
le fatali logiche della guerra civile. Verso le 8,30 del 12 marzo 1944 un gruppo di
«ribelli» ferma il treno La Spezia-Parma, per liberare tre compagni catturati in combattimento
e condotti al Tribunale militare di Parma, anticamera della fucilazione. Quando però
il comandante Mario Devoti (nome di battaglia Betti) chiede la consegna dei prigionieri,
il sottotenente del Battaglione «Lupo» della X Mas Gastone Carlotti lo dilania con
una bomba a mano. Nella furiosa sparatoria i partigiani neutralizzano la trentina
di militari della scorta. Oltre a Carlotti, muoiono un marò guardiamarina e due sottufficiali
della GNR. Gli assalitori si ritirano con numerosi prigionieri: sei verranno fucilati,
altri liberati (tra di essi, tre tedeschi) e altri ancora aderiranno alla Resistenza.
Per vendicare i due camerati, i marò prelevano dalle carceri di Pontremoli sei italiani
e due disertori georgiani – catturati tre giorni prima sul Monte Barca –, li trasportano
alla stazione di Valmozzola e ne fucilano sette (graziano un giovanissimo, dopo le
insistenze dei morituri sulla sua estraneità alla Resistenza)40.
40 La dinamica dell’assalto al treno è qui ricostruita sulla base dei Notiziari della
GNR del 14 e 16 marzo 1944 (AFM Ng-GNR). Si vedano inoltre I fatti di Valmozzola. Il gruppo di Monte Barca, 13-17 marzo 1944, Istituto storico della Resistenza, La Spezia, 1974, e Attilio Ubaldi, Omaggio a Mario Betti. Assalto al treno a Valmozzola, ANPI, Parma, 2004.
L’estate 1944 vede gli uomini di Borghese accentuare l’azione contro i «ribelli».
Il 13 giugno la Compagnia operativa «O» al comando di Umberto Bertozzi spalleggia
la 135a brigata da fortezza (Festungs Brigade) nello spietato rastrellamento di Forno
(frazione di Massa), culminato in 68 uccisioni41.
41 Ruggero Fruzzetti, Alberto Grossi, Massimo Michelucci, Forno 13 giugno 1944. La storia di un eccidio, Ceccotti, Massa, 1994.
L’8 luglio cade in un tranello a Ozegna (Torino) il maggiore Umberto Bardelli, figura
carismatica della Decima, che nel febbraio-aprile 1944 aveva guidato il Battaglione
«Barbarigo» sul fronte di Anzio-Nettuno. Durante il negoziato per lo scambio di prigionieri
con i partigiani di Piero Urati (un ventiduenne già in servizio presso la Guardia
alla frontiera), viene imposta la resa: al rifiuto dell’ufficiale scatta l’imboscata,
con l’uccisione di Bardelli e 10 marò, e la cattura degli altri trenta (gli assalitori
perdono tre dei loro). L’indomani giunge sul luogo Borghese, che – contrariamente
alle pressioni dei collaboratori – evita rappresaglie contro i civili.
Il 29 luglio, a Ivrea, il ventiduenne Ferruccio Nazionale – accusato di aver voluto
scagliare una bomba a mano contro un cappellano militare – viene impiccato nella piazza
centrale al canto di Giovinezza. Il volto tumefatto rivela le sevizie inflittegli nelle ultime ore di vita.
Il 13 agosto, a Borgo Ticino (Novara), un ufficiale germanico ordina al tenente di
vascello della X Mas Ongarillo Ungarelli – stretto collaboratore di Borghese – di
fucilare tre civili per ognuno dei quattro tedeschi feriti in un’imboscata: vengono
così passati per le armi 12 ostaggi, con un tredicesimo aggiunto dall’ufficiale. Sono
pure incendiate una cinquantina di abitazioni42.
42 Cfr. Francesco Omodeo Zorini et al., Borgo Ticino 13 agosto. Documenti, testimonianze e immagini, Comune di Borgo Ticino, 2009.
Dopo l’agguato mortale al sottotenente di vascello Leonardi, il 1° novembre Ungarelli
fa fucilare nella piazza di Castelletto Ticino (Novara) cinque giovani prigionieri
garibaldini, «abbattuti» uno alla volta, con un colpo alla schiena.
Le ritorsioni contro gli attacchi dei «ribelli» alternano fucilazioni a impiccagioni;
quest’ultimo sistema è mutuato dai tedeschi, principale riferimento degli uomini di
Borghese.
Impiccagione del partigiano Ferruccio Nazionale. Sul petto, il cartello con la scritta
AVEVA TENTATO CON LE ARMI DI COLPIRE LA DECIMA.
A Sernaglia della Battaglia (Treviso), il contadino Giovanni Parussolo, partigiano
della Brigata «Mazzini», viene torturato, finito a revolverate la notte del 9 dicembre
1944 e impiccato dai marò della «Sagittario» a un albero della piazza municipale.
Parussolo era caduto nella trappola del giovanissimo maresciallo Eugenio De Santis,
fintosi aspirante disertore alla ricerca di contatti con i partigiani. Il cadavere
rimane esposto per un giorno e una notte come monito, con appeso al collo il cartello
IL PIOMBO DELLA X AI TRADITORI (cfr. l’immagine nella pagina affianco). L’indomani,
analoga sorte tocca ad altre tre persone che, in contatto con Parussolo, avevano manifestato
disponibilità ad aiutare i disertori43.
43 La dettagliata cronaca della provocazione ordita contro Parussolo e i suoi compagni
figura in Federico Maistrello, La X Mas e l’Ufficio “I”. Violenza tra le province di Treviso e Pordenone (1944-1945), Istresco, Treviso, 2018 (il testo utilizza documentazione di prima mano ed è importante
per la comprensione di motivazioni e metodi dei marò).
Ancora in provincia di Treviso, nel comune di Cordignano, il 14 febbraio 1945 vengono
fucilati sei ostaggi per vendicare la cattura del sergente Guido Marini (mai più ritrovato).
Pressato dal vescovo di Vittorio Veneto per evitare la ritorsione, il capitano Nino
Buttazzoni, comandante del Battaglione «NP» (nonché cugino di Marini), pronuncia davanti
al segretario del vescovo un’imprecazione rivelatrice: «Li ucciderò tutti! Poi uccideranno
anche me, così andremo tutti all’inferno!»44 (arrestato dopo un biennio di latitanza, nel luglio 1949 Buttazzoni verrà condannato
dalla Corte d’assise di Treviso a 21 anni; prosciolto il 20 settembre 1950 dalla Corte
d’assise di Ascoli Piceno, scriverà memoriali autobiografici e morirà nel 2009, celebrato
dai neofascisti come eroe).
44Ombre e luci. Dal diario inedito di mons. Camillo Carpene (8 settembre 1943-30 aprile
1945), a cura di Abramo Floriani, Tipse, Vittorio Veneto, 1969, p. 114.
Il partigiano Giovanni Parussolo, seviziato e ucciso dai marò e infine impiccato il
9 dicembre 1944 a Sernaglia della Battaglia (Treviso).
Il Servizio informazioni della Decima dipende dal tenente di vascello Umberto Bertozzi
(Colorno [Parma], 1905-Milano, 1964), seviziatore compulsivo. Il fatto è notorio,
tant’è vero che il sottotenente Lorenzo Scardovi e altri testimoni di violenze lo
denunciano al generale Giuseppe Corrado (comandante della Divisione «Decima») e a
inizio 1945 Mussolini lo deferisce al Tribunale militare. Sciolto d’autorità l’Ufficio
«I», l’ufficiale tortura come e più di prima, finché a marzo viene arrestato per «atti
di violenza e sadismo, nonché di vergognose accuse di natura morale», in qualità di
capo di un «reparto autonomo con tutti i caratteri della banda irregolare» (uscito
senza danni dalla fine della RSI, Bertozzi è condannato in contumacia il 4 giugno
1947 dal Tribunale di Vicenza alla fucilazione, la Cassazione trasforma la pena capitale
in ergastolo e poi – attraverso la concessione di condoni e amnistie – a 19 anni,
grazie anche alla deposizione del suo ex superiore Buttazzoni, che nel 1950 ne loda
«l’alto senso di onestà e di dirittura morale». L’applicazione dell’amnistia chiude
nel 1952 ogni conto con la legge. Successivamente, Buttazzoni esprimerà ben altro
giudizio: «Quando io avevo un problema grave con i partigiani o con qualcun altro,
chiamavo Bertozzi, e lui lo risolveva. Quando avevo grane, chiamavo lui. [...] Bertozzi
era un uomo difficile, in qualche senso faceva paura. Faceva paura persino a noi»)45.
45 Lapo Mazza Fontana, Italia über alles. La X Mas: per la patria contro tutti, Boroli, Milano, 2006, p. 127.
Le rappresaglie proseguono sino alla fine. All’uccisione del sergente maggiore del
Battaglione «Fulmine» Carlo Tommasi, avvenuta a Thiene (Vicenza) il 7 aprile 1945
in un agguato campestre, segue una ritorsione «alla tedesca», rivendicata in un manifesto
murale46:
46 Fotografia del manifesto in http://www.centrorsi.it/notizie/Archivio-storico/I-manifesti-murari-nella-Rsi-esempi.html.
Marina da Guerra Naz. Repubblicana
Divisione Xa
Comando battaglione “Fulmine”
Alle popolazioni di Carré, Chiuppano e Caltrano
Il delitto recentemente compiuto in persona del Sergente Tommasi Carlo di questo Battaglione è stato pagato con la vita di 5 elementi appartenenti
a bande ribelli. Dimostri ciò che la Decima non tollera offese ai propri componenti
e quando esse si verificano le ritorce in modo definitivo ed esemplare. [...]
È dovere preciso di ogni cittadino prevenire i delitti, contribuendo a smascherare
e consegnare alla giustizia punitiva i delinquenti che, operando al soldo di coloro
che dall’aria distruggono i vostri focolari ed uccidono indiscriminatamente donne
e bambini, si macchiano di delitti ben superiori perché provenienti da mano appartenente
a individui nati in territorio italiano.
Il comandante del battaglione
Tenente di vascello
Orrù Giuseppe
I cinque fucilati, al momento dell’imboscata a Tommasi, si trovavano in carcere e
sono dunque estranei al fatto (a fine conflitto, Orrù – condannato a morte in contumacia
– vivrà clandestino sino all’amnistia, praticatagli il 21 ottobre 1947).
Borghese sin dal febbraio 1945 è informato dal generale Wolff sulle trattative intavolate
in Svizzera con gli Alleati, e lui pure si prepara un’uscita di sicurezza.
Il Comando della Decima si arrende il 26 aprile a Milano, nella caserma di piazzale
Fiume, dinanzi al partigiano socialista Gennaro Riccio e al delegato del CLN Mario
Argenton. Borghese viene salvato da esponenti delle Brigate «Matteotti» di Corrado
Bonfantini, che lo portano in luogo sicuro. A metà maggio i servizi segreti statunitensi
lo prendono in consegna a Roma47. Rilasciato dopo quattro mesi, è arrestato dalle autorità italiane e imprigionato
a Procida, dove ritroverà il maresciallo Graziani, il generale Gambara e altri camerati.
Dovrebbe giudicarlo la Corte d’assise di Milano, ma la Cassazione accoglie il ricorso
contro la «corte ostile» e trasferisce il procedimento al Tribunale di Roma, che lo
proscioglie in istruttoria da 43 fucilazioni effettuate dalla Decima (non se ne ritiene
provato il coinvolgimento nella catena di comando); il decorso del tempo gioca a suo
favore, anche per il mutato contesto politico, con l’estromissione delle sinistre
dal governo e il clima di guerra fredda. Il 17 febbraio 1949 è condannato per collaborazionismo
a 12 anni e – grazie all’applicazione di amnistia e condono – subito scarcerato. Aderisce
al MSI (di cui diverrà presidente) e alla morte di Graziani assume la presidenza dell’Unione
dei reduci della RSI. Nel 1953 scrive la prefazione al testo di Julius Evola Gli uomini e le rovine. Nel 1957 uscirà dal MSI e di lì a un decennio costituirà il Fronte nazionale, tornando
agli onori delle cronache per il cosiddetto Golpe dell’Immacolata: i misteriosi movimenti
di reparti paramilitari registrati la notte dal 7 all’8 dicembre 1970 nella capitale
(ma non solo), subito rientrati, quasi a voler dare un segnale intimidatorio ai politici48. Per evitare l’arresto, espatrierà in Spagna, morendovi sessantottenne, il 26 agosto
1974.
47 Sui contatti segreti tra la fine del secondo conflitto mondiale e la guerra fredda,
cfr. Giorgio Cavalleri, La Gladio del lago. Il gruppo “Vega” fra J.V. Borghese, RSI, servizi segreti americani
e l’Italia del dopoguerra, Unicopli, Milano, 2018.
48 Cfr. Camillo Arcuri, Colpo di Stato, Bur, Milano, 2004.
La Guardia nazionale repubblicana
Nell’autunno 1943 si costituisce – al comando di Renato Ricci (cfr. pp. 551-552) –
la Guardia nazionale repubblicana, dall’unificazione delle 100 mila camicie nere della
Milizia volontaria di sicurezza nazionale con i 70 mila carabinieri e alcune centinaia
di membri della Polizia dell’Africa italiana. Il decreto istitutivo (19 novembre)
le affida «il compito di difendere all’interno le istituzioni e di far rispettare
le leggi della Repubblica, di proteggere l’incolumità personale e i beni dei cittadini,
di garantire l’ordinato svolgimento di tutte le manifestazioni singole e collettive
dell’attività nazionale». In sostanza, controllerà l’ordine pubblico in un territorio
insidiato dal «ribellismo», specie nelle campagne e nelle vallate appenniniche e alpine.
La confluenza di formazioni eterogenee crea seri problemi, in particolare ai carabinieri:
considerati infidi per tradizionale fedeltà alla monarchia, verranno arrestati – come
si è visto per Roma – e internati a migliaia in Germania.
La ramificazione territoriale, con distaccamenti fin nelle località più remote, fa
della Guardia l’avversario più ravvicinato dei partigiani.
Dal Comando generale della GNR dipendono sette Ispettorati regionali e una quarantina
di Comandi provinciali, ognuno dei quali con un Ufficio politico investigativo (UPI)49. Queste strutture – in prima fila nella lotta al «banditismo» – rappresentano una
zona franca, dove i prigionieri sono torturati per indurli alla confessione; ciò avviene
con particolare crudeltà nelle sedi degli UPI di Varese e Torino. La prima struttura
è capeggiata da Giovanni Battista Triulzi, con sede nella Villa Dansi di via Dante
250, mentre nel capoluogo piemontese, nella caserma di via Asti 22, operano il colonnello
Giovanni Cabras e il maggiore Gastone Serloreti51.
49 Cfr. Amedeo Osti Guerrazzi, Un organo della repressione durante la Repubblica Sociale Italiana. Gli Uffici politici
investigativi della Guardia nazionale repubblicana, «Quellen und Forschungen aus Italienischen Archiven und Bibliotheken», n. 86, 2006,
pp. 465-490.
50 Su Triulzi si veda la pionieristica monografia di Franco Giannantoni, Fascismo, guerra e società nella Repubblica Sociale Italiana. Varese 1943-1945, FrancoAngeli, Milano, 1984.
51 Sull’operato dell’UPI torinese cfr. Luciano Allegra, Gli aguzzini di Mimo. Storie di ordinario collaborazionismo (1943-45), Zamorani, Torino, 2010, e Bruno Segre, Quelli di via Asti. Memorie di un detenuto nelle carceri fasciste nell’anno Millenovecentoquarantaquattro, Seb, Torino, 2013 (Segre fu imprigionato nella caserma di via Asti), oltre al ricco
materiale – documentario e fotografico – consultabile in http://www.atlanteditorino.it/documenti/rsi.html.
L’ex capo manipolo della Milizia Ferdinando Bossi (nato a Milano nel 1905) col sostegno
del comandante Ricci costituisce e capeggia l’UPI di Milano, da lui asservita al colonnello
Rauff e al capitano Saevecke, che detengono il potere reale nella metropoli52. Nel primo anno di attività, l’Ufficio effettua 673 indagini su mandato tedesco e
arresta 2.430 persone (890 consegnate alle autorità germaniche, 520 a quelle italiane
e 1.020 rilasciate). Bossi sovrintende alle torture – praticate dai tenenti Dante
Colombo e Manlio Melli – nelle carceri di via Beccaria e nella sezione tedesca di
San Vittore, oltre che negli uffici di via Copernico 32. A inizio estate 1944 le continue
illegalità inducono il prefetto Piero Parini a rimuoverlo, ma sarà Parini a doversi
ritirare. Il nuovo prefetto, Mario Bassi, dispone un’indagine sull’UPI, accusata di
comportamenti infamanti:
52 Sul rapporto sinergico tra l’UPI di Milano e i Comandi germanici: Luigi Borgomaneri,
Hitler a Milano. I crimini di Theodor Saevecke capo della Gestapo, Datanews, Roma, 1997, pp. 88-95. Su Bossi cfr. Mimmo Franzinelli, Tortura. Storie dell’occupazione nazista e della guerra civile (1943-45), Mondadori, Milano, 2018, pp. 148-160.
– Assolutismo e autonomia nell’azione investigativa e repressiva politica;
– Illegalità e sadismo nei metodi di polizia giudiziaria;
– Prona acquiescenza alle autorità germaniche;
– Indebita appropriazione; [...]
– Illegalità di molte operazioni, arresti e detenzioni;
53 «Promemoria sull’UPI di Milano», 21 settembre 1944 (ASM, CAS, fascicoli processuali,
b. 21, f. Bossi Ferdinando).
Il comandante della GNR Renato Ricci e il suo ufficiale d’ordinanza, tenente Dante
Ciabatti.
Il 25 novembre Bassi si reca da Mussolini per chiedere la cacciata di Bossi per i
suoi metodi «drastici e violenti»54, ma si mobilitano in sua difesa il segretario federale Costa e gli ufficiali tedeschi
Rauff e Saevecke. Costa (comandante dell’8a Brigata nera) sostiene che «azioni simili
sono tuttora commesse da elementi di altre polizie o similari senza che nessuno gridi
allo scandalo o scagli gli anatemi». I comandanti germanici ammettono di aver rimproverato
il capo dell’UPI per «l’azione illegale di alcuni dipendenti», ma lodano «l’azione
leale di collaborazione fraterna resa dal Bossi e dai suoi uomini sin dai primi giorni
del settembre 1943». Il generale della GNR Nunzio Luna sta dalla parte degli inquisiti:
effettivamente distribuirono «santi cazzotti» ai prigionieri, ma il loro comportamento
– se pure «contrasta con la legalità e con il diritto» – ha imposto un «salutare terrore
nel campo avversario» e ciò giova alla Repubblica55 (Bossi continuerà ad arrestare e torturare sino alla fine della guerra; catturato
il 4 maggio mentre fugge in Svizzera, si dipingerà come esecutore di ordini, oberato
da «una posizione famigliare piuttosto grave con moglie, 3 figli piccoli e suocera
a carico»; per il Centro informativo dei carabinieri, è «un autentico criminale spietato,
cinico, crudele che ora teme di scontare il fio delle sue molteplici malefatte». Contro
di lui pesano la documentazione rinvenuta nell’archivio dell’UPI e molteplici testimonianze
di torturati. La condanna a morte sancita il 29 settembre 1945 dalla CAS di Milano
e confermata dalla Cassazione verrà trasformata il 29 aprile 1948 in ergastolo e nell’agosto
1951 in 9 anni, subito amnistiati).
54 Cfr. l’appunto di Parini per Mussolini, 25 novembre 1944 (ACS, SPD CR RSI, b. 47).
55 Le dichiarazioni di Costa, Rauff e Luna figurano nel citato «Promemoria sull’UPI
di Milano».
La GNR dispone di Battaglioni «OP» (Ordine Pubblico), per la repressione del dissenso
politico e per i rastrellamenti. A Bergamo, acquista trista notorietà la 612a Compagnia
OP del capitano Aldo Resmini, che combina sevizie e false fucilazioni per stroncare
psicologicamente i detenuti (la nemesi colpirà nel maggio 1945, quando Resmini sarà
a sua volta catturato, malmenato e fucilato)56.
56 Cfr. Andrea Caponeri, La banda Resmini nelle sentenze della Corte straordinaria d’Assise di Bergamo (1945-1947), Il filo di Arianna, Bergamo, 2008.
I quadri provengono dalle Scuole allievi ufficiali, dove – oltre a questioni di strategia
militare – studiano la dottrina della razza, per attrezzarsi ideologicamente alla
caccia agli ebrei, nemici della patria (cfr. pp. 447-455).
Gli organici, dimezzati da defezioni e internamenti, si assestano sulle 100 mila unità.
Mussolini raccomanda il radicamento su base provinciale, sensibilizzando i capi delle
province poco disponibili alla collaborazione:
La decisione necessaria di costituire la GNR risultante dalla fusione di Milizia,
Carabinieri e Polizia Africa Italiana impone una serie di provvedimenti e misure che
devono essere condotte con decisione, energie e consensi attraverso la persuasione.
Il comandante Ricci ha le qualità di forza e tatto per condurre a felice e sollecito
compimento l’impresa.
Voi darete a quest’opera tutta la vostra intelligente ed assidua collaborazione57.
57 Telegramma del duce ai capi delle province di Vercelli, Cremona, Milano, Parma, Asti,
Novara, Pavia, Venezia e Trieste, 22 dicembre 1943 (ACS, SPD CR RSI, b. 3). Sugli
altalenanti rapporti con i prefetti: Amedeo Osti Guerrazzi, Mussolini e i capi provincia della RSI, «E-Review», n. 6, 2018.
Un’importante mansione della GNR riguarda l’informazione, attraverso Notiziari giornalieri
per il duce e i vertici politico-militari su orientamento della popolazione, lotta
ai «ribelli», rapporti con i tedeschi, andamento dell’economia ecc. Il carattere riservato
e la circolazione interna conferiscono a questi documenti una parvenza di realtà,
senza le deformazioni propagandistiche di stampa e radio.
Una rapida ma rappresentativa antologia sull’orientamento dello spirito pubblico –
riferita all’ultima decade del giugno 1944 – evidenzia l’impotenza dei Comandi provinciali
della GNR:
20 giugno – Forlì: Si manifesta nella popolazione una accentuata demoralizzazione per la caduta di
Roma, aumentata dalla notizia dello sbarco anglo-americano in Francia. [...] Parte
della popolazione che finora aveva assunto atteggiamento neutrale, comincia a manifestarsi
apertamente per i successi nemici e viene intensificata la propaganda contro i tedeschi,
i fascisti e gli appartenenti alle Forze Armate.
21 – Padova: Va generalizzandosi nelle popolazioni il convincimento che il Governo non abbia
la forza sufficiente per far rispettare l’ordine e per attuare i provvedimenti che
vengono emanati nei vari settori.
– Piacenza: La maggior parte della popolazione è mossa da istinto irragionevole di odio contro
la GNR e i fascisti.
22 – Treviso: La popolazione, sotto l’influsso della propaganda nemica, coglie ogni occasione
per manifestare la sua ostilità al Fascismo Repubblicano e ai germanici e – nella
sua maggioranza – anziché addolorarsi per la caduta di Roma – ha appreso la notizia
come indizio di una prossima fine della guerra.
– Vercelli: La situazione politica permane grave e ciò ha sfavorevoli ripercussioni anche sul
morale dei militari; tanto è che sono aumentate le diserzioni in tutti i corpi armati,
specialmente fra quei reparti che si preparano a partire per le zone di addestramento
in Germania.
23 – Como: La situazione dell’ordine e della sicurezza pubblica si è aggravata con l’intensificazione
dell’attività dei banditi che sbocca nei crimini più impensati.
– Cuneo: La situazione dell’ordine e della sicurezza pubblica si è aggravata con l’intensificazione
dell’attività dei banditi che sbocca nei crimini più impensati. [...] Altro fattore
negativo è rappresentato dalle continue diserzioni verificatesi nei reparti dell’Esercito
Repubblicano, nel battaglione della Polizia ausiliaria della Questura.
24 – Milano: La situazione politica della provincia è notevolmente peggiorata. [...] Una delle
ragioni determinanti è l’impressione provocata dalla mancata adozione di quei provvedimenti
d’inflessibile repressione del banditismo che furono annunciati dalla radio e dalla
stampa nell’imminenza dello scadere del termine concesso dal duce per la presentazione
degli sbandati [25 maggio].
– Reggio Emilia: Certo è che le popolazioni prestano incondizionato appoggio ai banditi, i quali,
appunto per questo, hanno assunto il controllo incondizionato dell’Appennino Reggiano.
25 – Livorno: La situazione politica, in seguito alle operazioni di guerra sul fronte meridionale,
è peggiorata. La situazione economica va ogni giorno aggravandosi. La popolazione,
irragionevolmente, ritiene responsabili le autorità competenti, le quali, al contrario,
si prodigano.
– Parma: La situazione politica ha subito un serio peggioramento che, si prevede, avrà un’indubbia
influenza in avvenire a meno che non si provveda ad un tempestivo intervento di forza
tale da dare alla massa l’impressione che il Governo ha l’intenzione e la possibilità
di far rispettare le leggi. Serie preoccupazioni destano le gesta dei banditi, i quali
hanno già preso assoluta padronanza di diverse e importanti zone della provincia.
26 – Genova: [...] Conferma del generalizzarsi di un movimento politico contrario agli intendimenti
del Governo Repubblicano, nonché di odio verso gli appartenenti al PFR. Ciò appare
più evidente e grave se si considera che a tale movimento prendono parte attiva i
giovanissimi.
– Venezia: Nella popolazione non si nota alcuna sensibilità né alcun risveglio... si auspica
invece una rapida soluzione del conflitto, anche se disonorevole, pur di non sopportare
più oltre le restrizioni, i disagi e i pericoli che la guerra comporta.
27 – Novara: Pur essendo Novara uno dei principali centri di costituzione di unità dell’Esercito
Repubblicano, da tempo non si nota più alcun afflusso di richiamati e conseguentemente
partenze di reparti per l’addestramento. [...] Non vengono più osservate le norme
annonarie e il mercato nero viene esercitato sempre più liberamente.
– Savona: Gli sviluppi bellici, la intensificata attività partigiana e la propaganda sovversiva
hanno aggravato ancor più la situazione politica locale. Gli elementi fascisti o –
comunque – di manifesti sentimenti patriottici, nutrono serie apprensioni per la loro
sorte futura e, frattanto, non osano quasi più esprimere le loro idee.
28 – Aosta: L’azione della Federazione dei Fasci repubblicani è pressoché nulla. I fascisti
sono isolati e sfiduciati per la mancanza di energiche e precise direttive.
– Ravenna: La situazione della sicurezza pubblica si va facendo sempre più seria. Gli elementi
sovversivi prendono il sopravvento sulle forze dell’ordine.
29 – Bologna: L’attività sovversiva e quella delle bande è assai intensa in ogni campo, e si manifesta
con un sistematico complesso di atti di sabotaggio e terroristici, i primi volti principalmente
a provocare la disorganizzazione delle vie di comunicazione stradali, ferroviarie,
telegrafiche e telefoniche, e gli altri atti di brigantaggio veri e propri verso le
popolazioni dei centri periferici.
– Toscana: Elementi provenienti dalla Toscana fanno comprendere come le autorità, eminentemente
capi provincia, abbiano perduta la testa e con la loro azione abbiano contribuito
ad aumentare il caos. Si dice che da Siena, Arezzo e Grosseto abbiano avuto ordine
di sgomberare in breve volger di ore, sotto la imminente minaccia delle bande comuniste
che dominano la situazione. Grave il disappunto dei fascisti, costretti ad abbandonare
le proprie case ed i paesi in mano ai ribelli.
30 – Vicenza: La situazione politica è andata peggiorando sia per il fattore militare, sia per
l’aumentato numero e l’accresciuta audacia dei banditi e sia infine per l’intensificata
propaganda comunista o comunque antinazionale, che viene svolta nei diversi ceti della
popolazione.
– Imperia: La chiamata delle classi 1920-1921-1926 per il servizio obbligatorio del lavoro
in Germania, ha prodotto sfavorevole impressione fra la popolazione che giudica il
provvedimento un atto di servilismo della Repubblica verso il Governo tedesco58.
58 Stralci dai Notiziari della GNR del giugno 1944, conservati in copia originale presso
la Fondazione Micheletti, Brescia.
Un manifesto per l’arruolamento nella GNR, disegnato nel 1944 da Gino Boccasile.
Il succo delle informative è che pochi italiani credono nella RSI e i fascisti sono
isolati dall’opinione pubblica, mentre i «ribelli» dispongono di estese coperture
e simpatie.
Se poi si guarda ai Notiziari sulle condizioni della GNR, l’impressione è che tra
fine primavera e inizio estate 1944 il Corpo si ritrovi in via di smantellamento,
sotto i colpi del «ribellismo» e pure per l’attrazione esercitata da X Mas e altre
strutture della Repubblica i cui componenti sono meglio retribuiti ed equipaggiati.
Il pomeriggio del 12 giugno, un telegramma del capo della provincia di Torino, Edoardo
Salerno (vecchio squadrista, combattente decorato al valore), informa il ministero
dell’Interno che «forze GNR sono quasi totalmente impegnate su richiesta dei tedeschi
et Comando provinciale non può fronteggiare altri servizi. Carabinieri si sbandano
per timore essere inviati Germania. Prevedesi altresì minima percentuale presentazione
nuove classi chiamate alle armi et segnalasi irrequietezza maestranze [operaie] che
aggrava situazione»59. In serata, Salerno aggiorna sul disastroso quadro dei distaccamenti periferici:
59 Telegramma del capo della provincia di Torino al ministero dell’Interno, 12 giugno
1944, ore 15.40 (ACS, MI DGPS Div Agr, SCP RSI, b. 54).
In Fiano Torinese 25 ribelli sopraffacevano brigadiere comandante quel distaccamento
GNR traducendolo prigioniero.
Analoga azione est stata operata contro distaccamento GNR Caselle Torinese ove furono
prelevati brigadiere comandante et due militi et trasportate armi munizioni materiale
casermaggio.
In Almese 4 militari distaccamento GNR sono stati disarmati da banda ribelli che asportava
completo munizionamento caserma. [...]
Forte banda ribelli sopraffaceva posto GNR polveriera Rio Valmaggiore occupandola
et prelevando militi60.
60 Telegramma del capo della provincia di Torino al ministero dell’Interno, 12 giugno
1944, ore 20.30 (ibid.).
Nella maggioranza dei casi, i distaccamenti non cadono per gli assalti partigiani
ma dopo intese segrete sul passaggio ai «ribelli», mascherate da cattura onde evitare
denunce per abbandono di posto col passaggio al nemico. Il rapporto sull’ingloriosa
fine di un presidio in provincia di Bologna si riferisce per l’appunto a uno di questi
casi, deformato per spirito di corpo:
Nella notte sul 21 giugno, in Savigno, una trentina di banditi armati di mitra, pistole
e bombe a mano, penetravano con un espediente nella caserma del distaccamento GNR,
impossessandosi di tutte le armi, nonché di 15 fucili e di indumenti personali.
È stato accertato che, in precedenza, circa 200 banditi avevano circondato la caserma.
I medesimi erano giunti nell’abitato su autocarri, che avevano lasciato fuori del
paese61.
61 Notiziario della GNR, 27 giugno 1944 (AFM Ng-GNR).
La vicenda – indicativa di un fenomeno esteso – suscita la protesta del Comando tedesco,
segnalata in un «Appunto per il Duce», vistato da Mussolini senza poter replicare
all’incontestabile dato di fatto:
Il Generale Plenipotenziario delle Forze Armate Germaniche comunica:
Il 21 giugno la Stazione dei carabinieri di Savigno venne assalita d’improvviso dai
banditi. I carabinieri dopo aver volontariamente deposto le armi sono stati portati
via dai banditi62.
62 Appunto per il Duce, 30 giugno 1944 (ACS, SPD CR RSI, b. 4).
I tedeschi vedono confermate in questo e in analoghi episodi le loro convinzioni sull’inaffidabilità
italiana.
In effetti, le intese clandestine tra «ribelli» e tutori dell’ordine dilagano. Il
promemoria per il duce del 27 giugno 1944 informa che «nella notte un gruppo di banditi
ha prelevato l’intero distaccamento GNR di Edolo». La realtà è ben diversa: il brigadiere
Luigi Tosetti è passato con i suoi militi alle Fiamme Verdi (divenuto vicecomandante
della Brigata «Schivardi», morirà sull’altipiano del Mortirolo per un incidente il
19 marzo 1945).
Contrastare la guerriglia, in un territorio ostile, è attività logorante e pericolosa.
Da una caserma ligure, un milite lo scrive ad un amico nel maggio 1944, in una lettera
sequestrata dalla censura:
Quando sono rientrato al corpo dopo la licenza siamo partiti immediatamente per la
guerra contro i ribelli e ce ne siamo tornati dopo sette giorni con un compagno morto
e parecchi altri feriti. Abbiamo riposato due giorni e dopo siamo ripartiti. Da due
settimane si è continuamente peggiorato per arrivare a questo: 10 ore di guardia,
8 di lavoro, 2 per mangiare, 4 per riposare. Speriamo di avere presto il cambio se
no finiremo tutti all’ospedale63.
63 Lettera sequestrata dalla censura militare (ASG, Documenti RSI, Corrispondenza censurata
1944, b. 37, f. maggio).
Le statistiche sull’esodo dalla GNR riflettono la disaffezione di militi e ufficiali,
le cui dimensioni risultano dallo specchietto del «Personale allontanato dalla MVSN
e dalla GNR dal 9 settembre 1943 al 1° marzo 1945»64:
64 Statistica elaborata dall’Ufficio Disciplina del Comando generale della GNR (ACS,
SPD CR RSI, b. 30).
radiazioni
cancellazioni
dimissioni d’autorità
ufficiali
266
255
10
sottufficiali
213
65
-
truppa
393
250
2
totali
872
570
12
totale generale
1.454
Militi del Battaglione «M», inquadrati a fine 1943 nella GNR. Sulle mostrine, la M
mussoliniana ingloba un fascio.
Non stupiscono – nella diffusa demoralizzazione – il dilagare dell’indisciplina e
dei passaggi al nemico, nonostante severe misure punitive: dal febbraio 1944 al gennaio
1945 vengono fucilati tre ufficiali, otto sottufficiali e 71 militi, per tradimento
e favoreggiamento dei «ribelli»65. A fronte degli 82 fucilati stanno migliaia di commilitoni che, divenuti partigiani,
non saranno mai arrestati (anzi: in molti casi, saranno loro a catturare gli ex commilitoni).
65 Comando generale della GNR – Ufficio Disciplina, «Elenco degli Ufficiali, Sottufficiali
e legionari (graduati e truppa) della GNR che hanno subìto condanna alla fucilazione
o che per qualsiasi motivo sono stati passati per le armi», PdC 707, 25 febbraio 1945
(ACS, SPD CR RSI, b. 6).
Dall’aprile 1944 le esecuzioni capitali vengono «eseguite a turno tra tutti i reparti
della GNR ed il Corpo degli agenti di Pubblica Sicurezza»66.
66 Circolare del ministero dell’Interno sulle esecuzioni capitali, 26 aprile 1944 (ACS,
SPD CR RSI, b. 79).
A fungere da polizia interna sono i Battaglioni «M», unità d’élite, ideologicamente
motivate: costituite nell’ottobre 1941 con arruolamento volontario per le campagne
di Grecia e di Russia, e confluite a fine 1943 nella Milizia. I loro metodi sono brutali,
senza preoccupazioni di legalità, anche perché rispondono direttamente ai Comandi
germanici.
Dal 12 al 18 agosto 1944, il Battaglione «“M” – IX Settembre» a Castrocaro Terme (Forlì)
stronca una rete di collegamento tra il capobanda Silvio Corbari ed elementi della
GNR, allestita dal cinquantaduenne marchese Gian Raniero Paulucci de Calboli Ginnasi.
Nel primo giorno di operazioni precipita da una finestra della caserma del Battaglione
«M» Umberto Mercuri, sottoposto a sevizie, e vengono fucilati tre sospetti partigiani
al cimitero di Castrocaro. Il contesto delle esecuzioni è chiarito dal prefetto di
Forlì, critico (per quanto lo si possa essere in quel frangente) delle esecuzioni
sommarie:
Il giorno 14 agosto alle ore 9, in località Cimitero del comune di Castrocaro, sono
stati passati per le armi, dal plotone di esecuzione del 1° Battaglione «M» – IX Settembre
le seguenti persone:
– Gian Raniero Paolucci de’ Calboli Ginnasi – per avere sovvenzionato i ribelli;
– Benzoni Antonio – perché deteneva armi e munizioni;
– Grassi Fiorenzo, allievo ufficiale della GNR di Forlì – cospiratore e sovvenzionatore
dei comunisti;
– Ciccarelli Livio, milite della GNR di Forlì – perché vendeva armi ai ribelli;
– Buranti Antonio, milite della GNR di Forlì – perché vendeva armi ai ribelli.
L’esecuzione ha avuto luogo senza alcun processo, in rapporto alle indagini condotte
da un sottufficiale addetto all’Ufficio politico del reparto.
Al Questore, recatosi sul posto per avere i verbali di interrogatorio e atti eventuali,
il Comandante rispondeva che di ogni cosa avrebbe informato solamente il Comando Tedesco
dal quale il reparto dipende67.
67 Rapporto del prefetto di Forlì al Gabinetto del ministero dell’Interno, 18 agosto
1944 (ACS, PS RSI, b. 4, f. Forlì). Sulla vicenda cfr. La politica del terrore. Stragi e violenze naziste e fasciste in Emilia Romagna, a cura di Luciano Casali e Dianella Gagliani, l’ancora del Mediterraneo, Napoli,
2008.
L’accusa di vendita di armi ai «ribelli» vuol squalificare moralmente i due militi
in contatto con la Resistenza. La magistratura di Forlì segnala al ministero dell’Interno
torture ed eccidi perpetrati dal Battaglione «M», ma il successo dell’offensiva antipartigiana
– culminata nell’impiccagione nella piazza centrale di Forlì del capobanda Corbari
e della sua compagna Iris Versari68 – giocano a favore del reparto.
La spietatezza delle camicie nere è legata alla consapevolezza dei rischi incombenti,
poiché in caso di cattura il destino può essere terribile. Un milite ne scrive il
28 luglio 1944 a un’amica, rivendicando idealismo e spirito di sacrificio:
Siamo pronti a tutto, sappiamo che i cosiddetti «patrioti» se ci prendono prigionieri
ci mettono le «M» al posto degli occhi oppure ci «evireranno», ma noi cantiamo sempre
«Italia, Italia cosa importa se si muore? Con il grido dell’onore...». Ti sembra giusto
che il combattere per la Patria sia calcolato un tradimento e una colpa? Io sono uno
di quelli che obbediscono e combattono69.
69 Lettera sequestrata dalla censura militare (ASG, Documenti RSI, Corrispondenza censurata
1944, b. 37, f. luglio).
Il tenente colonnello Merico Zuccari, comandante della Legione «Tagliamento».
A fianco dei Battaglioni «M», opera un altro reparto fortemente ideologizzato: la
Legione d’assalto «“M” – Tagliamento» (sorta dalla fusione tra 63° Battaglione «Camicie
Nere» e 1° Battaglione «Camilluccia»), forte di circa 350 uomini – prevalentemente
di età inferiore ai trent’anni –, inquadrata nella GNR ma a disposizione dei tedeschi,
che la impiega in Piemonte, Marche e Veneto.
Comanda la «Tagliamento» il tenente colonnello Merico Zuccari (Saavedra [Argentina],
1906-Montefano [Macerata], 1959), volontario nella campagna d’Abissinia e mutilato
del braccio destro sul fronte greco-albanese. È un personaggio carismatico, risoluto
a reprimere il «ribellismo» col ferro e col fuoco, lasciando ai suoi uomini mano libera
su partigiani e civili. Quando gli vengono segnalati stupri di prigioniere, rispetta
i violentatori: la marchigiana Angela Lazzarini, fucilata il 29 giugno 1944 a Certalto
(Pesaro) per aver aiutato un giovanissimo legionario a fuggirsene, l’ultima notte
di vita viene violentata dal sottotenente Aldo Giovannozzi; l’indomani la giovane
ne informa i componenti del plotone d’esecuzione, che lo riferiscono a Zuccari, ma
Giovannozzi (un milanese ventunenne iscritto al secondo anno di Medicina) continuerà
a stuprare le detenute, tant’è vero che dopo meno di un mese sarà punito con qualche
giorno di arresto per violenza su «una donna fermata per sospetta attività antinazionale»70 (cadrà nell’assedio alle Fiamme Verdi del Mortirolo, il 14 aprile 1945).
70 Cfr. Sonia Residori, Una legione in armi. La Tagliamento fra onore, fedeltà e sangue, Cierre, Sommacampagna, 2013.
Zuccari e i suoi legionari sono i beniamini del duce, che riceve in più occasioni
l’ufficiale, cui affida delicate missioni, e al quale invia calorosi messaggi e fotografie
autografate71.
71 Sui rapporti tra Mussolini e Zuccari cfr. la documentazione in ACS, SPD CR RSI, b.
39.
La «Tagliamento» si trasferisce a metà dicembre 1943 in provincia di Vercelli, per
contrapporsi ai garibaldini di Cino Moscatelli, sul quale si pone (inutilmente) una
taglia di 100 mila lire.
Il 22 dicembre viene perpetrato l’eccidio di Borgosesia, così comunicato al duce dalla
GNR: «Il 63° Battaglione “M” ha operato nei dintorni di Borgosesia. Sono state eseguite
13 fucilazioni. Tra i giustiziati, figura il podestà di Varallo Sesia. Perdite nostre:
2 legionari»72. Compiuto l’eccidio, viene tracciata a vernice sulla serranda di un negozio una scritta
ammonitrice: NE ABBIAMO FUCILATI DIECI E SIAMO DISPOSTI A FUCILARE TUTTO IL PAESE – 63° BTG. M73.
72 Notiziario GNR Vercelli, 30 dicembre 1943 (AFM Ng-GNR).
73 Sulle attività della Legione nel Vercellese cfr. I “meravigliosi” legionari. Storie di fascismo e di Resistenza in provincia di Vercelli, a cura di Piero Ambrosio, Istituto per la storia della Resistenza e della società
contemporanea nel Biellese, Vercellese e Valsesia, Vercelli, 2015. Vario materiale
d’epoca è rifuso in Leonardo Malatesta, Storia della Legione Tagliamento, 2 voll., Macchione, Varese, 2015.
Il 5 giugno 1944 il comandante della GNR passa in rassegna la «Tagliamento», che l’indomani,
per volontà del Comando germanico, lascia Vercelli per le Marche, col compito di normalizzare
il retrofronte, a copertura dei lavori di costruzione della Linea Gotica: a Tavullia
(Pesaro) – per dare un esempio – vengono fucilati il 28 giugno cinque renitenti alla
leva e sette operai militarizzati fuggiaschi.
Fucilazione di partigiani eseguita dai legionari della «Tagliamento» il 17 novembre
1944 a Costa Volpino (Bergamo).
In settembre i legionari affiancano i tedeschi nell’offensiva contro i «banditi» dislocati
tra le province di Treviso e Vicenza, nel sanguinoso rastrellamento del Monte Grappa
(21-27 settembre 1944), nel quale cadono circa 300 partigiani, ne vengono fucilati
o impiccati 171 e oltre 400 sono deportati (oltre la metà moriranno nei Lager)74. A suggello dell’operazione, il 26 settembre si appendono agli alberi dei viali di
Bassano del Grappa 31 «ribelli»; la macabra incombenza spetta a giovanissimi legionari
(alcuni dei quali diciassettenni): «addossano il camion sotto le piante, afferrano
il laccio, lo infilano al collo della vittima e poi la scaraventano dal camion e vanno
avanti. Talvolta danno due violenti strappi alle gambe»75.
74 Cfr. Paolo Meggetto e Roberto Zonta, I massacri nazifascisti a sud del Monte Grappa e il ruolo degli squadristi delle Brigate
Nere di Vicenza e di Treviso (21-28 settembre 1944), Fraccaro, Vicenza, 2019.
75 Dichiarazione di un testimone oculare, in Sonia Residori, Il massacro del Grappa. Vittime e carnefici del rastrellamento (21-27 settembre 1944), Cierre, Sommacampagna, 2007. Si veda inoltre la monografia di Lorenzo Capovilla
e Federico Maistrello, Assalto al Monte Grappa, settembre 1944. Il rastrellamento nazifascista del Grappa
nei documenti italiani, inglesi e tedeschi, Istresco, Treviso, 2011.
In ottobre la «Tagliamento» si sposta nella zona del Lago d’Iseo, e brucia abitazioni
nei comuni di Marone (Brescia) e di Costa Volpino (Bergamo); in quest’ultima località
il 17 novembre 1944 fucila tre prigionieri (si veda la fotografia a fianco) e quattro
giorni più tardi altri sei.
Nel febbraio 1945 la legione risale la Valcamonica, attestandosi tra Edolo, Corteno
e Pontedilegno, per accerchiare le Fiamme Verdi trincerate sull’altopiano del Mortirolo
e avio-rifornite dagli Alleati. Il giovane milite Giose Rimanelli descriverà nel romanzo
Tiro al piccione la realistica cronaca di quegli inutili assalti, «una delle rappresentazioni in assoluto
più vivide ed efficaci del biennio ’43-’45, sicuramente in grado di competere con
alcuni nomi intoccabili della letteratura resistenziale»76 (cfr. p. 407).
76 Cfr. Raffaele Liucci, Ritratti critici di contemporanei. Giose Rimanelli, «Belfagor», vol. 53, n. 6, 30 novembre 1998, pp. 673-685.
La frustrazione per l’alto numero delle perdite e l’incapacità di piegare la resistenza
nemica spinge l’Ufficio informativo del reparto a vendicarsi sui prigionieri. Lo testimonia
la sorte del ventinovenne falegname Giovanni Venturini, invalido alle gambe nella
campagna di Russia, arrestato perché addetto all’approvvigionamento delle Fiamme Verdi:
nel marzo 1945 gli applicano l’elettricità, il fuoco ai piedi e il supplizio della
trave, per poi fucilarlo l’11 aprile a Edolo (Brescia), sede della Legione77.
77 Sulla tragica fine di Venturini cfr. Ultime lettere di condannati a morte e di deportati della Resistenza, a cura di Mimmo Franzinelli, Mondadori, Milano, 2006, pp. 227-228.
Il 28 aprile la 5a e la 6a Compagnia lasciano l’Alta Valcamonica e – valicato il Passo
del Vivione – scendono in Val di Scalve; da Schilpario salgono a incontrarli una ventina
tra partigiani e civili, convinti che la guerra sia finita con la cattura del duce
(avvenuta il giorno precedente) e che i legionari intendano arrendersi: essi, al contrario,
aprono il fuoco sull’automezzo e in località Fondi uccidono 12 persone, per poi ritornarsene
a Edolo78. Quello stesso giorno, avviene a Rovetta, a una trentina di km da Schilpario, l’eccidio
di 43 legionari: è una delle pagine nere della Resistenza79.
78 Angelo Bendotti, “Sento ancora il cuculo cantare”. Schilpario tra guerra e guerra civile (1940-1945), Il filo di Arianna, Bergamo, 2012.
79 Interpretazioni opposte dell’eccidio di Rovetta in Angelo Bendotti, Elisabetta Ruffini,
Gli ultimi fuochi. 28 aprile 1945, a Rovetta, Il filo di Arianna, Bergamo, 2008, e Grazia Spada, Il Moicano e i fatti di Rovetta. Una pagina nera della lotta partigiana, Medusa, Milano, 2008.
A inizio maggio la «Tagliamento» si accoda alle colonne germaniche in ritirata verso
il Passo del Tonale, per poi arrendersi ai partigiani di Revò (Trento).
Durante l’arco operativo muoiono 190 legionari. Le perdite maggiori si registrano
il 13 febbraio 1945 nel crollo delle scuole elementari di Castro (Bergamo) per l’imperizia
dei legionari nello scaricare esplosivi (muoiono 23 militi ivi accasermati), e – in
combattimento con le Fiamme Verdi – nell’assedio al Mortirolo, dal 22 febbraio a fine
aprile 1945 (una quarantina di perdite)80.
80 Disaggregazione dei dati riportati in http://cadutilegionetagliamento.blogspot.com/2014/05/elenco-dei-caduti-della-1-legione-cc.html.
Zuccari entra in clandestinità e fugge in Argentina; condannato a morte in contumacia
per collaborazionismo e crimini di guerra il 28 agosto 1947 dal Tribunale militare
di Bologna e all’ergastolo nel 1952 dal Tribunale militare di Milano, sarà amnistiato
nel 1959 e rimpatrierà pochi mesi prima della morte, sopravvenuta il 5 dicembre per
infarto.
Renato Ricci (Carrara, 1896-Roma, 1956) è l’artefice della GNR. Combattente nella
Grande Guerra, legionario dannunziano a Fiume e capofila dello squadrismo carrarese,
nel regime fa incetta di cariche: commissario delle federazioni di Parma e Trieste,
membro del Gran Consiglio, sottosegretario all’Educazione nazionale (1935-37) e alle
Corporazioni (1937-39), nonché ministro delle Corporazioni (1939-43)81. Presidente dell’Opera Nazionale Balilla, irreggimenta la gioventù italiana, (dis)educandola
al culto del duce. Nel periodo badogliano viene portato in Germania in vista del riutilizzo
suo e di altri ex gerarchi da parte dei nazisti; rimpatriato, ricostituisce la Milizia,
destinata – nei suoi piani – a divenire la vera forza armata italiana, su posizioni
politicizzate. Per questa ragione (come si è accennato) si scontra con Graziani.
81 Cfr. Sandro Setta, Renato Ricci. Dallo squadrismo alla Repubblica Sociale Italiana, il Mulino, Bologna, 1986; Giuseppe Zanzanaini, Renato Ricci fascista integrale, Mursia, Milano, 2004, e Simone Caffaz, Renato Ricci. L’uomo che Hitler voleva al posto di Mussolini, Meiattini, Massa, 2006.
Il colonnello Jandl (ufficiale di collegamento con Mussolini) in un rapporto a Berlino
del 19 novembre 1943 informa il quartier generale di Hitler che «l’esistenza della
Milizia è la sola cosa che eserciti un sia pur piccolo potere d’attrazione in Italia»,
nonostante «il fascismo oggi dal punto di vista ideologico non abbia quasi adesioni;
ma la gente non identifica la Milizia con il fascismo»82. Di eguale considerazione Ricci gode presso Himmler, Kesselring, Rahn e Wolff.
82 Rapporto trascritto in Frederick W. Deakin, Storia della repubblica di Salò, Einaudi, Torino, 1970 (ed. or. 1963), p. 802.
A metà agosto 1944 il passaggio della GNR nell’Esercito «come prima arma combattente»
la priva delle sue tradizionali mansioni di polizia e viene rifiutato da Ricci, che
esprime a Mussolini la sorpresa e il disorientamento della «totalità degli ufficiali
e dei legionari». Vorrebbe far annullare il provvedimento, ma dopo la tempestosa udienza
concessagli dal duce il 18 agosto perde il comando della GNR:
Il testo della vostra lettera – scrive Mussolini a Ricci – e soprattutto il vostro
stato d’animo rivelatosi nell’udienza di ieri sera, mi convincono che non potete più
essere l’esecutore dei miei ordini, che non devono essere discussi né da voi, né dai
vostri ufficiali chiamati inutilmente a rapporto. [...] Da oggi 19 agosto assumo io
direttamente il Comando della Guardia83.
83 La lettera di Ricci del 17 agosto 1944 e la secca risposta di Mussolini (dell’indomani),
sono conservate in ACS, SPD CR RSI, b. 3.
Il licenziamento è mascherato da dimissioni «per ragioni di carattere strettamente
personale». La decisione di Mussolini di assumere la direzione della GNR è l’ammissione
di un mezzo fallimento, non potendo egli esplicarne le impegnative mansioni. In un
ordine del giorno, assicura che, «tornata a funzioni esclusivamente di combattimento,
liberata da compiti estranei alla sua natura, la GNR dimostrerà sui campi di battaglia
che esistono ancora falangi di Italiani di buona razza decisi con ogni mezzo a realizzare
la riscossa della Patria»84. In realtà, nessun milite verrà mai schierato al fronte, e la Guardia proseguirà
–sempre più stentatamente – a reprimere il partigianato. A guidarla in rastrellamenti
e rappresaglie, nelle circostanze più significative, sono ufficiali germanici, che
utilizzano i militi della GNR per le fucilazioni di «ribelli» e civili.
84Il Duce assume il comando della GNR. Fiero ordine del giorno ai reparti, «Corriere della Sera», 21 agosto 1944.
A sostituire Ricci è il suo vice Niccolò Nicchiarelli (Castiglione del Lago [Perugia],
1898-Milano, 1969), collocato – diversamente dal predecessore – su posizioni moderate
e conciliative85. Egli cerca, per quanto gli è consentito, di proteggere i carabinieri schiacciati
nella morsa vendicativa di tedeschi ed estremisti repubblicani, propensi alla loro
deportazione. Nicchiarelli s’ispira a ideali patriottici, sforzandosi di alimentare
disciplina e spirito di corpo. Nel tentativo di ricondurre a correttezza il comportamento
dei militi, dirama a fine 1944 una circolare sulla disciplina:
85 Su di lui cfr. le monografie di Stefano Fabei, Il generale delle Camicie Nere, Macchione, Varese, 2013, e La Guardia Nazionale Repubblicana nella memoria del generale Niccolò Nicchiarelli
1943-1945, Mursia, Milano, 2020.
È stato rilevato e segnalato anche da parte di Comandi Germanici che il comportamento
degli appartenenti alla GNR, ben lungi dall’essere intonato alla severità del momento,
lascia quanto mai a desiderare.
Portamento stanco, privo di fierezza e marzialità, scarsa cura dell’uniforme di cui
altera liberamente la foggia, copricapo frequentemente tenuto in mano, armi portate
con negligenza, onori resi in modo trascurato.
Dal controllo dei documenti è risultato altresì che vi è personale della Guardia che
rientra dalla licenza e dal permesso con ritardo o che omette di far regolarizzare
i propri documenti con i visti di arrivo e partenza.
Intendo che un simile stato di cose sia stroncato in modo decisivo.
Il prudente comandante evita provvedimenti drastici e «naviga a vista»: richiama i
subalterni al senso del dovere e proibisce «azioni ed atti illegali dei reparti incaricati
della lotta antiribelli»86. Dall’inverno 1944 s’impegna in contatti sotterranei con antifascisti legati al socialista
Corrado Bonfantini, per preparare un passaggio dei poteri il meno traumatico possibile,
dentro la continuità dello Stato (cfr. pp. 514-515).
86 Circolare Nicchiarelli su azioni ed atti illegali dei reparti incaricati della lotta
antiribelli, 26 gennaio 1945 (ACS, GNR, b. 4, f. Ordinamento e disciplina).
Ricci, cacciato dalla GNR, mantiene la direzione dell’Opera Nazionale Balilla: ai
piccoli iscritti ripropone i miti della romanità, della virilità combattente e del
duce che ha sempre ragione. A disilluderlo è il viaggio del febbraio 1945 in Austria,
per incontrare Baldur von Schirach (già capo della Hitler-Jugend, poi Gauleiter e
luogotenente del Reich di Vienna, regista della deportazione di 185.000 ebrei nei
Lager dell’Europa orientale)87: i tre giorni di permanenza nella capitale coincidono con massicci bombardamenti
anglo-americani: persa la fiducia nelle «armi segrete», comprende che la guerra è
oramai perduta.
87 Condannato a 20 anni dal Tribunale di Norimberga per crimini contro l’umanità, von
Schirach tornerà libero nel 1966 e l’anno successivo pubblicherà il memoriale autocritico
Ich Glaubte an Hitler (ed. it. Ho creduto in Hitler, a cura di Gianmarco Pondrano Altavilla, Castelvecchi, Roma, 2017); morirà nel 1974.
A inizio aprile 1945 Ricci – probabilmente autorizzato da Mussolini – ricerca a Milano
un’intesa col CLN, in abboccamenti inconcludenti. Separatosi dal duce, la notte del
25 aprile lascia la metropoli con una decina di camerati, muniti di falsi documenti
d’identità. Catturato dopo un paio di mesi, sarà liberato il 24 gennaio 1950 (divenuto
vicepresidente della Federazione nazionale combattenti repubblicani, svolgerà attività
imprenditoriali – specie nell’import-export con la Germania – in collaborazione con
ex gerarchi nazisti divenuti facoltosi industriali)88.
88 Testimonianza di Giulio Ricci, in Setta, Renato Ricci, cit., p. 310.
La Legione «Muti»
Lo squadrismo milanese si riorganizza a metà settembre 1943 attorno a Francesco (Franco)
Colombo (Milano, 1899-Lenno [Como], 1945). Mobilitato nella fase conclusiva della
Grande Guerra, militò ventunenne nella squadra d’azione «Randaccio», partecipando
a spedizioni punitive e alla Marcia su Roma. Dirigente di un gruppo rionale fascista,
nel 1927 fu espulso dal PNF per indegnità (perché coinvolto in un omicidio per liti
d’affari), e per un quindicennio visse irregolarmente tra condanne per bancarotta
e altri reati comuni. Riemerso dopo l’armistizio, il «colonnello» Colombo costituisce
la Squadra d’azione «Ettore Muti», per una rigenerazione del fascismo, nel nome dell’eroe
ucciso a tradimento dai badogliani89.
89 Sulla Legione, dopo l’edizione di una parte degli atti giudiziari (Il processo alla “Muti”, a cura di Luigi Pestalozza, Feltrinelli, Milano, 1956), sono usciti nell’ultimo
ventennio diversi volumi, perlopiù d’impianto cronachistico o elogiativo; tra di essi:
Roberto Occhi, Siam fatti così! Storia della Legione Mobile “Ettore Muti”, Ritter, Milano, 2002; Massimiliano Griner, La «pupilla» del duce. La Legione autonoma mobile “Ettore Muti”, Bollati Boringhieri, Torino, 2004; Pierangelo Pavesi, Carlo Rivolta, Erano fatti così! Legione autonoma mobile “E. Muti”, Ma.Ro., Copiano, 2005; Cesare Bertulli, Milano, via Rovello. Legione autonoma mobile “Ettore Muti”, Varum, Sarezzo, 2016; Marco Nava, Legione autonoma mobile “Ettore Muti”. Una documentazione, StreetLib, e-book, 2017.
Gli arditi (denominazione ripresa dalla Grande Guerra e dallo squadrismo diciannovista) ricercano
anzitutto prigionieri di guerra anglo-americani fuggiaschi e chi li protegge. Secondo
bersaglio in ordine di tempo è la classe operaia: irruzioni armate nelle fabbriche
minacciano ritorsioni in caso di sciopero. Simili interventi irritano il comandante
della RuK, generale Leyers, che li ritiene controproducenti e raccomanda al ministro
dell’Economia corporativa di impedirli90.
90 Il diario del ministro Gai registra il 25 novembre 1943 l’incontro con Leyers (Fondo
Gai, in ASS).
Il federale Resega considera Colombo un avventuriero e decide lo scioglimento d’autorità
della «Muti», perché infestata da delinquenti; la sua uccisione in un agguato gappista,
il 18 dicembre 1943 (cfr. pp. 66-67), consente al «colonnello» di superare il brutto
momento, conquistandosi anzi una centralità nel fascismo milanese. Il potenziamento
organizzativo culmina il 18 marzo 1944 nella fondazione della Legione autonoma mobile
«Ettore Muti», accasermata in un palazzo del centro, in via Rovello 2 (tra il Castello
Sforzesco e il Duomo, odierna sede del Piccolo Teatro).
La Legione, sovvenzionata dal ministero dell’Interno, gode di larga autonomia. Pubblica
il periodico «Siam fatti così!» (diretto da Gastone Gorrieri, sottotitolo: «Prendeteci
come siamo e quando vogliamo»), che dedica ampi spazi alla forza militare del reparto
e all’esaltazione dei caduti.
Il documento sulla costituzione l’inquadramento della Legione «Ettore Muti», della
primavera 1944, nel settimo punto colloca la «Muti» al centro della guerra civile:
L’impiego della Legione, su ordine del Capo della provincia [di Milano] sarà fatto
sulle seguenti necessità:
1) Contro le eventuali azioni di elementi partigiani.
2) Contro tutti gli scioperi a carattere politico.
3) Contro ogni tentativo di sommossa in conseguenza di incursioni aeree nemiche.
4) Di scorta armata in particolari contingenze, e per determinate necessità.
Tra le prime azioni antisciopero vi è – il 2 e 3 marzo 1944 – la sostituzione dei
tramvieri, per dimostrare che il servizio pubblico prosegue regolarmente. L’esito
è disastroso: per imperizia viene ucciso un passante, si registrano sette incidenti
gravi e ben 176 tram subiscono danni. Il prefetto Parini, fautore del crumiraggio
dei legionari, addebita i danni agli scioperanti, mediante trattenute mensili sullo
stipendio91.
91 Sull’intervento antisciopero della «Muti», cfr. la cronaca milanese del «Corriere
della Sera» del 4, 11 e 13 marzo 1944, e la monografia di Cristina Palmieri, La libertà sulle rotaie. Tranvieri e ferrovieri a Milano dal fascismo alla Resistenza, Unicopli, Milano, 2011, pp. 59-75. Sui tentativi della Legione di «normalizzare»
le fabbriche si veda Operai, fabbrica, Resistenza. Conflitto e potere nel triangolo industriale (1943-1945), a cura di Claudio Dellavalle, Ediesse, Roma, 2017, pp. 413-414 e 427.
Agli squadristi ante-marcia si aggiungono le nuove leve (oltre un terzo dei legionari
è di età inferiore ai 24 anni), bene armate ed equipaggiate. La paga dei legionari
è superiore a quella di Brigate nere, GNR ed Esercito: l’indennità mensile degli arditi
è di oltre duemila lire, oltre sette volte la paga di un soldato; il soldo degli ufficiali
assomma a 8.525 lire.
Il volontariato è integrato dall’inglobamento di renitenti e partigiani: in alternativa
a severe punizioni – dal carcere alla fucilazione – possono inquadrarsi nel Battaglione
«Redenzione e Ricostruzione», costituito a fine ottobre 1944.
In totale, entrano nella «Muti» 3.421 arditi e 132 civili (con 58 donne, in qualità
di inservienti, cuoche e impiegate); la presenza media oscilla su 1.500 militari92. Vi è una forte componente di giovanissimi: 195 militi (pari al 12%) sono minori
di 17 anni, armati di mitra e spesso crudeli sino ai limiti dell’incoscienza. Tranne
poche eccezioni, né Brigate nere né X Mas né GNR arruolano ragazzi, come invece fa
il comandante Colombo, che fissa e modifica le regole a suo piacimento.
92 Le schede dei legionari sono conservate all’ISEC. Una descrizione del materiale,
con un primo approccio interpretativo, è in Marco Soresina, Gli arditi della Legione autonoma Ettore Muti. Materiali per uno studio sociologico, «Annali 2. Istituto milanese per la storia della resistenza e del movimento operaio»,
1993, pp. 325-344.
Molti detenuti sperimentano la tortura, di cui esiste persino testimonianza fotografica:
un partigiano sottoposto al supplizio «della cassetta», irrigidito mentre due militi
lo afferrano alla testa e ai piedi, durante l’applicazione dell’elettricità. In piedi,
vicino al prigioniero, il vicecomandante della «Muti», Ampelio Spadoni (Romano Lombardo
[Bergamo], 1906-Milano, 1971), responsabile con Alceste Porcelli dell’Ufficio politico,
nominato tenente colonnello da Colombo (Spadoni era stato volontario in Abissinia
con le camicie nere, poi imprenditore a L’Asmara e di nuovo volontario nel 1941-42
in Grecia).
Tra i seviziati nella sede della Legione in presenza di Spadoni vi sono i garibaldini
Augusto Battaglia e Piero Zavaglia, rastrellati il 26 luglio 1944 nel quartiere Giambellino:
saranno rinvenuti cadaveri cinque giorni più tardi nelle campagne di Mediglia93.
93 Sulla tragica fine dei due partigiani cfr. Luigi Borgomaneri, Due inverni, un’estate e la rossa primavera. Le Brigate Garibaldi a Milano e provincia
1943-1945, FrancoAngeli, Milano, 1998, pp. 189-190.
Il vicecomandante della «Muti», Ampelio Spadoni, durante la tortura di un prigioniero.
L’indisciplina del reparto è in linea con la tradizione degli arditi. Ben 74 elementi
vengono radiati e denunciati al Tribunale militare per omicidio, rapina o saccheggio.
Una quarantina disertano e una decina vengono cacciati per pessimo comportamento.
Alla centralità milanese – la metà dei componenti proviene dalla metropoli e dalla
sua provincia – corrispondono spedizioni in aree della Lombardia e l’impegno in rastrellamenti
antipartigiani.
La prima operazione inizia il 23 marzo (data sacra, in quanto fondazione nel 1919
dei Fasci di combattimento), con apparato scenografico: camion carichi di legionari
partono da piazza della Scala al canto di inni fascisti, in un’autocolonna, per il
Piemonte, a combattere i «ribelli». Il giornale della Legione vanterà grandi successi,
con prosa trionfalista dalla quale s’intuiscono la durezza dei rastrellamenti e il
sequestro di beni ai contadini:
La lotta s’inizia. Senza un attimo di respiro contro un nemico disposto all’agguato,
all’imboscata, non al combattimento in campo aperto. Poche avvisaglie lo mettono in
guardia sul vostro valore. E si ritira sui più alti rifugi della montagna. Piano piano
voi lo serrate sotto.
A decine e decine, paesi che da mesi sono infestati dal banditismo dei senza legge,
ritornano alla normalità. Il lavoro riprende, con serenità, il suo ritmo. La gente
dei campi prima diffidente, poi sorpresa, infine confidente, plaude al ritorno della
normalità legalitaria; accetta di buon grado di assolvere i propri doveri verso gli
ammassi94.
94I nostri morti, «Siam fatti così!», n. 3, aprile 1944.
Milano, 10 agosto 1944, eccidio di piazzale Loreto, commissionato dai tedeschi ai
fascisti. In primo piano, un milite della «Muti».
Anche in Piemonte, come già a Milano, i legionari esercitano pressioni sugli operai,
in funzione antisciopero: scortano il gerarca novarese Belloni alle Officine Meccaniche
Sant’Andrea, ma poi escono dalla fabbrica tra i fischi dei lavoratori95.
95 Pietro Secchia, Cino Moscatelli, Il Monterosa è sceso a Milano, Einaudi, Torino, 1958, p. 179.
In settembre si attua il secondo ciclo di rastrellamenti, contro i garibaldini della
Valsesia (Vercelli). Anche in questa circostanza i reparti – diretti dal vicecomandante
Ampelio Spadoni – agiscono agli ordini dei tedeschi.
I risultati sono inferiori alle aspettative: la capacità di combattimento è scarsa
e alcuni reparti vengono disciolti per carente resa o squagliamento degli organici.
I sistemi operativi vengono illustrati dal comandante Colombo in un ordine del giorno
che individua nello squadrismo l’essenza del fascismo:
La legge del taglione deve essere la nostra legge.
Il dente per dente e l’occhio per occhio, è ancora poco. La rappresaglia deve essere in proporzioni geometriche al male morale
che le forze antinazionali fanno alla nostra Patria.
L’ora delle squadre è suonata! [...] La nostra Legione, poderoso organismo a carattere
militare, sempre più affinata nello spirito e completa nelle armi, rappresenta oggi
il maggiore strumento di offesa e di difesa contro il quale si infrangeranno le ondate
dell’antifascismo.
96 Il comandante [Franco Colombo], L’ora delle squadre, «Siam fatti così!», n. 6, luglio 1944.
L’autorappresentazione degli arditi quali cavalieri dell’ideale ignora brutalità e
violenze che li contraddistinguono. All’occasione, si adattano al ruolo di boia loro
assegnato dai tedeschi: alle 6,10 del 10 agosto 1944 un plotone d’esecuzione misto
della «Muti» e della GNR fucila a piazzale Loreto 15 prigionieri politici, su ordine
del capitano Theodor Saevecke, per vendicare un attentato. I legionari montano poi
la guardia al mucchio di cadaveri, per dare una dimostrazione alla cittadinanza (un
reporter tedesco documenta in un’impressionante sequenza fotografica l’eccidio e l’esibizione
dei cadaveri)97.
97 Carlo Gentile, Piazzale Loreto 10 agosto 1944. Dai fondi fotografici degli archivi tedeschi, «Italia contemporanea», n. 205, dicembre 1996, pp. 749-753.
I metodi impiegati contro i nemici sono esemplificati dalla fine di due partigiani
di «Giustizia e Libertà», la staffetta Maria Cantù e l’addetto al servizio informativo
Angelo Finzi: catturati a fine gennaio 1945 e lungamente torturati, la notte dal 2
al 3 febbraio vengono condotti in via Airaghi, zona periferica della metropoli, e
uccisi a revolverate98. L’abbandono dei cadaveri in località fuorimano è un sistema ricorrente.
98 Sulle criminali dinamiche delle uccisioni di Cantù e Finzi, cfr. Il processo alla “Muti”, cit., pp. 44-49 e Griner, La «pupilla» del duce, cit., pp. 163-165.
A fine estate 1944 Colombo e i suoi uomini accolgono con un sentimento di rivalità
l’arrivo a Milano della Banda Koch; il 25 settembre – su ordine del capo della provincia,
col consenso del duce – ne circondano la sede, arrestano i componenti della banda
e ne trasferiscono i prigionieri a San Vittore (cfr. pp. 379-380).
Mussolini ispeziona la sede del reparto il 17 dicembre 1944, all’indomani del discorso
al Teatro Lirico. Issato su di un autoblindo, incita gli arditi a battersi per la
vittoria. Il comunicato ufficiale riassume il senso dell’evento:
«Gli arditi della “Muti” – ha detto nel suo indirizzo al Duce il comandante Colombo
– per l’onore dell’Italia martoriata e sanguinante, per tener fede al patto concluso
con il valoroso Alleato, per il Duce, fede e certezza di noi tutti, hanno versato
il loro generoso sangue».
Centododici arditi costituiscono l’albo del sacrificio della Legione, dei quali 44
sono Caduti, 3 mutilati, 10 invalidi e 65 feriti.
Il comandante Colombo ha poi consegnato al Duce alcune relazioni concernenti la partecipazione
della “Muti” alla lotta contro i “fuori-legge” e la collezione del giornale della
Legione «Siam fatti così».
Il Duce ha preso atto del rapporto con viva soddisfazione e ha poi conferito con alcuni
ufficiali di stato maggiore della “Muti”, nei quali ha riconosciuto e salutato vecchi
camerati milanesi della vigilia99.
99 Cfr. L’alto elogio del Duce al Fascio di Milano e alla Legione Muti, «La Stampa», 20 dicembre 1944.
Milano, 17 dicembre 1944. Da sinistra: Barracu, Colombo, Mussolini e Pavolini dinanzi
alla sede della Legione «Muti».
Di quella visita, il duce invierà al comandante Colombo una fotografia autografata,
riprodotta a tutta pagina nell’edizione straordinaria del periodico «Siam fatti così»,
col titolo L’elogio e il compiacimento del Duce al nostro Comandante.
L’indomani, anche il maresciallo Graziani giunge in via Rovello, per un «rancio» con
gli arditi, per confermare l’interesse del governo al reparto.
Nel progressivo declino della RSI, l’immagine della «Muti» si rafforza, tra i fascisti
milanesi, come autodifesa per i tempi peggiori.
Sull’altro fronte, la stampa clandestina pubblica l’elenco degli ufficiali della Legione,
con l’invito ai partigiani ad eliminarli: «Patrioti! Per questi “rottami” nessuna
pietà», titola «Il Grido del Popolo», organo della Divisione volontari «Giustizia
e Libertà» di Piacenza (sul n. 8, del 19 novembre 1944).
La versione della Legione come entità demoniaca e criminale – diffusa nel secondo
dopoguerra – impedisce di comprendere appieno il ruolo di questa componente radicale
e violenta dell’apparato repressivo della RSI quale ala socialmente avanzata del fascismo
più populista, come testimonia la distribuzione alla popolazione di beni sequestrati
al mercato nero (cui, peraltro, contribuiscono sottobanco vari suoi membri).
Il 18 marzo 1945 si tiene l’ultima adunata della «Muti», per celebrare il primo anniversario
della sua nascita, alla presenza del segretario del PFR Pavolini, del generale Diamanti,
del ministro del Lavoro Spinelli, del podestà e del console di Germania. Si vanta
il tributo di sangue e di eroismo della Legione («Ottantasette morti in combattimento,
oltre trecento feriti, una medaglia d’oro, due d’argento, molte croci di guerra al
valor militare sono il superbo bilancio guerriero di questo primo anno di lotta senza
quartiere ai nemici interni ed esterni della Patria dolorante ma non prona») e i reparti
percorrono «le vie centrali di Milano al canto degli inni guerrieri, suscitando tra
la popolazione ammirazione e compiacimento»100. Per la circostanza, viene allestito un sacrario sormontato dalla scritta a caratteri
cubitali
100La Legione Muti celebra l’annuale della fondazione, «La Stampa», 20 marzo 1945.
LA FALANGE SACRA DELLA LEGIONE MUTI
FERMATI E PIEGA IL GINOCCHIO!
DAL SANGUE DEL NOSTRO SUPREMO SACRIFICIO RIFIORISCE LA RIVOLUZIONE FASCISTA NEL NOME D’ITALIA DUCE MUSSOLINI PER IL TRIONFO DELLA CIVILTÀ DEL LAVORO.
Tramontati i tempi delle offensive antipartigiane in Piemonte, i legionari si trincerano
nella metropoli, dove già si percepiscono i sintomi del crollo.
Alcuni dirigenti della Legione pagheranno con la vita il ruolo rivestito nella guerra
civile, dal comandante Colombo allo stretto collaboratore Carlo Barzaghi (cfr. pp.
526-527). Altri escono indenni dal sanguinoso aprile 1945, come il vicecomandante
Ampelio Spadoni e il comandante dell’Ufficio politico Alceste Porcelli, condannati
rispettivamente a 24 e a 30 anni, e sollecitamente amnistiati (Spadoni diverrà un’icona
del neofascismo; il suo funerale – a fine ottobre 1971 – si trasformerà in una manifestazione
con labari e inni alla «bella morte»).
Le Brigate nere
La militarizzazione del Partito fascista repubblicano è un segnale di debolezza, se
non addirittura di disperazione per il precipitare del «fronte interno». Sul piano
politico il PFR non è riuscito a conquistarsi un ruolo significativo. Nella primavera
1944 il «ribellismo» dilaga, la base del partito è confusa e la demoralizzazione –
accentuata con la perdita di Roma – prepara la resa. Le più cupe previsioni sono documentate
nella circolare «segreta» stilata l’11 giugno dal segretario del Partito nell’eventualità
del crollo del fronte, con disposizioni sull’esodo verso nord delle famiglie dei fascisti
e l’allestimento di reti militari clandestine nei territori conquistati dal nemico101.
101 Circolare Pavolini dell’11 giugno 1944 (ACS, SPD CR RSI, b. 43, f. Invasione del
continente europeo da parte degli anglo-americani).
Il panico rischia di squagliare l’amministrazione della RSI. Significativo è l’esempio
di Pisa, dove a metà giugno il capo della provincia Mariano Pierotti abbandona la
città «per urgenti motivi personali», dopo aver affidato «alle paterne cure» del vescovo
«il governo della provincia» (in pratica, si dà alla latitanza)102. Lo imita ben presto il comandante provinciale della GNR, che si eclissa col suo
Stato Maggiore.
102 Cfr. Mario Missori, Governi, alte cariche dello Stato, alti magistrati e prefetti del Regno d’Italia, Ufficio centrale per i Beni archivistici, Roma, 1989, p. 558.
Consigliere di Pavolini per la preparazione di forze di ordine pubblico «assolutamente
fedeli» è il maresciallo Kesselring, che suggerisce di costituire «nuclei di fascisti
armati», per la «cooperazione diretta con le forze armate germaniche nelle operazioni
di antiribellismo e di ripulitura delle retrovie, nonché con compiti di trasformarsi
eventualmente ed in parte in bande ribelli fasciste»103.
103 Pavolini a Mussolini, 19 giugno 1944 (ACS, SPD CR RSI, b. 62, f. Pavolini Alessandro).
Bisogna insomma serrare le file e attrezzarsi alla guerra totale, in cui ogni camicia
nera prenda il suo posto.
Piuttosto che logorarsi in un declino inarrestabile, Pavolini (col pieno appoggio
di Mussolini) militarizza il Partito, per costringere gli iscritti a decidersi tra
battaglia e imboscamento. Meglio pochi, ma buoni. Già dall’8 gennaio, peraltro, i
membri del PFR dovevano arruolarsi in una delle forze armate della Repubblica, ma
la direttiva è rimasta disapplicata. Ora, vi è la grande novità della costituzione
di un corpo specifico, costituito da camerati motivati e fidati. Il Comando si stabilisce
a Maderno, sul Lago di Garda, nei pressi di Salò104.
104 Su funzione e disfunzioni delle Brigate nere si veda il copioso materiale conservato
in ACS, SCP, RSI, b. 38. Sul piano storiografico, il principale riferimento è Dianella
Gagliani, Brigate nere. Mussolini e la militarizzazione del Partito fascista repubblicano, Bollati Boringhieri, Torino, 2017 (ed. or. 1999). Tra le monografie su singole formazioni
si segnalano Benito Gramola, La 25a Brigata nera “A. Capanni” e il suo comandante Giulio Bedeschi. Storia di una
ricerca, Cierre, Sommacampagna, 2005, e Federico Maistrello, XX Brigata Nera. Attività squadrista in Treviso e provincia (luglio 1944-aprile 1945), Istrevi, Treviso, 2006. Sul piano autobiografico, spicca Piero Sebastiani, La mia guerra. Con la 36a Brigata nera fino al carcere, Mursia, Milano, 2008.
L’ordine del giorno diramato da Mussolini il 21 giugno spiega la nascita delle Brigate
nere con «la situazione, che è dominata da un solo decisivo supremo fattore: quello
delle armi e del combattimento, davanti al quale tutti gli altri sono di assai minore
importanza»; si stabilisce che «il Corpo sarà impiegato agli ordini dei Capi delle
Provincie, i quali sono responsabili dell’ordine pubblico e della sicurezza dei cittadini
contro i sicari ed i gruppi di complici del nemico».
Il Decreto n. 446 del 30 giugno indica configurazione e funzionamento del Corpo:
Art. 1 – La struttura politico-militare del Partito si trasforma in organismo di tipo
militare e costituisce il Corpo Ausiliario delle Squadre d’Azione delle Camicie Nere.
Art. 2 – Il Comando del Corpo è costituito dalla trasformazione dell’attuale Direzione
del Partito in Ufficio di Stato Maggiore del Corpo Ausiliario delle Squadre d’Azione
delle Camicie Nere. Il Ministro Segretario del Partito assume la carica di Comandante
del Corpo.
Art. 3 – Le Federazioni assumono il nome di “Brigate Nere” del Corpo Ausiliario ed
i Commissari Federali la carica di Comandante di Brigata.
Art. 4 – Il Corpo sarà sottoposto alla Disciplina Militare e al Codice Penale Militare
del tempo di guerra.
Art. 5 – Gli iscritti al PFR, di età compresa fra i 18 e i 60 anni e non appartenenti
alle altre Forze Armate della Repubblica, entreranno in seguito a domanda volontaria
a far parte del Corpo Ausiliario delle Squadre d’Azione delle Camicie Nere che a secondo
della loro idoneità fisica provvederà al loro impiego.
Art. 6 – Gli appartenenti alle formazioni ausiliarie provenienti dalle Squadre d’Azione
e passati alle FF.AA.RR., alla GNR e alla Polizia Repubblicana, iscritti regolarmente
al PFR, possono a domanda essere trasferiti nel Corpo Ausiliario delle Squadre d’Azione
delle Camicie Nere.
Art. 7 – Compito del Corpo è quello del combattimento per la difesa dell’ordine della
Repubblica Sociale Italiana, per la lotta contro i banditi e i fuori legge e per la
liquidazione di eventuali nuclei di paracadutisti nemici.
Il Corpo non sarà impiegato per compiti di requisizione, arresti od altri compiti
di Polizia.
L’impiego delle Brigate Nere nell’ambito provinciale viene ordinato dai Capi delle
Provincie.
Iniziative ed atti arbitrari compiuti da parte dei singoli e che comunque possano
screditare il Partito saranno puniti secondo il Codice Militare del tempo di Guerra.
Art. 8 – Ciascuna Brigata Nera porterà il nome di un Caduto per la Causa del Fascismo
Repubblicano.
Art. 9 – Il servizio prestato nel Corpo è considerato a tutti gli effetti come servizio
militare. [...].
Manifesto propagandistico delle Brigate nere, disegnato nell’estate 1944 da Dante
Coscia.
Il 2° comma dell’art. 7 verrà spesso disatteso: le Brigate nere arresteranno e requisiranno,
arrogandosi tipiche funzioni di polizia quali indagini e interrogatori.
Il modello è quello delle Squadre d’azione del 1920-22, aggiornate e potenziate per
la guerra civile. Se i componenti delle quattro Divisioni di Graziani sono i combattenti
di Salò, i membri delle Brigate nere sono i combattenti per Salò105. Per comprendere la differenza, si raffronti la formula del giuramento «apolitico»
imposto ai membri delle forze armate (cfr. p. 319) con quella prevista per gli iscritti
al Partito, stampigliata sulla tessera: «Nel nome di Dio e dell’Italia giuro di eseguire
gli ordini del duce e di servire con tutte le mie forze e, se necessario, col mio
sangue, la causa della Rivoluzione Fascista».
105 Cfr. Dianella Gagliani, Combattere per Salò, «Italia contemporanea», n. 225, dicembre 2001, pp. 627-642.
La prima formazione viene costituita a Lucca, a metà giugno 1944, da Pavolini e dal
colonnello Giovanni Battista Riggio (suo braccio destro, già protagonista dell’eccidio
di Ferrara del novembre 1943: cfr. pp. 51-61), ed è capeggiata dal giornalista e sindacalista
empolese Idreno Utimperghe (lui pure fedelissimo di Pavolini e appartenente all’ala
più violenta del fascismo repubblicano: cfr. pp. 36-37). Intitolata a Benito Mussolini
(riceverà poi il nome del suo primo caduto, lo squadrista diciottenne Natale Piacentini),
dispone di un settimanale e presidia la Garfagnana, applicando il terrore nel retrofronte,
con rappresaglie indiscriminate dopo imboscate partigiane. Quando una donna rimane
ferita da una bomba a mano, la sera del 23 settembre, nel refettorio dei frati cappuccini
di Castelnuovo durante la cena dei brigatisti, Utimperghe fa fucilare sette contadini
e un partigiano prigioniero. In ottobre la Brigata nera – forte di circa 150 armati
– si sposta in Emilia e poi in Piemonte, distinguendosi per spietatezza contro civili
e «ribelli»106. Analogamente a quanto avverrà ad altri reparti i cui territori passano sotto il
controllo anglo-americano, si trasforma in Brigata mobile, con sedi itineranti a seconda
delle necessità belliche. Da ultimo, convergerà il 25 aprile su Milano, con Mussolini
verso l’irraggiungibile Valtellina (Utimperghe verrà fucilato a Dongo con i principali
gerarchi)107.
106 Oscar Guidi, Dal fascismo alla Resistenza. La Garfagnana tra le due guerre mondiali, Pacini Fazzi, Lucca, 2004.
107 Sui brigatisti neri apuani si veda Andrea Rossi, Fascisti toscani nella Repubblica di Salò 1943-1945, BFS, Pisa, 2006.
Sul piano numerico, le adesioni lasciano a desiderare. Lo rileverà il console generale
Moellhausen, infastidito dalle vanterie del segretario del PFR, che «con la solita
mancanza di spirito realistico, aveva promesso una cifra di aderenti molto, ma molto
superiore a quella che fu effettivamente raggiunta. Aveva cominciato a parlare di
30 mila, poi di 20 mila volontari; il che in teoria poteva anche corrispondere alla
verità, in quanto il provvedimento abbracciava tutti i fascisti atti a portare le
armi; in pratica però il numero dei pronti a morire oscillò tra i tre ed i quattromila»108.
108 Eitel Friedrich Moellhausen, La carta perdente. Memorie diplomatiche 25 luglio 1943-2 maggio 1945, Sestante, Roma, 1948, p. 340. Su di lui cfr. Donatella Bolech Cecchi, Eitel Friedrich Moellhausen. Un diplomatico tedesco amico degli italiani (1939-1945), Rubbettino, Soveria Mannelli, 2016.
Nel dopoguerra, giornalisti alla Pisanò gonfieranno le adesioni oltre le 100 mila
unità (oggi accreditate dal lemma di Wikipedia Brigate nere), lontanissime dai dati reali.
I tesserati al PFR resisi disponibili all’arruolamento nelle Brigate nere sono meno
di trentamila; quelli effettivamente mobilitati e armati al 20 settembre 1944 sono
soltanto 11.620, così ripartiti: 3.517 in Lombardia, 2.426 in Veneto, 2.034 in Emilia
Romagna, 1.728 tra Piemonte e Valle d’Aosta, 1.052 in Liguria, 280 in Toscana, 106
nelle Marche, 205 inquadrati nella 1a Brigata nera mobile109.
109 Dati ripresi dalla tabella a corredo del saggio di Dianella Gagliani, Il problema di quantificare e qualificare i combattenti di Salò. Il caso delle Brigate
Nere, «Studi bresciani», n. 20, 2010, p. 10.
In ottobre, si registrano altre due/tremila adesioni, dopo di che gli organici decrescono
inesorabilmente.
A ridimensionare le cifre degli arruolati, si consideri che alcuni di essi provengono
dalla GNR. Tipico il caso del ventitreenne bresciano Franco Tonoli, passato alla Brigata
nera perché «si mangia meglio, non si fa la brusca né la striglia e la paga è superiore»
(sarà denunciato come disertore)110.
110 Cfr. Elena Pala, Brescia capitale della Repubblica Sociale Italiana. I notiziari della Guardia nazionale
repubblicana, Unicopli, Milano, 2019, p. 61.
Milano, autunno 1944. Il segretario del PFR Pavolini e il comandante della Brigata
nera «Resega» Costa passano in rassegna gli squadristi.
Alle 41 Brigate nere, numerate in ordine progressivo, si aggiungono una dozzina di
Brigate nere autonome. Si costituisce anche una Brigata nera speciale, comandata dal
ministro delle Finanze Domenico Pellegrini Giampietro, con circa 200 funzionari del
ministero delle Finanze, integrati da 250 militi della «Muti» e mezzo migliaio di
dipendenti dei vari ministeri; a fine novembre 1944 la Brigata nera ministeriale si
raduna a Novara, per un’azione dimostrativa contro i «ribelli»111.
111 Appunto per il Duce del capo di SM G.B. Riggio, 18 settembre 1944 (ACS, SPD CR RSI,
b. 30).
I criteri di reclutamento sono disparati. Alcuni dirigenti federali vorrebbero imporre
la militarizzazione a tutti gli iscritti e minacciano di arresto i riluttanti; altri
si limitano a ritirare la tessera ai camerati indisponibili all’arruolamento. Molti
chiedono l’esonero per motivi di età o di salute.
Mentre i comandanti sono generalmente di età superiore ai trent’anni, il grosso dei
militi si divide tra vecchi squadristi e giovani reclute. Gli aderenti sono permanenti
(in servizio effettivo, stipendiato) o ausiliari (mobilitabili all’occorrenza).
I brigatisti attuano frequenti rastrellamenti per catturare i renitenti, imprigionati
e posti dinanzi alla scelta tra arruolamento coatto o internamento in Germania. Un’esperienza
simile tocca al diciottenne molisano Giose Rimanelli (cfr. pp. 185 e 407):
Alcuni ragazzi credevano veramente nel fascismo e quindi si arruolarono volontari;
altri sono finiti invischiati in Salò senza veramente crederci, un po’ come me che
– preso su di un camion tedesco in ritirata dal mio paese, Casacalenda – venni infine
scaricato a Padova, da lì andai a Venezia da clandestino, ovviamente senza una lira
in tasca, e infine a Piazza San Marco venni rastrellato da una pattuglia di Brigate
Nere e spedito a Milano, alla caserma militare di via Vincenzo Monti; mi credevano
partigiano, mentre io non sapevo chi fossero. Dopo un mese di prigionia, comunque,
invece di fucilarmi mi arruolarono nella Legione «Tagliamento» di Vercelli112.
112Incontro con Giose Rimanelli, a cura di Antonio Vitti, «Italica», vol. 91, n. 2/2014, p. 291.
Talvolta i rastrellamenti sono orientati da delazioni o da notizie recuperate dal
controspionaggio. Ne è un esempio il rapporto del comandante della Brigata nera torinese
«Ather Capelli» sull’attività svolta nell’agosto 1944, interessante anche sul versante
del collaborazionismo:
Nel mese di agosto alcuni elementi di questa Brigata, con incarichi particolari e
in collegamento con il Comando Tedesco di Polizia SS di questa città, hanno portato
a termine diverse fruttuose operazioni.
Dal 17 al 25 detti elementi si sono posti a contatto con elementi sovversivi di una
zona periferica cittadina, ricavandone prezioso materiale informativo.
Il 26, sulla scorta di queste informazioni e in collaborazione al Comando Tedesco,
hanno proceduto al rastrellamento in cinque caffè cittadini e vie adiacenti, catturando
un Capo del CLN, 60 componenti di detto Comitato e diversi altri elementi ribelli113.
113 Relazione circa l’attività della Brigata nera «Ather Capelli», Torino, 20 settembre
1944 (riproduzione fotografica nella raccolta documentaria 1a Brigata Nera «Ather Capelli» Torino, a cura di Marco Nava, consultabile in https://www.atlanteditorino.it/zone/monviso/BN_A.Capelli.pdf).
L’apogeo delle Brigate nere è – il 2 novembre 1944 – la riconquista della città di
Alba, dopo 40 giorni di autogestione partigiana. Il delegato per il Piemonte, Giuseppe
Solaro, ne informa il duce con un telegramma indicativo sia dell’approntamento militare
sia dell’esaltazione per la vittoria:
Stamane dopo faticosa preparazione dovuta totale mancanza ponti sul Tanaro si est
iniziata nota azione dopo preparazione artiglieria et traghetto Tanaro. La città di
Alba est stata conquistata assalto verso ore 14. Reparti partecipanti Brigata nera
di Cuneo, Brigata Nera «Capelli» di Torino, reparto corazzato «Leonessa» della GNR,
reparto della GNR di Torino et Cuneo, battaglione «Lupo «Fulmine» et gruppo artiglieria
della X Mas, reparti dell’Esercito Repubblicano et Arditi ufficiali Torino. Comandante
militare dell’azione tenente colonnello Ruta. Perdite tre morti (due «Capelli» Torino
di cui uno ufficiale, uno della X Mas) dieci feriti. Giorni precedenti in ricognizione
un caduto et due feriti. Risultati conquista della città occupata da oltre mille del
Gruppo Mauri muniti di armi pesanti et mortai; ribelli uccisi 29 accertati sul posto
et 20 ribelli feriti, circa 80 catturati, una decina d’altri in fuga disordinata.
Sono entrato in città con camerati Zerbino, Gallardo, Ronza, Lamatti, Polvani, Fianelli,
Gori, Tealdi et altri comandanti. Ad Alba abbiamo fatto issare su campanile gagliardetto
nero della Rivoluzione.
Pregoti riferire al Duce entusiasmo decisione fascisti piemontesi.
114 Telegramma di Solaro alla segreteria del duce sulla riconquista di Alba, Torino,
2 novembre 1944 (riproduzione fotografica in 1a Brigata Nera «Ather Capelli» Torino, cit.). Per un raffronto di questo rapporto con le fonti fasciste su Alba e dintorni,
cfr. Giuseppe Griseri, La Resistenza in provincia di Cuneo e la “repubblica” di Alba nei documenti della
RSI, «Alba libera» (supplemento al «Notiziario dell’Istituto storico della Resistenza
di Cuneo», n. 27, I semestre 1985), pp. 135-189.
Il tenente Gontrano Bettinetti, della 14a Brigata nera «A.G. Alfieri», prima del rastrellamento
in Valle Staffora che gli risulterà fatale, e composto nella bara per i solenni funerali
del 6 novembre a Pavia.
Il dispiegamento di forze qui descritto ricorda, per contrasto, l’antiretorico incipit di un celebre racconto di Beppe Fenoglio: «Alba la presero in duemila il 10 ottobre
e la persero in duecento il 2 novembre dell’anno 1944»115.
115I 23 giorni della città di Alba doveva aprire i sette Racconti della guerra civile, ma la raccolta (pronta nel 1949, e respinta da quattro editori prima di venire accettata
da Einaudi) apparve nel 1952 con un titolo meno urticante: quello del suo più riuscito
racconto. Cfr. il capitolo Storia di un esordio. Dai “Racconti della guerra civile” a “I 23 giorni della città
di Alba” del volume di Luca Bufano, Beppe Fenoglio e il racconto breve, Longo, Ravenna, 1999, pp. 85-117, e Alessandro Tamburini, L’uomo al muro. Fenoglio e la guerra nei Ventitre giorni della città di Alba, Pequod, Ancona, 2016). Sul piano storico cfr.
Alba libera. Atti del convegno di studi «La libera repubblica partigiana di Alba», a cura di Piermario Bologna, L’Artigiana, Alba, 1985.
I resoconti sono spesso gonfiati, specie nelle perdite inflitte al nemico. Il capo
di Stato Maggiore delle Brigate nere, Edoardo Facdouelle (già volontario nella guerra
di Spagna), invia al duce rapporti con numeri strabilianti. Nel rastrellamento operato
dal 1° al 4 dicembre 1944 dalle camicie nere di Reggio Emilia e Modena congiuntamente
ai tedeschi, sarebbero stati uccisi «144 fra disertori e fuori legge, oltre a 12 ufficiali
inglesi ed un francese» e catturati «225 renitenti e 1270 conniventi dei ribelli,
che sono stati internati in Germania»116. La banca-dati dell’Istituto storico della Resistenza di Reggio Emilia indica le
perdite partigiane in... sei vittime!
116 Edoardo Facdouelle, Appunto per il Duce, metà dicembre 1944 (ACS, SPD CR RSI, b.
30).
Una categoria atipica di brigatisti ha origini partigiane. Catturati dai fascisti,
alcuni «ribelli» hanno ceduto alle pressioni e si sono arruolati pur di riottenere
la libertà: si distingueranno per la violenza esercitata contro gli ex compagni, così
come – specularmente – si comporteranno molti fascisti trasformatisi in partigiani
dell’ultima ora.
A fine 1944 vengono istituiti Tribunali militari di guerra delle Brigate nere, che
legittimano le forme più dure di repressione.
Vi sono formazioni il cui baricentro si sposta pericolosamente sul versante criminale,
grazie a comandanti fanatici e a militi disposti a eseguirne gli ordini. Ne è prototipo
la 31a Brigata nera «Generale Silvio Parodi», capeggiata da Livio Faloppa e Vito Spiotta,
che si macchia di eccidi e torture seriali (nel dopoguerra Faloppa fuggirà in Spagna,
mentre Spiotta – condannato a morte per una quarantina di omicidi – sarà fucilato
l’11 gennaio 1946)117.
117 Cfr. Sandro Antonini, Guerra civile. La tragica storia della Brigata nera genovese «Silvio Parodi», Internòs, Chiavari, 2018.
A Trieste, gli ufficiali della Brigata nera «Tullio Cividino» sono vecchi squadristi,
tra i quali figurano protagonisti di violenze contro ebrei e slavi. Il cappellano
militare è padre Ildefonso Epaminonda Troya, un trentanovenne romano proveniente dalla
Banda Koch e responsabile di sevizie contro i prigionieri. La Brigata viene posta
alle dipendenze del comandante SS della polizia del Litorale Adriatico, generale Globonik. A Trieste si costituisce anche l’unica Brigata nera femminile della RSI: la «Norma
Cossetto» (dedicata a una studentessa infoibata a inizio ottobre 1943 nell’entroterra
istriano)118, la cui attività si limita a manifestazioni e celebrazioni119.
118 Cfr. Frediano Sessi, Foibe rosse. Vita di Norma Cossetto uccisa in Istria nel ’43, Marsilio, Venezia, 2019 (ed. or. 2007).
119 Cfr. Raffaella Scocchi, Il PFR a Trieste, «Qualestoria», n. 2, dicembre 2016, pp. 42-45.
A Mantova, il comandante della 13a Brigata nera «Marcello Turchetti», Stefano Motta,
ordina che, qualora i rastrellamenti contro antifascisti vadano a vuoto, si arresti
un familiare come ostaggio e si sequestrino i mobili delle abitazioni dei ricercati120.
120 Cfr. la sentenza 12 marzo 1947 del Tribunale di Mantova nel processo all’ex comandante
della 13a Brigata nera per arresto di ostaggi e sequestro illegale di beni («Foro
Italiano», vol. 70, 1947, pp. 761-768). Per una contestualizzazione: Luisa Lombardi,
La Repubblica Sociale Italiana nel Mantovano, Tipografia Commerciale Cooperativa, Mantova, 2005.
Le Brigate nere mobili, svincolate dai territori d’operazioni, generalizzano i metodi
degli ostaggi, delle distruzioni, degli incendi. Ne fornisce un’immagine ravvicinata
il Diario storico di un distaccamento della 4a Brigata nera mobile «Achille Corrao»,
accasermato in Valle Anzasca, tra il Lago Maggiore e la Svizzera, poco a sud di Domodossola.
Alcuni stralci, del marzo 1945:
7 marzo – Alle ore 5,30 venti squadristi prendono parte alle operazioni di rappresaglia
a Cimamulera. A Maggiaro, casa Bentivoglio Ettore e figlio Vittorio, partigiani, tutti
i famigliari avevano dormito nei loro letti, però nessuna traccia di loro. Non si
è incendiata la casa perché nella stessa abitavano altre famiglie con molti bambini.
Ci si è limitati a distruggere il mobilio, consegnando gli indumenti alle famiglie
bisognose del luogo. Si sono asportati un vitello, 2 pecore e 2 capre, consegnate
al Comando tedesco. Nell’abitazione di Faggi Luigi e figlio Germano, partecipanti
all’imboscata del 26 febbraio, vennero distrutti i mobili e quanto vi si trovava:
di loro nessuna traccia. Uccisione del ribelle Panighetti.
10 – Nella mattina viene consegnato al Comando tedesco di Piedimulera il disertore
Tabacco Geri, consegnando pure la somma di lire 3.000 di sua proprietà.
24 – Discesa vertiginosa fino a Forno seguendo tracce di sangue lasciate da un partigiano
ferito. Si circonda il paese e le frazioni vicine, si apprende che un ferito è stato
curato da una famiglia del posto... la casa viene incendiata. Fermati tutti i borghesi
per interrogarli e fare ispezione alle case, quando accidentalmente ad uno squadrista
scatta il mitra colpendo mortalmente una donna. Fermato sul posto un meridionale sprovvisto
di documenti regolari; persona del luogo ci ha detto di non averlo mai visto in paese.
È risultato chiaro essere un badogliano che cercava informazioni; questi, che vista
la mala parata cercava scampo nella fuga, è stato raggiunto dai colpi dei bravi tiratori,
e deceduto immediatamente. Si riprende la marcia, si giunge alle ore 17 a Valstrona,
ove attendono gli automezzi che ci riportano ai vari presidi. Nessuna perdita da parte
nostra. 5 baite bruciate e 4 case121.
121 Trascrizione del Diario in Ricciotti Lazzero, Le Brigate Nere, Rizzoli, Milano, 1983, pp. 171-173.
L’operato delle Brigate nere suscita diffusi odi, per l’impiego di metodi banditeschi
nei confronti delle popolazioni, specie nelle campagne e nelle vallate. Un odio pagato
caro, nei giorni della sconfitta, con vendette ed esecuzioni capitali. Quando, il
23 aprile 1945, Pavolini ordina ai reparti di concentrarsi a Milano per l’estrema
difesa, solo le formazioni della Lombardia accorrono: dalle altre regioni – tranne
la 36a Brigata comandata da Utimperghe122 e una compagnia della «Pappalardo» – non vi è risposta. La situazione è talmente
compromessa da costringere ciò che resta del PFR in armi a ripiegare verso Como, sino
all’arresto inglorioso del duce.
122 Sull’ultimo fronte delle camicie nere di Utimperghe (e sulle ritorsioni contro i
prigionieri) si segnala il testo autobiografico di Piero Sebastiani, La mia guerra, cit.
Le polizie speciali
Sin dall’autunno 1943 Mussolini è al corrente del caos e delle violenze determinate
dalla proliferazione di gruppi armati locali, auto-investitisi di funzioni pseudo-poliziesche
al di fuori da controlli governativi. Il diario del segretario particolare del duce,
Giovanni Dolfin, registra il 1° dicembre uno sfogo in cui Mussolini ripete che – a
causa della pluralità delle polizie – «il Paese è diventato una jungla»123. Eppure, non vuole o non può impedire quella deriva, destinata a consolidarsi.
123 Dolfin, Con Mussolini nella tragedia, cit., p. 122.
La più decisa protesta contro il policentrismo poliziesco proviene dal cardinale Schuster,
ecclesiastico distintosi nel Ventennio per fiancheggiamento del regime ed esaltazione
del duce (paragonato persino all’imperatore Cesare Augusto)124, ma che nell’ottobre 1944 rivendica i diritti basilari della cittadinanza e responsabilizza
Mussolini per quanto di peggio accade nella Repubblica:
124 I principali interventi politici del cardinale sono raccolti in Paolino Beltrame-Quattrocchi,
Al di sopra dei gagliardetti. L’arcivescovo Schuster, un asceta benedettino nella
Milano dell’era fascista, Marietti, Casale Monferrato, 1985.
Ormai siamo giunti al punto che, mentre a Milano un mese fa vi erano almeno sette
Questure indipendenti tra di loro, adesso ogni ufficiale che presiede una squadra
d’una cinquantina di uomini, si crede autorizzato ad assaltare villaggi, ad incendiare
cascinali, a tradurre in prigione, a seviziare, a fucilare, a depredare per tutta
la Lombardia. Sentiste le popolazioni! [...]
È necessario che qui da noi ritorni l’impero della legge, ed il Governo abbia la sua
unità di Comando e di responsabilità, oggi frazionata in una dozzina di compagnie
e di squadre autonome, ciascuna delle quali agisce di propria iniziativa125.
125 Schuster a Mussolini, Milano, 30 ottobre 1944 (I. Card. Schuster, Gli ultimi tempi di un regime, Ed. La Via, Milano, 1946, pp. 66-67).
La squadra di polizia speciale capeggiata a Trieste da Gaetano Collotti (quinto da
sinistra, in seconda fila).
La voce del cardinale non è isolata, considerato che già nel febbraio 1944 la riunione
dei capi delle province di Piemonte, Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna approvò un
documento contro la proliferazione di gruppi armati.
Con toni più cauti, persino il capo della polizia, Eugenio Cerruti, richiamava l’attenzione
di Mussolini su un problema politico di fondo, la cui mancata soluzione comprometteva
l’immagine del fascismo: «sarebbe necessario addivenire alla unificazione degli uffici
di polizia delle Questure, della GNR, del Partito, delle SS ecc., e possibilmente
anche al Comando unico delle Forze di Polizia»126. Il caso Milano rimarrà irrisolto: ancora a metà aprile 1945 il questore deplorerà il fallimento
dell’unificazione dei servizi di polizia127.
126 Eugenio Cerruti, Appunto per il Duce, 15 luglio 1944 (ACS, SPD CR RSI, b. 79).
127 Cfr. l’appunto del questore di Milano in data 16 aprile 1945 (ACS, SCP RSI, b. 40,
f. Operazioni di polizia).
La sovrapposizione di reparti regolari e formazioni «speciali» contraddistinte da
metodi banditeschi è tra i punti più controversi della RSI. Il problema dell’illegalismo rimarrà irrisolto, anche perché – oltre a soddisfare le ambizioni personali dei tanti
capitani di ventura – sono i tedeschi a manovrare polizie speciali e bande autonome:
gli occupanti – come d’altronde Pavolini e gli estremisti di Salò – diffidano delle
questure, considerate infiltrate dagli antifascisti (in effetti la Resistenza riesce,
specialmente dalla fine del 1944, a contare su alcuni poliziotti che trasmettono preziose
informazioni).
Oltre alla Banda Pollastrini (cfr. pp. 118-127), le due principali aggregazioni poliziesche
dai tratti criminali sono la Banda Carità e la Banda Koch (cfr. pp. 373-380). Accanto
ad esse operano formazioni a insediamento locale, con le caratteristiche dei «Corpi
franchi», comandate da personaggi carismatici, con forte presa sui gregari:
– La Banda Collotti deriva dall’Ispettorato speciale di PS costituito nel 1942 a Trieste dal ministero
dell’Interno per la repressione dell’antifascismo slavo. Affidato all’ispettore Giuseppe
Gueli e al commissario Gaetano Collotti (Castelbuono [Palermo], 1917-Mignagola [Treviso],
1945), l’Ispettorato è legato al Comando delle SS triestine. Nella villa di via Bellosguardo
(già appartenente a una famiglia ebraica espatriata), il reparto – composto da una
quarantina di uomini – ricorre alle torture per piegare i prigionieri. I cadaveri
di alcune vittime vengono gettati nella foiba di Basovizza. Tra i maggiori successi
della Banda vi è la cattura del CLN triestino. Il prefetto chiede invano al ministero
dell’Interno lo scioglimento del reparto, macchiatosi di «torture commesse contro
arrestati a disonore della Polizia Italiana e della Repubblica; la città a conoscenza
di tale ignominia è indignata e reclama giustizia»128. Fuggiti dalla città, Collotti e i più stretti collaboratori vengono catturati in
provincia di Treviso dai partigiani il 28 aprile 1945 e passati per le armi (alla
memoria di Collotti verrà concessa nel 1954 un’onorificenza al valore per l’attività
poliziesca antislava precedente l’armistizio)129.
128 Telegramma del prefetto di Trieste al ministero dell’Interno, 1° marzo 1945 (ACS,
MI, Gab. RSI, b. 47).
129 Cfr. Vittorio Coco, Polizie speciali. Dal fascismo alla repubblica, Laterza, Roma-Bari, 2007 (centrato sulla figura di Gueli); e Claudia Cernigoi, La “Banda Collotti”. Storia di un corpo di repressione al confine orientale d’Italia, Ed. Kappa Vu, Udine, 2017.
– La Squadra di Giuseppe Bernasconi (Firenze, 1899-1971) opera a Roma, poi a Firenze e infine a Milano. Ex legionario
fiumano, già picchiatore della squadra fiorentina «La Disperata», poi espulso dal
PNF per truffa e uso di droga, Bernasconi grazie alla protezione del ministro Buffarini
– che lo aveva impiegato in passato quale informatore – diviene vicecommissario di
PS ausiliario e agisce alle dipendenze delle SS. A Roma fornisce ai tedeschi una lista
di antifascisti da fucilare alle Fosse Ardeatine e la notte del 3 febbraio 1944 irrompe
nella Basilica di San Paolo fuori le mura per arrestare antifascisti ed ebrei ivi
occultati. A Firenze il 17 luglio 1944 la Squadra uccide cinque civili (incluso un
bimbo), e la notte del 23 luglio fucila 17 partigiani alle Cascine130. Condannato a morte, Bernasconi sarà rapidamente amnistiato.
130 Cfr. Franco Quercioli, Antonio Bernardini, Fucilati alle Cascine. Storia di 17 desaparecidos nella Liberazione di Firenze, Luglio
1944-Aprile 1956, Anpi Oltrarno, Firenze, 2014.
Montù Beccaria (Pavia), 29 aprile 1945. Il colonnello Felice Fiorentini, esibito come
una fiera alla curiosità della folla.
– Il Centro informativo politico fondato dal sedicente «dottor» Mario Finizio (nato a Napoli nel 1883), ex commerciante
di pellicce e informatore dell’OVRA. Nominato questore ausiliario nell’autunno 1943,
agisce a Roma quale strumento dei tedeschi, alla testa di una trentina di armati,
e svolge indagini per conto del capo della polizia. Nel settembre 1944 il Centro si
trasferisce a Milano, dove riprende a sequestrare e torturare; il questore Bettini
arresta Finizio il 5 ottobre e nuovamente a inizio aprile 1945, ma deve liberarlo
su pressione tedesca, pur avendogli sequestrato migliaia di sterline-oro: alla fine
è Bettini a doversene andare131. Il processo alla Banda – svoltosi il 25 giugno 1945 alla CAS di Milano – dispone
sette condanne e 21 scarcerazioni per amnistia; Finizio, condannato a 26 anni, verrà
amnistiato dopo tre mesi dalla Sezione Istruttoria della Corte d’appello di Roma132.
131 Relazione dell’informatore n. 8 «circa l’arresto di alcuni funzionari di polizia»
(ACS, SCP RSI, b. 63, f. Rapporti ispettori Ovra 1944).
132 Gli incartamenti processuali relativi alla Banda Finizio sono conservati in ASM,
CAS Milano, Sentenze 1945, f. 370, e ASR, Fondo CAP – Sezione istruttoria, f. 370.
– Il Sicherheits Abteilung, squadrone operativo attivo in provincia di Pavia alle dipendenze dalla polizia tedesca,
è fondato da Alberto Alfieri, sostituito – dopo la sua morte, causata il 22 giugno
1944 da fuoco amico, perché scambiato per ribelle – dall’ingegnere ferroviario Felice
Fiorentini (Milano, 1894-Varzi [Pavia], 1945), autonominatosi colonnello e creatosi
una nomea di crudeltà alla guida di circa duecento volontari (una sessantina i minorenni:
il più giovane ha 14 anni), talvolta travestiti da partigiani per ingannare e scoprire
i favoreggiatori della Resistenza. Il Bataillon Fiorentini ricorre a metodi terroristici
contro i civili, inclusi i roghi di villaggi, pur di isolare i «banditi». Segnalato
ai partigiani di Broni da un sergente tedesco, Fiorentini è catturato il 29 aprile
1945; sottratto al linciaggio, è esibito in una gabbia di legno col cartello «la belva
Fiorentini», caricata su un camioncino e portata nei luoghi ove la Sicherheits Abteilung
aveva infierito. Rassegnato e distaccato dagli eventi, il morituro redige come testamento
morale un documento sulla valorizzazione turistico-commerciale dell’Oltrepò Pavese.
Processato nell’ex Casa del fascio di Voghera e condannato a morte, viene portato
il 3 maggio alle Piane di Varzi (dove il 10 luglio 1944 aveva fatto fucilare tre giovani
partigiani di «Giustizia e Libertà»): dice al confessore «Ho sbagliato, pago» e ottiene
di comandare il plotone d’esecuzione: prima di ordinare il fuoco grida «Viva l’Italia!».
Non è il solo a pagare: a Stradella, vengono fucilati 15 militi, di età compresa tra
i 16 e i 23 anni133.
133 Fabrizio Bernini, La «Sicherai» in Oltrepò Pavese. Il Sicherheits Abteilung: un reparto di polizia nel
turbine della guerra civile, Iuculano, Pavia, 2004.
La Banda Carità
Mario Carità (Milano, 1904-Castelrotto [Bolzano], 1945) conduce sino all’autunno 1943
un’esistenza grigia. Giovanissimo squadrista, diviene funzionario di partito a Milano
e rivenditore di apparecchi radiofonici a Firenze, col breve interludio della campagna
d’Albania. Nell’autunno 1943 capeggia una banda armata circondata a Firenze da fama
sinistra. I successi nella persecuzione di ebrei e antifascisti gli fanno desiderare
di estendere l’operato all’intero territorio della RSI, in un ambizioso progetto esposto
a metà dicembre al duce, nel memoriale intitolato «Della necessità di creare un organismo
di Polizia che controlli indistintamente tutti i gerarchi del Governo», dove sostiene
che per attuare i precetti fascisti serva il pugno di ferro, senza riguardi per alcuno:
occorre «reagire e nella reazione schiantare, distruggere ogni titubanza se si vuol
veramente fare della Patria attuale una Italia che arrivi a cancellare la ignominia
del tradimento, la incapacità di liberare il suo Capo». E affidare a una polizia politica
«con e senza divisa» il controllo sulla purezza dei governanti, con un’azione repressiva
«nelle alte sfere, costi quel che costi». A giudizio di Carità, «una polizia di tal
genere servirà a contenere gli eccessi delle fazioni; essa servirà a contenere nella
giusta misura ogni organizzazione, ogni istinto cui tende l’egoismo personalistico»134. Si deve imporre ai gerarchi «una ferrea disciplina con le sanzioni più gravi»; inoltre,
«le fucilazioni non debbono esser fatte solo tra le classi proletarie, le fucilazioni
debbono essere fatte soprattutto nella categoria dei dirigenti militari, politici
ed aristocratici». Ma è un proposito irrealistico per il comandante del Reparto servizi
speciali (RSS) della 92a Legione Camicie Nere, che rinunzia al ruolo di grande epuratore
e si specializza nelle investigazioni sull’antifascismo, condotte con metodi violenti.
Nell’autunno 1943, quando l’apparato repressivo della RSI è lacunoso, la formazione
capeggiata dall’ex commerciante riempie un vuoto di potere; secondo la Militärkommandantur,
«la Sezione politica della Milizia al comando del capitano Carità ha operato con molta
energia, pur eccedendo in alcuni casi»135.
134 Memoriale di Mario Carità per il duce, Firenze, 14 dicembre 1943 (ACS, SPD CR RSI,
b. 26, f. Carità Mario).
135 Rapporto del 13 dicembre 1943, trascritto in Toscana occupata. Rapporti delle Militärkommandanturen 1943-1944, a cura di Marco Palla, Olschki, Firenze, 1997, p. 169.
Come precisa il suo biografo Riccardo Caporale, «Mario Carità non è un malato di mente,
né un sadico sui generis, ma un fascista irriducibile». E non è nemmeno un elemento isolato o alla deriva:
gode di coperture di prim’ordine, a partire dai comandanti dell’apparato d’occupazione,
dal generale della GNR Nunzio Luna a Raffaele Manganiello, capo della provincia di
Firenze, zona operativa della Banda136.
136 Riccardo Caporale, La «Banda Carità». Una «leggenda» nera, in La RSI. La Repubblica voluta da Hitler, a cura di Gianfranco Porta, Ediesse, Roma, 2005, p. 164. Dello stesso autore si
veda La “Banda Carità”. Storia del Reparto Servizi Speciali (1943-45), Ed. San Marco, Lucca, 2005.
Il RSS combatte una guerra non convenzionale con le armi del doppio gioco, l’infiltrazione
nelle organizzazioni clandestine, le torture e le fucilazioni. Con simili metodi,
a inizio novembre 1943 viene disarticolato il Comitato militare del CLN toscano: cadono
nella rete – tra gli altri – il magistrato Paolo Barile (nel dopoguerra, insigne giurista
e ministro) e l’avvocato democristiano Adone Zoli (futuro presidente del Consiglio).
Tre mesi più tardi cade la rete provinciale del Partito d’Azione: una cinquantina
di militanti, con deposito di armi e materiali per la stampa clandestina.
Mario Carità, tra due suoi subalterni del Reparto servizi speciali.
Il 22 marzo 1944 è Mario Carità in persona a esplodere il colpo di grazia contro cinque
renitenti fucilati allo stadio «Berta», dinanzi a centinaia di reclute terrorizzate.
Il ruolo pubblico di boia rafforza la «fama» del personaggio.
I prigionieri sono sottoposti a insopportabili pressioni, per indurli alla collaborazione:
dalle ripetute bastonature all’applicazione dell’elettricità con il «telefono da campo».
Il raccapriccio per le imprese della Banda Carità giunge sino a Mussolini, attraverso
il console della Milizia Emilio Bigazzi, questore di Gargnano, addetto alla segreteria
particolare del duce, che il 5 aprile 1944 gli consegna un fitto dossier: «Si parla
di lui con terrore, e tale impressione si riversa pure sul Capo Provincia che lo protegge
e se ne serve». L’indomani Mussolini convoca Bigazzi: «dichiara che i miei rapporti
sulla situazione fiorentina sono esatti e rispondono a verità e che di conseguenza
“bisogna fare piazza pulita”, e che il responsabile di tale situazione è il Capo Provincia,
che l’ha creata»137. Si tratta di uno dei tanti sfoghi del duce rimasti lettera morta.
137 Relazione di Bigazzi sulla situazione fiorentina, 5 aprile 1944 (trascritta nel citato
volume di Caporale). Sulle illegalità perpetrate nella sede della banda cfr. Andrea
Mugnai, Ora che l’innocenza reclama almeno un’eco. Testimonianze da “Villa Triste” 1943-1944, Beocci, Firenze, 1995.
Il 7 giugno i poliziotti di Carità – spalleggiati da militari germanici – debellano
Radio CoRa, emittente clandestina con la quale l’avvocato Enrico Bocci e altri suoi
compagni del Partito d’Azione coordinano la Resistenza fiorentina col fronte militare
alleato: l’irruzione al terzo piano di piazza D’Azeglio 12 determina la cattura di
sette militanti, selvaggiamente percossi per far loro rivelare l’intera rete cospirativa.
La settimana successiva, sette prigionieri – incluso Bocci – vengono portati fuori
città e uccisi in località fuori mano138.
138 Sulla cattura dei membri di Radio CoRa e sul trattamento praticato ai prigionieri
cfr. Franzinelli, Tortura, cit., pp. 126-134.
Con l’approssimarsi del fronte a Firenze, a fine giugno il RSS – con una cinquantina
di militi – si trasferisce in provincia di Rovigo, a Bergantino (luogo d’origine dell’ex
prete Giovanni Castaldelli, collaboratore di Carità)139, stabilisce un distaccamento nel Vicentino e a novembre sposta la sede operativa
a Padova, nel cinquecentesco Palazzo Giusti (in via San Francesco 55). L’obiettivo
assegnato alla banda dalla polizia germanica e dal prefetto Federigo Menna è lo smantellamento
del CLN regionale, conseguito il 7 gennaio 1945 con la cattura del presidente prof.
Egidio Meneghetti e dei più stretti collaboratori, poi sottoposti a una prigionia
dolorosa e umiliante140.
139 Luigi Lugaresi, La Banda nera. L’Einheit Mario Carità a Bergantino (19 giugno-1° novembre 1944), Comune di Bergantino, 2007.
140 Cfr. Chiara Saonara, Nelle mani del nemico. La caduta del CLN regionale veneto, «Annali dell’Istituto veneto per la storia della Resistenza», 2005, pp. 127-160,
e Ritorno a Palazzo Giusti. Testimonianze dei prigionieri di Carità a Padova (1944-45), a cura di Taina Dogo, La Nuova Italia, Firenze, 1972.
Il 26 aprile il Reparto brucia l’archivio e abbandona Padova alla spicciolata, dirigendosi
verso il Passo del Brennero con una quantità di denaro e beni preziosi: è il «si salvi
chi può». Mario Carità, individuato la notte del 18 maggio 1945 in una baita sull’Alpe
di Siusi (Bolzano) dalla Polizia militare alleata, reagisce sparando: uccide un soldato
ed è a sua volta freddato.
Spetterà ai processi al RSS celebrati a Padova, Lucca e Firenze, sulla base di testimonianze
e documenti, la ricostruzione giudiziaria dell’operato repressivo della Banda Carità
e delle sue interconnessioni con l’apparato repressivo della RSI e delle forze d’occupazione.
Ma le condanne saranno in gran parte disattese in seguito all’applicazione di condoni,
indulti e amnistie.
La Banda Koch
Pietro Koch (Benevento, 1918-Roma, 1945) è l’esempio più calzante di un borderline proiettato dalla guerra civile a incarichi di primo piano, a capo di un reparto speciale
di polizia che si conquista rinomanza nazionale141. Affarista fallito nel settore immobiliare, a inizio novembre 1943 s’iscrive al PFR
e per un paio di mesi si fa le ossa nel Reparto servizi speciali di Mario Carità (cfr.
pp. 373-376), finché si trasferisce a Roma e aggrega una cinquantina di squadristi
privi di inibizioni morali, attratti dall’avventura e dalla cupidigia: vestono come
damerini e vivono nel lusso, in stridente contrasto con la situazione generale, usano
droghe e consumano avventure «sentimentali».
141 Cfr. Massimiliano Griner, La «Banda Koch». Il Reparto speciale di polizia (1943-44), Bollati Boringhieri, Torino, 2000; e Daniele Carozzi, Milano 1944. Villa Triste. La famigerata banda Koch, Meravigli, Milano, 2014.
I Comandi germanici se ne servono per le operazioni più spregiudicate, che ben difficilmente
si potrebbero affidare a reparti regolari. Poiché, notoriamente, gli antifascisti
beneficiano del sostegno di strutture ecclesiastiche, Koch organizza colpi a sorpresa,
quali l’irruzione nel Seminario Pontificio Lombardo, nei pressi di Santa Maria Maggiore,
la notte dal 21 al 22 dicembre 1943, con un bottino di clandestini (vari ufficiali
badogliani e il dirigente comunista Giovanni Roveda) e di merci accatastate illegalmente.
Koch offre alla propaganda repubblicana l’ultrasessantenne generale Mario Caracciolo
di Feroleto – uno tra i più prestigiosi dirigenti militari italiani – travestito da
frate, ritratto in tre pose fotografiche consegnate al duce e da questi girate al
presidente del Tribunale speciale142 (Caracciolo verrà condannato a morte, con commutazione in 15 anni di reclusione).
142 Le fotografie del generale-frate sono conservate in ACS, SPD CR RSI, b. 24, f. Caracciolo
Mario. Riferimenti alle vicissitudini del 1943-44 nell’autobiografia di Caracciolo
Sette carceri di un generale, Corso, Roma, 1947.
Koch e i suoi fidi combinano astuzia e violenza, attraverso l’impiego scientifico
di torture – fisiche e psicologiche – per trasformare i detenuti politici in delatori
e reclutarli. Tra gli antifascisti cooptati nella banda vi sono il comunista Guglielmo
Blasi (protagonista dell’attentato di via Rasella e poi artefice della cattura dei
gappisti romani), l’azionista Gerardo Priori (attratto in un tranello da Koch e poi
minacciato di morte, determina l’arresto del prof. Pilo Albertelli, figura-chiave
del PdA, poi ucciso alle Fosse Ardeatine); il socialista Ulisse Dini (ricattato con
minaccia di violenze sulla figlia, viene rilasciato col compito di avvicinare i suoi
compagni per farli catturare), il cattolico Pasquale Perfetti (coinvolto in una rete
vaticana di soccorso ad ex prigionieri di guerra alleati, è indotto al tradimento)
e il monaco benedettino Ildefonso Epaminonda Troya (al convento di Santa Trinità organizzava
rifugi per fuggiaschi; scoperto e torturato, diviene consigliere di Koch per irruzioni
in strutture ecclesiastiche ove sono ospitati latitanti)143.
143 Sulle delazioni seriali estorte dalla Banda Koch cfr. Mimmo Franzinelli, Delatori, Feltrinelli, Milano, 2012, pp. 231-246.
La violenza politica si coniuga con la criminalità comune: i ricatti a personaggi
facoltosi si alternano alle ruberie, in un contesto d’impunità grazie ai risultati
conseguiti nella lotta ai movimenti clandestini. Le sedi del gruppo – nei primi cinque
mesi del 1944 a Roma (Pensione Oltremare di via Principe Amedeo 2 e Pensione Jaccarino
di via Romagna 38), nell’estate-autunno 1944 a Milano (due palazzine in via Paolo
Uccello) – sono denominate dalla pietà popolare «Villa Triste», per le sofferenze
ivi perpetrate.
Tra i pochi autorizzati ad aggirarsi nelle sedi della banda vi sono le star cinematografiche
Osvaldo Valenti e Luisa Ferida, protagonisti del primo film girato nella RSI: Un fatto di cronaca. Parlano amichevolmente con i prigionieri, accattivandosene la fiducia. Valenti è
un personaggio moralmente discusso: esce a pezzi dall’indagine disposta dal ministro
della Giustizia: «Il suo passato e le sue tare fisiche e morali sono arcinote; si
sintetizzano nelle seguenti espressioni: morfinomane e cocainomane arrivista spregiudicato
e disonesto, il che annulla quell’eventuale senso di stupore determinato dalla sua
presenza nel Reparto speciale»144. Valenti opera anche con la X Mas, come contrabbandiere e referente di rete informativa
in territorio elvetico; i traffici di oro e valuta pregiata avvengono d’intesa con
i tedeschi (consegnatosi il 20 aprile 1945 al comandante della Brigata «Pasubio»,
Giuseppe Marozin, verrà ucciso con Luisa Ferida la notte del 29 aprile)145.
144 Memoriale del maggiore Angelo Milanesi al ministro Pisenti, autunno 1944 (ASM, CAS,
III, 39).
145 Cfr. Odoardo Reggiani, Luisa Ferida, Osvaldo Valenti. Ascesa e caduta di due stelle del cinema, Spirali, Milano, 2007, e Italo Moscati, Gioco perverso. La vera storia di Osvaldo Valenti e Luisa Ferida, tra Cinecittà e
guerra civile, Lindau, Torino, 2013.
Pietro Koch (al centro della fotografia, con i baffetti), attorniato dai fedelissimi
componenti della sua banda.
Il reparto cattura 435 persone a Roma e 191 a Milano: un centinaio comunisti, una
sessantina socialisti, una cinquantina azionisti, una quarantina tra ex prigionieri
di guerra alleati e loro favoreggiatori, tredici ebrei, una dozzina di membri del
movimento Bandiera rossa... Più che la quantità, conta la qualità degli antifascisti
catturati: il nucleo centrale del Partito d’Azione e dei GAP romani (inclusi vari
appartenenti al gruppo responsabile dell’attentato di via Rasella), vari dirigenti
del socialismo lombardo, i membri di un’emittente clandestina filoalleata ecc. Per
questo motivo la banda riceve la protezione del colonnello Kappler.
Koch s’inserisce nei giochi di potere interni alla RSI, con indagini riservate su
Junio Valerio Borghese, Carlo Borsani, Roberto Farinacci, Concetto Pettinato e altre
personalità, con finalità ricattatorie e per costruirsi appoggi ai vertici della RSI,
nella lotta di tutti contro tutti.
Mussolini riceve una quantità di proteste e di denunce contro le violenze esercitate
a Villa Triste. Un rapporto della GNR:
I componenti della polizia speciale si abbandonavano ad un lusso sfrenato: prostitute
di ogni razza e categoria partecipavano alle orge che si verificavano sia nell’albergo
«Continentale» che alla villetta di via Uccello.
Sembra che il ministero dell’Interno stanziasse per tale polizia lire 3 milioni mensili.
Il personale rinchiuso nelle carceri di sicurezza, è stato seviziato con crudeltà.
Specialmente le donne sono state sottoposte a ogni mezzo di tortura e non poche volte
adoperate per sfogo di volgare libidine. Tanto il dott. Koch quanto altri elementi
sono dediti a stupefacenti146.
146 Ufficio I della GNR, Promemoria per il Duce e il Capo di SM GNR, 10 ottobre 1944
(AFM Ng-GNR).
La rivalità con la Legione «Muti» (con episodi quali la contesa di un deposito di
benzina) determina l’arresto di una decina di legionari per furto, ma si chiude il
25 settembre 1944 con la sconfitta di Koch, le cui soperchierie determinano un’ondata
di discredito che irrita Mussolini e alcuni ministri (da Biggini a Pisenti); capo
della provincia e questore ordinano la neutralizzazione del reparto, affidata ai rivali
della «Muti». I reclusi a Villa Triste vengono trasferiti a San Vittore, per alcuni
(ad esempio l’architetto socialista Giuseppe Pagano) anticamera del Lager senza ritorno.
Le proteste di Kappler servono a poco; dopo un’effimera ricostituzione, il reparto
viene definitivamente sciolto e il 17 dicembre anche Koch finisce a San Vittore, restandovi
sino al 25 aprile, quando viene scarcerato per evitargli ritorsioni partigiane. Spiazzato
dalla piega degli eventi, si reca a Firenze, dove lo arrestano il 1° giugno. Processato
a Roma, è condannato alla pena capitale, eseguita il 5 giugno a Forte Bravetta, con
fucilazione alla schiena. L’esecuzione viene filmata dal giovane regista Luchino Visconti,
suo prigioniero nell’aprile 1944 e minacciato di morte.
Il Servizio ausiliario femminile
Una rilevante innovazione introdotta dalla Repubblica Sociale è la mobilitazione femminile
nel conflitto civile. Mai, sino a quel momento, le donne italiane erano state arruolate
in formazioni paramilitari. La decisione sancisce il carattere totale della guerra,
con la divisione dei cittadini in due campi contrapposti147.
147 Sul Servizio ausiliario femminile: Maria Fraddosio, La donna e la guerra. Aspetti della militanza femminile nel fascismo dalla mobilitazione
civile alle origini della SAF, «Storia contemporanea», n. 6, ottobre 1989, pp. 1105-1181; Marino Viganò, Donne in grigioverde. Il Comando generale del Servizio ausiliario femminile della
Repubblica Sociale Italiana nei documenti e nelle testimonianze (Venezia/Como 1944-1945), Settimo Sigillo, Roma, 1995; Ulderico Munzi, Donne di Salò. La vicenda delle ausiliarie della Repubblica Sociale, Sperling & Kupfer, Milano, 1999; Michela Franchini, “Ausiliaria, vieni fuori!”. Breve storia del Servizio ausiliario femminile della RSI
di Modena (1944-45), Il Fiorino, Modena, 2001; Giuseppe Ravasio, Ausiliarie nella RSI, 1944-1945, Greco & Greco, Milano, 2012; Valentino Rubetti, Fascismo al femminile. La donna fra focolare e mobilitazione, Armando, Roma, 2019.
A lanciare il progetto di un servizio armato femminile è, a metà gennaio 1944, il
direttore del quotidiano torinese «La Stampa», Concetto Pettinato, tradizionalmente
collocato nell’ala moderata della RSI (cfr. pp. 244-248), che con un volitivo editoriale
apre un nuovo fronte:
Un battaglione di donne! E perché no? Il governo americano, che alle donne il fucile
non lo dà, ma che si serve di loro per attirare a sé le reclute, popolandone le vicinanze
dei distretti, i cortili delle caserme e le pellicole di propaganda militare, si è
impegnato a gettare le nostre figlie e le nostre sorelle alla sconcia foia dei suoi
soldati d’ogni pelle. Ebbene: perché non mandarle loro incontro davvero, queste donne,
ma inquadrate, incolonnate, con dei buoni caricatori alla cintola e un buon fucile
a tracolla?148
148 Concetto Pettinato, Breve discorso alle donne d’Italia, «La Stampa», 13 gennaio 1944.
Pettinato interpreta uno stato d’animo diffuso, a giudicare dai consensi suscitati
tra giovani lettrici ansiose di battersi: per alcuni giorni, «La Stampa» pubblica
lettere grondanti entusiasmo. Una studentessa di Medicina auspica la leva femminile,
sul modello delle donne russe che «hanno la forza e l’audacia di combattere al fronte
spalla a spalla con i loro uomini». E stila un manifesto del femminismo fascista,
antitradizionalista, con la volontà di sostituire i molti uomini imboscati, o – peggio
– passati ai «ribelli»:
Le donne, molte almeno, si sentono soffocare, chiuse nel cerchio delle tradizioni
che le obbligano ad assistere sempre a tutto come spettatrici, al più come comparse,
mai come attrici.
Molte giovani come me, si sentono legate mani e piedi, scalpitano di rabbia e di impotenza,
trovandosi di fronte al muro di inattività, di egoismo, di pessimismo e di vigliaccheria
creato dagli uomini della nostra stessa generazione.
Si discute continuamente con i compagni: tirano fuori teorie, sofisticherie, dissertazioni
per dare validità al proprio rifiuto di agire, ma il fondo arriva ad essere questo:
vogliono stare a casa loro, in pace, chi per studiare, chi per lavorare, chi per far
niente. La diffidenza li acceca, l’odio li avvelena, ma tutto sommato hanno voglia
di far niente.
Benissimo allora, perché sforzarli?
La leva maschile ha messo negli uomini aspirazioni femminili: sognano la casa e la
tranquillità, lo studio ed il lavoro, se non i caffè, i cinematografi e le passeggiate
al [parco del] Valentino.
E il mondo si inverte: le ragazze, invece, domandano di poter fare qualcosa di nuovo
e di solido, non desiderano che di venire chiamate alle armi e con questa frase intendo
chiamate a qualunque partecipazione attiva in questa guerra.
Ragazze di fegato ce ne sono forse anche più di quanto non si creda: tutto sta a chiamarle
ed esse probabilmente risponderanno, verranno anche se l’innamorato le tiene per la
sottana, raccomandando prudenza.
Le parti si possono invertire, dico.
Le donne partiranno cantando «Ma non ti lascio solo» e gli uomini resteranno in casa
ad... aspettare in fedele, amorosa attesa...
E allora coraggio, sarà un bel giorno quello in cui vedrò sui giornali la chiamata
delle classi di leva, femminili149.
149Lettere al Direttore, «La Stampa», 18 gennaio 1944.
Ciò che la studentessa tace, è che non sono solamente i maschi a simpatizzare per
i «ribelli», ma pure molte ragazze, che – anche a Torino – animano la Resistenza.
Lo sfogo protofemminista (pubblicato con rilievo sulla prima pagina de «La Stampa»)
anticipa stati d’animo delle future ausiliarie, esponendone le pulsioni interiori,
a partire dal disprezzo per i troppi uomini ignavi.
A volersi arruolare sono anzitutto studentesse universitarie decise a liberarsi dalla
sudditanza maschile, e che – come spiega la lettera collettiva di alcune giovani milanesi
–, se staccano «dal chiodo il fucile», non è «per darlo a loro», ma per «poterlo usare»150.
150Lettere al Direttore, «La Stampa», 23 gennaio 1944.
A inizio febbraio la Federazione fascista repubblicana di Milano arruola «gruppi di
donne di sana e robusta costituzione, dai 20 ai 40 anni, che non abbiano figli inferiori
ai 14 anni e vogliano servire nel modo migliore la Patria in armi»; per farvi parte,
non è necessaria l’iscrizione al PFR151.
151Reclutamento di donne alla Federazione del PFR, «Corriere della Sera», 9 febbraio 1944.
La Federazione fascista torinese offre alle donne più animose «la possibilità di porsi in queste ore di supremo martirio della Patria, sulla stessa
linea dei combattenti, tra i camerati dell’esercito repubblicano». Aderiscono una
cinquantina di giovani (in prevalenza universitarie), assegnate momentaneamente alla
Guardia a confine, per poi – superato il rodaggio – passare ai reparti combattenti,
«equiparate in tutto ai militari, con eguali diritti e doveri»152.
152Un reparto ausiliario di universitarie e operaie, «La Stampa», 13 febbraio 1944.
A inizio marzo Pavolini mobilita le donne («saranno preferite coloro che conoscono
il tedesco, sappiano guidare automezzi, siano infermiere»)153 e altrettanto fa Junio Valerio Borghese, con l’istituzione a La Spezia di un contingente
femminile, sotto l’egida di Cesaria Pancheri (che fonderà il mensile «Donne in grigioverde»)
e di Fede Arnaud Pocek (ventitreenne veneziana già dirigente del settore sportivo
del Gruppo universitario fascista e ora funzionaria del ministero dell’Economia corporativa).
Le 250 volontarie della Decima (alcune giovanissime: persino quindicenni) possono
portare armi154.
153 Dal comunicato della segreteria del PFR, trascritto in Le donne per la riscossa della Patria. Un Corpo ausiliario femminile nell’Esercito
repubblicano, «Corriere della Sera», 10 marzo 1944.
154 Marino Perissinotto, Il Servizio ausiliario femminile della Decima Flottiglia Mas, 1944-1945, Albertelli, Parma, 2003.
La prima ondata di arruolamenti avviene in modo incontrollato, senza corsi preparatori
né esami attitudinali, col risultato di includere anzitutto giovani sospinte da esaltazione
bellicista e/o smania di protagonismo.
Mussolini teme che reclutamenti femminili di ogni genere e foggia danneggino l’immagine
della RSI. Egli è personalmente contrario al coinvolgimento delle donne nella guerra,
anche per una visione tradizionalista, ma sa di non poter fermare l’iniziativa: decide
dunque di moderarla e istituzionalizzarla.
Il 18 aprile 1944 il governo istituisce il Servizio ausiliario femminile (SAF), volontario
e limitato al tempo di guerra, suddiviso nei settori ospedaliero, militare, di ristoro
per le truppe e di difesa contraerea, per «donne di nazionalità italiana, di razza
ariana, che diano serie garanzie circa capacità al servizio cui chiedono di essere
adibite e che siano di età comprese tra i 18 e i 45 anni». Considerate personale militarizzato,
ricevono 700 lire mensili.
Propaganda per il Servizio ausiliario femminile. Il testo riprodotto nel manifesto:
«Donne d’Italia! Ascoltate la voce della Patria! Arruolatevi nei servizi ausiliari!».
Nella quasi totalità le volontarie provengono dalle città e appartengono alla media
borghesia. A maggio inizia il primo corso di addestramento (della durata di tre mesi),
dove s’impara a marciare, a sparare e a compiere mansioni d’ufficio (dattilografia,
contabilità ecc.). La divisa comprende basco, maglione, giacca sahariana senza collo,
gonna-pantaloni color kaki.
A fine luglio, le ausiliarie sono 1.016 (418 presso i Comandi militari e le rimanenti
impegnate nel corso preparatorio); al 28 ottobre 1944 le effettive sono salite a 1.237,
quelle in addestramento 5.500: un numero scarso e assolutamente deludente, nonostante
lo sforzo propagandistico profuso dalla RSI con manifesti, volantini, articoli di
giornale e discorsi radiofonici. A iscriversi, sono unicamente le giovani sostenute
da una salda fede nel fascismo.
Il comando del SAF viene affidato a Piera Gatteschi Fondelli (Greve in Chianti [Firenze],
1902-Roma, 1985), iscrittasi ai Fasci di combattimento nel marzo 1921 e al PFR il
18 settembre 1943. Insignita del grado di generale di brigata, per esercitare le sue
mansioni si coordina con Graziani, Ricci e Pavolini155.
155 Sulla comandante del SAF si veda il materiale conservato in ACS, SPD CR RSI, b. 61.
Sulla sua formazione politica: Helga Dittrich-Johansen, Strategie femminili nel ventennio fascista: la carriera politica di Piera Gatteschi
Fondelli nello “Stato degli uomini” (1919-1943), «Storia e problemi contemporanei», a. XI, n. 21, aprile 1998, pp. 65-87. Un memoriale
di Gatteschi Fondelli (peraltro assai posteriore agli eventi e che – sebbene non venga
indicato – è ricalcato su uno scritto della sua ex collaboratrice Cesaria Pancheri)
figura in appendice a Luciano Garibaldi, Le soldatesse di Mussolini, Mursia, Milano, 1995.
L’arrivo delle ausiliarie «istituzionali» suscita un dualismo con le volontarie della
prima ora: «Non ancora siamo riuscite ad imporci come sarebbe stato logico – scrive
una giovane ad un’amica – per il fatto che le prime ausiliarie (le irregolari) hanno
dato degli esempi poco felici su tutti i settori. Quanti miscugli, quante porcherie
vediamo: anche qui i favoritismi, le amanti dei colonnelli, le frivolezze infinite,
ecc. ecc.»156. Alcune giovani, deluse da episodi di immoralità, chiedono addirittura la smobilitazione.
156 SID, «Notiziario Z», n. 8, luglio 1944, Esame della corrispondenza censurata (ACS,
SPD CR RSI, b. 9).
Il 18 dicembre 1944 è per le ausiliarie dell’Esercito, delle Brigate nere e della
GNR la giornata del giuramento, prestato al Castello Sforzesco davanti a Mussolini,
Graziani, Pavolini, Ricci e Borghese, oltre a ministri della Repubblica e a gerarchi
nazisti. La comandante Gatteschi Fondelli pronuncia il testo del giuramento, in una
formula intermedia tra quello delle forze armate e quello del PFR: «Giuro di servire
e di difendere la Repubblica Sociale Italiana nelle sue istituzioni e nelle sue leggi,
nel suo onore e nel suo territorio in pace e in guerra, fino al sacrificio supremo.
Lo giuro dinanzi a Dio e ai Caduti per l’unità, l’indipendenza e l’avvenire della
Patria».
La cerimonia culmina nel discorso del duce, centrato su valutazioni patriottiche:
«Sono sicuro che voi, o camerate ausiliarie, terrete fede in ogni circostanza e con
animo purissimo al giuramento che oggi avete prestato, e ricordate: non lo avete prestato
a me, ma lo avete prestato all’Italia!»157.
157Il giuramento delle “ausiliarie”, «Corriere della Sera», 19 dicembre 1944.
Il «Corriere della Sera» dedica all’evento l’intera prima pagina e il discorso di
Mussolini viene stampato in volantini intitolati Alle ausiliarie del Servizio Femminile dell’Esercito e diffusi in svariate migliaia di copie.
Le motivazioni delle donne-soldato – espresse in varie lettere al duce – sono più
mussoliniane che patriottiche:
Noi abbiamo giurato di servire, col nostro sangue, la causa della Rivoluzione fascista:
noi siamo orgogliose di portare la camicia nera; noi per emblema abbiamo l’«M» rossa.
Noi non lo abbiamo giurato alla Patria, ma a Voi, DUCE, perché per noi la Patria siete
VOI. Siamo poche a rappresentare Roma, ma che importa? Voi diceste che il numero non
conta, ma la qualità. E la nostra fede non è qualcosa che ci guida o ci sostiene,
ma è l’essenza stessa della nostra epidermide, del nostro sangue di ogni più piccola
cellula. Ma la nostra fede è solamente in Mussolini158.
158 Lettera di un gruppo di giovani romane del gruppo «Onore e combattimento» a Mussolini,
1° gennaio 1945 (ACS, SPD CR RSI, b. 66).
Venezia, 20 luglio 1944. Un cappellano militare benedice la “fiamma” di un reparto
di ausiliarie.
Molte volontarie lamentano di essere adibite a mansioni d’ufficio, mentre si erano
arruolate per battersi con le armi: «L’ansia del combattimento mi divora e fa sì che
la mia gioventù sia in continuo orgasmo e mi tormenta... Lasciatemi andare incontro
al nemico prima che sia troppo tardi», scrive a Mussolini la diciannovenne ausiliaria
romana Maria Teresa Tirabassi159 (morirà il 17 maggio 1945 a San Possidonio: i garibaldini modenesi, intercettato
un autocarro della Pontificia Opera di Assistenza con reduci della RSI partito tre
giorni prima da Brescia per la capitale, fanno scendere alcuni viaggiatori e dopo
varie violenze li uccidono)160.
159 Lettera di Maria Teresa Tirabassi a Mussolini, inizio 1945 (ACS, SPD CO RSI, b. 86).
160 Sull’eccidio cfr. Danilo Sacchi, La corriera. Maggio 1945: giorni di furore e paura, Mursia, Milano, 2005. Per il contesto nel quale si perpetrò il massacro cfr. Giovanni
Fantozzi, “Vittime dell’odio”. L’ordine pubblico a Modena dopo la Liberazione (1945-1946), Europrom, Bologna, 1990.
Vi sono donne per le quali il mondo delle armi esercita una fascinazione irresistibile:
vogliono entrarvi da protagoniste, emulando i maschi. Il fenomeno è ben noto alle
dirigenti del SAF, che lo deprecano sul primo numero del giornale «Donne in grigioverde»:
Si allontanino da noi le esaltate che non conoscono i limiti di una disciplina e giocano
alla guerra in pantaloni e mitra. Non abbiamo armi né cerchiamo fogge maschili. La
nostra forza sta nella femminilità che si irrigidisce nel dovere e si tramuta in azione.
La nostra forza sta nell’esempio che viene con l’attività di ogni giorno svolta in
serenità di spirito161.
161 Cesaria Panchieri, Chiarificazione, «Donne in grigioverde», 18 dicembre 1944.
Il mensile «Donne in grigioverde» inneggia alla Nuova donna italiana e pubblica edificanti racconti di «ragazze in gamba» che viaggiano tra città e campagne,
fiere di servire la patria. La rubrica La nostra posta trascrive lettere di ausiliarie entusiaste per la scoperta di un nuovo mondo.
In concreto, le mansioni previste dal regolamento sono di natura impiegatizia, infermieristica,
propagandistica, domestica (rancio e pulizia caserme).
I periodici militari presentano una visione asessuata e caritatevole delle soldatesse
del duce: «Niente rossetti; niente donne fatali; niente amori conturbanti; ma sorelle
buone del soldato, ma utili donne della terra d’Italia, che se deve essere riscattata
dal sangue degli uomini, deve essere vivificata dalla virtù delle donne»162.
162 Articolo di Maria Pavignano su «Sveglia» («Giornale per i soldati italiani e le loro
famiglie») del 3 dicembre 1944.
Le ausiliarie rappresentano l’avanguardia delle donne fasciste, politicizzate e mobilitate
per la salvezza della patria. L’attivismo fuori dalle mura domestiche, in un contesto
di guerra civile, le smarca dal tradizionale modello dell’«angelo del focolare» (che
rappresentò – durante il regime – il destino di gran parte delle donne), ma in sostanza
ne ripropone le caratteristiche, trasferendole dall’ambito domestico a quello militare.
Fiamma Morini (Venezia, 1925-2020) così rievoca lo stato d’animo suo e delle giovani
camerate: «eravamo piene di fuoco, di guerra, di battaglie»; il ruolo “ausiliario”
viene insomma considerato inadeguato rispetto alle aspettative: «Quando ci siamo arruolate,
noi volevamo andare a fare la guerra, cioè ci sentivamo pronte a sparare, a combattere»163.
163 Testimonianza di Fiamma Morini, in Francesca Alberico, Ausiliarie di Salò. Videointerviste come fonti di studio della RSI, «Storia e memoria», n. 2/2006, p. 212.
Le dirigenti faticano a frenare l’impeto bellico, che spesso riemerge sul campo, laddove
i comandanti di reparto accettano la compresenza di donne armate; i militari sono
orgogliosi di quella presenza, che conferma la giustezza della causa.
Una sfilata delle volontarie del Servizio ausiliario femminile.
Rispetto alle donne della Resistenza, si notano più diversità che affinità, a partire
dall’assenza di divise e caserme. Poche antifasciste fanno vita di brigata, e quelle
poche si sono stabilite sui monti nell’impossibilità di continuare la vita normale,
perché «bruciate»: a frenarle è soprattutto la promiscuità dei sessi, ritenuta – dalla
morale pubblica – degradante per una ragazza164.
164 Per una comparazione: Paola Di Cori, Partigiane, repubblichine, terroriste. Le donne armate come problema storiografico,in Guerre fratricide. Le guerre civili in età contemporanea,a cura di Gabriele Ranzato, Bollati Boringhieri, Torino, 1994, pp. 304-329; e Michela
Ponzani, Guerra alle donne. Partigiane, vittime di stupro, “amanti del nemico”, Einaudi, Torino, 2012.
Come si è accennato, la pulsione sottesa al volontariato è il desiderio di battersi,
né più né meno degli uomini: un’aspirazione realizzata per quante s’inquadrano nella
X Mas e nelle Brigate nere. In quest’ultima formazione, l’arruolamento procede autonomamente,
fuori da giurisdizione e controlli del SAF, col risultato di armare fanatiche abbigliate
e armate come gli uomini.
La linea di demarcazione tra la funzione ancillare prevista dai regolamenti e il ruolo
guerriero rivestito nel fuoco dell’azione diviene sovente indistinguibile, oppure
è travolta dalle circostanze, che vedono molte ausiliarie presenti ai rastrellamenti
e anche alle torture, aizzando i seviziatori o deridendo le vittime:
Riferirsi alle donne di Salò sempre e solo come ausiliarie, pronte a fornire conforto
e aiuto materiale nelle retrovie, è una percezione che non corrisponde pienamente
alla realtà dei fatti e che porta con sé la necessità di negare l’evidenza: la presenza
di donne armate al fianco degli uomini nelle bande e nei reparti combattenti della
RSI. Significa oscurare la presenza femminile nelle azioni di guerra e nella quotidiana
battaglia contro i partigiani e contro qualsiasi forma di dissidenza, fatta anche
di delazioni, rastrellamenti, arresti, torture; significa misconoscerne l’identità,
le scelte operate in piena consapevolezza, il loro contributo alla “causa” fascista165.
165 Cecilia Nubola, Fasciste di Salò, Laterza, Roma-Bari, 2016, pp. 63-64. Il volume – ad oggi la più esauriente pubblicazione
in materia – utilizza fonti giudiziarie e traccia i profili di numerose volontarie,
incluse le collaborazioniste.
Il primo fattore condizionante sta nell’educazione tutta interna alle organizzazioni
del regime (allo scoppio della guerra, le iscritte alla gioventù fascista erano circa
mezzo milione), in cui si formarono le giovani ausiliarie: una pedagogia mussoliniana
che fa loro valutare 25 luglio e 8 settembre quali forme di tradimento maschile, cui le donne possono porre rimedio. Una dirigente ricorderà che «il clima spirituale
di queste ragazze era arroventato dal riflesso delle passioni che avevano diviso il
Paese; esse erano intransigenti come la giovinezza, incapaci di comprendere i compromessi
di cui la vita è intessuta»166. In effetti alcune arruolate «regolari» trascendono, assumendo ruoli militari che
non avrebbero potuto svolgere. A incoraggiarle, oltre ai comandanti dei reparti, vi
sono articoli su giornali ad ampia diffusione, polemici col Comando del SAF per la
cacciata di giovani considerate inadatte alla promiscuità del microcosmo militare:
«Non si tratta di avere un Corpo di monache, per questo ci sono i conventi», scrive
un giornalista, raccomandando di «andare molto cauti nell’allontanarne senza gravi
motivi di moralità e onestà», poiché «per ogni ausiliaria che se ne va, un soldato
deve lasciare la linea del combattimento per sostituirla nel servizio da essa disimpegnato»167.
166 Dal memoriale della vicecomandante Pancheri, trascritto in Viganò, Donne in grigioverde, cit.
167 G.Z. Ornato, Le ausiliarie, «La Stampa», 27 febbraio 1944.
Nel fuoco della guerra civile, diverse decine di donne s’incaricano di missioni spionistiche
e provocano – anche con la delazione – arresti, deportazioni, fucilazioni168.
168 Cfr. Roberta Cairoli, Dalla parte del nemico. Ausiliarie, delatrici e spie nella Repubblica Sociale Italiana
(1943-1945), Mimesis, Udine, 2013.
Le motivazioni della componente più estrema, protagonista dei lati peggiori della
guerra, sono state così sintetizzate da una studiosa delle donne repubblicane:
Frustrazione per la mancanza di prospettive, incapacità di essere accettate o di riuscire
a fuggire da un ambiente troppo stretto: la guerra e la RSI permisero loro di prendersi
una rivincita e di esercitare il potere di vita e di morte su quei nemici che spesso
erano familiari, parenti, vicini dello stesso villaggio.
Far parte delle Brigate nere, lavorare per la GNR o nello spionaggio conferiva loro
potere e impunità, poteva rappresentare un modo per esercitare, senza particolari
sanzioni, varie forme di violenza e prevaricazione, o anche, semplicemente, la possibilità
di dare sfogo a istinti criminali e/o a pulsioni distruttive169.
Le donne-soldato nutrono per i «ribelli» un odio misto a disprezzo, considerando una
vigliaccheria le imboscate.
Le prime ausiliarie a cadere sono sei giovani veneziane, vittime dell’attentato dinamitardo
che il 26 luglio 1944 distrugge Ca’ Giustinian, sede del Comando provinciale della
GNR, provocando una dozzina di vittime (due giorni dopo, vengono fucilati sulle rovine
fumanti del palazzo 13 prigionieri politici).
Al 18 aprile 1945, le ausiliarie cadute sono complessivamente 25, le disperse 8 e
le ferite 8.
Le fasciste catturate trovano difficilmente pietà. Divengono vittime di un surplus
di violenza dovuta – oltre a intuibili ragioni ideologiche – a maschilismo: «Questo
loro frequentare le zone a rischio – testimonierà la comandante Gatteschi Fondelli
– le metteva a repentaglio di imboscate partigiane ed allora non c’era scampo, era
più facile che si salvasse un fascista che una del SAF. La vita delle ausiliarie prigioniere
dipese dal caso, dalle vicende e dall’umanità dei partigiani».
Nell’estate 1944 un rapporto per il duce segnala che «il 23 agosto alcuni ribelli
prelevavano la fascista Repubblicana Dina Parenti, segretaria del fascio femminile
di Montefiorino»170 (verrà uccisa dopo una settimana).
170 Appunto per il Duce sull’attività ribellistica e antiribellistica, 24 settembre 1944
(ACS, SPD CR RSI, b. 30).
Le violenze s’intensificano nei giorni immediatamente successivi alla fine del conflitto
(cfr. pp. 524-530).
La comandante del SAF sfugge alla cattura e trova asilo in convento, finché la situazione
si normalizza e può tornare alla vita libera, senza che contro di lei siano aperti
procedimenti giudiziari (s’iscriverà al MSI, organizzando viaggi dei giovani militanti
sui luoghi topici della RSI).
La memoria femminile di Salò rimane – ancor più di quella maschile – avvinta a quell’esperienza,
di grande intensità sebbene durata meno di un anno. Memorialistica e testimonianze
delle reduci concorderanno nel ritenere la militanza nel SAF un costante punto di
riferimento ideale, se non il punto saliente della loro esistenza171.
171 Cfr. Zelmira Marazio, Il mio fascismo. Storia di una donna, Verdechiaro, Baiso, 2005. Al cessare dei combattimenti, per sottrarsi alle ritorsioni
partigiane, la torinese Marazio si rifugia in convento.
L’armata dello spirito
La Repubblica intrattiene pessimi rapporti con la Chiesa, che – tramontati gli anni
del consenso – si è via via raffreddata verso il fascismo: gli incensamenti ecclesiastici
al duce sono ormai un remoto e ingombrante ricordo. La Santa Sede accoglie con favore
la svolta del 25 luglio; il nuovo ambasciatore italiano (successore di Ciano) rassicura
il ministro degli Esteri Guariglia: «L’alto clero va fiancheggiando apertamente l’opera
del Regio Governo»172. Anche il mancato riconoscimento diplomatico della RSI ha un suo peso, accresciuto
dal fatto che Pio XII riceva in udienza i militari alleati.
172 Nota dell’incaricato d’affari presso la Santa Sede Francesco Babuscio Rizzo al ministro
degli Esteri, 10 agosto 1943 (trascrizione in Italo Garzia, Pio XII e l’Italia nella seconda guerra mondiale, Morcelliana, Brescia, 1988, pp. 257-259).
Sul finire del 1943 il pontefice e i suoi diretti collaboratori intravedono quale
orizzonte politico dell’Italia la democrazia; lo conferma mons. Domenico Tardini (sostituto
segretario di Stato) al portavoce del presidente Roosevelt: «si può dire che oggi,
dopo il tragico esperimento fascista, tutti gli italiani deplorino e deprechino la
dittatura e siano diventati favorevoli alla democrazia»173.
173L’Italia, situazioni e rimedi, memoriale di mons. Tardini per il rappresentante di Roosevelt in Vaticano, Taylor,
dicembre 1943 (trascrizione in Ennio Di Nolfo, Vaticano e Stati Uniti 1939-1952. Dalle carte di Myron C. Taylor, FrancoAngeli, Milano, 1978, pp. 279-297). Il concetto di democrazia risuona anche
nel radiomessaggio di Pio XII del 24 dicembre 1944.
Ora i vescovi condannano la guerra – definita castigo divino per i peccati dell’umanità
– e puntano alla riconciliazione nazionale, con la rinascita spirituale dell’Italia174, ma il basso clero è in prevalenza favorevole ai «ribelli». Ciò è talmente risaputo
da indurre i fascisti a ritorsioni anticlericali, oltre che a manifestare pubblicamente
in più occasioni la loro frustrazione per l’orientamento politico dei pastori d’anime.
Basti qui richiamare uno stralcio del documento approvato il 25 aprile 1945 dai commissari
dei Fasci della provincia di Brescia: «Esprimono al Duce la loro immutata fede e rivolgono
ai combattenti di tutti i fronti il loro cameratesco saluto; manifestano il loro profondo
rammarico per la opera deleteria svolta dal clero in provincia e lo ritengono in buona
parte responsabile dei torbidi che hanno diviso le popolazioni bresciane»175.
174 Cfr. il capitolo conclusivo di Lucia Ceci, L’interesse superiore. Il Vaticano e l’Italia di Mussolini, Laterza, Roma-Bari, 2013, pp. 301-322.
175 Comunicato apparso il 26 aprile 1945 sull’ultimo numero del quotidiano «Brescia Repubblicana».
Sull’attività antifascista di una parte del clero bresciano cfr. Maurilio Lovatti,
Testimoni di libertà. Chiesa bresciana e Repubblica Sociale Italiana (1943-1945), Opera diocesana San Francesco di Sales, Brescia, 2015.
Nel quadro negativo, permangono due componenti d’ispirazione religiosa legate a Mussolini:
una cospicua corrente del clero militare e il movimento integralista Crociata italica.
Essi si sentono al contempo parte della Chiesa e del fascismo: la RSI, infatti, combatte
i più insidiosi nemici della religione: i comunisti, i massoni e i protestanti.
Inquadrati alle dipendenze dell’Ordinariato militare d’Italia, diretto dall’arcivescovo
Angelo Bartolomasi, nel 1940-43 i cappellani avevano energicamente divulgato le ragioni
della guerra, in particolare della campagna di Russia, cui conferirono i tratti della
crociata contro i senza-Dio176. Mons. Bartolomasi (Pianezza [Torino], 1869-1959), presule dall’illustre curriculum
– preposto al clero castrense nella Grande Guerra, arcivescovo di Trieste nel 1919-22
e dal 1929 ininterrottamente alla guida dell’Ordinariato –, affida nell’ottobre 1943
a mons. Giuseppe Casonato la direzione dei cappellani della RSI, nominandolo suo provicario,
titolare della 2a Sezione dell’Ordinariato, con sede a Verona. A Casonato spetta l’ingrato
(e impossibile) compito di trattenere quei confratelli entro il recinto dell’apoliticità,
inteso come mera assistenza spirituale alla truppa. In realtà, la parte maggioritaria
dei 350 cappellani della RSI (circa 200 del clero secolare, i rimanenti appartenenti
agli ordini religiosi, particolarmente francescani) aderisce convintamente al sistema
politico-militare cui appartiene. Vi è peraltro una minoranza rigorosamente apolitica
e persino qualche cappellano che – sebbene inquadrato nelle forze armate repubblicane
– nutre sentimenti antifascisti e rimane in servizio per senso del dovere.
176 Cfr. Mimmo Franzinelli, Il riarmo dello spirito. I cappellani militari nella seconda guerra mondiale, Pagus, Treviso, 1991 (laddove non indicato diversamente, i riferimenti inclusi nella
parte finale del capitolo si rifanno a questo volume e alla documentazione consultata
per quella ricerca all’Archivio dell’Ordinariato militare d’Italia, Roma).
A far notizia, sulla stampa e nei discorsi radiofonici, sono i preti organici alla
Repubblica. Alcuni acquistano notorietà come propagandisti; i mass media di MinCulPop
e ministero delle Forze Armate li rendono celebri. Abili predicatori, sono di casa
su quotidiani e riviste. Manifesti murali e volantini preannunciano i loro discorsi,
tenuti in piazze stracolme, scortati da agguerriti servizi d’ordine, in un tripudio
di tricolori e vessilli nero-teschiati. Guidano le campagne per l’arruolamento e,
pur di convincere i «ribelli» a consegnarsi, premono sui familiari perché li facciano
recedere dalla cattiva strada.
Padre Eusebio, cappellano militare capo delle Brigate nere, in una tipica posa oratoria.
Il francescano padre Eusebio, al secolo Sigfrido Eusebio Zappaterreni (Montecelio
[Roma], 1913-Buenos Aires, 1985), dottore in Sacra Eloquenza, cappellano militare
nei Balcani e poi nella campagna di Russia, l’8 settembre 1943 presta servizio ad
Antibes; catturato dai tedeschi, passa dalla loro parte e si pone alle dipendenze
della 19a Armata germanica. Rimpatriato, concorda con Farinacci un tour propagandistico
nelle principali piazze italiane. Viene spesso ricevuto in udienza da Mussolini, che
nell’estate 1944 lo nomina cappellano capo delle Brigate nere, affidandogli missioni
itineranti per sollevare il morale delle truppe e rafforzare l’azione «antiribellistica»,
oltre a utilizzarlo quale elemento di collegamento con i Comandi militari. I vertici
dell’Ordinariato militare tentano di frenarlo, con lettere di richiamo in cui gli
si contestano discorsi «non liturgici», in «tono più di tribuno e di propagandista
che di predicatore del Vangelo»177, ma il predicatore non vi fa caso, come pure non accetta l’invito a trasferirsi in
un battaglione in linea sul fronte di Cassino o di Nettuno: egli, infatti, predilige
la bella vita e non disdegna le avventure galanti.
177 Mons. Bartolomasi a fra Eusebio, Roma, 5 maggio 1944 (AOMI, fpc Zappaterreni Eusebio).
Magnifica le armi segrete di Hitler che ribalteranno le sorti della guerra e restituisce
agli ascoltatori la fede nella vittoria; lo testimoniano alcune lettere pervenute
a Mussolini: «Duce, i fascisti friulani Vi ringraziano per aver loro concesso di vivere,
attraverso la trascinatrice parola di Padre Eusebio, un’ora di vivissimo entusiasmo,
che ha ritemprato le loro anime e rinvigorito la loro fede», scrive nell’ottobre 1944
il commissario federale di Udine178.
178 Il commissario federale di Udine a Mussolini, 22 ottobre 1944 (ACS, SPD CO RSI, f.
3999).
Le convinzioni del francescano sono compiutamente illustrate nella lettera augurale
a Mussolini in occasione della Pasqua 1945, in una rilettura pseudo-evangelica e antiebraica
degli eventi politici:
Partito Fascista Repubblicano
Ufficio del Cappellano Capo
Duce!
Impossibilitato di venire personalmente per impegni assunti con le FF.AA. e la Radio,
anche a nome dei Cappellani delle Brigate, invio i migliori auguri per la S. Pasqua.
Arrivino freschi col suono delle campane osannanti il Cristo risorto! La sua opera
redentrice continua anche con le forze della civiltà nostra contro la coalizione dell’ebraismo
internazionale.
Duce, in questi giorni il figlio di Dio è l’immagine della Patria nel Calvario della
sua grandezza. Il Pontefice Vi salutò «Uomo della Provvidenza» e il travaglio della
stirpe mediterranea nel processo dei secoli maturò nella Vostra mente un’idea sublime,
sospiro e vita delle nostre generazioni. La Vostra dottrina sociale è stata confermata
per 20 anni con i prodigi che hanno valorizzato il popolo italiano e sbalordito il
mondo. Giuda Escariote Badoglio, corrotto dall’oro ebraico ordì il tradimento; Ponzio
Pilato Savoia vi rapì sull’atrio e flagellò il popolo, lavandosi le mani nel pianto
degli innocenti e nel sangue degli Eroi. Il nemico ha crocifisso la Patria. Duce,
Iddio Vi ha liberato. La Patria è risorta come Cristo. Si combatte l’ultima battaglia
per la salvezza della Patria e della civiltà che da Cristo prende nome e vita. Se
Cristo è con noi, quis contra nos! I nemici saranno umiliati e confusi nell’orgoglio della loro potenza ed annientati
nella polvere delle nostre macerie. Voi dopo essere stato il capro espiatorio del
tradimento, in 45 giorni di duro martirio, oggi lavorate indefessamente per la Repubblica
e per l’Europa nuova, domani avrete la gioia di trasfigurare il popolo italiano sul
Tabor della vittoria.
Duce, gli italiani, fascisti e non fascisti, Vi amano, guardano a Voi come al salvatore
della Patria. Iddio Vi protegga, le preghiere dei buoni Vi accompagnino. I Cappellani
delle Brigate Vi benedicono!
179 P. Eusebio a Mussolini, Milano, 29 marzo 1945 (ACS, SPD CO RSI, f. 3995).
Il combattivo francescano rimane accanto a Mussolini nell’ultimo disperante soggiorno
milanese. Il pomeriggio del 25 aprile improvvisa il suo ultimo comizio, nella Galleria
Vittorio Emanuele II: esorta i legionari all’estremo sacrificio, contendendo al nemico
ogni metro della metropoli. Tuttavia l’indomani – scioccato dall’evidenza del crollo
generalizzato – muta atteggiamento e d’intesa con un gruppo di partigiani telefona
alle sedi fasciste per convincere alla resa gli ultimi reparti rimasti in città. Condannato
per collaborazionismo a 20 anni dalla Corte d’assise di Milano e imprigionato a Gaeta,
viene scarcerato nel 1946 su pressioni ecclesiastiche, a condizione di stabilirsi
in Argentina: padre Eusebio animerà i circoli filofascisti di Buenos Aires sino al
giorno della morte, che lo coglie settantaduenne l’8 novembre 1985.
Il cappuccino Antonio Conio (Imperia, 1903-Loano [Savona], 1962), denominato Fra Ginepro
da Pompeiana, è affascinato dalle guerre: è cappellano militare nelle campagne d’Abissinia,
Francia e Albania; catturato dai britannici e internato in India, viene rimpatriato
dalla Croce Rossa nella primavera 1943. Durante la RSI svolge – su incarico di Mussolini,
che visita più volte a Gargnano e dal quale ottiene un lasciapassare per l’intero
territorio nazionale180 – importanti missioni politiche: visite ai Lager per far arruolare gli internati,
propaganda dei bandi sulla consegna dei «ribelli», predicazione alle truppe. Funge
altresì da interfaccia con le famiglie dei prigionieri di guerra per ritrovare i loro
cari: la stampa governativa, dal foglio «Italia Cattolica» al settimanale dell’EIAR
«Segnale Radio», gli dedica servizi elogiativi e pubblica sue fotografie. Ma il superiore
dei cappuccini della Liguria diffida di padre Ginepro, poiché «la sua attività è da
molti giudicata propaganda politica e non apostolato»; inoltre, assumerebbe atteggiamenti
sconvenienti con sorelle e mogli di prigionieri che gli chiedono notizie dei congiunti;
raccomanda al provicario Casonato «di esonerarlo dal servizio o farlo impiegare all’assistenza
delle truppe al fronte in modo che si trovasse lontano dalle occasioni». Anche alcuni
vescovi si lamentano del frate, che però, forte del sostegno dei vertici politico-militari,
continua imperterrito nel suo operato181.
180 Sui rapporti con Mussolini e più in generale sull’attività propagandistica del frate
cfr. il materiale conservato in ACS, SPD CO RSI, f. 828, e in AOMI, fpc Conio Antonio.
181 Il ministro della Curia provinciale dei Minori Cappuccini della Liguria a mons. Casonato,
Genova, 11 settembre 1944 (ACS, SPD CR RSI, b. 9).
Imprigionato a Genova per collaborazionismo (al momento della cattura, gli sequestrano
un’agenda con i recapiti di 71 donne, parenti di prigionieri di guerra), una volta
scarcerato diviene un riferimento del reducismo della RSI e pubblica numerosi volumetti
sul martirio dei fascisti (firmati – su intimazione dei superiori ecclesiastici –
con un eteronimo: Pio Cappuccino). Al sanguigno frate, celebrato quale «meravigliosa
sintesi di mazzinianesimo e cristianesimo, amore per il Tricolore e la Vergine, patriottismo
e devozione», verrà intitolata a Loano nel 1962 un’associazione clerico-fascista,
fondata da Ezio Maria Gray e altri ex gerarchi, parlamentari del Movimento sociale
italiano, che presentano la proposta di beatificazione del loro beniamino182.
182 Sull’itinerario politico-ecclesiastico di Antonio Conio: Alessandro Acito, Fra Ginepro da Pompeiana. Storia di un frate fascista, Prospettiva, Civitavecchia, 2006.
Fra Ginepro da Pompeiana, autonominatosi cappellano militare col sostegno del duce.
Il saveriano padre Luciano Usai (San Gavino Monreale [Sassari], 1912-Jundiaí do Sul,
1981) è cappellano presso la presidenza del Consiglio della RSI; il quindicinale tedesco
«Signal» gli dedica a inizio 1944 un ampio servizio, con foto a piena copertina, vantandone
la combattività; nell’estate si fa paracadutare con altri agenti segreti nella sua
Sardegna per costituirvi una rete clandestina, ma viene arrestato dopo qualche mese:
«fine ben nota e ben meritata», commenta il provicario militare mons. Casonato183 (Usai, condannato a 30 anni e amnistiato nel 1946, parte come missionario per il
Brasile, dove vivrà il resto dei suoi giorni).
183 Annotazione di mons. Casonato in una relazione sull’attività della 2a Sezione dell’Ordinariato
militare, luglio 1945 (AOMI, b. Ordinariato militare al Nord). Sull’ecclesiastico
sardo cfr. Michelangelo Sanna, Luciano Usai missionario Cappellano dei Guastatori, Edizioni Fiore, San Gavino Monreale, 1993.
Altra figura di spicco del clero castrense repubblicano è don Angelo Scarpellini (Felloniche
di Longiano [Forlì], 1891-Savignano sul Rubicone [Forlì], 1979), soldato di sanità
nella Grande Guerra, dotto latinista e docente del Liceo «Galvani» di Bologna, cappellano
militare dal 1941. Il suo volume Italia della Conciliazione (pubblicato nel 1942 con autorizzazione ecclesiastica) culmina nell’esaltazione della
«santità della causa per la quale l’Italia combatte insieme coi suoi Alleati»184. Illustra su «Il Regime Fascista» e «Crociata Italica» le motivazioni patriottico-nazionaliste
che – unitamente all’avversione al materialismo bolscevico – dovrebbero stringere
i cattolici a Mussolini, staccandoli da tendenze contemplative. Arruolato nelle Brigate
nere «Facchini» e «Pappalardo», contribuisce alla repressione «antiribellistica».
Imprigionato a Reggio Emilia, viene duramente percosso dai partigiani; condannato
il 12 marzo 1947 a 24 anni dalla CAS di Bologna, con sentenza cancellata il 5 luglio
1948 dalla Cassazione e ritorno alla libertà, si dedica alla ricerca delle salme dei
caduti della RSI e ne raccoglie in volume le ultime lettere.
184 Sac. Angelo Scarpellini, Italia della Conciliazione, Cantelli, Bologna, 1942, p. 181.
Il cappellano militare della «Tagliamento», padre Antonio di Gesù (Augusto Pio Intreccialagli),
impegnato in un rastrellamento antipartigiano.
Non sono rari i sacerdoti che imbracciano il mitra e partecipano ai rastrellamenti
né più né meno come un soldato: unico elemento distintivo è la croce di stoffa cucita
sulla giubba militare. Il loro prototipo è il carmelitano padre Antonio di Gesù, al
secolo Augusto Pio Intreccialagli (Monte Compatri [Roma], 1908-2000). Cappellano dell’Aeronautica,
al momento dell’armistizio si presenta ai tedeschi per essere indirizzato a una formazione
italiana rimasta al loro fianco: il 1° Battaglione «“M” – Camilluccia», poi trasformatosi
in Legione «Tagliamento», dove rimarrà sino al termine della guerra. Tiene affollati
discorsi nei teatri di Verona, Vicenza, Padova e Brescia. Più che cappellano militare,
è commissario politico: vuole essere da esempio ai legionari, e li guida imbracciando
il fucile mitragliatore185. Iscritto nel Central Registry of War Criminals and Security Suspects quale ricercato
per crimini di guerra (per gli eventi del 15 aprile 1944 in Valsesia), nel dopoguerra
trascorre anni di latitanza da un convento all’altro della penisola. Anch’egli diviene
una figura mitica per i circoli neofascisti.
185 Cfr. Andrea Rossi, Missionario e combattente in camicia nera. Storia “sbagliata” di padre Antonio di
Gesù OCD, «Cultura&Identità», a. VII, n. 16, marzo-aprile 2012, pp. 66-71.
I rapporti del provicario militare mons. Casonato con il comandante della GNR Ricci
e col ministro delle Forze Armate Graziani sono pessimi, in quanto i suoi richiami
all’apoliticità sono equiparati a opportunismo o – peggio – a tradimento. Un casus belli è costituito dalla pretesa di Ricci di nominare personalmente i cappellani: assegna
l’incarico di ispettore capo della GNR a Ledda, cappellano-centurione della Legione
«M» presso la Guardia del Duce, di stanza a Salò. Don Antonio Maria Ledda (Sindia
[Nuoro], 1908-Venezuela, 1986), già cappellano delle camicie nere nella campagna di
Russia, è criticato dai superiori ecclesiastici sia per la condotta morale sia per
dichiarazioni pubbliche fuori misura: invoca la mobilitazione contro «la rabbia comunista,
fomentata dagli ebrei che già vendettero e uccisero Cristo», e inneggia al Dio degli
Eserciti: «Il sangue ci lava, ci riscatta, ci incita, ci inebria... la nostra è una
Guerra Santa. Combattiamo contro i nemici di Dio, della sua Religione e della civiltà.
Combattiamo contro l’anticristo: il bolscevismo, gli ebrei, i massoni, gli anglicani»186. Mons. Bartolomasi lo esorta, con prosa allusiva, a «combattere contro i nemici,
non meno pericolosi, interni; i gaudenti della vita, i dissolventi la dignità spirituale
della Patria, gli sfruttatori della guerra e contro i nemici intimi: le passioni della
carne e le passioni del cuore»187. Richiami inascoltati. Don Ledda continuerà l’apostolato bellicista sino a fine aprile
1945. Nel dopoguerra vivrà per qualche tempo clandestino; il Vaticano lo invia nel
1949 in Venezuela, dove svolgerà attività giornalistica, divenendo cappellano della
polizia e sovrintendente dei cappellani delle carceri.
186 Dal discorso di don Ledda trascritto col titolo La parola di un sacerdote per i Caduti d’Italia e Dalmazia in «Crociata Italica», 7 febbraio 1944.
187 Mons. Bartolomasi a don Ledda, Roma, 9 marzo 1944 (AOMI, fpc Ledda).
Nell’autunno 1944 la Santa Sede colloca a riposo mons. Bartolomasi: sul piano formale
la decisione è giustificata dal compimento dei 75 anni, ma il motivo reale è l’eccessivo
coinvolgimento col Ventennio. Lo sostituisce mons. Carlo Alberto Ferrero di Cavallerleone
(Torino, 1903-1969), funzionario della Curia vaticana di saldi sentimenti monarchici;
i suoi rapporti con la sezione veronese dell’Ordinariato militare sono praticamente
nulli. Da quel momento mons. Casonato si ritrova nell’occhio del ciclone, privo di
una sponda romana e attaccato dalla componente fascista del suo clero. La situazione
precipita a inizio marzo 1945. Don Tullio Calcagno, promotore del movimento Crociata
italica (cfr. pp. 399-408), lo mette alla gogna: «Sì, Monsignor Casonato, Regio Provicario
Castrense, è un traditore della Repubblica e lo dirò anche se resterà a quel posto
per tutta la guerra e per tutta la vita sua e mia. Io lo accuso»188. A quel punto, il maresciallo Graziani congeda Casonato e il clero castrense repubblicano
rimane acefalo, per il poco tempo di vita rimasto alla RSI.
188 Tullio Calcagno, Chi tradisce la sua missione?, «Crociata Italica», 12 marzo 1945.
Il precipitare della situazione, terrificante per i sacerdoti espostisi in campo propagandistico-militare,
è preannunciato il 15 marzo 1945 dall’imboscata mortale – nei pressi di Verona – a
don Giovanni Persichillo, dell’Ufficio Stampa e propaganda del Gabinetto delle Forze
Armate (mons. Bartolomasi lo aveva ripetutamente sollecitato a moderare gli slanci
fascisti, praticando i precetti pacificatori di don Bosco)189.
189 Cfr. i riferimenti a Persichillo nel memoriale di Bartolomasi a Casonato, Roma, 24
marzo 1944 (AOMI, fpc Persichillo).
Analoga fine tocca al torinese don Edmondo De Amicis, sessantenne teologo domenicano
(pluridecorato nella Grande Guerra, cappellano militare delle camicie nere nella campagna
d’Abissinia, membro del direttorio cittadino del PFR); scampato fortunosamente il
30 agosto 1944 all’attentato dinanzi alla sede dell’Associazione volontari di guerra
– di cui è presidente –, viene ferito mortalmente il 24 aprile 1945 da due gappisti.
Paga con la vita la presenza nelle carceri di via Asti – luogo di tortura dei partigiani
– e i comizi bellicisti nelle piazze e alla radio.
Ancora peggiore, se possibile, la sorte del cappellano della GNR Sebastiano Caviglia,
così spiegata da un sacerdote all’Ordinariato militare:
Svolse il suo ministero partecipando qualche volta a qualche corteo di carattere politico,
senza però compromettere nessuno. Questo suo attivismo forse un po’ spinto fu osservato
e risaputo dalle brigate partigiane e il 27 aprile nel pomeriggio venne prelevato
dalla sua abitazione dai partigiani della «Stella Rossa», legato e trascinato lungo
tutto il viale che conduce ala piazza d’armi, malmenato in ogni modo fu sepolto nella
stessa piazza ancora vivo. Venne trovato dopo oltre 10 giorni perché dal terreno sporgeva
una mano rosicchiata dai cani randagi e di lì fu portato al cimitero senza alcuna
cerimonia190.
190 Relazione del cappellano militare Stefano Romani, inviata all’Ordinariato il 23 gennaio
1950 (AOMI, b. Croce ed Armi 2, f. Cappellani caduti).
Un altro confratello testimonia il rancore addensatosi su don Caviglia, nell’esasperazione
della guerra civile: «Tutto il suo mobiglio venne asportato e destinato a chi soffrì
identico danno durante i mai deprecati rastrellamenti operati dalla GNR e dalle Brigate
nere e dai reparti S. Marco e Muti»191.
191 Relazione di don Vittorio Genta, 11 maggio 1945 (AOMI, fpc Genta).
Vi sono infine le fucilazioni dell’immediato dopoguerra, precedute da processi sommari.
Ne è vittima – tra gli altri – don Leandro Sangiorgio, già impegnato con le camicie
nere in Grecia e Russia, poi protagonista di rastrellamenti antipartigiani nel Biellese.
Arresosi col Battaglione «Pontida», viene fucilato insieme agli ufficiali. Un sacerdote
vicino ai partigiani interviene inutilmente in suo soccorso:
Il giorno dopo la resa mi portai dal Cappellano cercando di interpormi per la sua
liberazione. A nulla valsero le mie parole, perché troppe furono le accuse mosse a
don Sangiorgio specialmente dalla popolazione che in quei giorni di euforia si era
abbandonata ad atti inconsulti. Da Cossato fu portato in compagnia degli altri ufficiali
a Crevalcore, in un campo di concentramento. Ivi fu improvvisato un tribunale militare
che condannò a morte molti ufficiali, tra i quali don Sangiorgio.
La sentenza fu eseguita a Sordevolo. Il curato del paese gli somministrò tutti i Sacramenti.
Morì rassegnato, a smentire alcune voci tendenti a dire che fosse morto al grido di
«Viva il duce e viva l’Italia» vi è l’asserzione, chiara e precisa, del Sacerdote,
il quale afferma che il Cappellano morì al grido di «Viva Gesù!»192.
192 Relazione di don Gaetano Abbiate su don Sangiorgio, giugno 1945 (AOMI, fpd Sangiorgio).
La Crociata italica
Il ministero della Cultura popolare vorrebbe aggregare attorno al giornale «Italia
cattolica» (stampato a Venezia dal novembre 1944 sotto la direzione di Gianni Vettori)
le simpatie della componente religiosa della cittadinanza, ma il movimento che più
riscuote consensi è «Crociata Italica», sgradito al ministro Mezzasoma per l’orientamento
accanitamente nazista. Lo dirige don Tullio Calcagno (Terni, 1899-Milano, 1945), parroco
della cattedrale di Terni193. Segnato dalla partecipazione alla Grande Guerra come tenente di fanteria, sviluppa
una concezione cattolico-patriottica talmente esasperata da valergli il rifiuto all’arruolamento
nell’Esercito e pure – da parte dell’autorità ecclesiastica – della nomina a cappellano
militare. Scrive sul quotidiano farinacciano «Il Regime Fascista» e pubblica nel 1942
La scure alla radice della Royal Oak ossia Guerra di Giustizia – senza autorizzazione ecclesiastica, dedicato «Ai nostri grandi amici e fedeli alleati
germanici» (sarà riedito a inizio 1945 da Mondadori) – centrato sulla «guerra di liberazione,
di civiltà e di giustizia». Dante, redivivo, colloca Svizzera, Svezia e altre nazioni
neutrali tra «i grigi, ossia gli aspiranti al vestibolo dell’Inferno». E sostiene
che in guerra non basti uccidere il nemico, ma lo si debba pure odiare accanitamente.
Sceglie come simbolo la croce racchiusa in un cerchio, contornata dai motti «Gesù
Cristo Re d’Italia Vince e Impera» e «Dio e Patria».
193 Su don Calcagno cfr. la documentazione archivistica in ACS, SPD CR RSI, b. 51. Si
veda inoltre Annarosa Dordoni, «Crociata Italica». Fascismo e religione nella Repubblica di Salò (gennaio 1944-aprile
1945), Sugarco, Milano, 1976.
Da episodio individuale (e non raro) di un religioso poco equilibrato, il sacerdote
umbro diviene nell’autunno 1943 un «caso» che preoccupa i vertici della Chiesa e i
vescovi nelle cui diocesi opera.
Costituitasi la RSI, il sacerdote umbro – pur privo della necessaria investitura dell’Ordinariato
– si autonomina cappellano militare. Sospeso a divinis il 24 novembre 1943 dal vescovo di Terni, si rifugia a Cremona da Roberto Farinacci,
che gli offre una sede in via Italo Balbo e la disponibilità della tipografia de «Il
Regime Fascista». L’anticlericale Farinacci accoglie don Calcagno sia per solidarietà
politica (l’ammirazione per Hitler e l’antisemitismo) sia per utilizzarlo contro il
vescovo di Cremona, suo accanito avversario. Infatti mons. Cazzani sospende a divinis il confratello e l’8 gennaio 1944 affida alla stampa cattolica una notificazione
ostile:
Vediamo preannunziata la pubblicazione di un settimanale, «Crociata Italica», che
si qualifica politico cattolico, diretto da don Tullio Calcagno.
Perché non sia sorpresa la buona fede dei cattolici, è nostro dovere avvisarli che
il predetto Sacerdote, di Diocesi lontana dalla nostra, è sospeso da ogni Sacro Ministero
e in nessun modo autorizzato alla pubblicazione di un giornale: e pertanto il sunnominato
non può essere considerato come cattolico194.
194Notificazione del Vescovo di Cremona S.E. Mons. Giovanni Cazzani, «L’Italia» [Milano], 11 gennaio 1944.
Il settimanale cremonese «Crociata Italica», organo dell’omonimo movimento collaborazionista.
Il 9 gennaio esce il primo numero di «Crociata Italica», che rivendica la RSI quale
unico Stato italiano e ne chiede pertanto il riconoscimento alla Santa Sede. Sulla
testata del «settimanale politico cattolico» spiccano i motti Dio è verità e Dio è giustizia: si ignora il Dio di misericordia. A fugare ogni dubbio sul nume tutelare del giornale,
compaiono – incorniciati in prima pagina – motti di Hitler: «Una cosa è sicura: in
questa lotta ci può essere soltanto un vincitore e questo sarà la Germania o la Russia
Sovietica» (20 marzo 1944).
«Crociata Italica» diffonde una versione clericale del nazionalsocialismo e il direttore
ribadisce «le sue tendenze e simpatie di sinistra, le sue vecchie e stabili idee repubblicane,
democratiche e – nel campo più strettamente economico-sociale – social-comuniste»195.
195 Don Tullio Calcagno, Prima di tutto salviamo l’Italia, «Crociata Italica», 8 maggio 1944.
Il succo della predicazione cattolico-bellicista si ritrova nell’articolo Guerra santa, del giugno 1944:
Guerra santa perché guerra del sangue contro l’oro; dell’uomo contro la macchina;
del lavoro contro l’usura. Guerra santa perché guerra dello spirito contro la materia,
della Fede contro l’ateismo, dell’umanità proletaria contro l’oligarchia sfruttatrice,
Guerra santa perché guerra dei popoli poveri oppressi, amici di Dio, contro i popoli
ricchi oppressori, amici di Mammona.
La guerra dell’Asse e del Tripartito è guerra di difesa, di vita, di liberazione,
di civiltà, d’onore, di giustizia196.
196 Calcagno, Guerra santa, «Crociata Italica», 12 giugno 1944.
Una selezione di titoli richiama i temi dominanti del giornale: «8 settembre: anniversario
d’infamia e lutto nazionale – I “difensori del cristianesimo” all’opera – Chi può
chiamarsi cattolico – Religione e Patria nell’animo fuse – Combattere – Il Vangelo
della guerra – Ebraismo – Santa Crociata! – Clero, in ginocchio! – A color che fur
sospesi – Veri cattolici e veri italiani – La neutralità del Vaticano – La Chiesa
nella bufera – Invocazione suprema al Santo Padre – La politica del sacerdote – Sacerdoti
di tutta Italia non aspettate le ore 12 – Sacerdoti, figli della paura».
«Crociata Italica» – che si considera tradizionalista e fedele alle Sacre Scritture
– aggrega decine di sacerdoti (i più attivi sono i cappellani militari Gino Artini,
Angelo Baroni, Antonio Bruzzesi, Antonio Ciceri, Lino Corbetti, fra Galdino, Alberico
Manetti, Guerrino Fabbri, Angelo Scarpellini, Damiano Zago) e un numero imprecisato
di laici (prevalentemente maestre elementari e volontarie del Servizio ausiliario
femminile), che scrivono sul settimanale – tirato in più di 100 mila copie – e lo
diffondono con zelo missionario.
Tra i collaboratori del movimento spicca il filosofo cattolico Siro Contri (Cazzano
di Tramiglia [Verona], 1898-Pegli [Genova], 1969), insegnante di liceo, nemico giurato
del rettore dell’Università Cattolica padre Agostino Gemelli, propaganda posizioni
ultrafasciste e antisemite (critica ad esempio il filone ebraico disseminato nelle
opere di Spinoza, Durkheim e Bergson). Nel mensile di Giovanni Preziosi «La Vita Italiana»
Contri discetta sullo «spirito che ha collocato il popolo o razza giudaica in antagonismo
con tutto il sistema degli interessi vitali degli altri popoli»197. Fondatore del giornale «Asti Repubblicana», decanta su «Crociata Italica» del 10
luglio 1944 il sistema mussoliniano della socializzazione, «monumento di sapienza
dottrinaria e pratica che è risultato dall’azione e da un pensiero immanente all’azione»,
da considerarsi imprescindibile anche in campo religioso: «la Chiesa ha preso atto
di questo monumentale risultato, che sarà nei secoli una gloria imperitura dell’Italia
e che darà – quali che siano per essere gli eventi della tragica guerra – l’ordinamento
sociale al mondo per qualche secolo».
197 Siro Contri, Significato politico di una ricerca filosofica, «La Via Italiana», ottobre-novembre 1944, pp. 131-137.
Anche l’ex mangiapreti Nicola Bombacci, nell’inseguire i propri fantasmi, approda
al clerico-nazismo di Crociata italica, sul cui settimanale pubblica nel marzo 1945
un paio di scritti di denuncia della propaganda ateista dei comunisti sovietici.
Don Calcagno sembra fare da catalizzatore ai venti di follia che soffiano nell’angolo
estremista di Salò.
Il prete integralista ha le stesse ossessioni e i medesimi toni invasati di un Pound,
che infatti il 18 ottobre 1944 lo elogia per essersi levato contro «una religione
ebraizzata e anti-italiana»: «Voi svolgete un’opera magnifica in questo momento»,
aggiunge, esortandolo a contrapporsi a Pio XII: «Vo[stro] art. del 16 corr. scritto
come da prete leale, ma credete che un figlio d’usuraio, venduto stipendiato, o indebitato
agli ebrei, sia la persona più adatta a “portare le anime a Cristo”?». E lo mette
in guardia: «il veleno nel cristianesimo è veleno ebraico, e finché la Chiesa non
sputa via quel veleno» rimarrà intossicata, perciò la Chiesa lo deve al più presto
«sputare via»198.
198 Pound a don Calcagno, 18 ottobre 1944 (trascrizione in Andrea Colombo, Il Dio di Ezra Pound, Ares, Milano, 2011).
Critico della Chiesa, don Calcagno diffida anche del governo repubblicano, perché
moderato e irresoluto. Emblematica la confidenza al direttore de «La Stampa», elogiato
per aver denunciato pubblicamente l’inconsistenza della RSI:
Così si parla, anche se poi viene il bavaglio. O così, o niente, perché questa è l’unica
via della salvezza.
Anche «Crociata Italica» col mio Guerra Santa è stato sequestrato da mezza s... [allusione sconcia al ministro Mezzasoma].
199 Don Tullio Calcagno a Concetto Pettinato, Cremona, 29 giugno 1944 (CPP).
Sul piano personale, è austero. Il ricordo di una giovane seguace, impiegata d’azienda
e autrice di articoli per «Crociata Italica», nonché appartenente alla ristretta cerchia
dei suoi accompagnatori a Gargnano e in attività di proselitismo:
Per me c’era solo un grande amor di Patria e don Calcagno col suo giornale ne era
il portabandiera.
Che fosse un prete sospeso a divinis, lo sapevamo tutti. Io, però, non l’ho mai visto in borghese. Portava sempre la sua
veste talare, con sopra – d’inverno – un mantello nero. Andava ogni mattina alla Messa
nella chiesa vicino alla caserma dove abitava.
Ebbi modo, alcune volte, di sottoporgli i miei problemi religiosi, oppure giudizi
su libri all’Indice che avrei desiderato leggere. Le sue risposte furono sempre quelle
di un vero sacerdote, devoto e rispettoso della legge di Dio200.
200 Marmilia Gatti Galasi, Ricordo di don Tullio Calcagno, «Acta dell’Istituto Storico Repubblica Sociale Italiana», a. IV, n. 1, gennaio 1990.
La polemica antisemita furoreggia nel settimanale cremonese, che aggiorna allo scontro
mondiale in atto il tradizionale filone cristiano risalente ai Padri della Chiesa.
Gli ebrei sarebbero «mostri infernali», insidioso «cancro roditore dell’umanità»,
anima dannata della plutocrazia massonica. La battaglia contro la «satanica setta»
è urlata sin dai titoli: Avanti, ariani d’Italia contro giudei e massoni (16 aprile 1945).
Mussolini guarda con favore al movimento; a metà marzo ne riceve in udienza i promotori
e il 10 dicembre 1944 chiama a Salò don Calcagno, per complimentarsi del discorso
radiofonico sulle idee-guida del movimento:
Noi Crociati Italiani abbiamo proclamato e proclamiamo alto e forte, senza ambiguità,
che la nostra Patria, l’unica vera Patria è l’Italia che il 22 maggio strinse il Patto
d’acciaio con la Germania, il 10 giugno 1940 scese in guerra contro le plutocrazie
d’occidente, Francia e Inghilterra, a fianco della Germania, l’8 settembre 1943 non
abbandonò e non tradì l’alleata Germania...
Per noi Crociati Italici, Re d’Italia sarà Cristo e solo Cristo, che non tradisce.
A Lui e per Lui all’uomo che con migliore diritto di ogni altro appare da lui mandato
a guidarci, Benito Mussolini, noi ubbidiremo fino alla morte!201
201 Trascrizione del radiodiscorso di don Calcagno in Silvio Bertoldi, Salò. Vita e morte della Repubblica Sociale Italiana, Rizzoli, Milano, 2005, p. 357.
Venezia, Teatro La Fenice, gennaio 1945. Don Tullio Calcagno esalta la guerra di Hitler
e Mussolini (indossa abusivamente la divisa di cappellano militare).
Il duce incoraggia il sacerdote a proseguire la sua missione, che mese dopo mese entra
in collisione con la Chiesa. Secondo i crociati italici, la dimensione universale
del papato impedirebbe a Pio XII di farsi paladino dei valori patriottici, ragion
per cui si pone l’esigenza di costituire una Chiesa autocefala, guidata da un primate
scelto tra i vescovi dell’Italia settentrionale. Candidato naturale sarebbe, per posizione
gerarchica e autorevolezza, l’arcivescovo di Milano card. Ildefonso Schuster, di cui
si lodano strumentalmente le posizioni: il secondo numero del giornale pubblica con
risalto l’articolo Il Card. Schuster stigmatizza le ideologie ebraico-bolsceviche, a suggerire la comunanza nella guerra a ebrei e comunisti, in un abbraccio certamente
sgradito al presule. Schuster, tuttavia, s’indigna per il progetto «scismatico» e
il 20 agosto 1944 in un’omelia in Duomo definisce Crociata italica «un errore storico
e un’eresia anti-italiana»202. Analoga condanna esprimono molti vescovi, dall’arcivescovo di Torino mons. Fossati
al patriarca di Venezia card. Piazza; quest’ultimo fa sconfessare alla Conferenza
episcopale triveneta il movimento cremonese, contraddistinto da «spirito acre e ribelle,
non sacerdotale e nemmeno cristiano». L’ambizioso progetto di una Chiesa nazionale
rimane dunque sospeso a mezz’aria, senza trovare un ecclesiastico di spicco disposto
a capeggiarlo.
202 Per una contestualizzazione cfr. Arnaldo Cicchitti Suriani, La Repubblica Sociale Italiana tentò uno scisma?, «Nuova Antologia», fasc. 1811, novembre 1951, pp. 225-232.
A inizio 1945, il movimento di Crociata italica si propone un salto di qualità. Domenica
14 gennaio don Calcagno organizza al Teatro Lirico di Milano – pavesato con bandiere
dell’Asse – un convegno per spiegare le finalità del sodalizio. Gli fanno ala le bande
musicali della Legione «Muti» e della GNR. Critica il Vaticano e spiega che il cattolicesimo
è indissolubilmente legato alla rinascita della nazione: Iddio lo vuole203. La manifestazione termina con la benedizione del labaro e il preannunzio della costituzione
dei Battaglioni Crociati: organismo religioso-militare da porre alle dirette dipendenze
del capo di Stato Maggiore dell’Esercito repubblicano, per esprimere compiutamente
la «riscossa che scaturirà dal profondo intimo di questo Popolo cristiano e sinceramente
italiano, che vuole difendere i sacrosanti diritti civili e storici della sua grande
Patria». La conclusione dell’appello inviato al sottosegretario alla presidenza del
Consiglio, Barracu:
203La consegna del labaro all’associazione “La Crociata Italica”, «Corriere della Sera», 15 gennaio 1945.
Il Credo Fascista è nel nostro cuore come il Credo divino, e la giustizia farà la
luce nuovamente sul mondo, dalla face ardente sui Colli fatali di Roma, della nostra
Eterna Roma. Vogliamo combattere! I Battaglioni Crociati sapranno veramente servire
la Patria come il Duce vuole204.
204 Dal memoriale di Corrado Saibeni al sottosegretario Barracu, Cremona, 7 febbraio
1945 (ACS, Carte Barracu, f. 188).
Ma il duce preferisce che gli aspiranti crociati si limitino alla propaganda filogovernativa,
e non autorizza il progetto. Riproposto peraltro, in articulo mortis, il 23 aprile, sull’ultimo numero del settimanale, nella formula dei «Monaci crociati»,
rilanciando la suggestione medievale dei religiosi-guerrieri quali difensori privilegiati
della civiltà cristiana dalla barbarie materialista205.
205 Don Franco Panella, Lettera aperta al Patriarca di Venezia, «Crociata Italica», 23 aprile 1945.
Nel precipitare della guerra, Crociata italica si colloca apertamente contro la Chiesa
romana («Oggigiorno la S. Sede si trova ad aver allato [al suo lato] i peggiori nemici
suoi»)206, paragonata all’Anticristo, con Pio XII che accoglie «come liberatori dell’Urbe gli anglo-russi-americani, con
il seguito di mercenari d’ogni tinta e d’ogni nazionalità»207. E indica nella corrente maggioritaria del clero la quinta colonna del nemico. È
l’estremo sussulto di un movimento consapevole del proprio fallimento, religioso e
politico, ma i cui dirigenti restano sino alla fine assertori di una Chiesa da essi
identificata col nazionalsocialismo.
206 Alfio Gian, Verso l’Anticristo, «Crociata Italica», 23 aprile 1945.
207 Sac. Remo Cantelli [pseudonimo di don Carlo Barozzi], Monaci militari?, «Crociata Italica», 23 aprile 1945.
Don Calcagno, considerato scismatico, è colpito da scomunica maggiore, con bolla pontificia
del 24 marzo 1945. Il provvedimento del Sant’Uffizio – che obbliga i cattolici a cessare
ogni rapporto con lui, per non ritrovarsi essi pure scomunicati – è pubblicato sull’«Osservatore
Romano» e poi rilanciato da stampa e radio del Regno d’Italia, mentre l’informazione
della RSI ignora la notizia.
Milano, 29 aprile 1945. La fine di don Calcagno, il sacerdote che invocava la guerra
santa. Accanto a lui, il corpo di Carlo Borsani.
L’impatto della scomunica è micidiale. A inizio aprile don Calcagno, profondamente
turbato dal colpo ricevuto, abbandona la direzione del settimanale e si rifugia nel
Seminario comboniano di Crema. Qui i partigiani lo catturano per trasportarlo a Milano,
dove viene ucciso il pomeriggio del 29 aprile, all’età di 46 anni, previa constatazione
dell’identità: la celebrità acquisita attraverso «Crociata Italica» è sufficiente,
per i suoi nemici, alla condanna capitale, eseguita in piazzale Susa.
Il sacerdote scomunicato, che invocava la guerra santa come un antico profeta levatosi
contro l’Anticristo, viene abbattuto dalla nemesi. La fotografia del cadavere disarticolato
e col viso tumefatto, immobile sul marciapiede appena dopo la fucilazione, le macchie
di sangue per terra e gli schizzi sul muro, la veste talare aperta, un cartello (illeggibile)
gettato per scherno sul corpo – accanto al cadavere del cieco di guerra Carlo Borsani
– rivelano l’oscena tragicità della guerra, che annega nel sangue sia chi la voleva
sia chi la fuggiva. Fuori campo, s’intravedono la punta degli stivali e la canna di
fucile del «giustiziere».
Don Calcagno viene sepolto al campo n. 10 del Cimitero di Musocco. Nel 1949 i fratelli
ne trasleranno le spoglie a Terni, sua città natale.
Giose Rimanelli, Tiro al piccione
Incontrammo presto i partigiani; li avevamo sorpresi nelle loro baite perché Katia
ci aveva portato informazioni precise. Ci portava sempre informazioni precise Katia,
e spesso mi chiedevo come fanno le spie a essere così furbe e a sapere sempre ogni
cosa importante.
Poi cominciammo a sparare alla cieca. I ribelli, che erano usciti dalle baite, facevano
capriole e rimanevano stecchiti per sempre; altri scappavano dietro i ripari e lì
noi li prendevamo coi mortai; quelli rimanevano con la testa ficcata dentro la terra.
[...]
Ma i ribelli ci pizzicavano, e come! Era morto Marra, fuciliere dietro di me, con
un colpo di cecchino. Il cecchino imitava il miagolio del gatto, e quando il miagolio
era passato, qualcuno era rimasto a baciare la terra. Ed era morto Ortona. Ma Ortona
era morto per fare l’eroe. Lui diceva sempre di volersi riportare a casa una medaglia.
Era un ragazzo olivastro e molto forte; vinceva tutti i più forti uomini della legione
a braccio di ferro. Lo vidi scattare ventre a terra col mitra in avanti. Prese a inseguire
a fucilate una donna coi capelli tagliati come un maschio, che usciva dalla baita
in fiamme. Lei correva davanti e Ortona dietro. La donna ruzzolò due volte sulla breve
spianata, ferita, ma sempre si rialzava e riprendeva a correre. Infine si appoggiò
comodamente alla seconda baita, col corpo rattrappito, e cominciò a sparare contro
Ortona che le correva sempre incontro, come se andasse in ritardo al suo appuntamento
d’amore.
La donna sparava con tranquillità e Ortona saltabeccò varie volte lanciando muggiti.
Tuttavia si trascinò ancora, barcollando e accecato dal sangue. E quando fu a tre
passi da lei trovò la forza di spararle a bruciapelo un altro colpo. Noi vedemmo in
aria schizzare la faccia della ragazza, in aria pezzi di carne come spezzoni rossi.
Poi lo decorarono, Ortona, alla memoria. Ma lui la medaglia voleva portarsela a casa.
Giose Rimanelli, Tiro al piccione, Einaudi, Torino, 1991 (ed. or. 1953), pp. 74-75.
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