4. I rimedi alla crisi. Quattro ordini di garanzie
Esiste evidentemente un nesso tra tutti i fattori di crisi della rappresentanza, dal
basso e dall’alto, finora illustrati: tra la spoliticizzazione, la passivizzazione
e la disgregazione sociale, generate dall’indifferenza per il bene comune e dalla
cura unicamente dei propri personali interessi, e la verticalizzazione e personalizzazione
della rappresentanza celebrata quale espressione organica della volontà popolare.
Esiste un nesso perfino tra questi aspetti della crisi e i conflitti di interessi
al vertice dello Stato: legittimati dal voto elettorale, tali conflitti, che si risolvono
nella prevalenza degli interessi privati di chi governa sugli interessi generali,
finiscono per operare di fatto come modello e fonte di legittimazione dei tanti piccoli
conflitti di interessi, dei tanti egoismi e particolarismi e dei tanti primati dei
propri tornaconti personali sui pubblici interessi dei quali è intessuta e nei quali
si risolve, in assenza di senso civico, la vita associata.
È chiaro che questi processi di svuotamento della democrazia politica possono essere
contrastati soprattutto sul piano politico e culturale. Su questo terreno occorrerebbe
un forte impegno di pedagogia civile, diretto a rifondare nel senso comune i valori
del costituzionalismo democratico: del pluralismo politico, della separazione dei
poteri, dei principi di uguaglianza e dignità delle persone, del ruolo di difesa dei
diritti e degli interessi generali spettante alla politica. I processi decostituenti
sopra illustrati vanno tuttavia contrastati anche sul piano giuridico. Indicherò quattro
tipi di limiti e garanzie in grado di arginare le quattro perversioni dall’alto e
dal basso della rappresentanza fin qui analizzate e di rifondare la democrazia politica.
La maggior parte di essi sono realizzabili solo mediante interventi legislativi, certamente
oggi inverosimili e tuttavia auspicabili quanto meno nella difficile fase della ricostruzione
che occorrerà avviare dopo la fine dell’avventura berlusconiana. Taluni, tuttavia,
possono anche consistere in autoriforme dei partiti, che certamente sarebbero favorite
da leggi di sostegno ma che possono essere attuate dagli stessi partiti con semplici
riforme statutarie.
4.1. Il metodo elettorale proporzionale
In primo luogo, a tutela dell’uguaglianza in quello specifico diritto fondamentale
che è il diritto di voto e contro le tentazioni e le derive populiste che sempre insidiano
la democrazia politica, si richiede una riforma elettorale in grado di rifondare la
rappresentatività del sistema politico. La legge elettorale n. 270 del 21.12.2005,
come ho accennato nel § 2.1, è stato uno dei principali fattori di dissoluzione della
rappresentanza popolare. Oltre alla nomina dei parlamentari da parte di un piccolo
numero di capi-partito, essa prevede infatti un forte premio di maggioranza ed alte
soglie di sbarramento per le minoranze, il cui effetto è quello di falsare totalmente
il risultato delle elezioni. Stabilisce, precisamente, l’assegnazione del 55% dei
seggi della Camera alla maggioranza relativa, cioè alla maggiore minoranza, e l’esclusione dal Parlamento delle forze politiche le cui liste non raggiungano
da sole il 4% dei suffragi. In questo modo può accadere che la lista di maggioranza
relativa raggiunga per esempio il 30% dei voti, equivalente, se si tiene conto delle
astensioni, a poco più del 20% degli elettori, e ottenga tuttavia una maggioranza
assoluta di seggi così massiccia da essere accreditata dalla propaganda come espressione
del «popolo sovrano». Il solo precedente di una simile truffa è la legge Acerbo n.
2444 del 18.11.1923, poi confluita nel testo unico n. 2694 del 13.12.1923, che consegnò
il potere a Mussolini: essa prevedeva l’assegnazione dei due terzi dei seggi (356
contro 179) alla lista che avesse ottenuto il maggior numero di suffragi, purché in
numero superiore al 25% dei voti (anziché al 10% richiesto dalla legge attuale).
Una riforma democratica di questo assurdo sistema dovrebbe in primo luogo impedire,
attraverso uno specifico divieto, l’indicazione anche nelle schede elettorali, prevista
dalla legge attuale, del nome del capo della coalizione. Questa banale e sciagurata
operazione, consistita nell’assumere il nome del capo come simbolo e messa in atto
da quasi tutti i partiti italiani, è stata un fattore non secondario della personalizzazione
della politica, della trasformazione dei partiti in comitati elettorali del capo e,
soprattutto, della deriva populista della nostra democrazia: al punto da essere invocata
a sostegno di quella pretesa modifica sostanziale del sistema costituzionale che sarebbe
consistita nell’identificazione della scelta di una maggioranza con la scelta di un
capo quale espressione della volontà popolare e che, come si è visto, consente di
gridare al «colpo di Stato» in presenza di qualunque possibile soluzione parlamentare
delle crisi di governo.
Ma soprattutto occorrerebbe reintrodurre il metodo elettorale proporzionale, a garanzia
del sistema parlamentare tuttora disegnato dalla Costituzione del 1948. Soltanto la
democrazia parlamentare basata sul metodo proporzionale, favorendo lo sviluppo dei
partiti e, per il loro tramite, la rappresentanza di interessi sociali e di opzioni
politiche diverse e tra loro in virtuale conflitto, è idonea a garantire il pluralismo
politico. Sotto questo aspetto, essa è una condizione necessaria della rappresentatività
dell’intero elettorato, e non solo di maggioranze più o meno fittizie, e il più sicuro
antidoto alle fallacie ideologiche e alle involuzioni organicistiche, populistiche
e monocratiche della rappresentanza generate invece dalla sua verticalizzazione e
personalizzazione nei sistemi variamente maggioritari, bipolari e presidenziali. Solo
il metodo proporzionale è infatti in grado di rappresentare la pluralità delle opinioni
politiche, la diversità degli interessi e i conflitti di classe che attraversano l’elettorato:
in breve la complessità della società, il cui riconoscimento e il cui rispetto formano
i presupposti elementari della democrazia politica. Per questo, come scrisse Kelsen,
«il sistema della rappresentanza proporzionale costituisce la maggiore approssimazione
possibile all’ideale dell’autodeterminazione in una democrazia rappresentativa e quindi
il sistema elettorale più democratico».
L’esperienza, d’altro canto, dovrebbe aver insegnato che la deriva populista e anti-rappresentativa
del sistema politico italiano è il frutto avvelenato e il coronamento istituzionale
– nella forma e nella sostanza, nel metodo e nei contenuti – dell’opzione per il bipolarismo
e dell’ubriacatura maggioritaria. Il sistema bipolare equivale infatti a una sorta
di stampo calato sulla società, che artificialmente nega il pluralismo politico, mortifica
i dissensi, offusca le differenze degli interessi rappresentati, semplifica, in breve,
la complessità sociale, costringendo gli elettori a schierarsi con una delle due parti
in conflitto e trasformando le elezioni in una partita nella quale si vince anche
solo per un voto. Un’esigua minoranza di elettori incerti, prevalentemente spoliticizzati
e più degli altri esposti al condizionamento della propaganda, decide l’esito delle
elezioni con un altissimo grado di casualità. Al compromesso parlamentare, alla mediazione
trasparente e al confronto sui contenuti determinati dal sistema proporzionale, il
sistema bipolare sostituisce così il compromesso realizzato forzosamente a livello
sociale tramite la divisione fittizia e lo scontro a priori, animato dalla logica
dell’amico/nemico, tra poli rigidamente contrapposti. Pensiamo a cosa sarebbe avvenuto
in Italia se il sistema bipolare fosse stato introdotto all’indomani della Liberazione:
lo scontro tra destra e sinistra, tra democristiani e comunisti, sarebbe degenerato,
nel contesto della guerra fredda, in un clima di guerra civile. Solo il sistema parlamentare
e proporzionale ha garantito per mezzo secolo la convivenza pacifica e civile e lo
sviluppo della democrazia italiana.
Sarebbe perciò necessario, dopo quasi vent’anni di progressiva involuzione del nostro
sistema politico, un sereno bilancio degli effetti perversi del bipolarismo. Questo
sistema ha distrutto i partiti, ha allargato il fossato tra ceto politico e società,
ha ridotto le competizioni elettorali a guerre di spot tra coalizioni che si contendono
il centro e quindi tendono ad essere tanto più rissose quanto più devono tendere ad
omologarsi. Diversamente dal sistema proporzionale, nel quale i diversi partiti hanno
programmi diversi e rappresentano forze sociali differenti e contrapposte, nei sistemi
maggioritari i partiti maggiori sono infatti costretti ad assomigliarsi e perciò a
confliggere proprio perché simili: a svuotare i loro programmi di contenuti distintivi
per concorrere alla rappresentanza dell’elettorato incerto e moderato e perciò a dividersi
e a scontrarsi sul nulla; laddove i partiti minori sono costretti ad aderire a programmi che non condividono
e perciò a ridurre il loro ruolo di rappresentanza, acquistando in compenso un potere
di ricatto sulla coalizione vincente che del resto è simmetrico e opposto a quello
su di essi esercitato, al momento della formazione delle liste, dalle forze maggiori.
Con il risultato della massima rissosità del sistema politico congiunta alla sua massima
omologazione, sulla base di un generico moderatismo e del massimo vuoto programmatico.
Soprattutto, poi, il sistema maggioritario e bipolare, favorendo la perdita di radicamento
sociale dei partiti, la personalizzazione e la verticalizzazione della rappresentanza
e il culto del capo, ha cambiato il senso comune in tema di democrazia e di costituzione.
Il bipolarismo funziona, sia pure come sistema rappresentativo imperfetto, in paesi
di solide tradizioni liberal-democratiche basate su valori politici unanimemente condivisi:
come la separazione dei poteri, il rispetto della legalità, il pluralismo dell’informazione,
la garanzia della libera stampa e, soprattutto, la ferma e incondizionata difesa di
tutti questi principi elementari. Nell’assenza o quanto meno nella debolezza di questi
presupposti, come nel nostro paese, esso favorisce lo sviluppo della vecchia tradizione
eversiva e anarcoide della destra italiana: del populismo, della passivizzazione politica,
dell’idea del rapporto organico tra capo e popolo, che furono i tratti caratteristici
del fascismo e che tornano oggi a minacciare la nostra democrazia.
Oggi la scelta bipolare continua ad essere difesa, in Italia, dalla maggioranza delle
forze politiche, incluse, incredibilmente, una parte delle forze della sinistra che
ne hanno subito i danni maggiori. Dobbiamo invece riflettere sui guasti da essa prodotti
nell’assetto delle istituzioni rappresentative e nella società. Sono gli stessi guasti
che 90 anni fa, alle soglie del fascismo, furono denunciati da Piero Gobetti con la
sua durissima critica del sistema maggioritario – «una forma feudale» che «si esprime
nella formazione di una classe di politici facili a degenerare in una pratica di politicantismo
parassitario» – che era stato instaurato dal fascismo con la già ricordata legge Acerbo del 1923,
la quale aveva abolito il sistema proporzionale introdotto il 2 settembre 1919 insieme
al suffragio universale. La proporzionale, scrisse Gobetti, valse a «creare le condizioni
della lotta politica e del normale svolgimento dell’opera dei partiti... Il fascismo
dovette sconvolgere, per vincere, i risultati liberali conservatori di due esperimenti
proporzionalisti, e oppose all’esercito degli elettori bande di schiavi ignari dei
diritti politici. Il loro istinto di padroni guida assai precisamente i fascisti nella
lotta alla proporzionale... Dove prevale senza incertezze una maggioranza si ha nient’altro
che un’oligarchia larvata».
4.2. L’esclusione dei conflitti di interessi. Tre forme di separazione dei poteri
e di incompatibilità
In secondo luogo, contro le varie forme di confusione e concentrazione dei poteri
generate dai conflitti di interessi e contro le tentazioni assolutistiche delle maggioranze
e dei loro capi, il principale rimedio è un sistema di incompatibilità e di separazioni
ben più complesso ed efficiente di quello odierno. È infatti la separazione tra i
molteplici poteri che convivono e confliggono nelle società odierne la sola tecnica
che consente di disegnare una struttura istituzionale sufficientemente complessa e
articolata da soddisfare le molte funzioni garantiste della democrazia costituzionale.
È invece accaduto che, paradossalmente, alla crescita della complessità sociale e
delle promesse costituzionali, che avrebbe richiesto un più sviluppato sistema di
incompatibilità, hanno fatto riscontro in questi anni la semplificazione populista
e la massima confusione e concentrazione dei poteri.
Sono tre, a mio parere, le separazioni che sarebbe necessario instaurare o restaurare,
a garanzia del disinteresse personale e dell’indipendenza da impropri condizionamenti
dei pubblici poteri: tra sfera pubblica e sfera privata, tra Stato e società e tra
funzioni e istituzioni di governo e funzioni e istituzioni di garanzia. Di una quarta
separazione – quella tra poteri, siano essi politici o economici, e libertà di informazione
– parlerò più oltre, nel § 4.4.
La prima, essenziale separazione è quella tra funzioni pubbliche e grandi interessi
privati, cioè tra poteri politici e poteri economici. A tal fine è necessario un rigido
sistema di incompatibilità che sia in grado di impedire e sanzionare, con le concentrazioni
dei poteri, i conflitti di interessi e, di fatto, la prevalenza sugli interessi pubblici
degli interessi privati di chi è investito di pubbliche funzioni.
Incompatibilità di questo tipo sono previste in tutti gli ordinamenti, incluso quello
italiano nel quale tuttavia esse sono rimaste totalmente ineffettive: si ricordino,
oltre ai principi generali in tema di imparzialità e di esclusione dei conflitti di
interessi tra rappresentanti e rappresentati stabiliti dal codice civile, l’ineleggibilità,
disposta dall’articolo 10 della legge elettorale n. 361 del 30.3.1957, di «coloro
che in proprio o in qualità di rappresentanti legali di società o di imprese private
risultino vincolati con lo Stato... per concessioni o autorizzazioni amministrative
di notevole entità economica», quali quelle richieste alle imprese televisive. Certamente
sarebbe oggi necessario un sistema di incompatibilità assai più ricco e articolato:
non solo tra poteri pubblici e poteri privati, ma anche tra cariche pubbliche diverse,
oggi assai spesso accumulate dalle medesime persone. Purtroppo, tuttavia, anche le
norme esistenti sono sempre state ignorate dalle Commissioni parlamentari di verifica
dei poteri, chiamate chiaramente a giudicare in casa propria. Quelle che mancano in
Italia, contro simili conflitti di interessi, sono perciò non tanto le garanzie primarie
o sostanziali, quanto piuttosto le garanzie secondarie o giurisdizionali, essendo
i controlli sull’eleggibilità affidati, quali interna corporis, alle stesse assemblee elettive, in tal modo investite esse stesse da un ulteriore
conflitto di interessi. Solo istituzioni di garanzia indipendenti, esterne all’organo
rappresentativo – come sono, per esempio in Messico, il Tribunal Electoral del Poder
Judicial e l’Instituto Federal Electoral, istituiti nel 1996 – potrebbero decidere
imparzialmente e credibilmente sulle controversie successive alle elezioni, su tutte
le questioni relative alla regolarità dei procedimenti elettorali e, prima delle elezioni,
sull’uguale accesso agli spazi della comunicazione politica e sulla regolarità e la
trasparenza dei finanziamenti ai partiti.
C’è poi una seconda separazione che dovrebbe essere introdotta a garanzia della rappresentatività
delle istituzioni politiche, del ruolo di mediazione dei partiti e dell’esclusione
di un secondo tipo di conflitti tra interessi personali e interessi pubblici: l’incompatibilità
tra cariche di partito e cariche pubbliche elettive, onde impedire l’interesse personale
dei titolari delle prime ad autoeleggersi quali titolari delle seconde. Contro la
crisi della mediazione rappresentativa provocata dall’integrazione dei partiti nello
Stato e dagli attuali meccanismi elettorali di autodesignazione e cooptazione, aggravati
in questi anni dall’enorme espansione del ceto politico e dalla crescita delle sue
retribuzioni e privilegi, il solo rimedio è garantire la distinzione, e con essa il
rapporto di rappresentanza e di responsabilità, tra partiti e istituzioni elettive,
restituendo i partiti al loro ruolo di organi della società: quali soggetti da tali
istituzioni rappresentati, e non anche quali soggetti essi stessi rappresentanti;
quali organi non più dello Stato, bensì delle forze sociali che essi hanno il compito
di organizzare per consentire ai cittadini, come richiede l’articolo 49 della Costituzione
italiana, di «concorrere a determinare la politica nazionale». E questo può avvenire
solo introducendo una separazione non meno importante di quella tra poteri politici
e poteri economici: la separazione tra rappresentati e rappresentanti, tra forze politiche
e sociali e poteri istituzionali rappresentativi, garantita da una rigida incompatibilità
tra cariche di partito e funzioni pubbliche, tra dirigenti di partito e rappresentanti
eletti nelle istituzioni rappresentative.
Solo questa incompatibilità tra cariche di partito e cariche istituzionali varrebbe
a restituire i partiti alle loro funzioni di mediazione rappresentativa tra sfera
pubblica e società: quali partiti sociali, oltre che politici, deputati ad operare,
con la partecipazione degli iscritti, le grandi opzioni politiche, a formulare i programmi,
a formare le liste dei candidati, a organizzare le elezioni e ad esercitare un controllo
esterno e dal basso sui rappresentanti eletti, ma proprio per questo esclusi, onde
assicurarne la collocazione sociale quali soggetti rappresentati e non rappresentanti,
dall’esercizio diretto delle funzioni istituzionali di governo. Solo questa esclusione
e questa alterità, in forza delle quali chi si candida alle funzioni rappresentative
dovrebbe lasciare le cariche di partito e viceversa, varrebbero a produrne una reciproca
autonomia, benefica e salutare per entrambe: per le funzioni dei rappresentanti, che
ne risulterebbero investiti di una responsabilità ben più visibile e diretta nei confronti
dei partiti rappresentati; per i partiti, che recupererebbero il loro ruolo di organizzazioni
direttamente sociali, strumenti della partecipazione politica dei cittadini, interpreti
dei loro bisogni, privi di responsabilità di governo ma appunto per questo fonti e
fattori di responsabilizzazione, rispetto agli indirizzi politici da essi stessi elaborati,
di quanti sono stati eletti sulla base delle candidature da essi formulate.
In terzo luogo andrebbe ripensata e ridisegnata la classica separazione montesquieviana
tra i pubblici poteri: quella tra potere legislativo, potere esecutivo e potere giudiziario,
originariamente diretta a garantire l’autonomia e il primato del potere legislativo
e rappresentativo dal potere esecutivo, impersonato dal monarca, e l’indipendenza
da entrambi del potere giudiziario. Oggi quella tripartizione, elaborata più di due
secoli e mezzo fa con riferimento a un assetto istituzionale incomparabilmente più
semplice di quello delle odierne democrazie costituzionali, è del tutto inadeguata
a dar conto della complessità della sfera pubblica degli attuali ordinamenti e a fondare
la legittimazione dei diversi tipi di potere. È inadeguata sul piano descrittivo, dato che è smentita da tutti i sistemi politici democratici, nei quali l’esecutivo
ha la stessa legittimazione elettorale del legislativo e il rapporto tra esecutivo
e legislativo, soprattutto nei regimi parlamentari, è assai più di con-divisione che
di separazione. Ma è inadeguata anche sul piano assiologico, essendo state assegnate alla sfera pubblica un’enorme quantità di funzioni che certamente
non rientrano nella vecchia tripartizione quale fu formulata nel Settecento e poi
istituita nelle costituzioni del vecchio stato liberale di diritto, quando la sfera
pubblica consisteva essenzialmente in un insieme di poteri e di limiti imposti al
loro esercizio, a garanzia dei soli diritti di libertà da costrizioni o interferenze.
Oggi le funzioni della sfera pubblica si sono moltiplicate. Con lo sviluppo dello
stato sociale e la costituzionalizzazione di diritti a prestazioni positive, come
per esempio i diritti alla salute e all’istruzione, si è venuta sviluppando, accanto
alla sfera pubblica dei divieti e dei limiti negativi, una sfera ben più articolata
e complessa di obblighi e vincoli positivi. Si è perciò aggiunta, a quella che ho
più sopra chiamato la sfera dell’indecidibile che, una sfera dell’indecidibile che non: alla sfera di ciò che ai pubblici poteri è vietato, cioè la lesione o limitazione
dei diritti di libertà, la sfera di ciò che per essi è obbligatorio, cioè la soddisfazione
pubblica dei diritti sociali.
Ben più della classica separazione montesquieviana tra potere legislativo, potere
esecutivo e potere giudiziario, è quindi oggi essenziale un’altra distinzione e separazione,
quella tra funzioni e istituzioni di governo e funzioni e istituzioni di garanzia, fondata sulla diversità delle loro odierne fonti di legittimazione: la rappresentatività politica delle prime, siano esse legislative o esecutive, e la soggezione alla legge, e in particolare all’universalità dei diritti fondamentali costituzionalmente stabiliti,
delle seconde. Se infatti la comune legittimazione politica e rappresentativa giustifica forme
più o meno accentuate di condivisione anziché di separazione tra funzioni legislative
e funzioni esecutive, entrambe configurabili come funzioni di governo, le funzioni di garanzia di cui s’impone la separazione si sono oggi estese ben al di là delle classiche funzioni giurisdizionali di garanzia secondaria, fino ad includere tutte le funzioni generate dalla crescita dello stato sociale:
la scuola, la salute, la previdenza e simili. Tutte queste funzioni amministrative di garanzia primaria, non consistendo certamente in funzioni legislative o giudiziarie e non essendo altrimenti
collocabili entro la vecchia tripartizione settecentesca, si sono storicamente sviluppate
alle dipendenze dell’esecutivo sotto l’etichetta onnicomprensiva di «Pubblica Amministrazione».
Ma è chiaro che esse, si pensi all’istruzione e alla sanità pubblica, non essendo
legittimate, come le funzioni di governo, dal principio di maggioranza, ma dall’applicazione
imparziale della legge e dal loro ruolo di tutela, anche contro la maggioranza, dei
diritti fondamentali di tutti, sono funzioni di garanzia, delle quali dovrebbe essere
assicurata l’indipendenza e la separazione dal potere esecutivo.
4.3. La democrazia interna ai partiti e le forme di democrazia partecipativa
In terzo luogo, contro la spoliticizzazione dell’opinione pubblica e la disgregazione
politica e sociale, si richiede una rivitalizzazione del rapporto tra società e istituzioni
rappresentative quale può provenire soltanto da una rifondazione dei partiti politici.
In democrazia, ha scritto Hans Kelsen, «il partito politico è uno strumento essenziale
per la formazione della volontà pubblica». Senza i partiti la democrazia politica non può funzionare. Oggi i partiti, non solo
in Italia, stanno attraversando una crisi epocale di credibilità e di rappresentatività,
tanto da far supporre che il loro ruolo di strumenti di organizzazione politica della
società sia legato a circostanze storiche del passato: alla loro fase originaria,
quando nacquero come partiti operai e organizzazioni di classe, e poi, dopo la Liberazione,
allorquando il personale politico proveniva dall’esilio, dalle carceri fasciste e
dalla Resistenza: in breve, quando la selezione dei loro dirigenti era prodotta da
circostanze che escludevano come impensabile che il loro impegno nella politica potesse
essere originato o condizionato da interessi personali o di potere, o anche solo di
carriera. Quelle circostanze storiche sono oggi venute meno, e sono irripetibili.
La crisi dei partiti originata dalla trasformazione dei gruppi dirigenti in caste
privilegiate separate dalla loro base sociale è perciò così grave che non può essere
superata, se non si vuole che travolga la democrazia politica, se non con riforme
radicali: prima tra tutte quella già illustrata dell’incompatibilità tra cariche di
partito e cariche istituzionali che certamente avrebbe l’effetto di eliminare l’interesse
personale all’autocandidatura e di restituire il partito al suo ruolo costituzionale
di organizzazione dal basso della partecipazione dei cittadini alla vita politica.
È insomma necessario, se vogliamo che questo ruolo non si capovolga in quello di un
diaframma corporativo e burocratico tra istituzioni e società, che i partiti tornino
ad essere associazioni di base, generate da comuni opzioni ideali e in grado di promuovere,
grazie alla vita associativa, l’impegno collettivo e la passione politica. L’incompatibilità
per legge tra funzioni di partito e funzioni pubbliche, in passato affidata almeno
in parte al senso morale del ceto politico, è a tal fine assolutamente necessaria,
ma non è sufficiente. Si richiede altresì una legge sulla democrazia interna dei partiti.
C’è un vecchio luogo comune che occorre sfatare: l’idea che in tema di diritti politici
e di rappresentanza le garanzie giuridiche non servirebbero e sarebbero anzi lesive
della libera autodeterminazione politica. L’autentica, spontanea organizzazione della
«volontà popolare» rifiuterebbe qualunque tipo di regolazione giuridica. Una simile
ideologia dell’autoregolazione ha potuto essere a lungo condivisa in Italia solo perché,
alle origini della Repubblica, il livello morale del personale politico, formatosi
nella lotta antifascista, era incomparabilmente superiore a quello della maggior parte
del ceto politico odierno.
Purtroppo l’esperienza ha fornito da tempo una dura smentita di quella illusione.
Essa ci ha mostrato che l’autoregolazione statutaria non è sufficiente a impedire
la degenerazione dei partiti in oligarchie intolleranti del dissenso e indisponibili
al ricambio dei dirigenti se non per cooptazione di vertice; che le norme statutarie
di garanzia sono di solito inadeguate o ineffettive; che solo l’eteronomia di una
legge statale è in grado di imporre effettive garanzie contro la personalizzazione
e la concentrazione dei poteri decisionali nelle mani di un capo o di gruppi ristretti
di dirigenti. Una simile legge dovrebbe prevedere, oltre all’incompatibilità tra cariche
di partito e pubbliche funzioni, il rispetto di taluni essenziali vincoli statutari
in tema di democrazia interna dei partiti, quanto meno come condizione del finanziamento
pubblico. Ne risulterebbero garantite, oltre all’autonomia dei partiti e alla loro
democrazia interna, la loro capacità di attrazione e di organizzazione della società:
liberi i partiti, ove rinuncino al finanziamento pubblico, di organizzarsi come sette
o di affidarsi al culto di un capo; obbligati invece a soddisfare i principi di democrazia
stabiliti dalla legge quei partiti che intendono godere del finanziamento pubblico.
Del resto il «metodo democratico» tramite il quale «i cittadini hanno diritto di associarsi
liberamente in partiti per concorrere... a determinare la politica nazionale» è richiesto
dall’articolo 49 della Costituzione, in coerenza con le funzioni pubbliche e non certo
private che dai partiti sono svolte.
La partecipazione politica e l’autorganizzazione sociale, d’altro canto, possono essere
promosse anche attraverso lo sviluppo di nuove forme di cittadinanza attiva e di democrazia
partecipativa, basate sul diretto intervento dei cittadini nei processi decisionali:
sulla loro pressione dal basso, esercitata da movimenti e associazioni attraverso
il dibattito pubblico intorno a temi specifici, oppure sul loro coinvolgimento dall’alto,
attraverso consultazioni, assemblee o inchieste promosse dai partiti o dalle amministrazioni
pubbliche. Il principale ostacolo a queste forme di democrazia partecipativa è non tanto la
passività politica e il qualunquismo generati dalla crisi sopra illustrata dello spirito
pubblico: nonostante lo sviluppo di questi fenomeni, esistono tuttora innumerevoli
forme di associazionismo e di volontariato, ed anche di mobilitazione di massa, ispirate
alla difesa degli interessi generali ed espressioni di una sicura disponibilità di
base alla partecipazione politica e all’impegno civile. Ciò che si oppone a questa
disponibilità è la chiusura delle istituzioni politiche e degli stessi partiti: una
impermeabilità alle sollecitazioni esterne che potrà essere incrinata solo da una
forte pressione sociale e da una battaglia culturale diretta a rifondare la legittimità
delle forze politiche sulla loro capacità di aprirsi al confronto e al controllo di
tutti i soggetti interessati alle decisioni pubbliche e di lasciarsi orientare e influenzare
dalle loro domande e dal dibattito da essi promosso.
4.4. La riforma del sistema dell’informazione. La libertà di informazione e le garanzie
della sua indipendenza
C’è infine un quarto ordine di rimedi alla crisi odierna della democrazia, quale si
manifesta nella degenerazione del sistema dell’informazione provocata dal doppio controllo,
politico e proprietario, che come si è detto grava sui media e in particolare sulla
televisione.
Contro questa duplice patologia va in primo luogo ribadita l’incompatibilità tra funzioni
politiche e grandi interessi privati, soprattutto se di rilevanza pubblica, e perciò
la separazione tra poteri politici e poteri mediatici, tanto più essenziale in presenza
del crescente condizionamento dei secondi da parte dei primi. Ed è necessario, in
secondo luogo, che la legge preveda un divieto di concentrazione delle testate ben
più rigido di quello previsto dall’attuale legislazione. Se la funzione dei mezzi
d’informazione è fornire informazioni e opinioni, non si capisce perché non debba
essere sufficiente a tal fine la proprietà di una sola testata e perché i maggiori
investimenti non debbano essere diretti a rafforzarla, accrescendone qualità e diffusione,
anziché ad acquistare e perciò a controllare e a neutralizzare le testate concorrenti.
Una simile garanzia dell’informazione – la preclusione a chiunque della proprietà
privata di più di un quotidiano o di una rete televisiva – è comunque la sola misura
in grado di assicurare un effettivo pluralismo e un’effettiva differenziazione dei
mezzi di informazione. Già oggi, del resto, mentre nelle comuni attività imprenditoriali
è vietato dall’articolo 82 del Trattato della Comunità Europea «lo sfruttamento abusivo
da parte di una o più imprese di una posizione dominante sul mercato comune», in materia
di imprese giornalistiche e televisive sarebbe preclusa, perfino in Italia, dalla
sentenza della Corte costituzionale n. 420 del 1994 e poi dall’articolo 2 della legge
n. 249 del 1997 la stessa «formazione di posizioni dominanti», chiaramente prodottasi in capo al presidente del Consiglio
e ulteriormente aggravata dalla legge Gasparri del 2003. Quanto poi alle economie
di scala nelle infrastrutture necessarie all’informazione televisiva – reti, cavi,
radiofrequenze, satelliti e simili – con cui di solito vengono giustificate le concentrazioni,
esse ben potrebbero essere realizzate affidandone l’installazione, la manutenzione
e in generale la gestione economica alla sfera pubblica (come la rete stradale o quella
ferroviaria) o anche, come si sta sperimentando in Germania, a consorzi neutrali aperti
a tutte le imprese.
Ma il divieto di concentrazione delle testate non è sufficiente a garantire l’indipendenza
dell’informazione e il suo ruolo democratico. Se è vero che la libertà di informazione
è un diritto fondamentale di rango costituzionale, in quanto tale sopraordinato ai
poteri politici e ai poteri economici, è il rapporto tra libertà fondamentale di (e
diritto alla) informazione e proprietà dei media, e non soltanto tra informazione
e poteri di governo, che va oggi ripensato e ribaltato se si vuole impedire il collasso
della democrazia. È l’antico, irrisolto problema, sollevato nei §§ 2.4 e 3.4, della
concezione e della disciplina proprietaria dell’informazione, reso drammaticamente
centrale e ineludibile, nelle odierne democrazie, dallo sviluppo della televisione,
divenuta ormai lo spazio pubblico per eccellenza e dotata di una capacità di invadenza,
di influenza e suggestione incomparabile con quella dei giornali. In accordo con questa
concezione, sono accorpati e confusi in un unico diritto due diritti strutturalmente
distinti e tra loro virtualmente in conflitto: la libertà di informazione e di manifestazione
del pensiero, che è un diritto fondamentale di libertà di chi fa informazione e manifesta
il «proprio» pensiero, e la proprietà dei media, che è un diritto patrimoniale singolare
dell’impresa giornalistica o televisiva. Il risultato è un capovolgimento della gerarchia
costituzionale dei diritti: la libertà di informazione e di espressione del pensiero,
che è la più classica delle libertà fondamentali, viene di fatto sottoposta a un diritto-potere
quale è quello della proprietà dei mezzi di informazione, che con la prima tende ad
auto-identificarsi, comprimendola insieme al diritto dei cittadini a un’informazione
libera e indipendente.
Naturalmente la soluzione di questo problema non è facile. Ma sarebbe quanto meno
necessaria la consapevolezza di una simile aporia. Questa consapevolezza consiste
nel riconoscimento che la proprietà imprenditoriale dei media, riguardata sia come
diritto di libera iniziativa economica che come diritto patrimoniale reale, consiste
in un potere. E che perciò ci sono almeno due regole, consegnateci dalla tradizione
teorica dello stato di diritto, cui tale potere deve essere sottoposto, come ogni
altro potere, onde ne sia impedita l’accumulazione in forme assolute. La prima regola
è la sua soggezione alla legge, cioè a limiti e a vincoli idonei a garantire la libertà
di informazione, non meno del diritto di tutti, oltre che del pubblico interesse,
a un’informazione libera e indipendente. La seconda regola è la separazione dei poteri,
che è poi la vecchia ricetta di Montesquieu che non può non essere estesa a quel «quarto
potere» che è la stampa e più che mai la televisione, affinché esso sia realmente
«quarto», cioè indipendente, oltre che dal potere politico, anche dal potere economico
della proprietà. L’indipendenza e la separazione dalla proprietà dei media della libertà
di informazione sono infatti a questa non meno essenziali di quanto l’indipendenza
e la separazione dal potere esecutivo lo siano per il potere giudiziario. Di più:
libertà di informazione e indipendenza dell’informazione sono esattamente la medesima
cosa.
Per questo occorrerebbe oggi una campagna dell’opposizione e della libera stampa che
ponesse all’ordine del giorno, come primo problema, quello delle garanzie dell’indipendenza
della libertà di informazione dalla proprietà e rivendicasse a tal fine un adeguato
statuto dei diritti dei giornalisti e dei lettori. Sono molte e svariate le garanzie
che tale statuto potrebbe introdurre, onde neutralizzare o comunque ridurre il potere
della proprietà: l’elezione o almeno il concorso decisivo delle redazioni nella nomina
dei direttori delle testate, nella forma, per esempio, del potere di scelta tra le
proposte avanzate dalla proprietà oppure, inversamente, del potere di sottoporre proposte
vincolanti alla scelta della proprietà; l’istituzione, accanto all’antitrust, di autorità di garanzia indipendenti, elette dai giornalisti e non già da organi
politici e specificamente deputate a impedire le concentrazioni palesi od occulte
e a tutelare la libertà dei giornalisti e l’autonomia delle redazioni; il divieto
di licenziamenti arbitrari, di discriminazioni e di censure per il merito delle opinioni
espresse; il divieto di ingerenza della proprietà sulle decisioni e gli orientamenti
delle redazioni in ordine ai contenuti dell’informazione e alle programmazioni televisive.
C’è infine un’ultima riforma, tanto semplice quanto efficace per sollevare la qualità
del sistema giornalistico e televisivo e garantirne l’indipendenza: il finanziamento
pubblico delle testate – giustificato, aggiungo, in misura ben maggiore di quello
attuale dal ruolo pubblico dell’informazione – in misura inversamente proporzionale
agli introiti pubblicitari e agli spazi riservati alla pubblicità. Questo tipo di
finanziamento, condizionato in tutti i casi all’assenza di controlli padronali, oltre
a rafforzare l’indipendenza delle redazioni, varrebbe anche a favorire le testate
di pura informazione e a distinguerle chiaramente dalle testate e dalle televisioni
commerciali.
Infine, accanto al massimo pluralismo delle televisioni private, andrebbe rafforzato
il servizio pubblico con una politica esattamente opposta a quella delle privatizzazioni
oggi da più parti proposta. C’è una norma nella Costituzione italiana, l’articolo
43, che sembra pensata proprio per l’informazione televisiva, pur se fu scritta quando
ancora la televisione non esisteva: «Ai fini di utilità generale la legge può riservare
originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato,
ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie
di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia
o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale».
Quale mai «servizio pubblico» è più «essenziale» e ha maggiormente «carattere di preminente
interesse generale» di quella che ormai è diventata l’odierna arena politica, cioè
lo spazio pubblico più visibile, più affollato, più invadente e più decisivo del dibattito
politico e della formazione del consenso? Non dimentichiamo che fu proprio su questa
norma che per decenni la Corte costituzionale italiana fondò la legittimità del monopolio
statale del servizio radiotelevisivo su scala nazionale. La «riserva allo Stato» di
tale servizio, essa affermò nella sentenza n. 148 del 21.7.1981, si giustifica «in
vista del fine di utilità generale costituito dalla necessità di evitare l’accentramento
dell’emittenza radiotelevisiva in monopolio od oligopolio privato». E aggiunse, con
lungimiranza: «L’asserito aumento della disciplina delle frequenze non appare infatti
elemento determinante per escludere il pericolo di oligopoli privati, in quanto una
serie di fattori di ordine economico, con la utilizzazione del progresso della tecnologia,
fa permanere i rischi di concentrazione oligopolistica attraverso lo strumento della
interconnessione e degli altri ben noti mezzi di collegamento di vario tipo oggi esistenti
per le trasmissioni televisive».
Non si tratta, ovviamente, di ristabilire il monopolio statale, ma semplicemente di
evitare gli «oligopoli privati» paventati in Italia, trenta anni fa, dalla Corte costituzionale:
paventati peraltro, dobbiamo riconoscere a distanza di trent’anni, con una preveggenza
ottimistica, visto che quegli oligopoli si sono in realtà trasformati, di fatto, in
un sostanziale monopolio politico-privato. Si tratta, al contrario, di assicurare
la libera concorrenza tra imprese televisive private grazie a un loro effettivo pluralismo,
in aggiunta a una forte televisione pubblica. D’altro canto, proprio perché «servizio
pubblico» destinato a «fini di utilità generale» – non già, dunque, «azienda commerciale»,
bensì luogo pubblico per eccellenza, di cui andrebbe garantito il ruolo di contropotere,
ossia di strumento imparziale di informazione, di critica e di controllo sul potere,
libero da censure e discriminazioni interne e da costrizioni o imposizioni esterne
– la televisione pubblica ben potrebbe essere emancipata dall’attuale dipendenza dalla
pubblicità, tornando ad essere una televisione prevalentemente non commerciale a sostegno
della quale si giustifica il pagamento del canone. È poi evidente che il principio
della separazione e del bilanciamento dei poteri richiederebbe un’amministrazione
della televisione pubblica affidata non già, come oggi, a un organo di nomina politica
e perciò espressione della maggioranza o, nel migliore dei casi, della lottizzazione
partitica, bensì a un’istituzione di garanzia separata organicamente dalle istituzioni
di governo, garante al tempo stesso dell’indipendenza dei giornalisti, del pluralismo
politico e della massima ed uguale possibilità di accesso per tutti.
Separare e garantire la libertà dell’informazione dalla proprietà; istituire autorità
di garanzia finalizzate all’effettiva tutela della libertà di stampa e di informazione;
impedire ogni forma di concentrazione della proprietà dei media; trasformare le frequenze
in beni pubblici parimenti accessibili a tutti; favorire con adeguati finanziamenti
inversamente proporzionali agli introiti pubblicitari e con la creazione di impianti
e di infrastrutture comuni le televisioni non commerciali; affermare il carattere
oggettivamente pubblico della televisione in quanto tale e allargare lo spazio del
servizio televisivo in mano pubblica: sono soltanto alcune delle possibili riforme
volte a fronteggiare il pericolo incombente del grande fratello. Sono riforme difficili,
dato che urtano contro potenti interessi consolidati. Ma che almeno si prenda coscienza
dei termini drammatici del problema. Sono in gioco, su questo terreno, le libertà
fondamentali e la democrazia.