Edizione: 2021 Pagine: 248, con ill. Collana: Economica Laterza [960] ISBN carta: 9788858144046 ISBN digitale: 9788858145708 Argomenti: Attualità culturale e di costume, Linguistica e semiotica
Guida all'uso delle parole
Parlare e scrivere semplice e preciso per capire e farsi capire
«Chi scrive per dire qualcosa di utile agli altri, anche a uno solo, si chieda, finita la prima stesura, se le parole e frasi che ha scelto sono le più adatte al destinatario, le più adatte a farlo entrare nel senso che gli si voleva comunicare.»
Un grande classico del più grande linguista italiano per imparare a scrivere e parlare in modo semplice e preciso.
Tullio De Mauro, linguista di fama internazionale, ha insegnato Filosofia del linguaggio e Linguistica generale nell’Università Sapienza di Roma, che gli ha conferito il titolo di professore emerito. È stato presidente della Fondazione Bellonci e presidente onorario della Rete italiana di cultura popolare, Accademico della Crusca, socio corrispondente dell’Accademia dei Lincei e doctor honoris causa in molte università nel mondo. Per UTET ha pubblicato il Grande dizionario italiano dell’uso (8 volumi). Per Laterza è curatore del Corso di linguistica generale di De Saussure e autore di saggi fondamentali, alcuni più volte ristampati e tradotti in molte lingue, tra cui Storia linguistica dell’Italia unita, Minisemantica, La cultura degli italiani (a cura di F. Erbani) e Storia linguistica dell’Italia repubblicana dal 1946 ai nostri giorni.
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CONSTANTER ET NON TREPIDE
Un monito scelto dalla famiglia Laterza come esortazione alla tenacia e ad una costante crescita.
Nota editoriale
Tullio De Mauro scrisse e pubblicò Guida all’uso delle parole nel 1980 per la collana «I libri di base» degli Editori Riuniti, che allora dirigeva.
L’ultima edizione rivista dal suo autore porta la data del 2003 ed è questa edizione
che viene qui riproposta al lettore.
Per un quadro aggiornato dei dati sociolinguistici si può leggere la Postfazione e
la Storia linguistica dell’Italia repubblicana pubblicata da De Mauro nel 2014 presso Laterza.
La presente edizione pubblica in appendice l’elenco alfabetico dei circa settemilacinquecento
vocaboli del Nuovo vocabolario di base della lingua italiana, uscito per la prima
volta nel dicembre 2016 sul sito di «Internazionale».
A distanza di molti anni dalla prima pubblicazione la nuova versione del vocabolario
di base è fondata su un rinnovato, aggiornato e ampliato campionamento di testi e
sulla miglior classificazione delle parole risultante dal Gradit (Grande dizionario italiano della lingua dell’uso, 2ª edizione, 8 volumi, Utet, Torino 2007) e dal dizionario online di «Internazionale».
Avvertenza
A partire dall’11a edizione, apparsa nel 1991, nelle edizioni successive questa Guida ebbe solo minimi ritocchi formali. E anche questa edizione del 2003, rinnovata nella
grafica, non modifica il testo. All’aggiornamento di dati (sull’istruzione, la lettura,
l’uso di dialetti e lingua) provvede invece la Postfazione (da pagina 213 a pagina 225) e provvedono, direttamente o indirettamente, le Altre letture (pagine 226 e 227).
Vorrei qui ringraziare coloro che collaborarono alle varie parti di questo libro.
Stefano Gensini ed Emilia Passaponti lavorarono a una prima selezione del vocabolario
di alta disponibilità entro il vocabolario di base (pagine 157-211). Sandro e altri
operai degli Editori Riuniti mi aiutarono a verificare tale selezione e la comprensibilità
delle parole del vocabolario fondamentale. Massimo Vedovelli collaborò a verificare
nelle terze medie, dal Nord al Sud, la effettiva comprensibilità del vocabolario di
alta frequenza. Emanuela Piemontese, Piero Lucisano e i partecipanti ai lavori dei
seminari intercattedra di filosofia del linguaggio e pedagogia della Sapienza migliorarono,
con proposte di integrazione e soppressione, la lista. Anna Thornton lavorò a dotare
i vocaboli di qualifiche grammaticali. Nel 1990, per la sua tesi di laurea, Nicola
Mastidoro elaborò un programma per la rilevazione automatica del vocabolario di base,
diventato poi perno dei lavori di analisi automatica della leggibilità che offre Eulogos
(info@eulogos.net). Altri hanno riprodotto, usato e quindi verificato la lista dei
vocaboli di base, e così del resto ho avuto modo di fare io stesso in dizionari maggiori
e massimi di cui si dice nella Postfazione.
A più riprese per aggiornare le tabelle statistiche del testo mi ha aiutato Tiziana
Fiorucci. Come per tutti gli altri «Libri di base», anche per questa Guida ogni pagina fu discussa con puntigliosa e generosa tenacia e con intelligenza e concretezza
di vecchio lupo della cronaca giornalistica (ma era, eravamo giovani) da Lilli Bonucci,
caporedattore dei «Libri di base», amica e compagna preziosa. Lilli fu individuata
e chiamata, con un colpo di genio editoriale, da Roberto Bonchio, allora responsabile
della casa editrice. Bonchio a ragione temeva che, senza di lei, senza un tipo come
lei, l’intera impresa avrebbe rischiato di impantanarsi tra velleità, arzigogoli e
astratti furori.
Sono grato all’editore che ripropone ancora questo libro. Il tempo è passato. Ma non
sono passate, anzi si sono fatte più forti, più evidenti, in Italia e nel vasto mondo,
le ragioni che allora ci guidarono nel lavorare per dare «tutti gli usi della parola
a tutti», come diceva e ancora ci dice Gianni Rodari.
t.d.m.
giugno 2003
1. Parlare non è necessario
Parlare non è necessario. Scrivere lo è ancora meno. Per milioni di anni gli antenati
degli esseri della specie umana hanno vissuto sulla Terra gridando come gli altri
animali, ma senza parlare. Non sappiamo bene quando sono apparse fra le altre scimmie
quelle che meritano, secondo le nostre vedute scientifiche d’oggi, il nome di esseri
umani. Pare comunque certo che questo evento si è compiuto più di un milione di anni
fa. Nemmeno sappiamo bene quando i gruppi umani più antichi sono passati dal grido
alle parole. C’è chi abbassa molto la data dell’apparizione della parola, fino ad
arrivare a qualche decina di migliaia di anni fa. C’è invece chi pensa a date parecchio
più antiche. In ogni caso, ne sappiamo abbastanza per affermare che per centinaia
di migliaia di anni esseri molto simili alle donne e agli uomini di oggi hanno vissuto
sulla Terra senza parola. Essi sapevano camminare su due gambe. Avevano, cioè, la
‘stazione eretta’. Come noi, mangiavano già cibi di natura varia e usavano materiali
per costruire strumenti. Con l’aiuto di tali strumenti fabbricavano ripari, altri
strumenti, armi da caccia, da difesa, da offesa. Dunque, per aspetti essenziali erano
già come noi. Ma quasi certamente non parlavano.
Poi comparve la parola. Dopo di allora passarono certamente decine e decine di migliaia
di anni. Finalmente i lontani discendenti dei primi esseri umani che avevano parlato
sentirono il bisogno di fissare, di far durare in qualche modo le parole che fino
ad allora erano state solo dette e udite. Li spinsero a ciò ragioni religiose, come
il bisogno di determinare e tramandare la forma dei riti, delle cerimonie, delle preghiere,
e ragioni economiche, come definire proprietà, contratti, conti, ecc.
Per soddisfare questi bisogni nacquero circa 4.000 anni prima di Cristo le prime scritture,
su pietra, tavolette di argilla, legno. Furono inizialmente scritture ‘ideografiche’.
Gli ‘ideogrammi’, come per esempio i ‘geroglifici’ degli antichi Egizi o quelli in
uso in Cina ai nostri giorni, non indicano il suono di ciascuna parola, ma piuttosto
l’idea, il suo significato.
Ogni parola aveva un suo ideogramma. Leggere e scrivere era un’arte riservata a pochi.
Preti e sacerdoti, scrivani e copisti erano i professionisti dello scrivere e del
leggere.
Passarono secoli. Poi, in una regione che pare debba collocarsi a metà strada fra
Egitto e Israele, nella penisola del Sinai, dalle scritture geroglifiche furono ricavati
i segni del primo alfabeto, le ‘lettere’, ciascuna capace di individuare un suono
e di distinguerlo dagli altri suoni della lingua.
Le parole di una lingua sono migliaia e migliaia, come poi torneremo a vedere meglio.
Di conseguenza, migliaia e migliaia debbono essere i segni ideografici. In teoria,
ogni parola ha il suo ideogramma, il suo disegnetto necessario a fissarla per iscritto.
Imparare, ricordare, sapere usare e riconoscere migliaia di ideogrammi era ed è un’arte
difficile. Perciò era cosa riservata a pochissimi eletti e professionisti.
L’invenzione della scrittura alfabetica fu una vera, grande e pacifica rivoluzione.
Un comune vocabolario scolastico italiano o francese o inglese, ecc. contiene dalle
cinquantamila alle centomila parole diverse. Tutte queste decine di migliaia di parole
sono scritte combinando poche decine di lettere: l’alfabeto italiano, per esempio,
ha appena ventuno lettere.
Il fatto è che le lingue hanno sì migliaia, anzi decine di migliaia di parole diverse;
ma il corpo delle parole, il seguito di suoni con cui distinguiamo ciascuna parola
dalle altre e al quale diamo il nome tecnico di ‘significante’, è costruito con un
numero molto limitato di tipi diversi di suoni. Combinando poche vocali e qualche
decina di consonanti costruiamo raggruppamenti nei quali la diversità è garantita
da due fatti: la diversa natura dei suoni e il loro diverso ordine. Per esempio gatto e rive sono due parole fatte di suoni diversi: si distinguono perché i suoni sono diversi.
Ma rive e veri sono due parole fatte degli stessi suoni. Tuttavia non le confondiamo tra loro perché
è diverso l’ordine in cui i suoni sono collocati. Questa diversità di ordine basta
a garantire la diversità dei significanti delle due parole.
La scoperta della scrittura alfabetica ha permesso di riprodurre per iscritto questo
stesso meccanismo. Non più un segno per ogni parola, ma un segno per ogni tipo di
suono: dunque pochi segni, variamente raggruppati, per riprodurre gli innumerevoli
diversi significanti di ciascuna parola.
L’invenzione dell’alfabeto è avvenuta verso la fine del secondo millennio avanti Cristo.
Da allora, scrivere e leggere è stato molto più facile. Non solo sacerdoti e scribi,
ma anche commercianti, artigiani, agricoltori hanno potuto cominciare a imparare l’arte
dello scrivere. Una parte di gente, in ciascun popolo, di generazione in generazione
ha fatto largo uso dell’alfabeto. La scrittura ha permesso di fissare in testi scritti
i racconti, le storie, le leggi, le notizie tecniche, le osservazioni scientifiche,
i consigli.
Dal Sinai l’arte della scrittura passò ai Fenici. Questi la diffusero nel Mediterraneo
e, in particolare, la passarono ai Greci. Dai Greci presero il loro alfabeto i Romani
e gli Etruschi. Mille anni dopo l’invenzione, l’alfabeto era diffuso, sia pure presso
gruppi ristretti di popolazione, in larga parte dell’Europa e dell’Asia.
Ma la marcia verso la conquista dell’alfabeto è poi continuata solo con enorme lentezza.
Appena quattro, cinque generazioni fa, la conoscenza e la pratica della scrittura
erano molto diffuse tra i popoli di religione cristiana che dal Cinquecento si erano
ribellati alla Chiesa di Roma, cioè tra i Protestanti: dunque, nei paesi dell’Europa
centrosettentrionale e nei paesi di lingua inglese. Ma altrove, anche in Europa, buona
parte della gente era tenuta dai gruppi dirigenti in condizioni tali che non imparava
a usare l’alfabeto. La maggior parte della gente era ‘analfabeta’. Questa condizione
era ancor più diffusa in Africa, in Asia, nell’America spagnola e portoghese. Insomma,
gli analfabeti erano, cent’anni fa, la grandissima maggioranza del genere umano.
Le lettere delle nostre scritture, a mano corsive o a stampa, derivano dall’alfabeto
latino. I Latini (e gli Etruschi) presero il loro alfabeto dai Greci che, a loro volta,
lo avevano ricevuto dai Fenici. I Fenici, di lingua e stirpe semitica (affine a Ebrei
e Arabi), erano un popolo di commercianti, vissuto sulle coste dell’attuale Palestina.
Navigando per il Mediterraneo, verso il 1000 a.C. scoprirono l’alfabeto usato da poverissime
tribù semitiche del Sinai, lo migliorarono e lo fecero conoscere agli altri popoli
del Mediterraneo. Le tribù del Sinai avevano copiato la forma dei loro segni alfabetici
dai geroglifici egiziani: questi erano disegni schematici che indicavano la cosa corrispondente
a ciascuna parola. I geroglifici erano, insomma, ideogrammi. In teoria, per ogni parola
della lingua ce ne sarebbe voluto uno. In pratica gli Egiziani si erano contentati
di circa 3.000 geroglifici. Nel 1799 fu scoperta a Rashid (Rosetta), alla foce del
Nilo, un’iscrizione in geroglifici egiziani e in greco e un dotto francese, Jean-François
Champollion, poté cominciare a decifrare l’antica scrittura egiziana, rimasta fino
ad allora misteriosa (e ancora oggi chiamiamo «geroglifico» uno scritto che non si
capisce). Le tribù del Sinai ebbero un’idea geniale. Per gli Egiziani, ogni disegno
indicava una e una sola intera parola. I pastori del Sinai capirono che ciascun disegno poteva indicare solo il
suono iniziale della parola corrispondente. Così il disegno della testa del toro non
indicava più tutta la parola alef, “toro”, ma solo la a iniziale; il disegno della tenda, beth, indicava b, ecc. Chiamiamo questa tecnica ‘principio dell’acrofonia’ (ossia “del suono iniziale”).
Con pochi segni (venti, venticinque) da allora in poi fu possibile scrivere milioni
di parole diverse.
Poi le cose sono cambiate. Nel 1848 Karl Marx (1818-1883) e Friedrich Engels (1820-1895)
scrissero e lanciarono il Manifesto del partito comunista. Il Manifesto si chiudeva con l’indicazione di dieci «misure», dieci tipi di provvedimenti per i
quali proletari e comunisti dovevano battersi «nei paesi più progrediti» per vincere
il predominio delle classi borghesi fino ad allora dominanti. La decima «misura» era
così formulata: «Educazione pubblica e gratuita di tutti i fanciulli. [...] Combinazione
dell’educazione con la produzione materiale».
La diffusione del movimento socialista e comunista già durante l’Ottocento portò alla
diffusione dello scrivere e del leggere in classi che fino ad allora erano state tenute
lontano dalla scrittura. In questo secolo, le grandi rivoluzioni socialiste hanno
legato la propria sorte a grandi campagne di alfabetizzazione di centinaia di milioni
di donne e uomini.
Dinanzi a questa pressione popolare anche fuori dei paesi protestanti i gruppi dominanti
hanno dovuto cedere in gran parte il loro tradizionale e quasi esclusivo privilegio
della scrittura. Inoltre, la natura stessa della produzione industriale ha suggerito
ai padroni di far diffondere tra i lavoratori qualche minima capacità di leggere e
scrivere.
Ma il cammino è stato e resta lento. L’analfabetismo domina ancora gran parte delle
popolazioni del Terzo Mondo.
Anche nei paesi dell’Europa meridionale vivono milioni di analfabeti. In Italia, coloro
che spontaneamente si dichiarano analfabeti o tali sono dichiarati dal loro capofamiglia,
durante l’ultimo censimento della popolazione sono risultati 1.608.212 (beninteso
nella popolazione di età più che scolastica, dai sei anni in su). Ma questo non deve
fare credere che la capacità di scrivere e leggere sia pacificamente estesa a tutto
il resto della popolazione adulta. Nella grande maggioranza, coloro che non hanno
completato la scuola elementare sanno scrivere il proprio nome, ma hanno difficoltà
a scrivere un biglietto o una domanda o una lettera. Al milione e mezzo di persone
che si dichiarano spontaneamente analfabeti, dobbiamo dunque realisticamente aggiungere
almeno buona parte dei 9 milioni e cinquecentomila adulti senza nemmeno licenza elementare.
Per di più le condizioni di lavoro e di vita respingono verso l’ignoranza della scrittura
molti che pure hanno conquistato da ragazzi la licenza elementare. Non si va lontani
dal vero calcolando che almeno uno ogni cinque italiani non sa né scrivere né leggere.
Eppure, in Italia, come nel Terzo Mondo, coloro che non sanno scrivere sopravvivono
e vivono. Anzi, molto spesso, poiché sono più sfruttati degli altri, contribuiscono
più di altri alla vita economica delle società dei paesi capitalistici.
Dunque, scrivere non è necessario. In qualche modo, se ne può fare a meno ancora oggi,
così come se ne è fatto a meno per decine di migliaia di anni, nell’oscuro scorrere
della preistoria umana.
E anche del parlare si può fare spesso a meno. Poeti e saggi di varie epoche e paesi
hanno lodato il silenzio, e ne hanno scritto veri e propri elogi. E in varie lingue
c’è un proverbio simile al nostro che ammonisce: «Il silenzio è d’oro, la parola è
d’argento».
In una delle Dissertazioni di K’ung Fu-tzu, il cinese Maestro K’ung vissuto tra VI e V secolo avanti Cristo e
noto in Europa dal Rinascimento col nome di Confucio, così si legge:
«Io vorrei non parlare. [...] Il cielo quando mai parla? Le quattro stagioni seguono
il loro corso e i cento esseri nascono. Il cielo quando mai parla?».
Possiamo restare ammirati dalla profondità di questo pensiero. Ma lo conosciamo solo
perché qualcuno lo ha scritto. E il saggio K’ung lo ha potuto formulare solo perché
aveva a disposizione le parole. Senza le parole nessuno e niente, né saggi, né poeti,
né proverbi, potrebbe lodare il silenzio. E nemmeno questo capitolo avrebbe potuto
cominciare ricordando che parlare non è necessario.
Per aggiornamenti cfr. la Postfazione e la Storia linguistica dell’Italia repubblicana.
2. Le parole non sono tutto
Anche noi che d’abitudine scriviamo e leggiamo possiamo dunque immaginare senza troppa
fatica, basta guardarci intorno, che possiamo vivere senza scrivere. È un po’ più
difficile immaginare che si possa vivere senza parlare. Ma la cosa non è impossibile.
Vi sono ordini monastici cristiani in cui l’uso della parola è ridotto al minimo e,
per talune categorie, eliminato del tutto. La regola del silenzio è una pratica antica
e diffusa. Nella Grecia antica, essa era imposta per parecchio tempo a chi voleva
essere ammesso tra gli scolari del saggio Pitagora (570-490 a.C.). Nella Cina antica
la stessa regola di comportamento, il silenzio, era imposta a chi voleva entrare fra
i seguaci di Lao-Tze (sec. VI-V a.C.) e del taoismo.
Ma non c’è bisogno di pensare a questi gruppi di uomini eccezionali. Né dobbiamo ricorrere
a esempi fantastici: come il bizzarro e simpatico vecchio zio del protagonista delle
Voci di dentro, la commedia dialettale di Eduardo De Filippo (1900-1984), quello che si era disgustato
di parlare con gli esseri umani. Comunicava soltanto col nipote, ma non con le parole:
sparando mortaretti e tric-trac, di sensi comprensibili solo per il nipote. Nella
più normale realtà tutti gli esseri umani attraversano un periodo della vita in cui
agiscono e ragionano di qua del possesso della parola. È il periodo della prima ‘infanzia’.
(Il vocabolo infanzia viene dal latino ed è formato dal prefisso in-“non” e dal verbo latino fari “parlare”, e vuol dire appunto, in origine, “età del non parlare”).
Negli esseri umani la prima parola fa la sua comparsa verso i dieci mesi. Le femmine
precedono i maschi di circa un mese. Verso la metà del secondo anno di vita le parole
usate sono una ventina. A questo punto si ha, di solito, un’improvvisa crescita: a
venti mesi un bambino conosce circa cento parole, a ventiquattro trecento, un anno
più tardi, a tre anni, ne conosce circa mille. Fin quasi a due anni i bambini parlano
per ‘parole-frasi’. Dicono cioè parole isolate che equivalgono a intere frasi del
linguaggio adulto. Solo poco prima dei due anni incominciano ad apparire combinazioni
di due parole. Qualche tempo dopo appaiono le prime combinazioni rispettose della
grammatica usata dagli adulti.
Soprattutto da questo momento in poi cominciano a diventare forti le differenze tra
le lingue e, per una stessa lingua, tra le classi sociali e di istruzione. Fin verso
i tre anni, le tappe del cammino nella conquista delle parole sono notevolmente simili
per tutti i piccoli della specie umana.
Ma qui, ora, non vogliamo fermarci tanto su questo. Vogliamo piuttosto ricordare che
i piccoli della specie umana vivono per alcuni anni senza il pieno possesso e, anzi,
per i primi dieci, undici mesi di vita, senza nessun possesso dell’uso delle parole.
E, tuttavia, in questi mesi e anni vivono già da esseri umani. Anzi, si può dire che
alcune delle più importanti abilità che caratterizzano gli esseri umani e li rendono
diversi da altri animali sono imparate in questi primi mesi e anni di vita. Ricordiamo
alcune di queste abilità: usare le mani per avvicinare, allontanare, manipolare un
oggetto; stare seduti tenendo libere le mani; stare dritti e, poi, camminare sui piedi;
usare oggetti come mezzo per ottenere altri oggetti, ossia coordinare una gran quantità
di percezioni, di ricordi, di impulsi, intorno alla volontà di raggiungere un fine.
Agire in modo ordinato, giocare, ragionare: queste capacità straordinarie, rare o
del tutto assenti tra altri tipi di animali, sono apprese dai piccoli della specie
umana prima del linguaggio.
C’è tra studiosi e scienziati una gran discussione su che cosa separi gli esseri umani
dalle scimmie e dagli altri animali. È difficile trovare abilità che gli esseri umani
abbiano, per dir così, in esclusiva. Una cosa è abbastanza specifica degli esseri
umani: il sorriso.
Un grande poeta latino, forse il più grande dei poeti latini, Virgilio (71-19 a.C.),
ha scritto un verso famoso: Incipe, parve puer, risu cognoscere matrem... “Comincia, bambinetto, a riconoscere tua madre col sorriso”. Virgilio ha fissato così
un momento emozionante per ogni persona che abbia allevato un bambino. È il momento
in cui il bambino per la prima volta sorride intenzionalmente.
Oggi gli psicologi di lingua inglese che hanno studiato con cura lo sviluppo dei piccoli
esseri umani nei primi mesi di vita parlano a questo proposito di smiling response,di “reazione del sorriso”. Uno di loro, René Spitz, ha scritto un intero libro su
questo argomento.
Già nel secondo mese di vita il lattante manifesta grande interesse per il viso umano
e lo preferisce a ogni altro oggetto che lo circonda. Nel terzo mese corpo e mente
si sono sviluppati ancora di più. Ora il lattante è capace non solo di riconoscere
e percepire, ma anche di reagire in modo voluto, con intenzione, a quel che lo interessa.
Egli impara così a rispondere spontaneamente al viso dell’adulto. Il sorriso è la
prima manifestazione attiva e intenzionale delle reazioni del bambino. Col sorriso
il bambino passa dalla passività a un comportamento attivo, che andrà poi aumentando
sempre di più.
Col sorriso gli esseri umani superano una soglia decisiva, entrano a più pieno titolo
nella comunità. Ciò avviene a tre mesi, ben prima di possedere la parola.
Un’altra discussione molto complessa è quella del posto che spetta all’uso delle parole
dopo che l’essere umano lo ha conquistato tra i dieci mesi e, come si è già detto,
i due, tre anni d’età.
Avremo un intero libro a disposizione per dare direttamente o indirettamente esempi
dell’importanza di questo posto. Dedichiamo dunque almeno qualche pagina a considerare
che le parole non sono tutto.
Alcuni hanno affermato che fuori della parola per gli esseri umani non c’è altro che
l’istinto, un mondo oscuro di impulsi senza luce di ragione. Abbiamo appena visto
che ciò non è vero. Dal sorriso ai primi giochi, ai primi passi, bambine e bambini
ragionano, e bene. Individuano, distinguono, associano, separano, coordinano, costruiscono,
giocano, imparano a correggersi. Anche in età adulta, parti importanti dell’attività
individuale si svolgono senza un intervento diretto, immediato delle parole.
Chi cuoce una frittatina, chi si arrampica su una parete rocciosa e vi supera (contro
ogni istinto) difficili tetti, chi fa a mente un’addizione o una divisione, il falegname
che valuta un incastro, il meccanico che avverte qualcosa che non va nel e dal rumore
d’un motore: ecco solo alcuni tra gli esempi di ragionato coordinamento di atti, ciascuno
attentamente calibrato. Un agire razionale, accompagnato da sottili valutazioni di
ciò che stiamo facendo, può svilupparsi e si sviluppa senza diretto intervento delle
parole.
Alcuni non sono però d’accordo. Essi dicono: a tali attività gli esseri umani non
sarebbero mai arrivati se non avessero acquisito, a un certo punto dell’evoluzione
della specie, la capacità di parlare. Ciò è vero, ma solo in parte.
È vero, cioè, che buona parte di ciò che sappiamo fare nel nostro mondo d’oggi, anche
se lo facciamo in parte senza parole, lo abbiamo appreso grazie a insegnamenti per
lo più filtrati attraverso le parole. Certamente senza l’aiuto delle parole le civiltà
degli esseri umani sarebbero molto più povere e semplici, tutta la nostra vita sarebbe
assai più difficile. Individui e gruppi che usano poco o male le parole, individui
o gruppi costretti a ciò, si trovano in difficoltà rispetto agli altri, si trovano
in condizione di inferiori o, come si dice, di subalterni. Si deve poi pensare alle
gravi difficoltà in cui si trovano i muti, i sordi, i sordomuti e a quelle ancora
più gravi di chi soffre di handicap ancora più profondi, per lesioni cerebrali fin
dalla nascita o acquisite. E tuttavia anche chi soffre gravi limitazioni nell’uso
delle parole è un essere umano e sa avere comportamenti razionali da essere umano.
Insomma, come si è già detto all’inizio, parlare non è necessario per vivere da esseri
umani. Quello di cui non possiamo fare a meno sono non le parole, ma la comunicazione.
Se vogliamo addestrarci all’uso consapevole ed efficace delle parole, se vogliamo
capire e usare meglio la nostra facoltà di parlare, se vogliamo intenderne tutta la
straordinaria importanza nella nostra vita privata e pubblica, dobbiamo almeno per
un momento fermarci a riflettere su questo punto. Le parole, le lingue che parliamo,
sono una parte per noi grande e importante di un insieme molto più vasto e vario:
l’insieme della comunicazione. Se vogliamo capire perché è importante saper parlare
e scrivere, dobbiamo capire quanto, come e perché ci è necessario comunicare. Sullo
sfondo generale della comunicazione vedremo più chiari i caratteri che fanno dell’uso
della parola il saper fare, la tecnica più importante, forse, che la specie umana
ha saputo conquistarsi nel suo cammino biologico e storico.
3. Le parole e gli altri segni
Già nella culla, mentre ancora non parlano, ma ragionano, i piccoli della specie umana
comunicano. I loro mezzi di comunicazione non sono le parole. Essi distinguono e apprezzano
i diversi toni della voce e altri segni inviati loro, con più o meno intenzione, da
chi li alleva. E, a loro volta, corrispondono col sorriso, con gesti, a chi sta intorno.
Crescendo, gli esseri umani non perdono questa capacità di usare come strumenti di
comunicazione il loro stesso corpo, i movimenti e gli atteggiamenti delle sue parti.
Anche altri animali, oltre l’uomo, anche se privi di parola, comunicano. La scienza
che si occupa di ciò sta a mezza strada tra lo studio degli animali, la ‘zoologia’,
e lo studio della comunicazione, la ‘semiotica’, e si chiama perciò ‘zoosemiotica’,
“scienza della comunicazione animale”. Essa individua, classifica e descrive i sistemi
di comunicazione in uso tra insetti, pesci, volatili, mammiferi terrestri e marini.
Ma oggi sappiamo che il mondo della comunicazione è più vasto del mondo animale. Ingegneri,
matematici, logici, hanno studiato e costruito macchine comunicanti e sistemi per
permettere agli esseri umani di impartire istruzioni e insegnare programmi di lavoro
a macchine. La ‘teoria dell’informazione’ o ‘informatica’ ha aggiunto altri materiali
ed esempi a ciò che già si sapeva e si sa della comunicazione tra esseri animati.
È chiaro dunque che esiste una grande varietà di sistemi di comunicazione. D’ora in
poi li chiameremo, con espressione un po’ più tecnica, ‘codici di comunicazione’ o
‘codici semiologici’.
Con la loro varietà e diversità essi ci aiutano a capire meglio quali sono le caratteristiche
e le possibilità di quella particolare famiglia di codici semiologici che sono le
lingue usate dagli esseri umani. Nate nel corso della millenaria evoluzione e storia
della specie, queste lingue, fatte di parole, come l’italiano e i dialetti italiani,
il francese, il tedesco, l’inglese, ecc., per questo legame profondo con la natura
biologica degli esseri umani e con la storia delle società umane sono dette ‘lingue
storico-naturali’. In quanto sono fatte di parole, vengono dette anche ‘lingue verbali’.
Anche senza le parole, ma attraverso gesti, espressioni del volto, gli esseri umani
riescono a comunicare talvolta in modo piu efficace che con le parole. Gli animali
comunicano tra loro attraverso posizioni del corpo, movimenti, suoni. Osserviamo alcune
situazioni di comunicazione tra gabbiani. In primavera i gabbiani formano vere e proprie
città. Ogni maschio sceglie una parte di territorio e lo difende dagli attacchi dei
vicini (foto 1). Dopo aver affermato il suo dominio, lancia segnali di richiamo verso
la femmina (foto 2). Comincia il linguaggio dell’amore. La femmina si avvicina, emettendo
un richiamo implorante (foto 3). Se il maschio l’accetta, prima dell’accoppiamento,
la nutre (foto 4, 5 e 6).
Qui verbale non ha a che fare con la parola verbo,“parte del discorso diversa dal nome, coniugabile secondo persona, numero, tempo,
modo”. Ha invece a che fare con la parola latina verbum,“parola”. La lingua verbale è una lingua fatta di parole. E linguaggio verbale è la
capacità, propria degli esseri umani, di usare parole e lingue storico-naturali.
Il linguaggio verbale non è tutto nel mondo della comunicazione così come oggi lo
conosciamo. Le lingue verbali, storico-naturali, sono soltanto un gruppo, una famiglia,
nel grande insieme dei codici semiologici.
Per raggruppare i codici semiologici si sono usati diversi tipi di classificazione.
Gli studiosi di zoosemiotica hanno trovato molto utile raggruppare e classificare
i codici semiologici a seconda del materiale di cui sono fatti i ‘significanti’, cioè,
come abbiamo detto, le parti esterne delle parole e dei segni di ogni altro tipo.
Vi sono animali che comunicano tra loro, per minacciarsi, attrarsi, farsi la corte,
informarsi, ecc., mediante cambiamenti della posizione del corpo. Altri si servono
di segnali percepiti con l’udito. I segnali acustici sono prodotti in molti modi:
le vibrazioni delle corde vocali al passaggio dell’aria, molto usate tra i mammiferi
e in particolare tra gli esseri umani, sono solo uno dei tanti tipi. Molti insetti,
pesci, mammiferi, comunicano tra loro attraverso l’odorato o il gusto che percepisce
segnali di natura chimica lanciati nell’aria o nell’acqua dai loro simili. I segnalatori
chimici sono detti ‘feromoni’, cioè “ormoni” (sostanze messe in circolo dalle ghiandole
interne del corpo) “portatori” (dal verbo latino ferre “portare”) di messaggio. I feromoni sono il primo, più rudimentale gradino nella evoluzione
dei codici di comunicazione. E, anche se posseggono o sviluppano altri tipi di segnali,
tutte le specie, lo sappiano o no, conservano questo elementare sistema di comunicazione.
I feromoni sono gli antenati remoti della parola.
La classificazione che bada al materiale di cui sono fatti i significanti dei segni
non è del tutto soddisfacente. Proviamo ad applicare questo tipo di classificazione
agli esseri umani. Abbiamo delle sorprese. Prendiamo una qualunque delle frasi di
questo libro. Possiamo dirla ad alta voce, leggendola, cioè mediante segnali acustici;
possiamo scriverla con una penna su un foglio di carta, dunque mediante segnali chimici;
possiamo tradurla nel cosiddetto alfabeto dei sordomuti, praticato nelle scuole per
comunicare di nascosto dagli insegnanti, e cioè possiamo dirla mediante gesti; possiamo
inciderla mediante punti in rilievo, secondo il sistema di scrittura inventato dal
francese Louis Braille (1809-1852), col quale grazie al tatto i ciechi possono leggere.
Eppure, per quanto cambino i materiali di cui è fatto il suo significante, la frase
resta la stessa.
Una foto, un dipinto (questo è di Simone Martini) sono ‘icòne’, immagini che ricordano
immediatamente il cavallo
La classificazione secondo i tipi di materiale ci obbliga invece a considerare la
stessa frase come appartenente a codici semiologici diversi: a un codice acustico,
come il fischiettare, nel primo caso; a un codice chimico-visivo, come la pittura,
nel secondo; a un codice gestuale-visivo nel terzo caso; a un codice tattile nel quarto.
Ma noi sappiamo invece bene che, in tutti i casi, si tratta della stessa frase appartenente
allo stesso codice semiologico, la lingua italiana.
Si è perciò pensato ad altri tipi di classificazione. Uno studioso nordamericano,
Charles Sanders Peirce (1839-1914), ha proposto una classificazione basata sul collegamento
tra il significante e ciò che il segno indica.
Peirce distingueva i segni in tre categorie: gli ‘indici’, le ‘icòne’, i ‘simboli’.
Una banderuola o una manica a vento che indicano ai piloti di aereo la direzione del
vento sono segni strettamente collegati a ciò che indicano. Il vento soffia in una
certa direzione e fa orientare nello stesso senso banderuola o manica a vento. Siamo
dunque in presenza di ‘indici’.
Alcuni esempi della classificazione dei segni proposta da Peirce: l’orma è un ‘indice’
certo del passaggio di un cavallo
Le ‘icòne’ (la parola viene dal vocabolo latino icona,tratto da quello greco eikón “immagine”) sono segni nei quali il significante rassomiglia in qualche modo a cose
che il segno indica. La sagoma del cavallo in un segnale stradale, il disegno del
cavallo fatto da un bambino o da Simone Martini sono icòne del cavallo.
Infine i ‘simboli’. Non c’è nessun rapporto visibile tra il significante O, il suono
della o in italiano oppure il valore di zero nella numerazione araba. Non c’è nessun rapporto
di somiglianza tra il significante della parola cane e questo animale domestico. Sono ‘simboli’ le cifre in rapporto ai numeri che indicano,
le lettere in rapporto ai suoni, le parole in rapporto alle cose.
I ‘simboli’ sono segni in cui non esiste alcun rapporto visibile tra il significante
e ciò che il segno indica. Ecco alcuni simboli, come si vede uno stesso significato può collegarsi a significanti
diversi
Questa classificazione proposta da Peirce ha diversi vantaggi rispetto alla prima.
Essa non bada all’aspetto materiale del significante del segno. Bada al rapporto tra
tale aspetto e ciò che il segno significa.
Eppure, anche questa classificazione merita critiche. In poche categorie essa raggruppa,
senza possibilità di distinguerle, famiglie di codici semiologici e di segni diverse
tra loro, per aspetti anche molto importanti.
L’indice puntato da un essere umano per indicare una cosa, l’orma lasciata da un animale,
il fumo sospeso nell’aria che indica fuoco, sono altrettanti indici, come la banderuola
o la manica a vento. Eppure la loro natura è molto diversa. In un caso si tratta d’un
indice prodotto intenzionalmente dall’uomo. Nel secondo e nel terzo caso, invece,
una traccia lasciata senza intenzione viene interpretata come indice. Nel caso della
banderuola abbiamo un congegno costruito apposta per produrre tracce.
Oppure consideriamo i simboli. Nella stessa categoria finiscono, senza che sia possibile
spiegarne la diversità, le cifre di base della numerazione araba decimale, che sono
dieci, dunque di numero limitato, e gli innumerevoli gesti con i quali comunichiamo
tanto spesso e in tante parti del mondo, gesti che sono famiglie aperte. E con i gesti,
ciascuno dei quali è un tutto a sé, stanno frasi e parole.
Consideriamo per esempio il gesto che facciamo, di solito con la mano destra, per
dire “vieni qui, per favore”. E consideriamo accanto a esso la frase italiana Vieni qui, per favore. Certo, vogliono dire la stessa cosa. Ma sono chiare alcune grandi differenze. Nel
gesto tutto l’insieme di atti e parti di cui è fatto ha questo senso. Nella frase
possiamo distinguere varie parti, ciascuna delle quali ha una sua capacità di contribuire
al senso complessivo. Tanto è vero che ciascuna parte della frase può apparire in
frasi completamente diverse conservando la stessa capacità di contribuire al senso
di tali frasi. (Quando VIENI? Domani VIENI a spasso con me. QUI fa freddo. C’è nessuno QUI? È arrossito PER la rabbia. Cammino PER la strada. Mi hafatto un FAVORE, ecc.).
Cifre, gesti, frasi finiscono tutti nella unica e stessa categoria dei simboli.
Per distinguere meglio cose così diverse abbiamo bisogno di una rete a maglie più
fini. Per renderci conto di come può essere fatta questa rete di classificazione,
dobbiamo fermarci a considerare come sono fatti i segni.
4. Che cosa è un segno e come è fatto
Da lontane epoche geologiche, da quando nel fondo dei mari apparvero le prime creature
viventi, i protozoi, la vita si svolge tra segni. Con i segni le creature viventi,
dagli organismi fatti d’una sola cellula come l’ameba a organismi complessi come gli
esseri umani, magari geniali come Einstein, agiscono l’una sull’altra, si influenzano
l’un l’altra o, come si dice, interagiscono.
Abbiamo già visto, nel capitolo precedente, quanto grande è la varietà dei segni.
Cerchiamo ora di stabilire in generale che cosa è, come è fatto un segno. Questo ci
aiuterà poi a classificare meglio i tipi di segni e di codici semiologici e a tornare
con più sicurezza alla comprensione e, poi, alla pratica della parola.
Già abbiamo incontrato una parte del segno: il significante. È la faccia del segno
fatta per essere prodotta facilmente da chi invia il segno, che chiamiamo ‘emittente’,
e riconosciuta e percepita facilmente da chi deve ricevere il segno, il destinatario,
che chiamiamo ‘ricevente’.
Come già si è visto, il significante può essere costruito con materiali diversi, conservando
la stessa funzione. Una cifra o una parola resta la stessa sia che il significante
sia detto sia che venga scritto sia che lo si incida su pietra, ecc. E, del resto,
anche se il materiale è dello stesso tipo, a rigore ogni volta che il significante
viene realizzato la materia di cui è fatto è per qualche aspetto diversa.
Ogni volta che il significante della parola cane è pronunziato da uno dei cittadini italiani ci sono differenze più o meno evidenti
di pronunzia.
Questo non succede solo con le parole. Pensiamo al caso del semaforo stradale a tre
luci, rossa, gialla, verde. Questo tipo di semaforo prevede due tipi di funzionamento:
luce gialla intermittente, di solito nelle ore notturne, oppure alternanza di segni
che sfruttano i tre tipi di luce. Con le sue luci il semaforo ci comunica, emette
dei segni. I segni del primo tipo hanno un significante /luce gialla intermittente/.
D’ora in poi per indicare che qualcosa, x, èun significante lo scriveremo tra due sbarre oblique: /x/.
Con /luce gialla intermittente/ il semaforo si limita a segnalarci la sua esistenza,
e, dunque, indirettamente, a segnalarci che là dove sta c’è un incrocio, o comunque,
un tratto di strada in cui è utile disciplinare il traffico.
Con i segni del secondo tipo, a tre colori, il semaforo ci comunica parecchie cose
in più. Non solo ci comunica che esiste, ma con il significante /rosso/ ci comunica
che non possiamo passare, col /verde/ ci comunica che possiamo passare, col /verde-giallo/
ci dice che sta per finire il momento in cui possiamo passare.
Non ci sono due semafori perfettamente eguali in tutto: se lo fossero, non sarebbero
due, ma lo stesso semaforo. Per di più lo stesso semaforo non emette durante la giornata
esattamente le stesse luci: varia la tensione elettrica e variano le luci atmosferiche
nel corso della giornata. Dunque, la luce rossa non è detto che sia esattamente sempre
la stessa luce rossa. Quello che conta non è che sia proprio esattamente quella luce
rossa. Quello che conta è che il rosso non si confonda col verde e col verde-giallo.
Le concrete luci rosse o verdi o verdi-gialle o gialle che vediamo di volta in volta
e che possono essere un po’ diverse ogni volta le chiamiamo ‘espressioni (del significante)’.
Quando vogliamo dire che qualcosa, una x, èun’espressione particolare di un significante, non un significante, scriviamo la x tra due parentesi quadre: [x]. Quindi, per esempio, diciamo che /vigile/ è il significante
di una parola italiana che viene espressa come [viggile] da romani, napoletani, ecc.
e come [vigile] dai settentrionali. Un altro significante di parola italiana è, per
esempio, /la casa/: al Nord ha come espressione [la caza] (con la esse cosiddetta
dolce o sonora), in Toscana [la hasa] (con la esse cosiddetta aspra o sorda e con
la c aspirata), al Sud l’espressione è in genere [la casa] (con la esse sorda e senza aspirazione).
Le espressioni del significante, come si vede, possono dunque essere parecchio diverse
tra loro. Ma il significante resta lo stesso. Il significante è una costante e le
espressioni sono variabili.
In quanti modi possiamo dire la frase: Il gatto miagola? Forte, strillando, o piano, bisbigliando. Possiamo scriverla a macchina o scolpirla
su una lapide; oppure tradurla nell’alfabeto Braille o in molti altri modi. La parte
esterna del segno, il significante, può viaggiare attraverso materiali diversi: segnali
fonico-acustici, chimico-visivi, tattili, ecc. E tuttavia si tratta della medesima
frase, con il medesimo significato, appartenente al medesimo codice semiologico, la
lingua italiana.
Abbiamo detto che il significante è una faccia del segno, quella fatta per essere
prodotta più facilmente dall’emittente e riconosciuta e percepita più facilmente dal
ricevente. C’è poi l’altra faccia del segno, che chiamiamo ‘significato’.
Anche il ‘significato’ è un insieme: è l’insieme di ciò che si può fare e comunicare
col segno. Torniamo per esempio al semaforo. Al significante /rosso/ corrisponde un
significato che in parole potremmo tradurre, nel modo più semplice, così: “non passare”.
Ogni volta che il semaforo emette una [luce rossa] i pedoni e i veicoli sono diversi,
per ognuno il significato generale del segno si colora in modo particolare, assai
diverso per chi ha fretta e per chi va tranquillamente a spasso, per chi ha un impegno
urgente e chi no, per chi ha poca benzina nel serbatoio e chi ne ha in abbondanza,
ecc.
Ciascun significante del semaforo si realizza attraverso espressioni che possono essere
un po’ diverse l’una dall’altra. Allo stesso modo, anche il significato si realizza
in ‘sensi’ che possono essere tra loro diversi.
Se vogliamo indicare che qualcosa, x, èun significato, lo scriviamo tra virgolette: “x”. Se vogliamo indicare che è un senso,
lo scriviamo tra doppie virgolette “ “x” ”.
Conosciamo tutti la parola pane.Ci è atutti chiaro il suo significato. Ma essa è detta con senso assai diverso da chi fa
il fornaio e impasta il pane ogni giorno e lo vende e ci guadagna, da chi fa solo
il garzone, e il pane è per lui qualcosa da trasportare su e giù, da chi lo mangia
tranquillamente, da chi non ha nemmeno i soldi per comprarlo, dal diabetico che vorrebbe
mangiarlo ma non può.
Nella realtà concreta, non emettiamo né riceviamo mai significanti, ma sempre espressioni
di significanti. E non diciamo o riceviamo mai significati, ma sempre e solo sensi.
Insomma, non inciampiamo mai nei segni, ma nelle loro realizzazioni. La realizzazione
di un segno viene detta ‘enunziato (del segno)’.
Lo abbiamo già detto: c’è un gran quantità di codici semiologici diversi. Alcuni
sono abbastanza semplici, come il codice del semaforo stradale, con i suoi quattro
segni individuati dai quattro significanti /giallo intermittente/, /rosso/, /verde/,
/giallo-verde/. Altri sono straordinariamente complicati, hanno innumerevoli segni
che si formano con regole numerose e complesse. Nel caso del semaforo ci è stato abbastanza
facile spiegare in parole il significato di ciascun segno. In matematica al significante
/ √/ corrisponde un significato che può anche dirsi in parole, ma richiede una lunga
spiegazione. In certi casi, spiegare il significato richiede più che una lunga spiegazione.
Sul significato di parole come classe, società, ragione, arte, scienza, diritto sono stati scritti interi libri, anzi intere biblioteche.
Ma, per quanto diversi siano i codici semiologici e i tipi di segni, per tutti vale
lo schema che abbiamo già illustrato e che ora descriviamo. In tutti i codici, tutti
i possibili segni si realizzano attraverso concreti enunziati. In tutti, tutti i segni
hanno due facce: il significante e il significato. E ogni significante si realizza,
negli enunziati, attraverso innumeri espressioni concrete, anche parecchio diverse
tra loro.
Quando vogliamo capire come è fatto un particolare tipo di segni, cominciamo ora ad
avere i mezzi per farlo. Dobbiamo stare attenti a come il segno si colloca in rapporto
a quattro dimensioni:
1) la dimensione ‘semantica’ (da un aggettivo greco, semantikós,che voleva dire “indicativo”), che è quella del rapporto tra il significato del segno
e i possibili sensi che può assumere;
2) la dimensione ‘espressiva’, che è quella del rapporto tra il significante e le
diverse espressioni che possono realizzarlo;
3) la dimensione ‘sintattica’ (da un aggettivo del greco antico, syntaktikós, che voleva dire “relativo all’ordine, alla connessione”), che è quella del rapporto
che c’è tra un segno e gli altri dello stesso codice;
4) la dimensione ‘pragmatica’ (anche qui all’origine c’è un aggettivo greco antico,
che possiamo tradurre “pratico, operativo”), che è quella dell’utilizzazione che di
un segno fanno gli ‘utenti’, cioè gli emittenti e i riceventi, per informarsi, minacciarsi,
corteggiarsi, interrogarsi, ecc.
Segno, enunziato, significante, significato, espressione, senso, dimensione semantica, espressiva, sintattica, pragmatica:se scorriamo in fretta questa lista, può venirci il capogiro e peggio. Ma anche se
ci mettiamo a girare in tondo per far girare l’ago della bussola ci viene il capogiro.
Eppure, proprio la bussola serve per non farci perdere la testa e per orientarci.
Chi ha la pazienza di servirsi dei dieci termini che abbiamo ora elencato (e prima
ancora spiegato) ha tra le mani una bussola per navigare nel vasto e vario universo
dei linguaggi senza smarrirsi.
5. I linguaggi della certezza
Nel cruscotto delle automobili si accende una luce, di solito rossa, quando la benzina
nel serbatoio scende sotto un livello minimo. Se la luce è spenta, mentre la macchina
è in moto, possiamo essere tranquilli: abbiamo abbastanza benzina nel serbatoio.
Ai vari piani del caseggiato una piccola lampadina accanto alla porta dell’ascensore
è spenta se l’ascensore è fermo e libero, si accende se l’ascensore è occupato o,
comunque, in movimento.
Il sorvegliante o il ricco che teme furti, uscendo, inserisce un circuito elettro-foto-acustico.
Da quel momento, e finché il circuito non sarà disinserito (o, magari, disattivato
dall’esperto ladro), una cellula fotoelettrica è in funzione. Se qualcuno passa per
l’entrata dei locali, scatta un sonoro allarme acustico, una sirena che richiama i
vicini; se nessuno passa, la sirena tace.
Sulla spiaggia, dinanzi allo stabilimento balneare, sventola una bandiera rossa: il
bagnino la usa per avvertire che il tempo volge a tempesta. Se non sventola alcuna
bandiera, il tempo è sereno.
Sul torrino del Quirinale a Roma sventola la bandiera nazionale: segno che il presidente
della Repubblica è nella sua residenza. La bandiera non c’è? Il presidente della Repubblica
è fuori Roma.
Tutti questi sono minuscoli codici semiologici, esempi di linguaggi semplicissimi,
raccolgono a loro modo il precetto evangelico: «E sia il vostro discorso sì, sì, no,
no» (Vangelo di Matteo, cap. V, par. 37).
Questi linguaggi ammettono soltanto due segni: un segno a significante ben evidente
(/luce accesa/, /sirena risuonante/, /bandiera sventolante/) e un segno a ‘significante
zero’ (/luce spenta/, /sirena silenziosa/, /bandiera assente/). Dal punto di vista
espressivo, i segni di questi codici consentono grande economia nel produrli e nel
percepirli. Lo stato di quiete è sfruttato per indicare la situazione più frequente,
più normale. Luci, suoni, ammaina-bandiera sono usati per le situazioni relativamente
più rare, per le situazioni relativamente eccezionali.
Questi codici non sono solamente molto economici. Sono anche d’uso molto sicuro. Guardiamo
le cose dal punto di vista del rapporto tra i segni, coi loro significati, e i sensi
che si raggruppano in ciascun significato. Tutte le volte che la benzina va in riserva
la luce si accende, tutte le volte che la benzina è più che sufficiente la luce è
spenta. O il presidente c’è, e la bandiera garrisce al vento, o il presidente non
c’è, e la bandiera riposa ammainata. Con questi codici, sia producendo sia ricevendo
l’enunziato di un segno, non ci troviamo mai nelle situazioni di imbarazzo così comuni
quando parliamo o scriviamo o, anche, calcoliamo. (Lo chiamo ragazzo o fanciullo?Oppure bambino?O maschietto? –Ha detto bambino: voleva dire che aveva meno di dieci anni? Oppure meno di otto? O voleva fare dell’ironia,
per sottolineare gli atteggiamenti non maturi? – Mi conviene scrivere √64 o è meglio scrivere 23? O, meglio ancora, 8? – Lascio scritto 7/14 o scrivo invece 1/2?).
Con questi codici semplicissimi non ci sono dubbi. Non ci sono più significanti che
possano trasmettere uno stesso senso. Un senso, se appartiene a un significato e a
un segno, non appartiene a nessun altro significato, non è trasmissibile con nessun
altro segno. Questi codici non conoscono ‘sinonimi’ cioè segni o parti di segni che
possano trasmettere uno stesso senso.
Infine, guardiamo al modo in cui i segni stanno in rapporto tra loro all’interno del
codice. In questi codici, ciascun segno si oppone all’altro come un tutto a un tutto.
O abbiamo la luce accesa o la luce è spenta, o la bandiera è alzata o la bandiera
è ammainata.
Nei segni non ci sono parti che come tali siano utilizzabili per comunicare. I segni,
insomma, non sono ‘articolati’.
Possiamo dunque dire che questi semplici codici semiologici sono codici semiologici a segni non articolati, di numero limitato, senza sinonimia.
Il miglior apprezzamento di questi codici è quello che facciamo nella vita d’ogni
giorno, quando ne sfruttiamo la possibilità senza stare tanto a pensarci. E qui è
proprio la loro forza.
L’automobilista si siede al volante dell’auto, avvia il motore e con una sola e semplice
occhiata al cruscotto controlla che siano spente le luci che devono esser spente,
accese quelle che devono essere accese, e via, parte.
Passiamo dinanzi a una casa dove era attesa la nascita di un bimbo: il fiocco rosa
ci dice che è una bambina, l’azzurro che è un bambino.
Poche distinzioni nette, da usare per comunicare con sicurezza: questa la forza dei
codici elementari di cui stiamo parlando.
Abbiamo citato finora casi di codici di questa famiglia con pochissimi segni.
Un codice a dodici segni, molto antico e diventato molto popolare in questo secolo
di creduloneria di massa, è quello dei dodici segni dello Zodiaco.
Ogni essere umano, secondo chi scrive e legge oroscopi, appartiene a una di queste
dodici categorie. Ognuno di noi, dunque, è un senso, rientrante nell’uno o nell’altro
dei dodici significati, distinti dai e con i dodici segni.
Un codice semiologico analogo a questo è la serie dei simboli dei partiti politici:
la fiammella del Movimento sociale italiano, la bandierina del partito liberale, lo
scudo della Democrazia cristiana, l’edera del partito repubblicano, la falce e martello
del partito comunista sono simboli largamente noti a tutti gli elettori e le elettrici
del nostro paese. Soltanto per i vari partiti socialisti, le loro vicende non semplici
creano un po’ di incertezza nella simbologia, tra soli nascenti, libri, falci, martelli,
garofani, onde marine, ecc. La presenza dei partiti socialisti turba l’esempio e consiglia
di considerare il codice dei simboli elettorali a mezza strada tra quelli di cui stiamo
parlando in questo capitolo e quelli che troveremo invece nel capitolo successivo.
Chiediamoci ora che rapporto hanno le parole e il linguaggio verbale con questi codici.
Ricordiamo il consiglio evangelico citato all’inizio: «Sia il vostro discorso sì,
se è sì, no, se è no: quel che si dice di più viene dal Male».
È abbastanza evidente già all’evangelista Matteo la difficoltà di seguire questo consiglio.
Le lingue sono piene di parole. Ci è difficile parlare per sì e per no soltanto. Le sfumature intermedie sono tante e ciascuna ha diversi vocaboli con cui
può essere espressa.
Insomma, le lingue storico-naturali a prima vista hanno poco a che fare, parrebbe,
con questi codici elementari.
Ma, guardiamo un po’ meglio le cose. È vero. L’insieme delle parole e delle frasi
di una lingua non è riconducibile a un codice molto semplice come questi codici della
certezza, a numero chiuso di segni, in cui ciascun significato raccoglie un gruppo
di sensi senza che ci siano possibili sovrapposizioni, sinonimie e, quindi, dubbi
ed equivoci. Eppure pare evidente che nel loro cammino storico gli esseri umani e
le società si sono sforzati di introdurre nel loro parlare qualcosa di simile alla
certezza che è caratteristica di questi codici.
Un esempio ci è offerto proprio dal «sì, sì, no, no» evangelico. Ebbene, non tutte
le lingue hanno inizialmente, da quando ne conosciamo la storia, una particella affermativa
e una negativa. C’è un famoso verso scritto da Dante Alighieri (1265-1321) nella sua
Divina Commedia (Inferno,canto VIII verso 111): «che sì e no nel capo mi tenzona», cioè il sì e il no combattono
tra loro e si contendono la vittoria, e io sono in dubbio. È difficile tradurlo in
molte lingue. Allo stesso modo, il versetto greco del Vangelo di Matteo è difficile da tradurre nelle lingue che non hanno un esatto equivalente
della nostra coppia sì/no.
Per non andare troppo lontano, ricordiamo una delle lingue che nella storia ha avuto
più importanza, il latino classico e medievale. Il latino è stato fino a due secoli
fa la lingua comune di scienziati, medici, giuristi, filosofi in Europa e in altre
parti del mondo. Dal latino o attraverso il latino vengono a tutte le lingue, anche
le più lontane per origine, parole dei linguaggi tecnici, scientifici, filosofici.
Il latino è il padre (o, se si vuole, la madre) di molte delle lingue più importanti
del mondo d’oggi: il portoghese, lo spagnolo, il catalano, il francese, l’italiano,
il rumeno...
Il latino, insomma, è profondamente legato alla cultura intellettuale del mondo, alle
scienze, al cammino, lento e tortuoso ma continuo, della ragione. Eppure il latino
non aveva un vocabolo per dire “sì” e uno per dire “no”. Per rispondere sì a una domanda
i Latini dovevano ripetere pari pari il verbo della domanda o addirittura l’intera
frase: Domum is?, Eo, cioè “Vai a casa?”, “Ci vado”. E per dir no, dovevano rispondere negando il verbo:
Non eo, “Non ci vado”.
Le popolazioni europee, dopo la caduta dell’Impero romano (476 d.C.), hanno in gran
parte continuato a parlare latino. I dotti, che sapevano leggere e scrivere, restarono
abbastanza fedeli alle forme del latino scritto dell’epoca classica. La povera gente,
che non sapeva né leggere né scrivere, usò e sviluppò come poteva quel che sapeva
dell’antica lingua di Roma. Ogni regione dei paesi europei in cui si era parlato il
latino sviluppò un suo modo di parlare, un suo ‘dialetto’. Sono nati così nei secoli
prima del Mille i dialetti che chiamiamo ‘neolatini’. Alcuni tra questi hanno avuto
più prestigio di altri: erano i dialetti di città diventate grandi piu di altre, come
Madrid o Parigi; oppure erano usati da furbi banchieri e grandi scrittori, come il
toscano. Dopo il Mille, sono nate così le grandi lingue neolatine dell’Europa: spagnolo,
francese, italiano, ecc.
Ebbene torniamo al nostro sì e al nostro no. In ogni parlata neolatina si è cercato di costruire le due parole che il latino
non aveva. In francese ci si è serviti da un lato dell’espressione latina che voleva
dire “questo (che tu chiedi) colui (fece)”, cioè hoc ille. Da qui fu tratto oil (verso il 1080) trasformatosi poi, nel Cinquecento, in oui. Dall’altro lato, in francese ci si è serviti dell’avverbio di negazione, del latino
non, che è stato adoperato anche come particella di negazione nelle risposte. In altre
lingue, invece (italiano, sardo, logudorese, portoghese, spagnolo), si è partiti dall’avverbio
che in latino voleva dire “così”, sic, e si è costruito il sì. In queste altre lingue, dal latino non i parlanti hanno sviluppato l’uso di questo avverbio come particella negativa, come
ha fatto il francese, oppure hanno costruito una vera e propria particella negativa,
il nostro no.
È una strada lunga, nel descriverla la dobbiamo parecchio semplificare. Gente comune,
non dotti, ha sentito nei secoli il bisogno di mettere un po’ d’ordine nel parlare.
Almeno in un punto, quando si risponde, si è sentito il bisogno di distinguere con
certezza tra affermare e negare, tra sì e no. Ma subito dopo, un po’ scherzando un po’ sul serio, in italiano qualcuno ha inventato
il ni. È difficile seguire le vie del Vangelo e della certezza.
6. I linguaggi del risparmio
Ritorniamo ai dodici segni dello Zodiaco. Collocare una persona tra i nati, per esempio,
nell’Ariete non significa soltanto raggrupparla con altre e distinguerla dai nati
negli altri undici segni. In realtà, con la collocazione nell’Ariete, aggiungiamo
un’altra informazione. Diciamo che la persona è nata in un periodo dell’anno che è
successivo a quello in cui sono nate le persone dell’Acquario ed è precedente a quello
in cui sono nate le persone del Leone o della Vergine. Detto altrimenti: i dodici
segni dello Zodiaco non stanno tra loro in un rapporto qualunque, ma sono una fila ordinata di segni, una ‘serie’ di segni.
Nel caso dei segni dello Zodiaco la fila e il suo ordine dipendono dal seguirsi delle
posizioni apparenti del Sole sulla volta celeste, in mezzo alle costellazioni. E le
posizioni apparenti cambiano nel corso dell’anno col cambiamento della posizione della
Terra nel suo giro annuale intorno al Sole. Insomma, nel caso dello Zodiaco, la serie
dei dodici segni è imposta all’osservazione degli esseri umani, alla loro mente, dallo
svolgersi delle cose naturali. Forse, proprio osservando fenomeni del genere, come
il volgersi delle costellazioni, il succedersi delle fasi lunari, e sviluppando tecniche
elementari, come piantare i pali di una staccionata o infilare le pietre forate nel
filo per farne una collana, in epoche remote la mente degli esseri umani si è abituata
all’idea di ‘serie’.
È un’idea tanto semplice, un’idea tanto comune che nemmeno riusciamo più bene a capire
che ce l’abbiamo (come a volte ci capita con gli occhiali che portiamo sul naso, chi
di noi li porta e, beninteso, se è un po’ distratto). Una perla o una pietra forata
infilata in serie nel filo può essere simile quanto si vuole a un’altra che infiliamo
dopo. Ma, una volta infilate, non c’è più dubbio: una è quella che sta più a sinistra, l’altra èquella che sta più a destra; una, movendo gli occhi da sinistra a destra, è vista prima, l’altra è vista dopo.
Venire prima, venire dopo, occupare un posto e non un altro nella fila: questo può
servire a distinguere tra loro anche cose molto simili. E, d’altra parte, il posto
nella fila può servire a scoprire la somiglianza tra cose diverse. Gli esseri umani
lo hanno imparato, probabilmente, nel buio di qualche caverna forse già durante la
glaciazione würmiana (tra 27.000 e 23.000 anni prima di Cristo). Il cacciatore ha
ucciso quattro prede, per ognuna fa una tacca sulla parete della caverna. Tra un anno,
ne ucciderà altre. Se la serie di tacche sarà più lunga, saranno di più, se eguale,
le prede saranno lo stesso numero, se più corta, le prede saranno di meno.
La serie, dunque, aiuta a distinguere e nominare cose altrimenti eguali come diverse,
perché vengono prima o dopo, sono meno o più. E aiuta a valutare e nominare come eguali
gruppi di cose lontane, che è difficile altrimenti mettere accanto e confrontare direttamente.
Uno, due, tre, quattro...Molto prima di sapere di aritmetica, molto prima di sapere scrivere, con i nomi dei
posti della serie gli esseri umani hanno imparato a mettere ordine tra le cose, ad
associarle, a differenziarle. Se un gruppo di cose è associato al nome del terzo posto
della serie, al /tre/, sappiamo non solamente che quel gruppo è diverso da quello
associato al /cinque/, ma sappiamo inoltre che viene due posti prima. Sappiamo cioè
che dobbiamo aggiungere una cosa e poi un’altra ancora per arrivare a un gruppo associabile
al nome del quinto posto della serie, cioè associabile al /cinque/.
I codici semiologici nei quali i segni formano una fila, una serie, ci permettono
dunque non solo di classificare i sensi, ma di confrontarli e ordinarli secondo un
prima e un dopo, un meno e un più.
Mandata a mente la serie dei nomi dei dodici mesi dell’anno o dei sette giorni della
settimana, chiamare /marzo/ un mese, chiamare /mercoledì/ un giorno non serve solo
a evitare confusioni con altri mesi e giorni, ma ci dice che quel mese viene dopo
febbraio e gennaio e prima di aprile, che quel giorno viene dopo martedì e lunedì
e prima di giovedì. In tutti e due i casi sappiamo che si tratta del terzo elemento
delle rispettive serie. Insomma, i segni dei codici semiologici ‘seriali’ fanno ciascuno,
come dice un vecchio proverbio romagnolo, un viaz e du sarviz, “un viaggio e due servizi”. Raccolgono i sensi in classi diverse, in diversi significati,
e mettono in fila i significati e, quindi, i sensi.
C’è tuttavia un limite a questa capacità notevole dei codici semiologici seriali.
Quando gli elementi degli insiemi da mettere in ordine diventano molti, avremmo bisogno
di altrettanti segni distinti. In astratto, la difficoltà non c’è. In concreto, la
difficoltà è creata dalla nostra memoria.
Nessun essere umano ha difficoltà a tenere a mente tre, quattro segni diversi in serie.
Ciò avviene però solo dopo i primi due, tre anni di vita. A quattro, cinque anni,
in ambiente opportuno, il bambino riesce a imparare la serie dei nomi dei numeri fino
al sei, all’otto. Qualche anno dopo, da alcune migliaia di anni (non molti dunque rispetto alla sterminata
distesa dei tempi preistorici), una parte dei piccoli esseri umani è portata in apposite
istituzioni, le scuole. E una parte di questa parte riesce, con molta fatica, a imparare
la serie delle ventuno o ventiquattro lettere e delle dieci cifre arabe.
Non è dunque facile tenere a mente un codice semiologico seriale che superi gli otto,
dieci segni. E, in effetti, perfino persone molto istruite possono stentare a collocare
con sicurezza di primo acchito le lettere più rare di un alfabeto di ventisei lettere
come l’alfabeto inglese o tedesco, usato anche nelle enciclopedie e dizionari italiani.
Dove capita la X? Quanti posti ci sono tra X e W?
Naturalmente, ci sono persone eccezionali che possono avere una memoria straordinaria.
Gli antichi sacerdoti egizi, così come fino a tempi recenti i Mandarini e i più colti
cinesi, sapevano a mente centinaia e centinaia di ideogrammi.
Ma uno sforzo del genere è oltre le possibilità di chi non specializza la sua esistenza
al fine di riuscire in tale sforzo. Perciò fin da epoche remote (molte migliaia di
anni prima di Cristo) gli esseri umani in varie parti del mondo hanno cercato e trovato
un’altra soluzione. Hanno cioè scoperto e messo in funzione una terza famiglia di
codici semiologici: i codici del raggruppamento o, come si dice, della ‘combinazione’.
Il potere della combinazione è stato prima vissuto concretamente sotto la spinta dei
fatti e solo poi sfruttato artificialmente. E ci sono poi volute migliaia e migliaia
di anni prima che un grande filosofo e matematico francese, Blaise Pascal (1623-1662),
e un grande filosofo e logico tedesco, Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716), riuscissero
a spiegare bene lo straordinario potere dei raggruppamenti combinatorii.
Ognuno di noi vive nelle cose questo potere. Voi siete per strada, un signore vi cammina
accanto, vi pesta un piede, vi dice: «Scusi». Voi lo scusate e lasciate perdere. Ma
ora, attenzione, occhio alla ‘combinatoria’. Voi siete per strada, un signore vi cammina
accanto, vi dice: «Scusi», e, poi, vi pesta un piede. Voi avete varie reazioni possibili: dal restare di stucco al
dargli a vostra volta un bel pestone.
Dunque è possibile che gli stessi atti, messi in ordine diverso, acquistino un valore
differente. Un pestone seguito da espressioni di scusa è un conto, un’espressione
di scusa seguita da un pestone è un altro conto.
A un certo punto, lo sviluppo delle tecniche, dei commerci, dei gruppi di popolazione,
ecc. mise gli esseri umani dinanzi alla necessità di nominare ordinatamente non più tre, sei, dieci, dodici, tredici cose, ma cento, mille e più cose. Essi non
inventarono altrettanti segni diversi. Invece, pur in luoghi diversi e lontani, in
Asia come nell’America centromeridionale, misero a frutto la proprietà per cui due raggruppamenti possono essere diversi sia se sono fatti di cose diverse o di numero
diverso (e questo era già abbastanza ovvio) sia se sono fatti delle stesse cose ma disposte in ordine diverso.
Per costruire i nomi della serie numerica oltre il dieci non ci serviamo di nomi diversi
tra loro nel modo in cui sono diversi uno da due o tre, da quattro o sei, da nove o da dieci. Ma ci serviamo di nomi che sono costruiti raggruppando in vario ordine pochi nomi,
nomi che sono poi sempre gli stessi, cioè i nomi delle unità, delle decine, del cento
e del mille.
Per imparare a contare fino a 99 non dobbiamo imparare novantanove nomi diversi. Ci
bastano i nomi delle prime nove unità e in molte lingue i nomi delle prime nove decine.
Del resto, ci vuole anche meno: i nomi delle decine in molte lingue sono fatti in
modo da richiamare da vicino i nomi delle nove unità. Anche in italiano trenta ricorda tre, settanta ricorda sette,ecc.
Il bambino che impara a contare fino a 99 ha in realtà da imparare i nomi delle nove
prime unità e il nome delle decine. Arrivati al nome del “novantanove”, basta imparare
soltanto un altro nome nuovo, cento, il cui significato è “decina di decine di unità”, per essere di colpo in grado di
costruire i nomi composti di numeri per contare (“raccontare” e “numerare”) i numeri
fino a 999. Un nome, un altro nome soltanto, mille, il cui significato è “decina di cento”, “decina di decine di decine di unità”, e
ci si spalanca davanti la distesa ordinata di numeri fino a 999.999. L’aggiunta di
appena altri due nomi al nostro vocabolario di base della numerazione, milione “mille di mille”, e miliardo “mille di mille di mille”, “mille milioni”, ha un effetto ancora più grandioso: possiamo
nominare distintamente e ordinatamente tutti i numeri che vogliamo fino a cifre gigantesche,
che servono solo ad astronomi e a Paperon de’ Paperoni (ma su lui e su tutta la questione
dovremo tornare più oltre, nel capitolo 8).
Combinando insieme in modo ordinato i nove nomi delle nove unità, i nove nomi delle
nove decine, i nomi cento e mille (con la sua variante -mila), i nomi milione e miliardo, dunque in tutto appena ventidue nomi di base, riusciamo a nominare ordinatamente
e distintamente 999.999.999.999 numeri diversi.
L’italiano e alcune lingue neolatine sono meno risparmiatrici di altre. Sull’esempio
del latino hanno nomi non chiaramente decomponibili anche per i numeri che vanno da
11 a 19. A voler sottilizzare si può dunque dire che le unità di base della numerazione
fino ai miliardi sono non ventidue, ma trentuno.
Un semplice codice della certezza, tipo quello dello Zodiaco, ci obbligherebbe a tenere
a mente altrettanti segni ciascuno del tutto diverso dagli altri. È uno sforzo che
nemmeno il più paziente dei Mandarini cinesi avrebbe saputo reggere. Molti millenni
prima del grande Pascal e del grandissimo Leibniz, da qualche parte fra Asia ed Europa,
popoli che ancora non sapevano scrivere, ma certo già possedevano la parola, hanno
inventato con le poche parole che avevano e per i bisogni già grandi che avvertivano,
questo sistema di raggruppamento, questa arte combinatoria mirabile, che ancora usiamo.
Con una manciata appena di parole, ancora oggi, imitandoli senza saperlo, seguendoli
senza conoscerne il nome, siamo in grado di mettere ordine e di scambiarci notizie
su miliardi di milioni di numeri e cose diverse. Il risparmio è evidente.
7. Il gioco delle parti
Ripercorriamo ora quel che si è detto delle tre famiglie di linguaggi e di codici
semiologici incontrati finora:
a) i linguaggi della certezza: codici semiologici a segni non articolati, di numero limitato, senza sinonimia, come i codici delle spie luminose accese o spente, ecc. (capitolo 5);
b) i linguaggi del risparmio: codici semiologici a segni non articolati, di numero limitato, senza sinonimia, ma ordinati, come i segni dello Zodiaco o le lettere degli alfabeti (capitolo 6);
c) altri linguaggi del risparmio: codici semiologici a segni articolati, di numero limitato, senza sinonima, ordinabili (fine del capitolo 6).
I linguaggi che sfruttano il diverso ordine di un numero ristretto di elementi per
costruire un gran numero di segni diversi sono dunque linguaggi combinatorii. E i
loro segni, diversamente dai segni delle prime due famiglie di codici, sono ‘articolati’:
ossia sono fatti di parti la cui diversità può essere significativa. Queste parti
vengono dette ‘unità (del codice)’ o, anche, ‘monemi’ (dal greco mónos “unico”).
Vediamo meglio le cose in concreto. Nei cataloghi, per esempio di stoffe o attrezzi
o utensili, ecc., nei cataloghi delle grandi biblioteche, in altri tipi di ‘classificazioni’
si ricorre a linguaggi del tipo c. Dobbiamo ritrovare pezze di stoffa di centinaia di tipi differenti per sceglierle,
venderle, comprarle. Potremmo dare a ogni pezza di stoffa un suo contrassegno particolare,
diverso da ogni altro contrassegno. Avremmo un codice del tipo b. Ma quanta fatica per adoperarlo! Fabbricante, commerciante, compratore dovrebbero
tenere a mente centinaia, magari migliaia di simboli diversi. Un catalogo è fatto
perciò in modo diverso.
I cataloghi catalogano. Nel suo linguaggio il catalogo non solo individua una pezza
di stoffa tra le altre (codici del gruppo a), non solo mette in fila le pezze di stoffa (codici del gruppo b), ma raggruppa, suddivide e ‘articola’ gli elementi cui si riferisce, i sensi. Nel
nostro esempio le stoffe possono venire catalogate in gruppi distinti. E ciascun gruppo
corrisponde a una parte dell’articolazione dei segni stessi, è espresso da un monema.
Vediamo meglio. Un catalogo di stoffe distingue per esempio le stoffe a seconda dei
tipi di tessuto: I = “alpaca”, II = “batista”, III = “broccato”, IV = “cotone”, ecc.
Supponiamo che distingua così venti tipi di tessuto. Per ogni cifra romana c’è un
comparto del negozio. Per ogni tipo distingue quattro qualità di prezzo e fattura:
A = “lusso”, B = “buono”, C = “medio”, D = “andante”. Ogni qualità ha un suo scaffale.
Per ogni tipo e qualità distingue le pezze di stoffa secondo sette colori: bianco,
nero, verde, rosso, giallo, blu, viola. Ogni colore ha un suo ripiano dall’alto in
basso. A questo punto il catalogo può già comodamente ordinare 20 x 4 x 7 = 560 diverse
pezze di stoffa. Se a questo punto si introduce un’altra distinzione (P = pesante,
a sinistra nel ripiano, L = leggero, a destra nel ripiano; oppure E = estivo, sinistra,
I = invernale, destra, M = mezza stagione, al centro) le pezze ordinate diventano
1.120 o, addirittura, 1.680.
Chi adopera un catalogo sa bene quali sono i vantaggi. Se vediamo il significante
/IV A ver. E/, questo non serve solo a trovare una pezza tra 1.680. Anche senza che
la si trovi, il significante permette di prevedere che cosa bisogna fare per trovarla: andare al reparto del cotone, al primo scaffale
(lusso), al terzo ripiano (verde), sulla sinistra (tessuti estivi). E, anche senza
vedere la pezza, il significante permette di conoscere le qualità che si è deciso
di scegliere come fondamentali.
Anche nell’ordinare i volumi di una biblioteca si può, e oltre un certo limite conviene
e si deve, ricorrere a questo sistema. Finché uno ha a che fare con cento, duecento
volumi, può tenerli come capita, ordinarli per altezza o per ordine di acquisto e
di arrivo. Ma già mille volumi cominciano a rendere utile un catalogo. Per cinque,
diecimila, centomila volumi il catalogo diventa necessità. Possiamo dividere i volumi
a seconda delle stanze in cui stanno, supponiamo dieci stanze, indicate ciascuna da
una lettera maiuscola. In ogni stanza un tipo di argomenti: Religione, Filosofia,
Storia, Letteratura... In ogni stanza supponiamo che ci siano dieci scaffali: li indichiamo
con cifre romane. Ogni scaffale una lingua: Greco, Latino, Italiano... In ogni scaffale
dieci ripiani: li indichiamo dall’alto in basso con lettere minuscole. Ogni ripiano
mezzo secolo: dal Cinquecento a oggi. In ogni ripiano cento libri: li indichiamo con
una cifra araba, da 1 a 100. Possiamo ordinare così fino a centomila volumi.
Il segno a quattro posti ci darà, al solito, una gran quantità di informazioni: /C
III a 22/ ci dice: “Vai nella terza sala, al terzo scaffale, e rimediati la scala
per salire fino al ripiano più alto, sulla sinistra del ripiano trovi il libro che
cerchi, il numero 22”. Ma ci dice anche: “È un libro di storia, in italiano, del primo
Cinquecento”.
Gli esempi si possono moltiplicare. Ma ognuno può ora farlo da sé. Basta guardarsi
intorno, sono innumerevoli i cataloghi e le classificatorie: le targhe delle automobili
di ogni Stato; i simboli delle molecole composte dai 103 elementi chimici dell’Universo;
i semi o colori in cui si raggruppano le 40 carte napoletane o le 54 da poker e bridge;
le lettere maiuscole e i numeri che permettono di individuare le caselle di una scacchiera,
di una battaglia navale, di una carta topografica; le coppie ordinate di numeri che
permettono di individuare ogni punto di un piano definito da assi cartesiani; i gradi
di longitudine e latitudine; la combinazione tra colori fondamentali e fondo unito
o ripartito a strisce orizzontali o verticali con cui si distinguono maglie di squadre
di calcio, bandiere di città e paesi.
Ogni tecnica, gioco, scienza, organizzazione passa attraverso la costruzione di un
codice semiologico articolato, che, con pochi elementi di base, permette di formare
un gran numero di raggruppamenti diversi e, quindi, di segni diversi.
Con la diversità dei segni possiamo giocare, come facciamo con le carte o con i giochi
sulla scacchiera. Oppure possiamo mettere ordine nelle conoscenze e nelle scelte da
fare in un certo campo che ci interessa, dalle sostanze chimiche alle automobili,
dalle stoffe al regno vegetale e animale.
Mamme, babbi, nonne, zii, parenti tutti si entusiasmano quando il bambino o la bambina
comincia a sorridere. Lo abbiamo già visto e abbiamo già spiegato che hanno ragione
(capitolo 2). Poi tornano a entusiasmarsi quando il bambino o la bambina balbetta
la prima parola, verso i dieci mesi. Da quel momento in poi i piccoli della specie
umana imparano sempre più e meglio a imitare e ripetere decine di parole: mamma, papà, pappa, acqua... Per loro ripetere è diventato un gioco. Un gioco piacevole: con poco sforzo, imitano
gli esseri adulti da cui dipendono in tutto. E li seducono: ogni ripetizione è, all’inizio,
un accorrere di genitori, nonne, parenti, vicini. Il gioco continua. Le diverse parole
che il bambino sa ripetere sono sempre più numerose: cento intorno ai venti mesi.
Un po’ alla volta l’entusiasmo dei vicini e dei parenti si raffredda. Poi cedono anche
le nonne, i padri, certe volte perfino le madri. E fanno male.
Fino a questo punto il parlare del bambino è stato solo un ‘codice della certezza’.
Ogni parola è un segno a sé che serve per nominare in blocco una situazione, per richiamare
l’attenzione degli adulti, per avere la pappa o l’acqua o per segnalare, spesso, fastidi
o meno nobili necessità. Quando il piccolo essere sa un centinaio di parole, gli adulti
finiscono col distrarsi da lui. Lo lasciano per conto suo. Lui o lei qualche volta
si incanta nel gioco della ripetizione: ripete e ripete e ripete, sillabandola, sempre
la stessa parola. L’entusiasmo degli adulti rischia di cambiarsi in noia. Ma, intanto,
mentre in apparenza ripete, mentre come emittente pare solo un ripetitore, il suo
cervello lavora freneticamente. Le mamme più pazienti se ci fanno caso possono accorgersi
che, come ricevente, il piccolo sta facendo passi da gigante. Grazie alle parole che
egli ripete, si è messo in grado di capire un numero sempre maggiore di frasi diverse
degli adulti. Il piccolo sta rivivendo nel giro di poche settimane esperienze che
la specie cui appartiene ha vissuto per decine di migliaia di anni, tra una grande
glaciazione e l’altra. Egli sta scoprendo e sperimentando i miracoli dell’arte combinatoria.
Mentre come emittente usa la lingua come un codice di primo tipo, come ricevente è
già oltre. Già sta scoprendo che le frasi degli adulti sono diverse tra loro perché
raggruppano in modi diversi poche decine di parole.
Alla soglia dei due anni, un po’ prima le bambine, un po’ dopo i bambini, i piccoli
ripetitori apparenti tentano una nuova avventura. Non più il gioco della ripetizione
e del nominare, ma il gioco della combinazione di parti. «Mamma acqua», «mamma pappa»;
risuonano le prime frasi a due posti, spesso tra la disattenzione generale.
Bambine e bambini hanno fatto in quel momento un grande, immenso salto. Hanno capito
che con due parole si possono ottenere sei diverse frasi fino a due posti, con tre
parole dodici frasi fino a due posti, ecc. Hanno scoperto le virtù dell’articolazione
e della combinazione.
Da quel momento, le parole funzionano per il bambino come carte da gioco, come unità
di base di una combinatoria. Con esse il bambino gioca, comunica, mette ordine nei
suoi rapporti con i grandi, con le cose.
Gioca e rigioca con il codice semiologico del terzo tipo che ha imparato. E ancora
non sa bene che, con questo strumento tra le mani, in testa, egli si è conquistato
ben più del molto che pure abbiamo già detto. Imparando a giocare con le parti di
una frase, sostituendole, raggruppandole in vari modi, bambine e bambini si aprono
una porta sull’infinito.
8. I linguaggi dell’infinito
Qualunque lettore di questo libro sa certo contare. Uno, due, tre... centodiciotto, centodiciannove... milleseicentoventi, milleseicentoventuno... E poi? Poi, avanti, milleseicentoventidue, milleseicentoventitre... Eccetera, eccetera. Eccetera: parola italiana che viene da un’espressione latina,
et cetera, “e tutti gli altri che restano”. Ma quanti numeri restano? Quanti sono i numeri
che possiamo contare?
Genitori e insegnanti qualche volta si sono trovati dinanzi a questa domanda. Alla
domanda possiamo rispondere in due modi. Possiamo rispondere per dir così in via di
fatto. Quanti numeri in fila da uno in su sa contare Tizio in un minuto? Se Tizio è una ragazzina o ragazzino che «sta
sotto» e conta mentre i compagni si stanno nascondendo, Tizio viaggia a velocità supersonica
e magari è anche capace di arrivare a cento in mezzo minuto. Se è una persona che
conta in fretta ad alta voce, arriverà all’ottantina. Se conta mentalmente, arriva
anche oltre in mezzo minuto. Possiamo dire che in un minuto si arriva mentalmente
a 150? Ammettiamolo. E poi? In verità non ha nessuna importanza sapere quanti numeri
da uno in su conta una persona in un’ora, in un giorno, in un mese o, magari, in tutta
la vita. La cosa importante che sappiamo e possiamo dire è un’altra. E molti, del
resto, l’hanno ascoltata stando tra i banchi di scuola.
Dato un qualunque numero, per quanto grande, possiamo sempre aggiungere un’unità e
passare al numero immediatamente successivo. Per questo motivo, diciamo che il numero
dei numeri non ha limite, il numero dei numeri non è finito. Nessuno mai ha potuto dire: ecco li ho contati
tutti. Là dove si ferma, un altro può ricominciare. Il numero dei numeri non ha fine,
è ‘infinito’.
Attenzione. Nessuno, contando, arriva mai all’infinito. Nessuno può dire: ecco, al
momento attuale, sono arrivato all’infinito. Anche Paperon de’ Paperoni, arrivato
a contare un fantastilione di fantastilioni e trecentotremilaquarantun dollari, si
imbatte sempre nel rivale Rockerduck, che aggiunge al suo mucchio un dollaro, e arriva
a un fantastilione di fantastilioni e trecentotremilaquarantadue dollari.
Nemmeno per Paperone è mai possibile arrivare all’infinito. L’infinito, o almeno l’infinito
dei dollari, dei numeri e di ogni altra cosa numerabile, non è mai ‘attuale’. Ci fugge
dinanzi come l’orizzonte mentre corriamo o viaggiamo. L’infinito dei numeri è solo
possibile. È, come già abbiamo accennato, un infinito ‘potenziale’.
Che c’entrano i numeri con le parole e la comunicazione? Anzitutto i numeri sono,
per prima cosa, nomi di numero, cioè nomi di posti in una serie, come già abbiamo detto (capitolo 6). Essi insomma
sono parole. Ecco un punto (forse non il solo) in cui, per capire le cose, chi ha
un’istruzione soltanto elementare si trova in vantaggio rispetto a chi ha un diploma
o, peggio (peggio da questo punto di vista), una laurea. Chi ha un’istruzione elementare
vede e sente “leggere, scrivere, far di conto” come un’unità profonda. A chi invece
ha fatto studi più avanzati, anni dopo anni è stato stampato bene nella mente che
da una parte stanno la letteratura, le arti, la parola e dall’altra parte i numeri,
la matematica e le altre scienze. A chi ha fatto studi superiori e universitari tocca
faticare molto, camminare fino ai confini attuali del sapere, per riscoprire, in fondo,
quello che sente d’istinto chi ha meno istruzione: che, in sostanza, i numeri sono
nient’altro che uno speciale gruppo di parole e che, per capire come funzionano le
parole, non si può fare a meno di capire anche un po’ come sono fatti e funzionano
i numeri. Ma c’è un secondo aspetto.
Gli antichi popoli della preistoria (capitolo 6) si sono aperti la strada verso la
numerazione e il simpatico Paperon de’ Paperoni può oggi arrivare a contare un fantastilione
di dollari e aggiungervi uno, perché essi e il nostro papero multimiliardario sanno
dominare un codice articolato. Essi sanno usare un codice i cui segni sono raggruppamenti
di monemi (capitolo 7): e i monemi sono parole (e tra le parole i nomi dei primi nove
numeri, delle prime nove decine, del cento, del mille, ecc.), o sono cifre (I, V,
X, L, C, D, M nella numerazione romana antica; 0, 1, 2... 9, nella numerazione araba
moderna).
Il codice dei numeri e delle cifre non è soltanto articolato come i codici della famiglia
c.Ha una proprietà in più. I suoi segni sono potenzialmente infiniti. Le cifre arabe,
per esempio, per essere di numero potenzialmente infinito, debbono avere due caratteri:
1) deve valere la regola per cui la ripetizione o, detto in latino, la ‘iterazione’
di una stessa cifra dà luogo a segni diversi: 1 è diverso da 11, 111, 1.111 (non c’è
bisogno d’essere attaccati al denaro come Paperone per capire che 111 dollari sono
cosa ben diversa da 11 dollari o da uno solo);
2) deve valere la regola per cui, data una cifra lunga come può essere per esempio
4.523.789.023.561
è sempre possibile scriverne una più lunga, aggiungendo un posto a destra o a sinistra,
per esempio
45.237.890.235.612
oppure
54.523.789.023.561
Se un codice articolato ammette queste due regole di formazione dei suoi segni, ebbene
allora questo codice ammette un numero di segni potenzialmente infinito.
La cifrazione araba o quella romana ammettono queste due regole di formazione di qualunque
loro cifra e sono quindi codici semiologici i cui segni sono di numero potenzialmente
infinito.
Anche la simbologia chimica funziona allo stesso modo. Non c’è limite a destra del
numero di simboli di elementi chimici che possiamo teoricamente scrivere. Il numero
di formule che essa può individuare è un numero potenzialmente infinito.
Torniamo ora al linguaggio verbale, alle frasi, alle parole. Quante sono le frasi
di una lingua? Possiamo ragionare in due modi. I nomi di numero sono parole, i nomi
di numero sono potenzialmente infiniti, dunque già di per sé le parole di una lingua
sono potenzialmente infinite. A maggior ragione le frasi, che sono combinazioni di
parole, sono potenzialmente infinite. Ma questo modo di ragionare commette quel peccato
tanto comune che i Gesuiti del Seicento chiamavano, in latino, repressio veri et suggestio falsi, “soppressione di un pezzo di verità e suggerimento di una cosa falsa, che non viene
detta, ma suggerita”.
Questo modo di ragionare può far credere che siano infinite le frasi di lingue usate
da persone che conoscano il sistema della numerazione all’infinito. Dunque, solo lingue
di popoli relativamente civilizzati. Ma non è così. Non badiamo ai numeri. Badiamo
alle due regole caratteristiche dei codici semiologici con segni potenzialmente infiniti.
Chiediamoci allora: le frasi di una lingua rispondono a quelle due regole? Vediamo.
1) Se data una frase ripeto più volte un elemento, effettivamente la frase può cambiare
e cambia. Se dico
Questo è il libro del cugino
è un conto. Se dico
Questo è il libro del cugino del cugino
è un altro conto. Una cosa sono gli amici, un’altra gli amici degliamici, un’altra ancora gli amici degli amici degli amici.
Dunque, le frasi di una lingua rispettano la regola 1.
2) Immaginiamo una frase lunga quanto si vuole, una di quelle frasi sterminate che
si leggono a volte nei comunicati sindacali o politici mal fatti, in certe leggi scritte
male, perfino in articoli di giornali un po’ sproloquianti. Per quanto brutte, ineducate
verso i lettori, queste frasi possono esistere.Data la frase più lunga che si sia mai trovata, possiamo sempre aggiungere all’inizio
un A mio avviso, oppure La frase piùlunga che conosco dice che, ecc.; così come possiamo aggiungere alla fine un per dirla tutta, in mezzo, un bel po’ di per così dire, eccetera. Insomma, ogni frase può sempre essere allungata un po’.
Per questi due motivi le frasi di una lingua sono potenzialmente infinite. Ma lasciamo
per ora da parte le frasi. Esse, come vedremo, hanno anche altre importanti caratteristiche.
A causa di queste, le lingue non si lasciano ridurre e ingabbiare nella famiglia di
codici come la cifrazione araba o la simbologia chimica. Le lingue includono anche le proprietà di questi codici, ma non si esauriscono in ciò. Torniamo invece alla
quarta famiglia di codici che abbiamo imparato a conoscere. Li definiremo così:
d) i più semplici linguaggi dell’infinito: codici semiologici a segni articolati, di numero illimitato, senza sinonimia, ordinabili in modi infiniti.
Anche i segni del catalogo delle stoffe possono essere ordinati variamente. Grazie
a questa possibilità, mettiamo insieme tutte le indicazioni di catalogo con dentro
/rosso/ e ritroviamo tutte le stoffe rosse; isoliamo tutte le indicazioni con /E/
e ritroviamo tutte le stoffe estive. E via dicendo.
Nel caso delle cifre arabe non abbiamo soltanto vari modi. Ne abbiamo infiniti. Possiamo
ordinare le cifre in dispari, cioè non divisibili per due, e in pari (multipli di
due). Ma anche in multipli di 3, 4, 5... n, n + 1, ecc. Non ci sono limiti alle possibilità di raggruppare in ordini diversi le infinite
cifre.
9. I linguaggi per risolvere problemi
Le cifre, i simboli chimici, gli altri linguaggi a segni articolati di numero infinito
conservano intatta una proprietà dei linguaggi più semplici. Sono ancora linguaggi
della certezza.
Un senso, se appartiene al significato di uno degli infiniti segni di tali codici,
non appartiene a nessun altro significato. Un insieme finito di oggetti è fatto di
tot oggetti: c’è uno e uno solo degli innumerevoli numeri che esprime questa quantità.
Se il numero di oggetti è indicato da /43/ non può essere indicato da nessun altro
numero. E nessuna quantità indicata da un altro degli infiniti numeri e cifre arabe
può essere indicata da /43/.
Una molecola di una delle infinite sostanze del cosmo, se è indicata da /H2O/ non può essere indicata da nessuna delle altre innumerevoli formule della chimica.
E una molecola indicata da un’altra formula chimica non può essere indicata da /H2O/.
Insomma, come abbiamo già detto, chi usa questi codici nell’usarli non ha problemi
di scegliere la cifra migliore, la formula più adatta. Di cifre, di formule non ce
n’è che una per ciascun senso possibile. Tra i gruppi di sensi, tra i significati
da un lato e i significanti dall’altro lato c’è quel tipo di corrispondenza che in
inglese si chiama one-to-one,cioè “uno a uno”, e in italiano, al solito latineggiando un po’, si chiama ‘biunivoca’.
A un numero, a un valore numerico, tra le infinite cifre arabe corrisponde una cifra
e una sola; a una cifra araba corrisponde un solo valore tra gli infiniti possibili.
Prendiamo due insiemi di oggetti senza elementi in comune e facciamone un insieme
unico. La quantità d’oggetti dell’insieme unico è uguale alla quantità d’oggetti del
primo e del secondo insieme di partenza. Attraverso esperienze perdute nella preistoria lontana
le menti degli uomini hanno imparato la e,la congiunzione che mette insieme, ‘coordina’. È stato un passo enorme sulla via della
ragione. Gli uomini hanno con ciò imparato che una certa quantità d’oggetti, per esempio
sette oggetti, può essere rappresentata da /7/, ma anche da:
/3/ e /4/; /4/ e /3/; /1/ e /6/; /6/ e /1/; /5/ e /2/; /2/ e /5/
Dal punto di vista della comunicazione, dei linguaggi, le addizioni, le innumerevoli
addizioni possibili con gli infiniti numeri naturali, rappresentano dei segni che
stabiliscono una sinonimia. Più esattamente, fare un’addizione significa andare in
cerca del segno che esprime nel modo più semplice una quantità.
L’aritmetica elementare, con le sue cifre indicanti lo zero e innumerevoli numeri
interi, con i simboli delle quattro operazioni, dell’addizione, sottrazione, moltiplicazione,
divisione, col simbolo dell’eguale, è un linguaggio col quale possiamo comodamente
rappresentare un numero infinito di operazioni per scoprire in modo determinato e
preciso, cioè per ‘calcolare’, le possibili sinonimie tra numeri.
Ci troviamo dinanzi al primo esempio di una nuova famiglia di linguaggi, che chiamiamo
‘calcoli’:
e) codici semiologici a segni articolati, di numero illimitato, ordinabili in modi infiniti,
con sinonimia.
Come impariamo per l’aritmetica tra i banchi di scuola, linguaggi del genere sono
eccellenti per stabilire i termini di un problema e per risolverlo. La certezza, qui,
non è più un dato immediato. Certa è la soluzione del problema, che è una e una sola.
L’aritmetica regola il modo in cui andare in traccia della soluzione. Anche in un
calcolo relativamente semplice come l’aritmetica, la soluzione può richiedere tempo.
Così accade quando moltiplichiamo tra loro numeri molto lunghi o facciamo addizioni
con decine e decine di addendi. Ma siamo sicuri che troveremo sempre con certezza
la soluzione.
Appartengono a questa famiglia tutti i linguaggi che, nel corso dei secoli, la matematica
ha costruito per consentirci di porre e risolvere problemi sempre più complessi. Alla
stessa famiglia appartengono anche il linguaggio della notazione musicale, della notazione
di reazione tra sostanze chimiche. Anche in un linguaggio ben noto nella moderna civiltà
dei trasporti, la segnaletica stradale, troviamo parecchi sinonimi. Per esempio, a
un incrocio, il divieto di svolta a sinistra può essere espresso sia con l’indicazione
barrata di svolta a sinistra, sia con l’indicazione di obbligo d’andare o dritti o
a destra.
E il linguaggio verbale? Sono molte le sue parentele con i codici di questo tipo.
Vi sono anzitutto parentele, per dir così, storiche. Gli esseri umani hanno potuto
costruire l’aritmetica perché avevano le parole per nominare i numeri e le parole
per indicare operazioni come aggiungere, sottrarre, moltiplicare, dividere, stimare
eguali o diverse delle quantità. Dall’aritmetica a mano a mano sono nati linguaggi
matematici sempre più generali. Essi si lasciano sempre più difficilmente riportare
alle parole di una lingua storico-naturale. Ma, per quanto lungo e aspro sia il cammino,
il più astruso linguaggio matematico trae di qui, dalle parole d’ogni giorno, la sua
origine e il suo nutrimento.
E lo stesso vale per ogni altro linguaggio di questa famiglia. Come mettersi d’accordo
sul valore delle note musicali o dei segnali stradali o dei simboli chimici senza
parole?
Ma tra il linguaggio verbale e questi linguaggi utili a calcolare sinonimie non è
questa la sola parentela.
Moltissimo, nel funzionamento di una lingua, può essere rappresentato come se la lingua
fosse un calcolo. Anche le frasi di una lingua possono stabilire sinonimie. Così avviene
quando, per esempio, affermiamo: «L’ipotenusa è il lato del triangolo rettangolo opposto
all’angolo retto», oppure: «Un disoccupato è uno che è iscritto alle liste di collocamento,
ma non ha lavoro». Con queste frasi facciamo delle operazioni di calcolo delle sinonimie,
come quando calcoliamo 3 x 7 = 21.
Alcuni esempi di codici con sinonimia: il codice aritmetico, quello della segnaletica
stradale e quello musicale
Ma ci sono anche altre analogie. Abbiamo già visto che la congiunzione e può equivalere al simbolo +, che indica l’operazione dell’addizione nell’aritmetica.
In un’operazione aritmetica le cifre indicano i vari numeri, i simboli +, -, ecc.
indicano l’operazione. Similmente accade in una frase. Ci sono parole o parti di parole
che indicano sensi esterni alla frase e parole o parti di parole che, come i simboli
dell’operazione aritmetica e dell’eguale, indicano le operazioni da compiere.
In una qualsiasi frase, per esempio,
il gatto beveil latte
le parti in tondo corrispondono alle cifre nelle operazioni aritmetiche. Le parti
in corsivo corrispondono ai simboli delle quattro operazioni e all’eguale.
Nelle quattro operazioni come nelle frasi c’è insomma uno schema, uno scheletro di
forme, e ci sono parti mobili. Queste sono le cifre, nel caso delle espressioni aritmetiche,
e sono le parti in tondo delle parole, i ‘temi’ delle parole. Sulle cifre operiamo
nei modi indicati dai simboli + o -, x o :. Nelle frasi, mettiamo insieme i temi delle
parole nel modo che ci è indicato da articoli, desinenze dei nomi e dei verbi, preposizioni,
congiunzioni.
Ci sono dunque importanti aspetti per cui le frasi rassomigliano a operazioni aritmetiche
e, quindi, la lingua somiglia a un calcolo.
Del resto, ciò è stato in qualche modo avvertito in tutte quelle culture ed epoche
in cui si è adoperata una stessa parola per indicare il discorso fatto di parole e
il calcolo con i numeri. Così era in greco antico, dove lógos significava a un tempo “calcolo” e “discorso”. Così è in molti dialetti italiani in
cui contare vuol dire “raccontare” e “numerare”. Così era in italiano antico, in cui noverare valeva “contare, numerare e raccontare”. Similmente in medio tedesco Zahl vuol dire sia “numero” sia “notizia, racconto”. In tedesco moderno Zahl vuol dire solo “numero”. Ma l’antico significato germanico si è conservato in lingue
sorelle del tedesco, l’olandese, in cui taal vuol dire “lingua”, e l’inglese, in cui la parola affine a Zahl è tale “racconto”, così come zahlen “contare” corrisponde a to tell “raccontare, dire”. Anche la parola russa che vuol dire “numero”, islo, si collega a una parola dell’antico slavo che voleva dire sia “contare” sia “leggere”.
In parecchie lingue le parole che vogliono dire “numero”, “conto” non solo sono simili
o eguali a quelle che vogliono dire “discorso”, “racconto”, ma anche a quelle che
vogliono dire “ragione”. Un buon esempio è proprio la famiglia di parole a cui apparteneva
in latino ratio, che voleva dire sia “misura, conto”, sia anche “stima” e “ragione”. Da ratio, sono nati i vocaboli italiani ragione, ragionare, che alludono di volta in volta al pensare, al discorrere e al calcolare. (Di qui,
da questo terzo tipo di sensi, hanno origine i vocaboli ragioniere e ragioneria).
Misurare e parlare: in queste due attività sembra raccogliersi la capacità di riflessione
degli esseri umani. Popoli diversi, ciascuno nella sua lingua, hanno mostrato di rendersi
conto di questa comunanza del parlare e del calcolare, delle lingue e dei conti, che
a volte certe persone colte stentano a capire (capitolo 8).
Se ci sono questi scambi, queste unificazioni di parole, certo qualche motivo c’è.
C’è qualche somiglianza tra il linguaggio verbale e i codici semiologici del quinto
tipo, i codici dei problemi risolvibili attraverso calcoli che riducono al noto l’ignoto.
Eppure, d’altra parte, è un fatto che, dal più al meno, troviamo in molte lingue vocaboli
distinti per indicare discorsi e calcoli, parlare e calcolare. Anche questo bisogno
di distinzione ha le sue eccellenti ragioni.
10. Il filosofo e Pulcinella
Nella prima parte di questo secolo un uomo più di ogni altro ha cercato di capire
come funzionano i linguaggi, e in particolare le parole. Era un austriaco, ingegnere
e poi filosofo: Ludwig Wittgenstein (1889-1951). Ancora giovane, egli scrisse un primo
libro molto importante, al quale dette un titolo latino (ma il resto del libro era
in tedesco): Tractatus logico-philosophicus (1922). Il Trattato logico-filosofico è l’ultima grande opera scientifica nella quale si sia cercato di sostenere che una
lingua è un calcolo, che le frasi sono come operazioni aritmetiche con i loro simboli
funzionali (le preposizioni, le congiunzioni, ecc.) e i loro numeri (le parole).
Diversi anni dopo, al giovane austriaco fu offerto di studiare e insegnare all’università
di Cambridge in Inghilterra. Wittgenstein accettò. E visse prevalentemente in Inghilterra
fino alla morte. A Cambridge, egli incontrò un ambiente scientifico e intellettuale
degno di lui. Tra gli altri, incontrò un grande economista di origine italiana, andato
via dall’Italia perché antifascista e grande amico di Antonio Gramsci: Piero Sraffa
(1898-1983). Specialmente con Sraffa Wittgenstein ebbe conversazioni lunghe e appassionate
sulle sue teorie. A Sraffa cercava di spiegare i suoi punti di vista, per cui le parole
di una frase o sono simboli funzionali delle operazioni da eseguire con le parole
o sono parole, il cui valore sta negli oggetti che rappresentano. E la frase è quindi
una fila ordinata di simboli, una ‘struttura’, né più né meno delle espressioni dell’aritmetica
o dell’algebra.
Raccontano le storie che un giorno la discussione diventò molto accalorata. Sraffa
resisteva agli argomenti di Wittgenstein. E a un certo punto, per manifestare la sua
incertezza e il suo disaccordo, fece un gesto tipico della sua patria, un tipico segno
del linguaggio dei gesti, nato a Napoli e diffuso in Italia.
Da molti secoli a questa parte Napoli è stata la capitale, la Firenze, del linguaggio
per gesti o ‘gestuale’. Tra i molti gesti, un posto importante hanno i vari tipi di
grattatine. Per esempio, c’è la grattatina sulla testa. La si fa quando non ci si
ricorda qualcosa, per significare “aspetta, sto cercando di ricordare”. (Pulcinella,
che era un grande osservatore di fatti linguistici e semiologici, amava dire nel suo
latino un po’ improvvisato: grattatio capitis facit recordare cosellas, “la grattatina della testa ci fa ricordare le cose anche più minute”). Ma nella
serie delle grattate che hanno valore di segni c’è anche un’altra grattatina. È quella
che si fa, di solito con la punta delle dita della mano destra, sfregando la parte
sinistra del mento ripetutamente, dal basso in alto, da destra verso sinistra. Il
gesto è carico di significati. A tradurlo in parole ci vuole un intero discorsetto,
che più o meno potrebbe essere questo: “Sì, vedo. Certo, le cose pare proprio che
stiano così. Però, eh: c’è qualcosa che non vedo, ma sento che c’è, e che non mi persuade.
No, forse le cose non stanno così. Ma nemmeno di questo sono sicuro”.
Ebbene, la storia dice che un giorno, quel giorno, l’economista italiano Sraffa fece
proprio quel gesto. E Wittgenstein d’improvviso restò come di sasso. Un pensiero attraversò
la sua mente e, da quel momento, non lo abbandonò più.
Il gesto di Sraffa era certamente un segno. Esprimeva, e bene, qualcosa. Ma inutilmente
nel gesto si sarebbe cercato il pezzo che voleva dire “sì” e il pezzo che voleva dire
“sicuro”, il pezzo che voleva dire “sento” e il pezzo che voleva dire “cose”, e via
seguitando. Il segno tutt’insieme serviva a comunicare un’esperienza. E rispondeva
bene a questo scopo, perché si incastrava in una certa particolare situazione. Un
segno, per essere tale, non deve essere necessariamente una struttura come una formula
matematica. Ma deve essere sempre, invece, qualcosa che si inserisce in una catena
di rapporti tra persone, tra esseri che interagiscono (capitolo 4).
Da allora in poi Wittgenstein si dedicò a riflettere su quel che c’è nelle parole
e che non c’è nei calcoli, sugli aspetti per cui la lingua non è un calcolo. E raccolse
le sue riflessioni nelle Ricerche filosofiche, un libro che apparve nel 1953, dopo la sua morte.
L’aneddoto che abbiamo riportato è vero. Ha il solo torto di semplificare troppo le
cose. In realtà, non fu solo il gesto di Sraffa a dar da pensare a Wittgenstein. Prima
di andare in Inghilterra, come oggi sappiamo, Wittgenstein aveva per parecchi anni
messa da parte la sua professione di ingegnere e di filosofo, e aveva fatto il maestro
di scuola elementare in diversi paesi austriaci di montagna. Qui Wittgenstein visse
esperienze per lui decisive.
Giovanni Leone, in visita ufficiale a Pisa mentre era presidente della Repubblica
(1971-1978), si rivolge col linguaggio dei gesti a gruppi di studenti che manifestano
opinioni critiche nei suoi confronti