1. Prologo: Jeffrey Eugenides, Middlesex
Nel capitolo Vado a cercarmi nel Webster, Callie Stephanides, sedici anni, trova nel dizionario della biblioteca di New York
la parola con cui il dottor Luce ha definito la sua condizione:
“ERMAFRODITO: 1. biol., che, chi possiede gli organi riproduttivi di entrambi i sessi. Dal greco Hermaphroditos, personaggio della mitologia greca con natura di uomo e donna. Vedi MOSTRO”
Eccola lì, in bianco e nero, MOSTRO, in un logoro dizionario della biblioteca di una
grande città. Un vecchio libro venerabile, grosso e pesante come una lapide, con pagine
ingiallite che portavano i segni lasciati dalle moltitudini che le avevano sfogliate
prima di me [...] Quello era un libro che raccoglieva tutto il sapere del passato
e allo stesso tempo offriva un saggio delle attuali condizioni sociali [...] Callie
fissava la parola MOSTRO. Era ancora lì. Non si era mossa. Non era scritta sulla parete
del vecchio bagno alla Baker & Inglis. Nel Webster c’erano graffiti d’altro genere.
Il sinonimo era ufficiale, autorevole; era il verdetto, il giudizio che la cultura
dava a una persona come me. MOSTRO. Ecco cos’ero (Jeffrey Eugenides, Middlesex, pp. 492-493).
Le parole ci dicono chi siamo. Definiscono non solo quello che siamo, ma anche quello
che possiamo diventare; ci dicono come vestirci, muoverci, comportarci; come amare
e chi amare. Allo stesso tempo ci dicono quello che non siamo e non possiamo diventare; chi non possiamo amare. Le parole plasmano le nostre
identità, plurali e multiformi, e quelle degli altri. Costruiscono mappe di senso
che ci aiutano a navigare nella realtà sociale: le etichette con cui classifichiamo
individui e gruppi (anche le più banali, “uomo” e “donna”, “eterosessuale” e “omosessuale”,
“bianco” e “nero”, “straniero” e “italiano”) consentono di orientarci nei più svariati
contesti sociali.
La contrapposizione fra dimensione descrittiva e dimensione performativa del linguaggio
assume una pregnanza particolare quando sono coinvolte le categorie sociali. In una
prospettiva descrittiva, il linguaggio è una sorta di specchio della società, e come
tale si limita a riflettere i fenomeni sociali, le classificazioni, le distinzioni, ma anche le gerarchie e le
contrapposizioni sociali; in una prospettiva performativa, invece, il linguaggio è
un potente strumento di creazione e cambiamento di oggetti sociali, di costruzione,
rinforzo o revoca di classificazioni e distinzioni. Catalogare individui, nominare
e mettere ordine nell’esperienza, e in particolare nell’esperienza sociale, lungi
dall’essere una mera impresa descrittiva ha allora una straordinaria portata normativa:
le parole fanno qualcosa di più che inventariare gruppi preesistenti di individui
– le parole hanno il potere di dare vita e legittimità a gruppi, gerarchie e contrapposizioni sociali.
La prospettiva performativa è tanto più convincente in quanto classificazioni ed etichette
vengono usate per giustificare e legittimare alcuni atteggiamenti, credenze, comportamenti,
e per sanzionarne altri; giustificazioni e sanzioni a loro volta finiscono per rinforzare
le classificazioni di partenza. In altre parole siamo ciò che siamo anche come risultato
dei tratti che ci vengono attribuiti, o ci vengono attribuiti con particolare enfasi,
e dei tratti che tendiamo ad attribuire a noi stessi. Il fatto che siamo stati caratterizzati
fin dalla nascita come “femmine” o come “maschi”, come “bianchi” o come “neri” – quale
che sia la realtà, biologica o sociale, a fondamento di tali distinzioni – è un fattore
chiave del modo in cui siamo stati visti e trattati, del modo in cui ci siamo visti
e dei comportamenti che gli altri si sono aspettati da noi: questi modi di essere
visti e trattati hanno contribuito in maniera tutt’altro che irrilevante al nostro
“diventare” donne o uomini, bianchi o neri (si veda Haslanger 2006, p. 19).
Definizioni e categorizzazioni influenzano dunque ciò che gli altri si aspettano da
noi, e come gli altri ci tratteranno: in questo senso le parole possono essere concepite
come strumenti di controllo e di gestione sociale. Strumenti che tendono a proiettare su di noi stereotipi, a volte rigidi e soffocanti.
Di per sé gli stereotipi sono semplicemente scorciatoie cognitive, potenti fattori
di senso che hanno un’importanza vitale per gli esseri umani, in quanto aiutano a
dare forma alle nostre credenze e ai nostri comportamenti: sono un “dispositivo di
organizzazione della società, una mappa ideologica che definisce il ventaglio di possibilità
in cui ci possiamo collocare e da cui possiamo valutare gli altri” (Eckert, McConnell-Ginet
2003, p. 87). E tuttavia gli stereotipi hanno il potere di imprigionare o rimpicciolire
la nostra unicità, di ridurre la nostra identità a un’unica componente. Il ventaglio
di possibilità in cui ci possiamo collocare è allo stesso tempo un ventaglio di impossibilità.
La dimensione normativa e di controllo sociale muta le parole in pietre (pesanti “come
una lapide”) per etichette che, come MOSTRO, più di altre racchiudono giudizio, derisione,
disprezzo, e rappresentano modi per stigmatizzare certi individui e certi gruppi,
certi comportamenti o certi affetti. Dedicheremo qui un’attenzione particolare a una
singolare classe di parole, gli epiteti denigratori – espressioni come “terrone”, “puttana”, “negro”, “frocio”: si tratta di espressioni
che hanno una notevole valenza emotiva di carattere negativo, tale da escluderle quasi
dal dominio del “dicibile”. Eppure queste parole popolano le nostre interazioni, reali o virtuali, infestano
aggressioni verbali e attacchi online, corrompono il tifo sportivo e lo scontro politico,
si accompagnano a pratiche di discriminazione e di violenza, fino a fomentare massacri
e genocidi (Tirrell 2012: si veda in questo capitolo il § 6).
Gli epiteti hanno dato vita a un dibattito recente ma intensissimo, non solo in filosofia
del linguaggio e linguistica, ma anche in etica e filosofia politica. La ragione di
questo interesse è duplice. In primo luogo, a differenza degli insulti generici (come
“cretino” o “lestofante”) che colpiscono un individuo, gli epiteti hanno la caratteristica
di colpire insieme un individuo e un gruppo sociale: con “terrone” valutiamo come
degno di disprezzo un individuo e, allo stesso tempo, tutti i meridionali. In secondo
luogo, negli epiteti, alla dimensione descrittiva del linguaggio si accompagna strettamente
la dimensione performativa e valutativa: con “terrone” non solo descriviamo un individuo
come meridionale, ma allo stesso tempo lo giudichiamo come disprezzabile in quanto meridionale.
Anche nell’analisi di questo tipo di espressioni ritroviamo dunque la contrapposizione
fra prospettiva descrittiva e normativa su linguaggio e realtà sociale. Da un lato,
si può sostenere che gli epiteti esprimono disprezzo, derisione e ostilità verso certi
gruppi perché rispecchiano il sessismo, il razzismo e l’omofobia che caratterizzano la nostra società. Dall’altro,
invece, si può affermare che gli epiteti non si limitano a rispecchiare, ma contribuiscono
a generare e rinforzare disprezzo, derisione e ostilità: in una prospettiva performativa
– lo vedremo – le etichette denigratorie sono mezzi simbolici per normalizzare, naturalizzare
o razionalizzare credenze, atteggiamenti ed emozioni negative contro persone, gruppi,
comportamenti, affetti; per stigmatizzarli e de-umanizzarli; per modificarne la posizione
all’interno della gerarchia sociale. Torneremo lungamente su questo punto; ma vediamo
in primo luogo che cosa si intende per epiteti denigratori.
2. Che cosa sono gli epiteti denigratori
Si considerano epiteti denigratori (il termine inglese è slur) quelle espressioni che comunicano derisione, disprezzo o odio verso gruppi sociali
– e verso individui in virtù della sola appartenenza a un certo gruppo sociale. I gruppi target vengono identificati di volta in volta sulla base di certi tratti
sociali (reali o percepiti): etnia, nazionalità, religione, genere, orientamento sessuale,
(dis)abilità, e così via, in linea con la triste litania di pregiudizi che accompagna
la storia umana. Vediamo come vengono caratterizzati gli epiteti in linguistica e
filosofia del linguaggio.
2.1. Parole
Come accennato, gli epiteti denigratori sono parole con un comportamento del tutto
particolare rispetto alle altre espressioni linguistiche, anche quelle usate per comunicare
disprezzo e per ferire. Vediamo alcuni dei tratti distintivi degli epiteti.
i) A differenza degli insulti generici, che comunicano disprezzo, odio o derisione
verso individui, gli epiteti denigratori sono espressioni che comunicano odio verso
gruppi sociali, e verso individui in quanto membri di un certo gruppo sociale. Mentre l’enunciato
(1) Obama è un lestofante
comunica disprezzo solo nei confronti di Obama, l’enunciato
(2) Obama è un negro
comunica disprezzo nei confronti di Obama e di tutti i neri (il gruppo target) in quanto neri.
ii) Gli epiteti denigratori posseggono generalmente una controparte neutra – un termine non denigratorio che è il correlato dell’epiteto e viene usato per riferirsi
allo stesso gruppo: la controparte neutra di “negro” è “nero”, quella di “frocio”
è “omosessuale”, quella di “terrone” è “meridionale”. Se in (2) sostituiamo a “negro” la sua controparte neutra, otteniamo un enunciato
non più denigratorio, neutro appunto:
(3) Obama è un nero.
Epiteto e controparte neutra vengono dunque usati per riferirsi allo stesso gruppo
di individui, ma il primo possiede una componente valutativa e un potenziale denigratorio
assenti nella controparte neutra. È quello che rende inappropriate certe traduzioni,
anche ad opera di strumenti autorevoli come i dizionari o i traduttori automatici:
fino al 2014, Google Translate proponeva come sinonimi di “gay” in lingua inglese i termini denigratori “poof, fag, faggot, fairy, sissy”,
senza sentire il bisogno di specificarne la connotazione estremamente negativa; e
suggeriva, come sinonimi di “omosessuale” in lingua italiana, termini certamente non
neutri come “invertito” e “sodomita”.
iii) Gli epiteti denigratori hanno vasta diffusione e grandissima varietà. Eppure
difficilmente si ammette di utilizzarli: secondo un’indagine Istat del 2012 sulla
popolazione omosessuale in Italia, più dell’80% degli italiani sente conoscenti e
amici riferirsi alle persone omosessuali con etichette denigratorie (quasi il 50%
“spesso” e più del 30% “qualche volta”), ma solo il 30% confessa di usarle. In un autorevole studio sui disfemismi, si afferma che in inglese esistono circa
duemila termini per riferirsi a donne avendo come bersaglio la loro condotta sessuale
(vera o presunta), segno dell’importanza del controllo sociale sulle donne e sul loro corpo (Allan, Burridge 1991). Questa funzione di controllo sociale viene talvolta esercitata tramite epiteti anche
all’interno di gruppi storicamente oggetto di discriminazione: “oreo” (i biscotti al cioccolato
che hanno una crema alla vaniglia al loro interno), “apple” e “banana” vengono usati
per stigmatizzare, rispettivamente, afroamericani, nativi americani e asiatici che
“si comportano come bianchi”, etichettati come neri, rossi o gialli all’esterno, ma
bianchi dentro.
iv) Da un punto di vista psicolinguistico, gli enunciati che contengono epiteti sono
non solo perfettamente compresi da qualunque parlante competente, ma anche compresi
con estrema rapidità. Studi empirici (effettuati grazie a dati di tipo elettrofisiologico,
come l’attività elettrica del cervello misurata tramite elettroencefalogramma, o la
conduttanza cutanea, cioè la sudorazione dei polpastrelli delle dita) mostrano che
la valenza emotiva di insulti ed epiteti viene presa in conto fin dalle primissime
fasi del processo di comprensione (Van Berkum et al. 2009; Van Berkum 2010); epiteti e parole tabù vengono inoltre ricordati con maggior
facilità rispetto ad altre categorie di espressioni (Jay 2008). In confronto a insulti
e peggiorativi generici, tuttavia, gli epiteti vengono in genere percepiti come più dispregiativi e offensivi: come detto, mentre gli insulti colpiscono un individuo a prescindere
dall’appartenenza a gruppi sociali, gli epiteti denigrano l’individuo sulla sola base
della sua (presunta) appartenenza a un gruppo sociale.
v) Il potenziale offensivo degli epiteti è però variabile: alcune espressioni sono cioè percepite come più denigratorie di altre (“negro” è
più offensivo di “crucco”), anche quando sono rivolte contro lo stesso gruppo target
(“negro” è più offensivo di “cioccolatino”) (Saka 2007, p. 148). Gli autori di lingua
inglese si accordano in genere nel considerare “nigger” come l’espressione con il
maggior potenziale denigratorio, anche in considerazione della lunga e atroce storia
di discriminazione che la parola ha accompagnato.
vi) Queste considerazioni valgono quali che siano le effettive credenze di chi parla:
il potenziale denigratorio degli epiteti è apparentemente indipendente dagli stati mentali del parlante. Nella maggior parte dei casi chi usa un epiteto
denigratorio comunica disprezzo per l’individuo e la categoria target, indipendentemente
dal fatto che provi o meno disprezzo nei loro confronti. Allo stesso modo certe espressioni vengono percepite come più denigratorie di altre,
indipendentemente dalle convinzioni di chi le usa. E così se qualcuno osserva, senza
troppo riflettere,
(4) Il frocetto del terzo piano è un ragazzo simpaticissimo,
sta denigrando non solo il ragazzo del terzo piano, ma anche tutte le persone omosessuali
(simpatiche o meno). E la dichiarazione resa in conferenza stampa da Antonio Cassano
ai Campionati europei di calcio del 2012,
(5) In Nazionale non ci sono froci,
era denigratoria nei confronti delle persone omosessuali, e lo resta nonostante i
tentativi di Cassano di negare di avere sentimenti omofobici.
vii) Infine, il potenziale denigratorio degli epiteti varia nel corso del tempo: alcune espressioni in passato considerate neutre hanno cominciato a essere percepite
come offensive; viceversa, altre un tempo considerate denigratorie hanno cessato di
esserlo. Questo vale ad esempio per i termini oggi neutri che designano due partiti
britannici, “Tory” e “Whig”, nati nel XVII secolo come insulti, l’uno con il significato
di “bandito” per riferirsi ai ribelli irlandesi e l’altro con il significato di “pastore”
o “predone” per riferirsi ai ribelli scozzesi; o per “Yankee”, usato a fine Settecento
da parte degli inglesi per riferirsi in modo offensivo agli abitanti della Nuova Inghilterra,
ma ormai privo di molto del suo potenziale denigratorio; o ancora per “quacchero”,
derivato da un termine olandese spregiativo che significa “tremore” (Anderson, Lepore
2013, p. 46n). Lo stesso “nigger” esemplifica questa variazione di potenziale denigratorio.
Introdotto nel Seicento come storpiatura del termine spagnolo e portoghese “negro”
(derivato dal latino “nigrum”, che significa “nero”) con una connotazione condiscendente
e non certo rispettosa, diventa un epiteto quando la storpiatura viene usata intenzionalmente
per segnalare disprezzo verso gli schiavi provenienti dall’Africa. L’attuale uso fortemente
denigratorio si diffonde in America del Nord soprattutto a partire dai primi decenni
dell’Ottocento, in coincidenza non casuale con il crescere del movimento di abolizione
della schiavitù. Negli Stati del Nord gli schiavi affrancati vengono percepiti dai
bianchi come pericolosi concorrenti sul mercato del lavoro, mentre negli Stati del
Sud diventa sempre più difficile giustificare lo schiavismo: si rende necessario rinforzare
anche simbolicamente un’ideologia che normalizzi e razionalizzi una pratica da molti
ormai percepita come intollerabile, bollando i neri come meno che umani e quindi degni
di assoggettamento.
2.2. Contesti
Benché assai diffuso, l’uso degli epiteti, soprattutto in contesti pubblici, è generalmente
considerato un’infrazione: in certi paesi, come negli Stati Uniti, il tabù intorno
agli epiteti razzisti è fortissimo. Gli usi non denigratori sembrano confinati all’interno
di un numero limitato di contesti conversazionali: vediamo quali.
viii) Vengono generalmente considerati non denigratori innanzitutto i contesti citazionali come
(6) Trump ha usato “negro” in un discorso pubblico,
o
(7) Cassano ha detto “In Nazionale non ci sono froci”.
Le virgolette avrebbero il potere di neutralizzare o “sigillare” al loro interno il
potenziale denigratorio dell’epiteto: la responsabilità dell’offesa portata al gruppo
target ricadrebbe rispettivamente su Trump e Cassano, e non su chi proferisce (6)
o (7).
ix) Da alcuni sono giudicati non denigratori contesti che pure non comportano citazioni
(e quindi l’uso delle virgolette): è il caso dei cosiddetti contesti pedagogici, in cui i contenuti razzisti degli epiteti vengono esplicitati o messi in discussione,
come in
(8) Le istituzioni che trattano i neri come negri sono razziste,
(9) Obama è un nero, non un negro,
(10) I razzisti credono che i neri siano negri (Hom 2008, pp. 424, 429).
x) Ammissibili sarebbero anche quei contesti fittizi (romanzi, film, serie tv) in cui l’uso degli epiteti sembra giustificato dall’obiettivo
di descrivere accuratamente un ambiente sociale o un periodo storico. Anche in questi
casi, tuttavia, le opinioni divergono: per l’uso ripetuto della parola “nigger”, il
capolavoro di Mark Twain Le avventure di Huckleberry Finn è stato bandito dalle liste di letture di classici di molti licei statunitensi e
i film di Quentin Tarantino (Jackie Brown, Pulp Fiction, The Hateful Eight e soprattutto Django Unchained – in cui la parola ricorre più di un centinaio di volte) sono stati ferocemente criticati.
Si noti che esistono epiteti persino per gruppi sociali fittizi: nel fumetto Blade i vampiri vengono chiamati “suckheads”; nel film Io Robot (Alex Proyas, 2004), il detective Del Spooner (interpretato da Will Smith) chiama
in modo dispregiativo i robot positronici “canners” (probabilmente da can opener, “apriscatole”); nel fumetto Top Ten, i robot vengono invece chiamati “clickers”, un termine cui vengono attribuite le
stesse connotazioni di “nigger”, e a cui i robot preferiscono “Ferro-Americani” o
“Post-organici”.
xi) Un consenso quasi unanime riguarda invece i contesti di riappropriazione, generalmente considerati non denigratori. Gli usi riappropriativi sono quegli usi
di epiteti da parte di membri del gruppo target volti a esprimere senso di intimità
e solidarietà, a demarcare il gruppo rispetto ai non membri e quindi a rinsaldare
i legami identitari. Ne sono un esempio la riappropriazione del termine “nigger” da
parte degli afroamericani (soprattutto nella sua variante “nigga”, usata nelle comunità
hip hop per segnalare fratellanza e appartenenza); o quella degli epiteti “slut” e
“bitch”, termini denigratori con cui ci si riferisce alle donne, a volte usati dalle
donne in modo rivendicativo, per esprimere forza e opporsi agli stereotipi di genere.
La riappropriazione, negli anni ’90, del termine “queer” da parte della comunità omosessuale
ha una valenza particolare, perché ha portato alla quasi completa neutralizzazione
del potenziale denigratorio del termine. Benché fosse un epiteto estremamente offensivo
(“queer” può essere tradotto con “bizzarro”, ma anche con “mostruoso”), è ora aperto
all’uso anche da parte dei non appartenenti al gruppo target, usato in senso neutro
in ambito accademico in espressioni come Queer Studies e Queer Theory. Torneremo su
questo punto nel Capitolo quarto, § 3.2.
Almeno per quanto riguarda gli epiteti più odiosi, e almeno per quanto riguarda certe
culture, tuttavia, il tabù investe anche i contesti pedagogici (ix) e persino quelli
citazionali (viii): negli Stati Uniti si evita anche solo di menzionare l’epiteto
“nigger”, sostituito nei contesti pubblici (discorsi politici, articoli di giornale,
conversazioni alla radio o in tv) dall’espressione “the N-word”, “la parola che comincia
con la n”. Il tabù si estende addirittura alle espressioni foneticamente simili all’epiteto,
anche se non correlate a esso né per significato né per origine etimologica: alla
fine degli anni ’90, un membro dello staff del sindaco di Washington è stato licenziato
per aver usato, nel corso di una riunione a cui erano presenti colleghi afroamericani,
il termine “niggardly” (traducibile con “avaro”) non correlato all’epiteto, né semanticamente
né etimologicamente (Kennedy 2003, pp. 94-97). Persino alcuni dizionari (come il New Oxford American Dictionary) invitano a usare con cautela i termini “niggard” e “niggardly”, a causa della loro
somiglianza fonetica con “nigger”, somiglianza che può causare confusione e offesa,
pur non intenzionali.
2.3. Target, destinatari, ascoltatori casuali
Il linguaggio d’odio provoca danno. Danno non solo alle sue vittime, siano esse individui o gruppi, ma anche agli ascoltatori
che non fanno parte del gruppo oggetto di denigrazione, nei quali causa la formazione
di credenze razziste o sessiste, e induce comportamenti discriminatori nei confronti
dei target.
xii) Studi empirici mostrano che essere oggetto di insulti razzisti, epiteti denigratori
e frasi d’odio causa negli individui target danni fisici e psicologici, alcuni immediati (paura, ansia), altri a lungo termine
(disordini legati a stress post-traumatico, ipertensione, incubi, psicosi e suicidio:
Delgado 1982; D’Augelli 1992; Swim et al. 2001, 2003; Cowan, Mettrick 2002). Fra i danni provocati si deve annoverare anche l’amplificazione della distanza che
in-group (appartenenti al gruppo target) e out-group (non appartenenti al gruppo target) percepiscono fra i loro due gruppi. Il fenomeno
ha due direzioni: da un lato, di fronte a episodi di discriminazione e denigrazione,
gli out-group (compresi out-group non razzisti, non omofobi e non misogini) provano
sollievo nel constatare di non esserne oggetto; dall’altro, negli in-group si rinforza
il sospetto e l’ostilità nei confronti del gruppo dominante (anche nei confronti dei
suoi membri non razzisti, non omofobi e non misogini: Matsuda 1989).
xiii) Altri studi mostrano come gli epiteti denigratori abbiano un forte impatto non
solo sui target delle parole d’odio, ma anche sugli astanti non appartenenti al gruppo oggetto di denigrazione, che spesso hanno esperienze emotive
negative simili a quelle sperimentate dagli individui target (Dickter 2012; Dickter,
Kittel, Gyurovski 2012). Inoltre, l’esposizione a epiteti influenza come il gruppo
target verrà percepito: gli out-group esposti a epiteti rivolti ad altri tendono a
dare valutazioni più negative del gruppo target (Greenberg, Pyszczynski 1985; Kirkland,
Greenberg, Pyszczynski1987). Infine, la mera esposizione a epiteti provoca negli astanti cambiamenti persino
nella percezione di sé: essere spettatori di epiteti omofobici rivolti ad altri conduce i maschi eterosessuali
a enfatizzare la propria identità sessuale e a distanziarsi dalle persone omosessuali
(Carnaghi, Maass, Fasoli 2011; Fasoli, Carnaghi, Paladino 2012; Fasoli, Maass, Carnaghi
2015). Avremmo così una conferma della prospettiva performativa sul linguaggio d’odio
– che deve essere concepito non solo come un sintomo di omofobia, ma anche come un rinforzo dell’omofobia.
xiv) Queste osservazioni si legano al ruolo tutto particolare che abbiamo anche quando
siamo spettatori di usi offensivi di epiteti rivolti ad altri. Il solo fatto di assistere
al proferimento di un epiteto denigratorio rivolto ad altri ha infatti il potere di
farci sentire parzialmente responsabili: in molte circostanze, il nostro silenzio di fronte agli usi offensivi da parte di
qualcuno sembra trasformarsi in consenso e approvazione, e ci muta in complici della
denigrazione. Il sentimento di complicità che suscita la mancanza di reazione al proferimento
di un epiteto denigratorio è amplificato da una complicità che possiamo definire “linguistica”: il fatto che nella nostra lingua esistano etichette
atte a comunicare disprezzo verso individui (donne, neri, persone omosessuali, persone
con disabilità, e così via) in virtù della loro sola appartenenza a certe categorie
sociali segnala che la valutazione negativa è talmente diffusa nella società da essersi
cristallizzata in parole di derisione e di odio. Da qui il dovere che abbiamo di replicare
a tali usi, con tutte le difficoltà e i rischi che questo comporta: punti su cui torneremo
nel § 3 del Capitolo quarto.
3. Come funzionano gli epiteti denigratori
Gli epiteti denigratori, si è visto, hanno caratteristiche particolari, che rendono
la loro analisi linguistica particolarmente complessa e controversa. Le diverse teorie
degli epiteti vengono raggruppate in vari modi; qui ci serviamo di una classificazione
in tre gruppi:
1. strategie semantiche, secondo cui il potenziale denigratorio di un epiteto è parte di quello che la parola
dice o esprime – parte del suo significato letterale;
2. strategie pragmatiche, secondo cui il potenziale denigratorio di un epiteto non è parte del suo significato
letterale, ma viene veicolato dall’uso che di tale espressione si fa in contesto;
3. strategie sociali, secondo cui il potenziale denigratorio di un epiteto non è questione del suo significato,
né espresso né veicolato, ma dipende esclusivamente da fattori sociali.
Vediamole in breve.
3.1. Strategie semantiche: dire l’odio
Secondo le strategie semantiche, il potenziale denigratorio di un epiteto è parte
di quello che la parola dice – parte del suo significato letterale: in una formulazione semplificata, il significato di “negro” sarebbe “nero
e disprezzabile in quanto nero”. L’epiteto categorizza cioè i suoi target come appartenenti
a un certo gruppo e allo stesso tempo ascrive loro proprietà negative. L’enunciato
(2) Obama è un negro
dice allora qualcosa di parafrasabile con
(11) Obama è un nero e disprezzabile in quanto nero (Hom 2008, p. 416).
Questa spiegazione del potenziale denigratorio sembra del tutto plausibile, in quanto
rende conto di un’intuizione che ci pare innegabile, e cioè che gli epiteti esprimono contenuti offensivi o denigratori (Richard 2008, pp. 3-4). E tuttavia essa deve affrontare
obiezioni di un certo peso: ne vediamo tre.
Prima obiezione. Confrontiamo il diverso comportamento semantico di (2) e di
(3) Obama è un nero.
In generale, per esprimere disaccordo con (3) – per negare cioè l’ascrizione a Obama
della proprietà espressa da “nero” – è sufficiente usare il diniego, come
(12) No, non lo è,
oppure la negazione, come in
(13) Obama non è un nero.
Dinieghi e negazioni sono dispositivi linguistici standard per neutralizzare o disinnescare
il contenuto semantico di un enunciato. Nel caso di (2), invece, il diniego espresso
con (12) permette sì di negare l’ascrizione fattuale o descrittiva – permette cioè
di negare la controparte neutra in (3) – ma non sembra sufficiente a cancellare o
disinnescare il potenziale denigratorio di (2): il tentativo di replicare a (2) con
(12), anche se disinnesca l’offesa ascritta a Obama, continua a essere percepito come
offensivo verso il gruppo target. Analoga analisi può essere fatta per la negazione
di (2),
(14) Obama non è un negro:
(14) nega l’inclusione di Obama all’interno del gruppo, ma non neutralizza la valutazione
negativa del gruppo target, e continua a essere percepito come offensivo verso tutti
i neri. Saremmo dunque di fronte a controesempi alle strategie semantiche: negazioni
come (14) e dinieghi come (12) agiscono solo sulla componente descrittiva del termine,
e non sul suo potenziale denigratorio – che, di conseguenza, non sembra poter essere
considerato parte del contenuto o significato letterale di “negro”.
Un secondo gruppo di controesempi alle strategie semantiche vengono dall’analisi del
discorso indiretto. Generalmente il discorso indiretto permette di riportare enunciati proferiti da
altri, riutilizzando le stesse espressioni usate da chi parla. Immaginiamo che Trump
proferisca
(1) Obama è un lestofante:
per riportare ciò che Trump ha detto possiamo utilizzare le sue stesse parole, come
in
(15) Trump ha detto che Obama è un lestofante,
senza che (15) ci coinvolga nella valutazione negativa verso Obama. Immaginiamo ora
che l’uso denigratorio di Antonio Cassano,
(5) In Nazionale non ci sono froci,
venga riportato dal quotidiano “Libero” non con
(7) Cassano ha detto “In Nazionale non ci sono froci”
(che usa il discorso diretto, e dunque una citazione fra virgolette che sigilla il contenuto denigratorio di “froci”),
ma con il discorso indiretto, nello specifico il titolo
(16) Cassano ha detto che in Nazionale non ci sono froci.
(16) continua a costituire un uso offensivo, che chi legge potrebbe ascrivere a Cassano,
ma anche al titolista di “Libero”: se riutilizziamo gli epiteti usati dal parlante
per riportare ciò che il parlante ha detto, potremmo renderci a nostra volta responsabili
di un’offesa.
Terza obiezione. Si consideri l’enunciato
(17) Un tempo credevo che Obama fosse un lestofante:
(17) colloca nel passato la valutazione negativa nei confronti di Obama, che viene
così disinnescata. L’enunciato
(18) Un tempo credevo che Obama fosse un negro,
invece, continua a essere percepito come denigratorio (forse non nei confronti di
Obama, ma certamente nei confronti del gruppo target): un uso presente di un epiteto non può essere utilizzato per discutere una valutazione passata senza incorrere in un’offesa presente.
Se si sostiene che un epiteto come “negro” esprime (semanticamente) un contenuto negativo, né più né meno di “lestofante”, sembra difficile
spiegare perché il potenziale denigratorio sopravvive quando neghiamo questo contenuto, come in (14); quando riportiamo questo contenuto
usato da una terza persona, come in (16); o quando riportiamo questo contenuto usato
da noi stessi nel passato, come in (18).
Molti studiosi ritengono che i tre punti sollevati siano obiezioni decisive contro
le strategie semantiche; vengono pertanto proposte soluzioni differenti, di tipo non
semantico, ma pragmatico.
3.2. Strategie pragmatiche: dare per scontato l’odio
Secondo le strategie pragmatiche il contenuto denigratorio di un epiteto non è parte
di ciò che l’epiteto dice, o esprime, ma viene veicolato dall’uso che di tale espressione si fa in contesto: si rende conto così dell’intuizione secondo
cui il potenziale denigratorio dell’epiteto sopravvive in contesti – come la negazione
in (14) – che usualmente dovrebbero bloccarlo. Sono state proposte varie teorie, che assimilano il potenziale denigratorio degli
epiteti a contenuti non vero-condizionali (che cioè non fanno parte del significato
letterale dell’enunciato che li contiene, e dunque non contribuiscono alle sue condizioni
di verità): implicature convenzionali, implicature conversazionali, connotazioni,
presupposizioni. Ci limitiamo qui a esporre una delle teorie più interessanti ed efficaci, quella
in termini di presupposizioni (Schlenker 2007; Cepollaro 2020).
Che cosa sono le presupposizioni? Si consideri l’enunciato
(19) Trump ha smesso di bere.
Il verbo “smettere” in (19) attiva una presupposizione, che possiamo esprimere con
π1: Trump beveva:
(19) non dice che Trump beveva (quello che dice è che ha smesso di bere), ma presenta il fatto che Trump bevesse come noto e condiviso da chi parla
e da chi ascolta. Se applichiamo un’analisi presupposizionale agli epiteti, possiamo
dire che (2) e (3) sono equivalenti dal punto di vista di quello che significano,
di quello che dicono; l’epiteto “negro” attiverebbe però una presupposizione, parafrasabile con
π2: I neri sono disprezzabili in quanto neri.
In altre parole (2) presenta π2 come un fatto conosciuto e accettato da tutti i partecipanti alla conversazione.
Il funzionamento degli epiteti è per molti versi parallelo a quello delle presupposizioni,
soprattutto per quanto riguarda il loro comportamento proiettivo: enunciati contenenti epiteti ed enunciati contenenti presupposizioni si comportano
cioè in modo analogo quando vengono negati, oppure messi alla forma interrogativa,
o ancora posti come antecedenti di un condizionale. Si considerino gli enunciati
(20) Trump non ha smesso di bere,
(21) Trump ha smesso di bere?
(22) Se Trump ha smesso di bere, allora dovremmo votarlo:
al pari di (19), anche (20), (21) e (22) presuppongono π1 (“Trump beveva”). In modo analogo, gli enunciati
(14) Obama non è un negro,
(23) Obama è un negro?
(24) Se Obama è un negro, allora non dovremmo votarlo
attivano, come (2), la presupposizione π2 (“I neri sono disprezzabili in quanto neri”).
Ora, le presupposizioni si comportano in modo insidioso. Se qualcuno proferisce (19)
e nessuno degli astanti protesta e obietta, ad esempio con
(25) Aspetta un attimo, Trump non ha mai bevuto!,
la presupposizione π1 entra nel contesto condiviso, diventa cioè parte delle credenze che gli individui
prendono per buone ai fini di quella conversazione, con l’aspettativa che tutti gli
interlocutori facciano altrettanto. In modo analogo, se nessuno si oppone a un proferimento
di (2), dicendo ad esempio
(26) Aspetta un attimo, i neri non sono disprezzabili in quanto tali!,
la presupposizione π2 entra nell’insieme delle credenze che si assumono condivise dai partecipanti a quella
conversazione. La proposta presupposizionale, in altre parole, rende conto in modo
assai efficace del fenomeno della complicità: gli enunciati (2), (14), (23) e (24) attivano la presupposizione π2 – presentano cioè la credenza che i neri sono disprezzabili in quanto neri come un
fatto noto, accettato non solo da chi parla ma anche da chi ascolta. Quegli enunciati,
dunque, non solo costituiscono usi denigratori da parte del parlante, ma anche presentano
come scontato il fatto che gli altri ne approvino il contenuto denigratorio.
Ci sono infine autori che non legano il potenziale denigratorio degli epiteti al loro
contenuto o significato, né espresso né veicolato, ma piuttosto a fenomeni di tipo
sociale.
3.3. Strategie sociali: affiliarsi con chi odia
Nelle proposte deflazioniste o sociali, il potenziale denigratorio degli epiteti non
viene imputato a quello che le parole dicono, presuppongono, o lasciano intendere
implicitamente – ma dipende esclusivamente da fattori sociali.
Secondo la prospettiva deflazionista, infatti, non c’è alcuna differenza di contenuto (né espresso né veicolato) fra “negro”
e “nero”: (2) e (3) hanno lo stesso significato. La ragione dell’offensività di (2)
è che gli epiteti denigratori sono parole proibite, in virtù di una sorta di decreto emesso nei loro confronti da individui, gruppi,
autorità o istituzioni rilevanti (in genere legati al gruppo target): “una volta che
gli individui rilevanti dichiarano che una parola è un epiteto denigratorio, essa
lo diventa” (Anderson, Lepore 2013, p. 39). Questa constatazione spinge alcuni autori
a una posizione definita silentista, che propone di eliminare dal linguaggio gli epiteti denigratori fino a che il loro
potenziale offensivo non si stemperi, e di astenersi dall’usarli in qualunque contesto: “Ogni uso, menzione, interazione con un epiteto denigratorio ceterisparibus [...] costituisce un’infrazione [...] Rabbrividiamo di fronte agli epiteti denigratori,
perché di solito essi non ammettono alcun uso tollerabile” (Anderson, Lepore 2013,
p. 39). E così, contro la convinzione assai diffusa secondo cui le virgolette hanno
l’effetto di sigillare l’offesa comunicata dagli epiteti, una prospettiva silentista
ritiene offensivi anche enunciati semanticamente vuoti come
(27) “Negro” significa negro (Saka 2007, p. 122),
o enunciati che troveremmo in un dizionario, e si limitano a citare gli epiteti, come
(28) “Frocio” è un termine per riferirsi agli omosessuali,
e persino enunciati che citano gli epiteti per denunciarne il carattere sessista,
razzista, oppure omofobico, come:
(29) “Puttana” è una parola offensiva,
(30) Nessuno dovrebbe usare la parola “negro”,
(31) La parola “frocio” non ha applicazione.
Così articolata, la teoria deflazionista sembra spiegare troppo poco, e non chiarire
perché mai certe parole dovrebbero cadere sotto un editto di proibizione, se non per
ragioni legate al loro contenuto denigratorio. Strategie sociali più convincenti rintracciano
la fonte dell’offensività degli epiteti nel fatto che certe scelte lessicali sono
tipicamente associate ad atteggiamenti negativi: scegliendo di usare “frocio” rispetto
a un’alternativa neutra come “omosessuale”, chi parla rende manifesta la sua approvazione
dei contenuti negativi generalmente associati all’epiteto (Bolinger 2017). Anche per
Geoffrey Nunberg, gli epiteti non hanno nulla di speciale, sono semplicemente le parole
usate dai razzisti: “i razzisti non usano gli epiteti perché sono denigratori; gli
epiteti sono denigratori perché sono le parole che i razzisti usano” (Nunberg 2018,
p. 244). Nello scegliere un epiteto rispetto alla sua controparte neutra (che è la
scelta di default nello spazio pubblico), chi parla offende e denigra perché segnala
la propria affiliazione con il gruppo che è, in un certo senso, il “padrone” della parola (razzisti, omofobi,
misogini). Nunberg parla di implicature “ventriloque”, cioè di contenuti impliciti
che chi ascolta è legittimato a inferire quando viene violata l’aspettativa che il
parlante utilizzi un linguaggio adeguato: quando scegliamo di usare “negro” – un termine
che sappiamo essere prediletto dai razzisti – è come se impersonassimo la parte di
un razzista, o come se un razzista parlasse attraverso di noi.
L’idea che chi usa un epiteto si stia in un certo senso affiliando al gruppo dei razzisti
e richiamando atteggiamenti e comportamenti discriminatori ritorna in un’altra proposta
che appartiene alla famiglia pragmatica, la teoria in termini di atti linguistici.
Tale proposta ha il merito di combinare in modo efficace intuizioni appartenenti alle
strategie sociali con considerazioni proprie delle strategie pragmatiche – facendo
emergere con forza la dimensione performativa del linguaggio d’odio.
4. Fare cose con parole d’odio
Anche le istanze ordinarie, quotidiane, di linguaggio d’odio – rappresentate in modo
paradigmatico, ma tutt’altro che esclusivo, dagli usi offensivi degli epiteti denigratori
– possono essere interpretate attraverso la griglia teorica degli atti linguistici. A partire da quella teoria è possibile estendere agli epiteti le considerazioni
elaborate sulla pornografia e disegnare così un quadro più complesso e articolato
del potere performativo del linguaggio d’odio – concentrandosi dunque non tanto su
ciò che gli epiteti dicono o veicolano implicitamente, quanto su quello che i parlanti
fanno con parole d’odio.
Anche in questo caso, come per la pornografia, si parla di atti linguistici di subordinazione,e anche in questo caso lo si fa in due sensi diversi, corrispondenti agli aspetti
illocutori e a quelli perlocutori. In senso perlocutorio, le istanze ordinarie di linguaggio d’odio causano subordinazione, producono cambiamenti di credenze e comportamenti, inclusi comportamenti
di discriminazione e violenza. In senso illocutorio, le istanze ordinarie di linguaggio d’odio costituiscono in se stesse forme di subordinazione, in quanto rafforzano gerarchie ingiuste, legittimano
credenze e comportamenti discriminatori, e incitano alla violenza.
Usiamo l’espressione tesi di subordinazione per riferirci al senso illocutorio di subordinazione, in cui le parole d’odio permettono
a chi le usa di costruire, rinforzare e legittimare gerarchie e pratiche sociali inique
(Langton 2012, 2018b; Langton et al. 2012; Bianchi 2014b). La tesi viene applicata non solo agli enunciati che contengono
epiteti, ma anche a frasi, discorsi e immagini che, pur non contenendo espressioni
esplicitamente denigratorie, servono a creare, consolidare e propagandare odio e ingiustizia
nei confronti di individui e categorie sociali. Vediamo come.
4.1. Tre classi di atti illocutori
La tesi di subordinazione viene declinata in tre atti illocutori (Langton et al. 2012, p. 758):
(a) gli atti di subordinazione a carattere istituzionale;
(b) gli atti di subordinazione a carattere di aggressione;
(c) gli atti di subordinazione a carattere di propaganda.
(a) Nel Capitolo secondo abbiamo visto come, in circostanze adeguate, i parlanti possano
compiere atti linguistici di subordinazione a carattere istituzionale – tramite i
quali vengono istituiti o articolati sistemi di oppressione. Si tratta di atti compiuti
generalmente con enunciati pesanti come pietre, ma apparentemente asettici, come
(32) I neri non possono votare
(formulato nel Sudafrica dell’apartheid), oppure
(33) I neri, in quanto schiavi, sono cose e non persone
(da una sentenza del 1861, in Alabama). Sempre nell’ambito di emanazione di direttive, ma in contesti più informali, atti
di subordinazione possono a volte essere compiuti con enunciati contenenti epiteti
come
(34) In questo locale non serviamo negri,
proferito in un ristorante di Louisville, Kentucky, negli anni ’60, o
(35) Fagots stay out!
(traducibile con “Froci, fuori di qui!”), il cartello che fino al 1985 campeggiava
dietro al bancone di un bar di West Hollywood.
Gli atti compiuti proferendo (32)-(35) sono atti illocutori di subordinazione in quanto
privano i neri o gli omosessuali di certi diritti o poteri, li classificano come inferiori e legittimano condotte discriminatorie nei loro confronti. (32), se proferito in un contesto appropriato
(da un legislatore nell’ambito della formulazione di una norma), priva i neri del
diritto di voto; (34) e (35), se proferiti nelle circostanze adeguate (dal proprietario
di un locale nell’ambito della formulazione di direttive che si applicano a esso),
privano neri o omosessuali del diritto di entrare in un esercizio pubblico. Norme
e direttive vengono stabilite sulla base di unavalutazione di quegli individui come inferiori: (33) classifica i neri come cose,
e non persone; in altre parole, (33) fa sì che i neri contino come cose, li costituisce come cose. Una classificazione che a sua volta legittima ulteriori comportamenti
discriminatori nei confronti degli individui coinvolti, come la possibilità di acquistarli,
venderli, ucciderli.
Questo genere di atti formali, con cui i parlanti emanano policy, direttive, regolamenti
di locali pubblici oppure vere e proprie leggi a carattere discriminatorio, ha spesso
natura esplicitamente normativa. Accanto a essi ci sono istanze quotidiane, ordinarie
di linguaggio d’odio che, come detto, sono esemplificate, anche se non esaurite, dagli
usi offensivi degli epiteti. Vediamo come analizzarle.
(b) I parlanti possono compiere atti di subordinazione a carattere di aggressione o attacco, in cui vengono colpiti singoli e gruppi target. Gli atti di aggressione vengono
compiuti in modo caratteristico (ma non esclusivo) nelle istanze di linguaggio d’odio
alla seconda persona, in cui ci si rivolge direttamente al target per ferirlo e fargli
del male, come in
(36) Frocio!
o
(37) Terrorista! (proferito nei confronti di un ragazzo musulmano).
Con (36) o (37), chi parla non fa un’asserzione, non descrive uno stato di cose, ma
attacca il proprio target, lo ferisce e lo degrada. In questo caso il focus è sulle
vittime di tali atti: le parole vengono usate come “armi di violenza verbale” (Richard 2008).
(c) In altri casi i parlanti compiono atti di subordinazione a carattere di propaganda o incitamento alla discriminazione, all’odio e alla violenza. Gli atti linguistici di propaganda
vengono compiuti in modo caratteristico (ma non esclusivo) negli usi alla terza persona,
come in
(2) Obama è un negro;
(38) I musulmani sono terroristi.
In questo caso il focus è su destinatari e spettatori (non target): il parlante non solo propone una certa prospettiva su neri o musulmani,
ma contemporaneamente invita i destinatari a condividerla. Come accennato, gli epiteti
sono in questo uno strumento particolarmente potente: il fatto di utilizzare etichette
idonee – per le loro stesse caratteristiche linguistiche – a comunicare disprezzo
e odio verso individui in virtù della mera appartenenza a certi gruppi sociali indica
che la valutazione negativa è talmente diffusa nella società da essersi depositata
in parole d’odio, presentare disprezzo e odio come condivisi e quindi contribuire
a normalizzarli, e di conseguenza a legittimarli.
Si noti che i tre tipi di atti illocutori possono anche essere concepiti come tre
aspetti di un unico atto – definito di subordinazione perché istituisce o rinforza gerarchie sociali ingiuste e condotte discriminatorie.
Si è detto che l’atto di aggressione non si esaurisce con gli usi alla seconda persona,
così come quello di propaganda con gli usi alla terza persona. Aggressione e propaganda
possono infatti essere concepiti non come due atti linguistici distinti, ma come un
unico atto in quanto recepito da (o indirizzato verso) due diversi destinatari: l’individuo
e il gruppo target (b); gli ascoltatori non appartenenti al gruppo target (c). Per
fare un esempio, immaginiamo (2) proferito in presenza di appartenenti al gruppo target:
(2) svolgerà una funzione non solo di propaganda verso i non appartenenti al gruppo
target, ma anche di aggressione nei confronti del gruppo target, un atto teso a umiliare
e offendere Obama e insieme tutti i neri. In modo simile, gli atti di aggressione
possono contemporaneamente svolgere una funzione di propaganda. Nel proferire (36),
ad esempio, il parlante non sta semplicemente attaccando un individuo (come farebbe
se usasse un insulto generico, come “Cretino!”); intenzionalmente o meno, sta anche
promuovendo omofobia e discriminazione – (36) costituisce un incitamento all’odio, indirizzato agli ascoltatori (anche casuali) del proferimento.
Analogamente, (32) o (33), oltre che come atti che istituiscono una gerarchia sociale
(a), devono essere intesi anche come atti di aggressione e di propaganda. Gli atti
istituzionali infatti, con tutta l’autorevolezza e la legittimità di leggi o direttive,
svolgono il ruolo di attacchi portati a individui e gruppi (b), e costituiscono potenti
mezzi di normalizzazione e di diffusione di ideologie razziste, e di propaganda di
ulteriori pratiche discriminatorie (c).
Ma dove si collocano gli atti di subordinazione all’interno della tassonomia austiniana?
Nel Capitolo secondo (§ 4.3), abbiamo raggruppato gli atti istituzionali o formali
di subordinazione (a) nella classe dei verdettivi (atti di giudizio), in quanto classificano gli individui come inferiori; e nella classe degli esercitivi (esercizio di poteri),
in quanto legittimano l’oppressione razziale e la discriminazione di genere, e privano le minoranze di poteri e diritti (Langton et al. 2012). Tale classificazione può essere estesa agli atti (b) e (c). Gli atti di subordinazione
a carattere di aggressione (b) hanno dimensione verdettiva, in quanto assegnano a
un fatto naturale o sociale (essere nero, essere omosessuale, essere donna) uno status
istituzionale di tipo gerarchico (essere inferiore). Gli atti di subordinazione a carattere di propaganda (c) hanno dimensione esercitiva,
in quanto legittimano pratiche e comportamenti discriminatori nei confronti di neri,
omosessuali, donne (Bianchi 2014b, 2015b).
4.2. Epiteti come atti linguistici
Concepire gli epiteti nel quadro della teoria degli atti linguistici permette di rendere
conto in modo convincente di alcuni dei tratti caratteristici che abbiamo evidenziato
nel § 2 di questo capitolo.
Innanzitutto l’aspetto stabile e sistematico del loro potenziale denigratorio. Gli
epiteti sono uno dei mezzi convenzionali che il parlante utilizza per rendere manifesta
al destinatario la forza illocutoria del suo atto di subordinazione. Nella teoria
austiniana, il parlante, per segnalare al destinatario il tipo di atto che sta compiendo,
può utilizzare mezzi convenzionali, come l’uso di un performativo esplicito o di un
particolare modo verbale: l’ordine di sparare, ad esempio, può essere compiuto con
una formula performativa (“Ti ordino di sparare”) o con il modo imperativo (“Sparale!”).
Esistono però anche mezzi non convenzionali: in certi contesti il parlante può impartire
l’ordine di sparare con enunciati dalla forma dichiarativa (“Quella donna è una spia”)
o con un cenno della mano. In modo analogo, atti linguistici di subordinazione possono
essere compiuti senza l’uso di epiteti, come accade in (32), (33), (37) e (38); gli
epiteti denigratori sono però, al pari delle formule performative, dispositivi convenzionali
che tipicamente permettono di compiere atti linguistici di subordinazione, e di segnalarli al destinatario:sono in altre parole indicatori di forza illocutoria (Bianchi 2015b).
Questa interpretazione permette di rendere ragione dell’indipendenza del potenziale
offensivo degli epiteti dagli stati mentali del parlante. Nel quadro della teoria
degli atti linguistici, il parlante, usando un epiteto denigratorio in contesti standard
(non riappropriativi o pedagogici), compie un atto di subordinazione verso un individuo
e una categoria target, quali che siano i suoi stati mentali. Il parlante invoca infatti
una procedura convenzionale che prescinde dalle sue credenze, atteggiamenti o intenzioni
– esattamente come il colonnello che proferisce “Sparale!” in circostanze adeguate
(rivolto a un soldato nell’ambito di un’azione militare) compie un atto di ordinare,
quali che siano le sue convinzioni o i suoi sentimenti sull’opportunità di tale comportamento.
Si spiega, inoltre, il tabù che circonda l’uso di tali espressioni. Il fatto che gli
epiteti siano strumenti convenzionali che permettono tipicamente di compiere atti di persecuzione o propaganda giustifica i rigidi limiti sociali
al loro utilizzo: persino la semplice menzione di un epiteto rimanda ad atti di subordinazione
– e costituisce quindi generalmente una violazione di norme sociali. E tuttavia particolari
contesti, come quelli pedagogici o di riappropriazione, permettono a specifici parlanti
(ad esempio gli appartenenti al gruppo target) di utilizzare dispositivi convenzionali
di subordinazione per compiere atti illocutori non denigratori: contestare il discorso discriminatorio; denunciare i contenuti razzisti, omofobici o sessisti veicolati dagli usi ordinari degli epiteti;
esprimere solidarietà nei confronti dei membri del proprio gruppo sociale.
Si rende conto, infine, non solo della dimensione valutativa e classificatoria del
linguaggio d’odio ai danni di individui e gruppi target (atti di aggressione) ma anche
del ruolo ideologico che esso svolge rispetto a chi viene semplicemente esposto a
hate speech contro altri (atti di propaganda): usare epiteti e parole d’odio costituisce dunque
non solo un sintomo di razzismo, misoginia e omofobia di chi parla, ma anche un sostegno
attivo di razzismo, misoginia e omofobia.
La dimensione propagandistica del linguaggio d’odio è particolarmente evidente negli
epiteti per genere o per orientamento sessuale. Come si accennava in questo capitolo
al § 2.1, la mera quantità di epiteti che rimandano alla prostituzione indica il peso
del controllo sociale sulla sessualità delle donne – nonché la sostanziale riduzione delle donne alla loro sessualità. Termini denigratori come “troia” e “puttana” vengono usati, infatti, non solo per
aggredire le donne dalla condotta sessuale considerata troppo disinibita, ma più in
generale per stigmatizzare atteggiamenti e condotte non conformi alle norme di genere,
prima fra tutte la partecipazione alla sfera pubblica. Allo stesso tempo, epiteti e insulti svolgono un ruolo di propaganda nei confronti
delle donne “per bene”: gli usi denigratori pur rivolti ad altre rimbalzano sulle
spettatrici come una sorta di boomerang che traccia i limiti del comportamento accettabile
per le donne (Tirrell 2012, p. 192).
In modo analogo, gli epiteti utilizzati contro i maschi omosessuali – accanto alla
funzione evidente di censura di individui, comportamenti e affetti considerati devianti
o immorali – operano come un meccanismo di disciplina anche nei confronti di chi non fa parte del gruppo target. Per Cheri Jo Pascoe, gli insulti omofobici svolgono un
ruolo centrale nella costruzione da parte degli adolescenti della loro mascolinità,
plasmata anche in opposizione al “fag” (il peggiore fra gli epiteti secondo i liceali
statunitensi intervistati dall’autrice nel corso della sua ricerca: si veda Pascoe
2007).
5. L’autorità dell’odio
Chi è dotato dell’autorità per indebolire le parole degli altri, per ridurli al silenzio,
per subordinarli? La questione dell’autorità del parlante è potenzialmente assai problematica
per la concezione del linguaggio d’odio in termini di atti linguistici di subordinazione:
chi usa discorsi d’odio possiede effettivamente l’autorità per distorcere le parole
di donne e minoranze, per impedire loro di fare cose con le loro parole, per discriminarle
e per rinforzare gerarchie ingiuste?
Gli atti linguistici compiuti con parole d’odio, si è detto, vengono classificati
come verdettivi o esercitivi – illocuzioni che valutano individui e gruppi, accordano
diritti e privilegi ad alcuni, e privano di diritti e privilegi altri, andando ad
alterare i limiti di ciò che è permesso dire e fare in un certo dominio. Di per sé valutazioni e privazioni di diritti non sono sempre
illegittime e non conducono sempre a subordinazione: non riteniamo problematico stilare
classifiche di gare sportive, prevedere votazioni per un compito in classe, accordare
premi o privilegi ai migliori in quel compito, privare del diritto di voto un condannato
per il tempo della sua detenzione.
Le condizioni di permissibilità istituite dal linguaggio d’odio sono invece illegittime
e possono di conseguenza subordinare individui e gruppi: non solo, infatti, classificano
certi individui come inferiori, ma la classificazione cui danno vita è ingiusta; non solo li privano di diritti e poteri, ma tale privazione è iniqua; non solo legittimano certi comportamenti nei loro confronti, ma tali comportamenti
sono discriminatori. La radice dell’ingiustizia è ogni volta la medesima: classificazioni, discriminazioni
e sottrazioni di diritti sono motivate esclusivamente dall’appartenenza a particolari
categorie sociali.
Gli atti linguistici di subordinazione, dal momento che hanno natura verdettiva ed
esercitiva, vengono considerati da Langton “atti linguistici autoritativi” (authoritative speech acts: Langton 1993, p. 305; si veda il Capitolo secondo, § 4.3): l’autorità del parlante
sembra essere una loro condizione di felicità. Si noti che Austin non parla esplicitamente di “autorità” come condizione di felicità
del compimento di atti esercitivi e verdettivi; dal momento però che “gli esercitivi
consistono nell’esercitare dei poteri, dei diritti, oppure un’influenza”, tali atti
sembrano presupporre che il parlante abbia poteri, diritti o influenza (Austin 1975, trad. it. p. 110;
si veda Sbisà 2020). Ora, per quanto riguarda gli atti istituzionali di subordinazione,
il parlante possiede effettivamente una qualche forma di autorità formale o ufficiale:
è il legislatore, nel caso di (32) e (33), oppure il proprietario del locale in cui
viene messa in atto la direttiva razzista nel caso di (34) e (35). La condizione di
felicità che riguarda l’autorità del parlante è soddisfatta, e gli atti di subordinazione
vengono compiuti con successo: (32) fa sì che ai neri non sia permesso votare e (33) fa sì che i neri vengano classificati in quanto cose; (34) e (35) fanno sì che ai neri o agli omosessuali non sia consentito entrare in quei locali.
Nella maggioranza degli esempi di linguaggio d’odio, tuttavia, chi parla non sembra
possedere un’autorità formale di qualsivoglia tipo. Si pensi, per fare qualche esempio,
a casi di aggressione o di propaganda come (2) oppure (36) o ancora (37), proferiti
per strada, in luoghi pubblici, o postati su Twitter o Facebook. Ne dovrebbe seguire
che, in quei casi, chi parla non possa compiere felicemente atti di subordinazione:
in altre parole, sibilare (36) a qualcuno può certamente contribuire a causare discriminazione e danno (un effetto perlocutorio), ma non sembra poter costituire in sé una forma di subordinazione (un effetto illocutorio) – non sembra poter sottrarre
diritti o dare legittimità a ulteriori comportamenti d’odio.
Sono state proposte varie soluzioni al problema dell’autorità: vediamone due particolarmente
interessanti.
5.1. Accomodare contenuti
I partecipanti a una conversazione condividono una sterminata quantità di informazioni.
Ogni mossa conversazionale permette di aggiornare il contesto condiviso, aggiungendo, modificando o eliminando informazioni. Proferendo
(39) Obama è il primo presidente afroamericano della storia degli Stati Uniti,
chi parla propone di inserire nel contesto conversazionale una nuova informazione:
se l’informazione non è controversa e il parlante viene ritenuto ragionevolmente competente,
gli interlocutori la accoglieranno nell’insieme delle loro credenze.
A volte questo aggiornamento del contesto condiviso avviene non solo grazie a quanto
il parlante dice, ma anche a quanto veicola implicitamente o presuppone. Se qualcuno
proferisce
(19) Trump ha smesso di bere,
e nessuno dei partecipanti obietta, (19) entra nel contesto conversazionale e legittima
ad aggiungere – oltre all’informazione che Trump non beve più – anche la presupposizione
attivata dal verbo “smettere”, e cioè
(40) Trump beveva.
Questa informazione non viene detta ma presupposta da (19), cioè presentata come già facente parte della conoscenza comune, un fatto noto e accettato da tutti i partecipanti
alla conversazione.
È interessante notare che se anche (40) non era effettivamente già creduta dai partecipanti
(se cioè non era realmente parte della conoscenza comune), in casi non controversi
e in assenza di obiezioni, essa viene accomodata, cioè aggiunta al contesto delle credenze condivise. Gli interlocutori, infatti,
cercano in genere di mantenere un atteggiamento di collaborazione: il contesto condiviso viene modificato in modo da far risultare appropriata, in
assenza di contestazioni, qualunque mossa conversazionale (Lewis 1979). Verranno allora
accolte nel contesto conversazionale comune non solo le asserzioni fatte dal parlante
ma anche quanto il parlante presuppone.
Grazie al meccanismo dell’accomodamento le nostre mosse conversazionali possono cambiare
ciò che è consentito e ciò che non è consentito in quella conversazione. Immaginate che, per scusarmi
dell’ennesimo ritardo, vi dica
(41) Ero a fare shopping con mio fratello:
verrà aggiunto al contesto conversazionale non solo il motivo del mio ritardo, ma
anche il fatto che io abbia un fratello – e questo anche se nessuno di voi condivideva
con me questa informazione prima di (41). Da allora in poi certe mosse conversazionali
saranno ammesse, come chiedere
(42) Quanti anni ha tuo fratello?,
e altre non saranno più ammesse, come domandare
(43) Ti è pesato essere figlia unica?
Questo meccanismo di accomodamento può essere alla base di subdoli processi di subordinazione.
Se qualcuno proferisce
(44) Persino Hillary Clinton può vincere le elezioni
(e nessuno degli interlocutori obietta con mosse conversazionali come
(45) Aspetta un attimo, perché dici “persino”?),
viene aggiunto al contesto di credenze condivise non solo
(46) Hillary Clinton può vincere le elezioni
ma anche
(47) Hillary Clinton è una candidata poco promettente.
Un enunciato come (44), se non contrastato, legittima certe mosse conversazionali
e ne rende altre illegittime – autorizza, ad esempio, i partecipanti alla conversazione
a proferire enunciati come
(48) Altri candidati sono favoriti,
(49) Non conviene sostenere Hillary Clinton,
fino a rendere inappropriate le manifestazioni di apprezzamento nei suoi confronti.
Secondo Mary Kate McGowan si può affermare che qualunque mossa discorsiva fa appello a regole di accomodamento in questo senso, e dunque è
in grado di cambiare i limiti di ciò che è permesso dire e di ciò che non è permesso
dire in una certa conversazione. Dal momento che ogni mossa conversazionale modifica
i confini di ciò che è consentito in un certo dominio, essa avrà dunque in qualche
senso valore esercitivo: McGowan parla in proposito di esercitivi conversazionali (2003, p. 172). In questo quadro, si può sostenere che anche i proferimenti di (2)
o di (35)-(38) sono esercitivi conversazionali, in quanto cambiano ciò che è consentito
dire e fare nelle conversazioni in cui occorrono. Per fare un esempio, (2), se non
contrastato, non solo autorizza i partecipanti ad aggiungere al contesto conversazionale
l’informazione secondo cui Obama è nero, ma anche avalla credenze razziste, presenta
come legittimo l’uso di ulteriore linguaggio d’odio verso Obama e il gruppo target,
fino ad autorizzare comportamenti discriminatori nei loro confronti.
Secondo McGowan, il problema dell’autorità è meno pressante per gli esercitivi conversazionali.
In generale, l’autorità che il parlante deve possedere per poter compiere felicemente
un esercitivo è limitata al dominio pertinente: un arbitro ha autorità solo sulla
partita che sta arbitrando, non su quella del campetto vicino, o su come si vestono
i tifosi, o su quello che mangiano. Ma generalmente ogni partecipante (legittimo e competente) a una conversazione possiede autorità sullo
scambio a cui sta contribuendo; questo vale, per McGowan, anche per chi proferisce
un enunciato denigratorio come (2), che – in assenza di obiezioni – ha dunque il potere
di cambiare i comportamenti (linguistici e non linguistici) consentiti in quella conversazione,
senza che il parlante sia investito di una particolare autorità (McGowan 2003, 2004,
2009b).
Questa soluzione solleva alcune perplessità. Da un lato, si sostiene esplicitamente
che ogni mossa conversazionale è, in qualche senso, esercitiva: questo ha la conseguenza di
banalizzare la forza esercitiva e indebolire la tesi che certi atti linguistici (ma
non altri) hanno il potere di subordinare. Dall’altro, gli esercitivi conversazionali
sembrano istituire condizioni di permissibilità facilmente reversibili. Qualunque partecipante allo scambio conversazionale sembra allora poter stabilire
o revocare le condizioni di permissibilità allo stesso titolo di chiunque altro. E
tuttavia gli atti linguistici di subordinazione non sembrano né facilmente istituibili
né facilmente revocabili da qualunque partecipante, tantomeno se questi appartiene
al gruppo target: come visto, le parole delle minoranze rischiano spesso di avere
meno peso rispetto alle parole di chi è in posizione sociale privilegiata (Bianchi
2015b).
Nel modello degli esercitivi conversazionali l’autorità non è una condizione necessaria
per compiere atti di subordinazione. Nel prossimo modello, detto dell’accomodamentodell’autorità, l’autorità del parlante è invece una condizione necessaria: essa però non deriva
necessariamente da una posizione sociale e può essere acquisita dal parlante in modo informale. Vediamo come.
5.2. Accomodare l’autorità
Secondo il modello dell’accomodamento dell’autorità, ci sono casi in cui i parlanti
possono giungere ad acquisire un tipo di autorità informale (de facto) pur non avendo alcuna autorità formale o ufficiale (de jure) – sia essa data dal ruolo sociale, o autorizzata da qualcuno a sua volta in posizione
di autorità (Maitra 2012; Langton 2018b). Due esempi possono chiarire questo fenomeno
di acquisizione di autorità informale.
Si immagini un gruppo di amici che non riesce a decidere dove andare in vacanza. Stanca
dei tentennamenti, Nina, una componente del gruppo senza alcuna autorità formale,
comincia a comportarsi come se possedesse qualche forma di autorità sugli amici: stabilisce
la meta, fissa le scadenze e distribuisce compiti, che vengono portati a termine
senza discussioni. Oppure si supponga che, in seguito a un grave incidente che ha
bloccato la circolazione stradale, Vita, una delle persone coinvolte nell’ingorgo,
scenda dall’auto e cominci a regolare il traffico per far passare le ambulanze – e
venga assecondata dagli altri conducenti. In questi esempi né Nina né Vita hanno autorità
formale, ma acquisiscono autorità accomodata perché legittimate dai presenti – anche solo implicitamente, semplicemente perché
essi si astengono dal mettere in discussione l’autorità delle due persone che prendono
l’iniziativa e le loro scelte. È importante notare che tale legittimazione non richiede
in alcun modo che gli altri siano d’accordo con le decisioni di Nina o Vita – a patto
che si astengano dal rendere pubblica la loro disapprovazione: si tratta di una sorta
di autorizzazione come risultato di un’omissione.
La stessa linea argomentativa può essere seguita nei casi di subordinazione: parlanti
comuni, sprovvisti di una qualsivoglia autorità formale, possono compiere con successo
atti di subordinazione in quanto vengono legittimati dalle omissioni degli astanti
– siano essi conniventi, indifferenti o semplicemente timorosi di intervenire. Si
immagini che, in un’affollata carrozza della metropolitana di New York, Aisha, una
donna araba, venga apostrofata ad alta voce da un anziano uomo bianco con frasi come
(50) Sporca terrorista, tornatene a casa. Non abbiamo bisogno di gente come te qui.
Aisha non risponde; gli altri passeggeri guardano nella sua direzione, ma nessuno
interviene (Maitra 2012, p. 100).
Nel proferire (50) l’uomo classifica Aisha come inferiore e legittima comportamenti discriminatori nei suoi confronti: si tratta di atti verdettivi ed
esercitivi che necessitano che il parlante abbia qualche forma di potere, autorità
o influenza – pena il fallimento dell’atto. L’anziano uomo bianco non ha alcuna autorità
per compiere quel genere di atti, ma si comporta come se la possedesse, presuppone di avere autorità, così come chi proferisce (19) presuppone che il fatto che Trump
beva sia noto e condiviso da tutti. Anche in questo caso, come per (19), se nessuno
obietta (con mosse come
(51) Chi credi di essere per parlare così?),
la presupposizione che il parlante possieda autorità diventa parte del contesto condiviso.
Gli altri passeggeri si astengono dal replicare, e la loro omissione assicura al parlante
l’autorità necessaria per compiere felicemente atti di subordinazione. Anche qui (come
nel caso della vacanza o dell’incidente) è possibile che i passeggeri abbiano forti
riserve sul parlante e sulle sue parole: se però si astengono dal renderle pubbliche,
con la loro omissione assicurano al parlante l’autorità di cui ha bisogno per compiere
un atto di subordinazione. Il parlante è così in grado di compiere con successo l’atto
di classificare come inferiore Aisha: rinforza lo status sociale di subordinazione
di quell’individuo e del gruppo di cui fa parte, e con ciò avalla credenze razziste;
legittima comportamenti discriminatori verso la donna e verso il gruppo target, ad
esempio rendendo ammissibile (o maggiormente ammissibile) l’uso di linguaggio d’odio
nei loro confronti. L’autorità che serve all’uomo per cambiare i limiti di ciò che
è consentito dire e fare, almeno in quella carrozza della metropolitana, gli è garantita
dal silenzio degli altri – che da semplici spettatori si trasformano in complici e conniventi.
Il modello dell’accomodamento ha un indubbio interesse, anche se deve affrontare un’obiezione
di fondo. In questo modello la posizione sociale del parlante non è una condizione
necessaria per il felice compimento degli atti di subordinazione. E tuttavia un proferimento
come (50) sembra poter contare come atto di subordinazione solo in contesti sociali
in cui siano già ampiamente diffuse pratiche sistematiche di oppressione, legate a
ideologie dominanti (più o meno esplicitamente) razziste: il linguaggio d’odio riposa
su pesanti storie di discriminazione, ostilità e anche violenza.
Basta immaginare un caso speculare rispetto a (50): un uomo bianco è in un’affollata
carrozza della metropolitana di New York, quando un altro passeggero, una donna araba,
comincia ad apostrofarlo ad alta voce con frasi come
(52) Sporco bianco, tornatene a casa. Non abbiamo bisogno di gente come te qui.
L’uomo non risponde, gli altri passeggeri guardano nella direzione dei due interlocutori
ma nessuno interviene (Barnes 2016; Bianchi 2017). Ciò che manca in (52) è una rete
di credenze, comportamenti, norme sociali di oppressione contro i bianchi: in assenza
di tale rete – che è insieme sociale, culturale, politica ed economica – non è plausibile
che (52) conti come atto felice di classificare (verdettivo), privare di diritti o
poteri, e legittimare comportamenti (esercitivi). Non c’è alcuna ideologia dominante
contro i bianchi, e (52) da solo non può ribaltare la gerarchia in vigore: l’accomodamento
non sembra plausibile. Anche se la donna araba ha l’intenzione di compiere l’atto
di classificare come inferiore il suo target, e anche se nessuno obietta, il silenzio
degli altri passeggeri non legittima il suo atto, e l’atto fallisce.
Quello che rende (50) un esempio purtroppo convincente di subordinazione illocutoria
è che consolida una gerarchia sociale ingiusta già in vigore, spostando più in là le condizioni di
permissibilità – rendendo cioè (più) tollerabile il linguaggio d’odio e i comportamenti
discriminatori: una forma di rinforzo di una norma sociale razzista più ampia, e di amplificazione di ciò che (in mancanza
di obiezioni) conta come accettato dai partecipanti a una conversazione.
Far parte di una minoranza discriminata può dunque dare origine a una ennesima forma
di asimmetria – che però stenteremmo a chiamare ingiustizia. L’appartenenza a un gruppo
sociale svantaggiato può infatti precludere in modo sistematico il compimento di atti
di subordinazione contro membri di gruppi privilegiati – laddove la subordinazione
si fondi proprio su quei tratti (sociali o naturali) che identificano il parlante
come appartenente a un gruppo discriminato. In altre parole, una donna non può compiere
un atto di subordinazione nei confronti di un uomo in quanto uomo, un omosessuale non può compiere un atto di subordinazione nei confronti di
un eterosessuale in quanto eterosessuale, l’appartenente a una minoranza etnica non può compiere un atto di
subordinazione nei confronti dell’appartenente alla maggioranza in quantotale.
6. L’altro
In un’ottica performativa, la radice comune dell’offensività degli epiteti viene
individuata nella loro funzione di attacco ai danni di individui in virtù della loro
mera appartenenza a un gruppo, e insieme di incitamento a condividere una certa prospettiva
su quegli individui, ed eventualmente anche a fare propri comportamenti discriminatori
nei loro confronti.
Paradigmatico del potere performativo del linguaggio è il ruolo svolto dagli epiteti
denigratori durante il genocidio ruandese all’inizio degli anni ’90: epiteti disumanizzanti
come “inyenzi” (“scarafaggi”) e “inzoka” (“serpenti”), usati dagli Hutu per riferirsi
ai Tutsi, hanno accompagnato uno degli eccidi più spaventosi della storia umana. Il
peso del linguaggio nel massacro è stato riconosciuto dal Tribunale Internazionale
Penale per il Ruanda (creato nel 1994 dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite),
che ha dichiarato Ferdinand Nahimana, fondatore di RTLM (Radio-Télévision Libre des
Mille Collines), e Hassan Ngeze, fondatore della rivista “Kangura”, colpevoli, per
le loro parole, non solo di istigazione al genocidio ma di veri e propri atti di genocidio.
Naturalmente la maggior parte degli epiteti è ben lontana dal condurre allo sterminio
di intere popolazioni. E tuttavia si è visto come gli epiteti non si limitino a descrivere
individui e gruppi con connotazioni negative e spregiative, ma concorrano a fomentare
divisione e ostilità, a dar vita a classificazioni e gerarchie, che a loro volta finiscono
per legittimare comportamenti di discriminazione e di violenza. Lynne Tirrell individua
tre ulteriori tratti degli epiteti – che ben ne evidenziano il potere performativo:
xv) Gli epiteti hanno innanzitutto la funzione di tracciare una linea di demarcazione fra in-group e out-group, fra chi è dentro e chi è fuori dal gruppo: essi servono
cioè a bollare certi individui come fuori dal nostro gruppo, a marcarli come l’altro da noi, a costruire un “noi” e un “loro”. A volte è tutto quello che fanno certi
epiteti: “goy”, “gaijin”, “yao” (termine usato nella Cina del XVIII secolo) non hanno
altro significato che “non ebreo”, “non giapponese”, “non cinese”.
xvi) Gli epiteti svolgono poi un ruolo nell’essenzializzare le categorie sociali. Certe etichette comunicano un messaggio negativo che sembra
portare su aspetti essenziali dei target, su tratti riconducibili alla loro “natura”:
sembrano cioè presupporre, fra in-group e out-group, differenze intrinseche (in alcuni
casi anche biologiche), che a loro volta sarebbero all’origine di differenze morali
o culturali – e vanno così a rinforzare la gerarchia sociale.
xvii) E infine gli epiteti sono action-engendering: incitano a certi corsi d’azione, e ciò facendo li legittimano, delineano quali tipi
di trattamento verso gli individui target sono permessi e appropriati. Come accennato,
questo tratto è tanto più problematico se esiste un legame con reti di discriminazione
anche, ma non solo, istituzionali, con tutta la loro storia di oppressione e di censura
sociale. Il legame con apparati più ampi e organizzati non deve però essere necessariamente
consapevole: si può prendere parte a una feroce pratica di subordinazione in modo
superficiale, semplicemente usando con leggerezza le parole. Scrive Tirrell:
Quando un ragazzino di dieci anni negli Stati Uniti chiama uno dei suoi compagni “fag”
[“frocio”], probabilmente non pensa, né tantomeno padroneggia, il contesto sociale
più ampio di omofobia e di crimini di odio contro gli omosessuali. In ogni caso quel
ragazzino usa un termine che fa pesare sul suo compagno una storia sociale gravosa
e un potente apparato oppressivo [...] Chi parla qui è un ragazzino, ma molti adulti
parlano spesso con limiti epistemici analoghi. Poche nostre parole conducono al genocidio,
ma dobbiamo fare attenzione a quello che diciamo e chiederci che genere di apparati
di potere invochiamo per controllare e colpire gli altri (Tirrell 2012, p. 206).
Abbiamo il dovere di sorvegliare le nostre azioni, ma anche le nostre parole; e il
dovere, più insidioso, di esaminare criticamente e contrastare azioni e parole di
altri. Questo è il tema del Capitolo quarto.