Inizio
di Carola Susani
«Quando si va in due d’accordo, che la verdura che si raccoglie la si mette tutta
assieme e si dividono poi i soldi, allora si va d’accordo» scrive Danilo Dolci in
Racconti siciliani. È la testimonianza di Rosario che di mestiere fa lo spigolatore: «Ma se siamo due
compagni che facciamo ognuno per conto nostro, l’occhio s’incomincia a correre perché
quello vuole riempire il sacco prima e cogliere la verdura migliore. Mentre siamo
tutti e due insieme, tu vedi una troffa di cavolicedde, corri per andarla a prendere
prima: se non ci arrivi, arriva prima lui. E si fa tutta la vita così, fino a che
non si riempie il sacco».
Per mesi spostandomi in tram e in autobus tra un laboratorio di scrittura, un’intervista,
due o tre ore di lavoro redazionale, mi portavo dietro Racconti siciliani. Succedeva due anni fa, più o meno, non ho una grande memoria, tengo il filo attraverso
la successione dei lavori. Leggevo e mi veniva da sorridere. Mi sembrava che quello
che nel ’63 era il racconto di una condizione marginale, neanche un lavoro, giusto
un colpo di reni per reagire alla disoccupazione, in questi anni avesse preso forza
metaforica e raccontasse lo spirito d’iniziativa e l’autosfruttamento di atipici e
partite Iva, la concorrenza all’infimo livello, l’idiosincrasia verso la costruzione
di forme di solidarietà, un camminar tentoni senza trovare capo d’imputazione, controparte
da investire della responsabilità di una condizione; tranne il sistema, il mercato:
suppergiù il destino.
Se fino a pochi anni prima in Italia non s’era più letta o scritta letteratura sul
lavoro, nel 2006 sembrava ormai non si parlasse d’altro: della trasformazione del
lavoro e di precarietà. Sono di quell’anno Mi spezzo ma non m’impiego di Andrea Bajani (Einaudi), Il mondo deve sapere di Michela Murgia (Isbn), Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese… di Aldo Nove (Einaudi), Vita precaria e amore eterno di Mario Desiati (Mondadori). Era venuto alla luce alla fine il fenomeno che aveva
diviso in due l’esperienza del ceto medio, tra più vecchi e più giovani, tra chi era
assunto e chi no. Giornali e rotocalchi si rilanciavano questo nuovo protagonista,
acquirente e merce, l’atipico, il precario. E c’era anche chi, tra politici e commentatori,
tentava considerazioni ottimistiche sulla flessibilità, lo spirito d’iniziativa e
la liberazione delle energie.
Buona parte di coloro che poi si erano trovati a galleggiare nel pantano del precariato
si era formata ancora, anche se stancamente, dentro istituzioni scolastiche che presumevano
attitudini o addirittura vocazioni, ma l’esito del processo formativo era inesorabilmente
frustrante. E per almeno un paio di generazioni la frustrazione era talmente interiorizzata
che la possibilità di incidere sul proprio destino professionale era percepita non
minima, ma poco interessante. Dolci avrebbe parlato di spreco. Sembra anacronistico
in un momento in cui si cerca di cacciare indietro trasformatori e costruttori di
ricchezza che partono dalle coste africane, ma non doveva suonare meno fuori luogo
in anni in cui i contadini siciliani erano vigorosamente spinti ad emigrare.
Avevo l’impressione che questa trasformazione del mercato del lavoro avesse fatto
la sua parte nel formare, nel moltiplicare o solo nel concentrare l’attenzione su
una particolare psicologia, su un preciso tipo umano: estremamente consapevole della
propria impotenza, di una dolcezza esagerata, pietoso, dolorosamente strafottente,
ostinatamente impegnato a far passare per casuale ogni attività intrapresa, ogni passione.
Ai miei occhi, commovente.
«C’è un modo di combattersi sfiniti, abbracciati contro le corde», scrive Andrea Bajani
recensendo Vita precaria e amore eterno di Desiati su «Nazione Indiana», «che hanno soltanto i figli che adesso hanno trent’anni
coi loro padri e le loro madri. È un modo di fronteggiarsi un po’ pesti, un buttarsi
tra le braccia dei familiari che per metà vorrebbe colpire e per l’altra metà vuole
soltanto chiedere asilo. E c’è un modo di fare o non fare recriminazioni che ha molto
a che vedere con la rassegnazione, da una parte e dall’altra, e che diventa un po’
un colpire alla cieca. C’è, in definitiva, un modo di essere famiglia che non è mai
stato così prima di adesso».
Eppure. Ma anche perciò. È respirando l’aria del tempo, dove tutta la coscienza sembrava
risolta in impotenza e il nodo tra cinismo e commozione si era fatto inestricabile,
che nasce Sono come tu mi vuoi. I racconti che raccogliamo sono apparsi su una rivista, un mensile, «il maleppeggio-storie
di lavori». Il «maleppeggio» è uscito per poco più di una stagione, tra il 2006 e
il 2007. Si chiamava così per via della martellina usata in edilizia, ma certo era
un nome che evocava più di un’ombra. La rivista l’aveva pensata Lanfranco Caminiti
e ci aveva coinvolto: eravamo Emanuele Trevi, Elena Stancanelli, Tommaso Giartosio,
Nicola Lagioia, Christian Raimo e io. Alis Thieck-Alami curava la parte fotografica.
Avevamo un interlocutore nell’Assessorato al Lavoro della Regione Lazio, perciò parlavamo
di lavoro a Roma e nel Lazio, anche se ci tenevamo aperte finestre sull’Italia e l’Europa.
Ci sembrava che la nostra posizione, di scrittori oggi nel mercato del lavoro, ci
offrisse un’opportunità. Capitava forse per la prima volta, almeno per la prima volta
collettivamente, che per noi scrittori parlare della trasformazione del lavoro, parlare
dell’ottundimento, se non dello sfruttamento o dell’oppressione, non fosse un movimento
verso gli altri, uno slancio come per Dolci, ma fosse parlare in primo luogo di noi.
Parlare di noi era parlare del mondo e non di un privilegio. Se eravamo addirittura
riusciti ad avvertire di tanto in tanto la necessità economica come condizione abituale,
forse potevamo guardare alla condizione degli immigrati, per esempio, come se non
fosse abissalmente distante dalla nostra. Era l’opportunità di spazzare via la tentazione
della sacralizzazione del lavoratore, della mistificazione del disperato. Se lavorare
poi non aveva più niente a che fare con attitudini, vocazione, professio, se smetteva di definire l’identità, e chi lavora diventava pedina, unità intercambiabile,
indefinitamente ridislocabile, forse potevamo approfittarne per guardare al lavoro,
per attraversarlo a partire da uno sguardo estraneo, singolare, con uno spirito etnografico
o marziano. L’unico spirito che riuscivamo a possedere, soprattutto quando il lavoro
di cui parlavamo era il nostro, uno qualunque dei lavori che facevamo per vivere.
Sono come tu mi vuoi raccoglie racconti molto diversi, ma si possono tentare degli affratellamenti. Ci
sono i racconti che parlano del mondo, della condizione della vita qui da noi in Occidente:
Sono come tu mi vuoi di Christian Raimo, che dà il titolo all’antologia, isola il cuore della precarietà,
mostrando l’idea di un lavoro che non spera di trovare contenuto, la voce narrante
è Chiunque, fa l’effetto di un’anima cui è stata sottratta la possibilità di incarnarsi.
Ricade nella stessa famiglia Tanti piccoli me di Tommaso Pincio: sulla scia della letteratura novecentesca della reiterazione e
della noia, il personaggio si abbassa ancora. Non più un fallito che racconta di una
crisi, ma uno specchio universale, l’immagine dell’umanità che va mandata nello spazio,
noi tutti: tra l’uno e l’altro di noi l’intercambiabilità si è fatta completa. Mondo macello di Giorgio Falco e I cancelli del mondo di Cristiano de Majo e Fabio Viola scelgono due microcosmi che dicono del mondo intero:
de Majo e Viola attraversano con senso del paradosso l’outlet che ricrea il cosmo,
città ideale, convento regolato del nostro tempo; Falco racconta con un ritmo ossessivamente
accusatorio i macelli, quelli attivi, catena di montaggio della morte, e quelli in
disuso, trasformati in strutture dell’arte, del piacere, della leggerezza. All’alba delle notti bianche di Valerio Mattioli, argomentativo e immaginifico, giocando con lo stridore tra il
deposito di moralità che si trattiene nella fatica delle braccia e la vacuità dell’estetica
dell’effimero, elegge il costruttore di impalcature per grandi eventi eroe di una
nuova epica. In Promesse da manager, Antonio Pascale legge le farragini dell’economia a partire dall’immaginaria e irreale
capacità decisionale dei manager. Un milione di euro di Nicola Lagioia, attraverso l’andirivieni di orgoglio e frustrazione di una organizzatrice
di eventi, racconta con precisione chirurgica lo sfruttamento della vanità e il misconoscimento
del valore su cui si regge buona parte del mondo della promozione di cultura. Un secondo
gruppo di racconti parla di lavori attraversati: Il posto è la notte di Michela Murgia, Non la reintegrano di Peppe Fiore, Tutte le donne di Zara di Sara Ventroni, Crocefissi a un euro di Marco Di Porto. Murgia racconta il vuoto inquieto delle notti trascorse nella
portineria di un albergo. Ventroni, con un ritmo implacabile, evoca veglie prima dell’alba
per correre al capannone della catena di abbigliamento a basso prezzo a incastrare
antifurto nei vestiti e immagina il probabile corto circuito: chi lavora è chi compra.
Peppe Fiore descrive le dinamiche di uno studio televisivo dal suo punto di vista
di stagista, con uno sguardo raggelato, eppure quasi dolce per quanto arreso, di fronte
a meccanismi inesorabili e feroci che non hanno più responsabili. Marco Di Porto,
per caso commesso in un negozio di oggettistica cattolica, si lascia turbare dall’umanità
dolente che gira per questi posti.
Un’ultima famiglia di racconti propone uno sguardo differente. Qualcosa cambia nel
momento in cui si spostano gli occhi verso il lavoro degli altri. Pare che si faccia
sentire una sete lungamente repressa, sete di epos. Si avverte in modo sorprendente
in Riduzione del danno di Emanuele Trevi, dove il lavoro degli operatori delle unità di strada sulla tossicodipendenza,
lo sforzo che fanno per salvare una vita o più semplicemente per la riduzione del
danno, diventa uno scarto gratuito e misterioso, in un mondo – il nostro – in cui
ogni gesto è logicamente, inesorabilmente, naturalmente gesto di sopraffazione. Si
avverte nell’Uomo morto di Elena Stancanelli che racconta dei ferrovieri, provocando il suo sguardo, che
si vuole smagato e tutto interno al presente, a incontrare l’immaginario eroico dei
macchinisti, ma soprattutto il peso che riconoscono alle azioni, la responsabilità
di cui si fanno carico di fronte alla vita e alla morte. Questa sete, ma anche riconoscimento,
di epos è fortissima quando si parla del lavoro degli immigrati. Anche Giordano Meacci
in Fuori stagione, come Stancanelli, si mette sotto scacco. Meacci si racconta come un turista concettuale,
vuole sapere dove vanno gli stagionali quando finisce la stagione, è una domanda che
si pretende amena e che incontra il suo sberleffo nella presa di coscienza della necessità:
gli stagionali quando la stagione finisce cercano lavoro. Se l’immagine dell’immigrato
ci turba, mettendoci all’angolo, è perché il nostro bisogno di epos si incontra con
un’epica reale. Stefano Liberti ha raccontato, con A sud di Lampedusa (minimum fax, 2008), più di una generazione di africani che parte verso l’Europa
come verso la frontiera, con forza di spirito e coscienza del pericolo. Con quella
stessa capacità di prestare attenzione, in Il cliente va conquistato Liberti racconta le strategie quotidiane di conquista del mercato di due ambulanti
nigeriani. Lo sguardo cambia ancora quando con Marco Rovelli e Alessandro Leogrande
si entra nel comparto edile. La giornata è quando si vede il sole di Rovelli racconta le condizioni di vita degli immigrati – che anche in regola rimangono
clandestini potenziali – nei cantieri. Mo’ pure i rumeni se so’ messi a fa’ i sindacalisti? di Alessandro Leogrande parla degli stranieri che lavorando nei cantieri diventano
delegati sindacali. Nella prossimità l’immagine degli immigrati si trasforma, si fa
normale: persone che hanno le spalle al muro, costrette a rivendicare dei diritti.
Qui non c’è più posto neanche per la sete di epica, le cose riprendono forma: ci sono
condizioni che rendono possibile lo sfruttamento e sono leggi; ci sono responsabili
dell’oppressione, sono italiani come stranieri e sono semplici da identificare.
A fine lettura Sono come tu mi vuoi si scopre manifesto. Il manifesto di una generazione incapace di manifesti, che non
sa neanche alzare la voce perché teme il ridicolo, che già si aspetta i colpi dall’inizio
e rifiuta perciò di darsi peso. Eppure vede nelle pieghe, tra la vita quotidiana e
il lavoro, tra i sentimenti e la necessità che preme, dove ci siamo ritirati. Sono come tu mi vuoi si scopre manifesto perché, con la stessa lucidità con cui narra la condizione di
chi lavora e vive, non può fare a meno di evocare in controluce una vita in cui si
può sperare, non può fare a meno di riconoscere, quasi con imbarazzo, epica, dignità
e peso.
Sono come tu mi vuoi
di Christian Raimo
Io sono specializzata in, che non riesco a capire se sia una qualifica che effettivamente
vale nel mercato del lavoro ma, avendo cominciato a lavorare che avevo neanche, non
mi posso lamentare del fatto che oggi a distanza di, la mia formazione è stata comunque
articolata, piena di esperienze di tutti i tipi, come per esempio. Ma dovendo ripercorrere
dall’inizio il mio curriculum e lavorativo e formativo, dato che le due cose si sono
intrecciate molto di più di quanto prevedessi e in molti casi hanno combaciato, devo
ritornare al momento in cui.
Allora già frequentavo da un anno un corso regionale per diventare, mi alzavo tutte
le mattine per andare da casa mia fino a, che si trovava dall’altra parte della, e
già allora, mi ricordo, mentre studiavo, tenevo una copia di, proprio lì accanto,
e sottolineavo tutti i giorni i vari annunci per. Inoltre mi ero iscritta alle liste
dell’ufficio di collocamento qui, nella provincia di, passando non so quante mattinate
e pomeriggi a fare la fila per capire come sbrogliarsi all’interno degli uffici e
chiedendo a vari addetti quale fosse l’iter burocratico migliore, più utile, in modo
da ottenere; ma indipendentemente dal mio impegno profuso a cercare lavoro, successe
proprio che mentre mi barcamenavo tra tutte queste varie pratiche, spaesata, o al
massimo orientandomi alla bell’e meglio, e non comprendendo neanche alla fine se tutto
questo darsi da fare servisse a qualche cosa, potesse dare anche alla lunga un risultato,
un giorno mi imbattei in un annuncio che diceva «Cercasi personale per»: così, senza
troppo pensarci, contattai il numero e mi presentai al.
Ed ecco arrivare il mio primo lavoro, firmai un contratto come: contratto che prevedeva.
Questi che mi avevano preso erano una specie di società che si occupava di, anche
se – c’è da dirlo – io non lavoravo strettamente alle loro dipendenze. Il mio impiego
praticamente consisteva nel, secondo il piano che mi avevano assegnato; all’inizio
con loro – non proprio come avevamo pattuito – venivo occupata per non più di, il
che, contando le giornate, voleva dire totalizzare un misero monte ore di; e quindi
dopo varie settimane in cui, nonostante le mie varie richieste, non avevo ricevuto
risposta, mi decisi a parlare con il: se mi aumentavano le ore, bene, altrimenti.
Ma questa fu una delle tante battaglie che si persero nel vuoto, perché mi spiegarono
che se avessi voluto proprio occuparmi di, avrei dovuto acquisire formazione in un
altro modo, per esempio frequentando un corso di, oppure essere assunta con un contratto
diverso, che oggi però loro non proponevano più, e nel giro di un po’ di mesi comunque,
sempre lì da loro, dovetti accettare di trasformarmi in – questo, per come me lo spiegarono,
a causa di quelle multinazionali che operavano e offrivano servizi all’interno della.
E così cominciai a lavorare ammonticchiando un quantitativo mensile di, che andavano
da un minimo di fino al massimo di, a seconda del periodo dell’anno.
Nel frattempo però mi ero anche iscritta all’università: non so se facendo valere
più gli interessi personali o più una visione realistica del mondo del lavoro, alla
fine mi ero decisa per la facoltà di. I soldi per le tasse li avevano pagati i miei
(che a dir la verità continuavano e continuarono a finanziarmi buona parte del, se
non tutto il), e nonostante fossi diventata a tutti gli effetti una studentessa lavoratrice,
tutto questo non determinava niente più che. Dunque, all’inizio dell’anno successivo,
quando stavo cominciando ad abituarmi al mio ritmo giornaliero, mi arrivò all’improvviso
una lettera da parte della, che mi spiegava che, causa minori investimenti da parte
delle diverse aziende e il conseguente rischio di perdita di competitività delle tariffe,
loro non erano più in grado di garantire ai lavoratori la continuità del rapporto
di lavoro: in sostanza. Ci rimasi male, anche se, dopo lo scoramento, dopo essermi
chiesta se in realtà ero io in qualche modo ad essere in difetto, erano forse le mie
competenze a non essere adeguate, cercai anche di non farmi scoraggiare del tutto
e provai a trattare con loro, ma senza esito; e alla fine dovetti accettare le loro
condizioni anche perché, e l’unica cosa che riuscii a ottenere fu. «Ma», mi dissero,
«mi raccomando non dirlo agli altri tuoi». Nonostante il cambiamento di mansioni e
di retribuzione, il lavoro era in definitiva sempre lo stesso, i turni venivano leggermente
modificati, ma soprattutto aumentava la fatica, e insieme lo stress per un lavoro
che non mi piaceva, che sicuramente non era il lavoro della mia vita, e per il quale
mi sentivo molto spesso non possedere né le competenze né probabilmente la motivazione
che invece era invocata da più parti come qualità essenziale, prerequisito specifico;
e dall’altra parte, se dovevo considerare quello che ero riuscita a contrattare, dovevo
constatare che non mi era riconosciuta né l’indennità di malattia tranne nei casi
di, risultavo priva delle tutele di maternità, e rispetto alla rimunerazione delle
ferie e ai contributi era previsto soltanto che. Ma tra una cosa e l’altra, stringendo
i denti, e facendo leva alle volte sul desiderio di dimostrare ai miei di non essere
una fallita, riuscii comunque a resistere fino alla fine dell’anno, quando, preso
atto di non poter più tollerare la situazione in cui mi trovavo – forse per colpa
mia, viziata da aspettative false che mi ero creata, o più probabilmente incapace
di relazionarmi concretamente con il mondo del lavoro – decisi di mollare e di comunicarlo
allo: discutemmo un po’, ma la mia decisione non li sorprese, mi fecero un discorso
che mi sembrò un po’ standardizzato sulle potenzialità e sulla determinazione e infine
mi dissero che secondo loro io ero una persona di tipo, e per questo sarei dovuta
essere più.
Nello stesso periodo, con uno sforzo ulteriore da parte dei miei, riuscii a laurearmi:
ci avevo messo la bellezza di, che però era effettivamente il tempo medio in cui tutti
i miei amici si erano laureati; e a distanza di neanche pochi giorni dalla laurea,
mi sbrigai a portare il curriculum, riscritto, ricompilato, aggiunto delle competenze
informatiche sempre più necessarie, alle agenzie interinali, scegliendo soprattutto
quelle che; avevo ormai optato anche per le agenzie interinali, laurea o non laurea,
perché in quel momento, per quella che era la mia percezione, costituivano sicuramente
una possibilità realistica, operativa (come si dice in gergo) di trovare lavoro, anche
se dal momento in cui ti rivolgi a loro, devi in un modo o nell’altro acconsentire
a tutte le offerte che ti propongono, anche se non è il tuo campo, devi essere sempre
condiscendente e disponibile, e devi soprattutto essere propenso a spostarti da un
posto all’altro, a ridefinire il tuo ruolo con grande agilità come stagista o come
apprendista a seconda dell’ambiente in cui vieni collocato, ma quel che a me capitava
sempre più spesso è che quando cominciavo a impratichirmi con un lavoro mi ritrovavo
che il contratto era già scaduto, e di punto in bianco ero di nuovo nella condizione
di aspettare un’altra occupazione, che magari non arrivava subito, e così in quel
lasso di tempo, tra un lavoro e l’altro, la maggior parte del tempo la passavo a.
Il primo anno ho cambiato fino a, con uno stress indicibile: ogni volta mi trovavo
di fronte a capi diversi, colleghi nuovi, contesti lavorativi diversi, e dovevo adeguarmi,
stare attenta, non mostrare troppo i lati più eccessivi del mio carattere, perché
magari bastava una telefonata per ritrovarti senza lavoro, o peggio senza un’altra
minima possibilità di essere richiamati per avere altri.
Quando mi stufai di questa situazione, mollai tutto e trovai lavoro in un, dove facevo
di tutto, un posto dove, a dir la verità – me ne accorsi dopo poco – mi sentivo sfruttata
più che in qualsiasi altro posto dove avessi mai lavorato, e anche lì riflettei se
per caso fossi io ad avere tendenze masochistiche che mi spingevano sempre a trovare
impieghi che non mi soddisfacevano e che come quello erano malpagati, o anche qui,
se forse ero io a pensare per me un tenore di vita troppo alto, troppo slegato dalla
realtà di me stessa, come se mi immaginassi un ruolo, una condizione economica che
in realtà non potevo permettermi, che non era la mia, e così in definitiva – se dovevo
fare un consuntivo – avevo sempre pressoché accettato le proposte di lavoro che mi
avevano offerto, ma mi ero sentita sempre praticamente un’estranea, e così stavo finalmente
considerando tutto da un’altra prospettiva: forse questo è un falso problema, perché
sul lavoro non dovrei sentirmi estranea? Forse proprio lavorare vuol dire sentirmi
estranea; ma al tempo stesso, ero preoccupata dal dover rendermi conto che invece
di acquisire competenze, sentivo che erano soffocate le mie abilità a scapito di.
E veramente in questo senso potrei fare mille esempi dei comportamenti dei vari datori
di lavoro nei miei confronti, comportamenti che forse sono improntati anche a una
buona fede o a un fraintendimento di quelle che erano le mie.
Attualmente sono disoccupata, anche se mi capita ogni tanto di lavorare nei, dove
me ne accadono di tutti i colori, dalla tipa che mi manda via perché io, a quella
che per risparmiare qualche euro sulla mia paga mi sostituisce con un’altra tipa che
rispetto a me; e nel frattempo, nel resto del tempo della mia vita, in quello che
almeno posso decidere di gestire come voglio io, o almeno mi illudo di farlo, diciamo
che sto cercando di riequilibrarmi e almeno per adesso ho deciso questo: di staccare
la spina, e che per un tot di ore al giorno, non ci sono per nessuno, faccio finta
di non esistere, e se qualcuno mi vuole, deve venire qui, deve venire lui a cercarmi,
e davanti a me, in faccia, deve dirmi per favore cosa sono.
Tanti piccoli me
di Tommaso Pincio
Semmai un giorno vi capitasse di passare con la macchina per la tangenziale che porta
fuori città, buttate un occhio all’edificio che si para alla vostra destra una volta
oltrepassato il discount. Mi riferisco a quel coso brutto ed enorme che sembra un
carcere di massima sicurezza. Buttateci un occhio, per favore, e cercate di mettere
a fuoco la settima finestra da sinistra del penultimo piano. Magari a voi non interessa,
sappiate però che dietro i vetri e le tende di quella finestra ci abito io.
Spesso la gente si domanda a quale razza di sfigati possa mai saltare in mente di
andare a vivere in casermoni privi di virtù geometriche abitabili. Ebbene, gente,
adesso lo sapete. Non avete più bisogno di farvi domande. Io sono quella razza di
sfigati. Dico «io» in senso paradigmatico, ovvio. Ovverosia nel senso che i tanti
sfigati che abitano in simili immondi edifici possono essere considerati miei pari.
Tanti piccoli me.
Intendiamoci, visti da fuori nessuno di quei tanti piccoli me brilla sul piano della
personalità. Quanto a carisma nessuno di loro è come me. Perché io sono uno che ha
trovato uno scopo preciso nella vita. Il che mi colloca su un piano diverso. Un piano
più alto. Ma siccome mi sa che, a vedermi da fuori, neppure io emano chissà quale
luce, siccome ho la sensazione che neppure io faccio una grande impressione agli occhi
della gente, per semplificare le cose ho rinunciato a distinguermi.
Per giunta c’è una questione di ingiusta lesione dell’immagine da considerare. Lasciatemelo
dire, gente, si è fatta troppa cattiva informazione in merito al mondo dei casermoni
tipo quello dove abito io. Ciò ha parecchio nuociuto all’immagine dei tanti piccoli
me. È infatti a causa di certi servizi giornalistici sulle condizioni di vita nelle
periferie se oggi la gente pensa che nei casermoni si faccia fare il bagno ai bambini
nella lavatrice oppure che le partite di calcio che trasmettono in televisione siano
di un campionato diverso da quello reale, nella fattispecie un campionato finto dove
ogni tanto le squadre ultime in classifica battono le più forti nonostante gli errori
arbitrali. Ciò non è bello per niente. È ingiusto e razzistico.
Vi chiederete come io possa avere ancora uno scopo nella vita. È presto detto. Seguo
l’esempio di Mohammed Alì. Faccio jogging tutte le sere. Tutte le sere, prima di mangiare,
mi vesto da jogging, esco di casa e per una trentina di minuti corro sul ciglio della
tangenziale. Proprio come il grande Mohammed Alì ai suoi tempi. In effetti, lui faceva
jogging a Central Park, in un trionfo di alberi e scoiattoli. Ma bisogna fare i conti
con quel che passa il contesto ambientale e qui dove abito io ci sono soltanto i casermoni
e la tangenziale.
In ogni caso il succo della faccenda non sono mica gli scoiattoli. Il succo è fare
jogging al tramonto, perché fu proprio in una delle sue corse serali all’aperto che
Mohammed Alì ebbe questa specie di illuminazione. Era lì tutto impegnato nella corsa
quando a un certo punto qualcosa lo indusse ad alzare lo sguardo al cielo e vide la
luce. Pensate un po’, un globo sfavillante galleggiava nella volta celeste proprio
in corrispondenza della sua capoccia. Lui disse che somigliava a una gigantesca lampadina
e non trasse conclusioni. Rimase soltanto molto colpito.
Io la vedo diversamente, ovvio. Io dico che quella non era affatto una semplice lampadina
e ne ho tratto la conclusione che tra i tanti modi per riuscire nella vita quello
più sicuro è farsi notare da chi davvero conta qualcosa nel nostro universo. Cosa
credete? Non fosse stato per la faccenda della lampadina, Mohammed Alì non sarebbe
andato da nessuna parte. È per questo che faccio jogging tutte le sere, perché voglio
che un disco volante mi noti, si fermi sulla mia capoccia e mi spruzzi addosso un
po’ della sua luce portentosa, una luce che fa venire allo scoperto le qualità nascoste
delle persone.
Io vorrei tanto non dover ricorrere a simili bassezze ma al giorno d’oggi se ci si
vuole realizzare come esseri umani la procedura più sicura è entrare nelle grazie
di chi conta davvero, e gli alieni contano un sacco nell’universo. Avere fiducia in
se stessi, impegnarsi seriamente, lavorare sodo, farsi il culo, cercare di migliorarsi?
Tutte balle. Forse in passato simili qualità hanno avuto il loro peso, non lo nego.
Oggi però mica viviamo più al tempo dei cavalieri medievali.
Lasciate che vi spieghi in che tempi viviamo. Io ci sono giorni che, per il lavoro
che faccio, dopo sei ore ho guadagnato la bellezza di nove euro. Io ci sono mesi che
quando mi metto a tirare le somme del lavoro che faccio, i miei servizi e la mia capacità
di relazionarmi con il pubblico valgono la bellezza di settantadue euro al mese. Io,
anche volendo considerare il lavoro che faccio al di là del feedback economico, sono
uno che viene chiamato «scimmietta» dal suo team leader in quanto la cosa rientra
in un discorso di senso dell’umorismo sulle dinamiche dei rapporti di vessazione che
intercorrono tra dirigenti e sottoposti. Io, volendo entrare anche nel merito della
questione «provvedimenti disciplinari», sono una scimmietta con sette richiami sul
groppone essendo che da un po’ di tempo faccio fatica a prendere sonno la sera e la
cosa ha conseguenze spiacevoli sul piano fisico, tipo che la mattina mi si bloccano
le dita della mano, sicché non riesco a operare sulla tastiera come l’azienda si aspetta
da me. Io, tra l’una e l’altra di tutte queste cose, il mese prossimo mi scade il
contratto per il lavoro che faccio, ragion per cui c’è anche la possibilità che mi
disattivano il badge cioè che io finisco disoccupato, e allora sì che sono cazzi.
Giusto per darvi il quadro generale dei tempi in cui viviamo. Dice, ma di che ti lamenti?
Accontentati, dice. Be’, io mi ci sono applicato perfino di buzzo buono su questa
storia di accontentarmi. Applicato davvero. Solo che non mi viene spontaneo di accettare
le situazioni. Accontentarsi non fa per me. Sul serio. Mi sento più portato all’insoddisfazione.
Non per niente faccio jogging tutte le sere.
Magari vi siete fatti l’idea che sono una persona venale, che stringi stringi tutto
quello che mi aspetto dai dischi volanti è semplicemente guadagnare qualche soldo
in più. Ebbene, gente, forse vi sorprenderà ma non è così. Non è al denaro che penso.
Il mio scopo nella vita è di livello molto più romantico e sentimentale. Il mio scopo
nella vita è di realizzarmi all’interno di una relazione stabile e passionale con
una persona ben precisa che ho già individuato e della quale, se mi passate l’espressione,
credo di essere innamorato. Purtroppo certe svenevolezze sono malviste nelle grandi
aziende che operano nel settore delle telecomunicazioni. Ma che ne volete sapere,
voialtri? Vivete nelle bambagia, mica nel mondo reale. Si vede dal modo in cui sfrecciate
sulla tangenziale che non dovete fronteggiare problemi veri. Vi renderò dunque noto
un fatto, signori che sfrecciate sulle tangenziali, così magari imparate qualcosa
su come funziona il mondo al giorno d’oggi. Quando si fa un lavoro come quello che
faccio io nel settore delle telecomunicazioni, quando si è un operatore provvisorio
pagato a cottimo imperfetto cioè retribuito non per quanto lavoro fai bensì in ragione
del numero di clienti che ti chiamano, quando non fai che lavorare malgrado le dita
bloccate, quel che succede è che il non avere diritti finisce per sembrarti la cosa
più ovvia dell’universo.
Per esempio. Avendo i soldi, a me piacerebbe tanto comprarmi un computer. Così la
sera potrei comunicare con qualcuno e scambiare opinioni con altra gente e magari,
chissà, conoscere perfino qualche ragazza del giro delle chat che si sente sola come
me. Dice, ma perché non fai coppia con un tuo pari? Perché non ti trovi una sfigata
come te? Ce ne sarà pure qualcuna in ’sto settore delle telecomunicazioni dove lavori.
C’era, in effetti. E con ciò arriviamo allo snodo strappalacrime del mio discorso.
Lei operava a poche postazioni dalla mia. Aveva ventotto anni ed era bella come certe
ragazze giovani dei reality show. Quando parlava al microfono si premeva l’auricolare
contro l’orecchio con un gesto che irradiava energie così positive che a volte mi
si sbloccavano perfino le dita della mano. Sul lavoro era molto più efficiente di
me. Non si impappinava mai, nemmeno coi clienti più rognosi, e stava sempre entro
i tempi di conversazione richiesti dall’azienda. Infatti era l’unica a essere chiamata
per nome dal nostro team leader, anziché scimmietta come tutti noialtri.
Non so se si possa definire amore in senso tecnico, ma sentivo che con una donna così
al mio fianco sarei potuto diventare una persona migliore. Io volevo comunicargliela,
questa sensazione. Volevo dirle che in sua presenza mi sentivo spruzzato di un’energia
portentosa molto simile a quella dei dischi volanti. Volevo ringraziarla perché la
sua presenza aveva l’effetto di sbloccarmi le dita e migliorare le mie prestazioni
professionali, seppur in modo temporaneo. Volevo anche invitarla per un coffee break
ai distributori automatici nei corridoi.
Insomma, già intravedevo uno scopo e il suo raggiungimento. Già mi sentivo quell’uomo
migliore che nel fondo dell’anima ero certo di essere, quando mi dovetti scontrare
con un impedimento insormontabile. Sapete cosa mi ha fregato, signori che sfrecciate
incuranti sulle tangenziali? Mi ha fregato il fatto che le scimmiette non possono
parlare tra di loro durante l’orario di lavoro.
Be’, potevi aspettare che l’orario finisse e poi le parlavi, no?, direte voi. Credete
che non ci abbia pensato? Ci ho pensato sì. Solo che se le parlavo dopo l’orario di
lavoro mica la potevo più invitare alla macchinetta del caffè. Dovevo invitarla fuori,
dovevo. E chi me li dava, i soldi? Oppure l’avrei dovuta invitare a casa mia, nel
casermone della tangenziale che voi sapete. Il che avrebbe potuto mal disporla nei
miei confronti, visto che casa mia non è che faccia una bella impressione al momento.
Inoltre avrebbe potuto pensare che avessi mire di tipo sessuale sbrigativo, il che
avrebbe potuto mal disporla ancora di più nei miei confronti. Così ho aspettato che
maturassero le condizioni ideali. Del resto, cos’altro potevo fare se non aspettare?
A volte mi chiedo se non avessi potuto fare qualcosa di più, a parte aspettare. Mi
chiedo se c’è un momento in cui bisogna smettere di attendere per passare all’azione,
succeda quel che succeda. Mi chiedo quand’è che arriva questo momento e come si faccia
a riconoscerlo. Mi chiedo se questo momento mi è passato davanti e io non me ne sono
accorto. Mi chiedo dov’è che avevo la testa quando è passato quel momento, e mentre
me lo chiedo ci sono volte, sul lavoro, che mi capita di incantarmi. Lo sguardo mi
si gira da solo verso il paesaggio che si vede fuori della finestra vicino alla mia
postazione e si fissa. E allora mi ritrovo a parlare a me stesso con la trasmissione
del pensiero. «Dov’è che hai la testa, pezzo di idiota?» mi dico. «Dove?» Tutto qua.
Lei mi domanda la stessa cosa. «Dov’è che hai la testa?»
Io scuoto il capo come fanno i cani quando escono dall’acqua. «Non lo so» dico. E
lei, «Be’, vedi di rimetterla al suo posto». Io faccio cenno di sì con l’aria contrita,
mi sistemo l’auricolare e rispondo a un cliente in attesa. «Ecco, bravo» dice lei.
«Le seghe mentali, a casa. Qui si lavora, scimmietta». Avete capito bene, dice proprio
«scimmietta». Un giorno di un mese fa lei si è alzata dalla postazione per andare
in bagno. Io mi sono accorto subito che il nostro team leader se la stava squadrando
con mire di sesso sbrigativo. Infatti quando è uscita l’ha convocata nel suo ufficio
dove si sono trattenuti in lunga conversazione. Io non so se c’è un nesso diretto,
ma dopo un po’ lui è sparito nei livelli alti dell’azienda mentre lei è diventata
la nostra team leader.
Oggi fa su e giù tra le postazioni, ci sorveglia e ci dice di abbassare i tempi di
conversazione chiamandoci scimmiet-
te. Proprio come il team leader di prima e quello di prima ancora.
Ieri mi ha convocato. Mi è venuto spontaneo pensare che anche lei fosse sul punto
di sparire nei livelli alti dell’azienda e che voleva sapere se per caso mi interessava
diventare team leader al posto suo. Pensavo male. È saltato fuori che lei è esasperata
dai miei bassi indici di produttività. Dice che se non risolvo questa faccenda delle
dita che mi si bloccano, il rinnovo del contratto me lo sogno. Senza contare tutti
gli altri aspetti che depongono a mio sfavore. Tipo che non ho ancora capito che i
tempi di conversazione coi clienti vanno abbassati. Tipo che mi incanto con lo sguardo
fisso alla finestra.
Dice pure che le piacerebbe sapere cosa mi passa per la testa. Dice tanto per dire.
In realtà non è che gliene importi granché. Se davvero le importasse saperlo glielo
direi, ma io sono sicuro che non le importa. Non che questo intacchi i miei sentimenti
d’amore o pregiudichi la nostra possibilità di una relazione stabile e passionale.
Per come la interpreto io, la sua indifferenza è una semplice forma di adattamento
all’ambiente. Ho infatti maturato questa idea per cui nell’odierno mondo del lavoro
flessibile meno te ne frega degli altri meglio è per te e per la flessibilità.
Vi sembrerò presuntuoso, ma secondo me è molto esatta come idea. Lo si evince dal
fatto che la gente alla quale non frega niente degli altri si fa strada e raggiunge
determinati obiettivi diventando gente migliore di quella che è in realtà. Io, invece,
che sono un tipo empatico il quale si identifica molto nei problemi altrui, io non
ho ancora combinato un cazzo nella vita, e mi sa che se non venivo a sapere di Mohammed
Alì e di come si è fatto notare dagli alieni facendo jogging a Central Park potevo
anche scordarmi del tutto di combinare qualcosa. Tutto sommato sono fortunato.
Io spero solo che qualcuno di voi non mi metta sotto con la macchina mentre faccio
jogging. Per favore, pensateci quando passate per la tangenziale. Non fate quelli
che vedono solo il proprio ego come solito vostro. Io vi conosco. Voi siete capaci
di sfrecciare sulla tangenziale con la testa annebbiata nei fatti vostri e di spiaccicarmi
sull’asfalto senza nemmeno accorgervene. Pensate che tra i tanti piccoli me che abitano
in quel casermone sulla destra subito dopo il discount ci sono anche io, uno che corre
per uno scopo preciso.
Poi spero pure che quella luce portentosa che spruzzano gli alieni dai loro dischi
volanti quando notano un essere umano di belle prospettive non sia di quelle che fanno
venire strane malattie. Hai visto mai, infatti? A guardare com’è messo oggi Mohammed
Alì, devo dire che qualche ansia mi è venuta. Non sarebbe piacevole combinare qualcosa
di buono nella vita soltanto per poi beccarsi il morbo di Parkinson.
Un milione di euro
di Nicola Lagioia
Ore due e trenta del pomeriggio, Arturo mi invita a un pranzo di lavoro. Siamo in
un noto ristorante di piazza del Popolo i cui prezzi sul menù, sommati tra di loro,
danno più o meno il quintuplo delle mie entrate mensili. Esclusi i vini. Mi dice:
«Sara, abbiamo i finanziamenti...». Il suo sguardo invita a mantenere la suspense.
Sorrido senza dire una parola. Tutto felice di circonfondersi nella luce di questa
pausa scenica, riprende a parlare. Spara la cifra: «Un milione di euro». In mezzo
ci sono il Comune di Roma, un paio di fondazioni, gli sponsor privati. Sarà un grande
festival (teatro, musica, letteratura...) e io, io che sono la sua pupilla – non lo
dice in tono confidenziale ma esplosivo, come si fosse ritrovato sotto casa una figlia
scomparsa da anni –, io dovrò occuparmi degli artisti. Un paio di raccomandazioni.
Per prima cosa, il festival dovrà ruotare intorno ai temi del lavoro e del dialogo
tra i popoli. Secondo: pensare in grande. Patti Smith è alla nostra portata, García
Márquez è alla nostra portata, Roberto Benigni è alla nostra portata... Prima di andare
via, lascia una mancia di venti euro al cameriere.
Arturo
Arturo è un personaggio storico, quasi un’istituzione nel mondo della cultura. Basta
sfogliare l’album dei ricordi per vederlo in compagnia di Federico Fellini, di Eduardo,
di Moravia, di Carmelo Bene... La prima volta che sono andata a casa sua ha letto
ad alta voce una lunga lettera che Giangiacomo Feltrinelli gli aveva spedito da Cuba
nel 1963. Lo ascoltavo e mi tremavano le gambe. È stato come saltare il fosso intorno
a cui avevo ruotato per tutti gli anni dell’università: dalla teoria dei manuali alla
vita vera. Quando ha posato la lettera sul tavolo e mi ha guardato in faccia, deve
aver rintracciato nei miei occhi un particolare bagliore a cui ha sentito di dover
rispondere: «Faremo grandi cose insieme...».
Mio padre
Telefono a mio padre, gli dico del festival. Lui chiede se anche questa volta c’è
di mezzo Arturo. Lo chiede con un sospiro. So dove vuole arrivare: in cinque anni
che lavoriamo insieme, Arturo mi ha passato uno stipendio variabile tra i tre e i
trecentocinquanta euro mensili, e non ho mai visto lo straccio di un contratto. Cerco
di smorzare la nascente polemica simulando un entusiasmo che a un certo punto riconosco
come la mia unica risorsa. Dico a mio padre che ci saranno grandi nomi, che inviteremo
quasi sicuramente García Márquez, gli faccio intendere che sarò proprio io a telefonare
in Colombia, parlerò con il grande scrittore, il che è assolutamente implausibile
dal momento che al limite tratteremo col suo agente, ma questi sono dettagli ai quali
a un certo punto non credo più nemmeno io, invece alzo la voce, raddoppio l’entusiasmo,
che ora non è più l’effetto di una simulazione ma un sentimento cieco e autentico
e rabbioso come certi atti di fede, ripeto García Márquez García Márquez García Márquez perché mio padre sappia, si convinca, possa raccontare a tutti che sua figlia è arrivata
a un punto della vita in cui parlare confidenzialmente con un premio Nobel è all’ordine
del giorno. Quando riattacco la mia testa è come spaccata a metà. Da una parte ho
queste immagini di me che vado a prendere García Márquez a Fiumicino, lo porto a San
Lorenzo a prendere un caffè e insieme chiacchieriamo del più e del meno mentre un
amico che non vedo da tempo si trova a passare da quelle parti, ci vede e rimane stupefatto.
Dall’altra non posso fare a meno di pensare che ho sempre odiato García Márquez: sin
dai tempi dell’università mi sembrava folkloristico, consolatorio, per anni ho litigato
fieramente con tutti gli apologeti dell’Amore ai tempi del colera, lettori la cui intelligenza ho sempre stimato al livello dei barboncini. Provo a
mettermi a letto e non chiudo occhio. Maledico mio padre. Penso che la sua morte sarebbe
una liberazione, ed è un pensiero che stranamente viaggia sulle stesse frequenze allucinate
che trasmettono la radiocronaca del mio tête-à-tête con García Márquez. Subito dopo
la scena di me che gli contesto L’amore ai tempi del colera e lui che ammette: «Sì, hai ragione, quel libro fa schifo...», vengo invasa da un
altro sistema linguistico che, pur non appartenendomi, fa di me quello che vuole:
pensando ai rotocalchi femminili, ai continui inviti all’autodeterminazione che emergono
in questi supplementi settimanali, mi convinco che mettere Arturo al muro non mi costa
proprio niente – lo prenderò in disparte per questa faccenda del festival, gli chiederò
una retribuzione adeguata e lui sorriderà come non aspettasse altro. Dirà: «Figurati,
non c’è nessun problema...», e a questo punto mi addormento.
Cristina
Una pizzeria vicino piazza Re di Roma. Ceniamo insieme. Lei inizia a raccontarmi dei
tira e molla con Vincenzo e io le dico di Mario, questo assistente alla produzione
con cui esco da qualche settimana. Fa un mezzo sorriso, allunga il collo e mi domanda:
«Ci sei già andata a letto?». Prima che io possa rispondere, dalle casse del piccolo
stereo montate sopra il nostro tavolo inizia a passare una canzone di Vinicio Capossela.
Non resisto alla tentazione, le dico che Capossela con tutta probabilità dovrò chiamarlo
fra qualche giorno per il festival. Cristina mi racconta dei suoi casini all’Auditorium.
A un certo punto l’enfasi delle nostre parole è come raddoppiata, Vincenzo e Mario
svaniscono rapidamente oltre l’orizzonte del discorso. Cristina dice che la situazione
lì da lei è disperata: tutti stagisti e contrattisti a progetto – contratti che di
solito non vengono rinnovati –, ma le stagiste come lei non percepiscono neanche un
rimborso spese e per un contratto a progetto farebbero pazzie, e allora scatta un
meccanismo psicologico molto simile a quello che spinge i criceti sui tamburi rotanti:
più gli stagisti non vengono pagati più si fanno il culo, nella speranza di essere
notati da qualcuno iniziano a strafare, si autoraddoppiano l’orario di lavoro, moltiplicano
le proprie competenze, si improvvisano maggiordomi, dog-sitter, si offrono per sobbarcarsi
qualunque tipo di rottura di coglioni... Dico a Cristina: «Che schifo...», cerco di
consolarla, ma nel frattempo devo ammettere che il suo discorso mi ha fatto nascere
nel cuore un sentimento molto prossimo alla gioia. Se c’è qualcuno che sta peggio di te, dice questo sentimento che non posso controllare, significa che non sei una totale cogliona. Vorrei adesso che Cristina mi raccontasse di tutte le umiliazioni che subisce sul
posto di lavoro, la sua disperazione sarebbe la mia salvezza temporanea, a un certo
punto magari dovrebbe anche iniziare a piangere, stilare un lungo elenco di soprusi
e situazioni degradanti, dovrebbe essere talmente dettagliata da farmi passare davanti
agli occhi l’immagine di dieci stagiste che per zero euro al mese strisciano ai piedi
dell’ultimo usciere dell’Auditorium. E voglio dire... Cristina è la mia più cara amica,
darei la vita per lei, ma se decidessero di farle un contratto di assunzione all’Auditorium
e per assurdo io potessi impedirlo, non esiterei a farlo. È un pensiero orribile,
lo so. Allora mi sorprendo a desiderare che in pizzeria faccia irruzione un uomo armato,
un uomo che dovrebbe iniziare a sparare tra la folla, magari proprio in direzione
di Cristina. Io allora le farei da scudo col mio corpo e finalmente sarei libera.
Arturo
Mi chiama che è già sera. Dice: «Abbiamo un problema con il catering...». C’è stato
un vernissage alla galleria della Minardi e la ragazza addetta alla mescita del vino
ha la febbre a quarantuno («quella deficiente», aggiunge). Gli dico: «Arrivo subito».
Telefono a Mario, annullo la nostra serata. Dice: «Che succede?». La risposta mi viene
fuori in automatico: «Un casino. Ha chiamato Arturo. Deve portare a cena Lars Von
Trier e l’interprete ha dato buca». E lui: «Non sapevo parlassi il danese». E io:
«Inglese. Parleremo in inglese. Arturo parla il francese, il russo, lo spagnolo ma non l’inglese. Io invece sì.
Contento?». E lui: «A posto, è tutto a posto, non ti agitare...». In metropolitana
penso che l’unico modo per riscattarmi rispetto a questa ignobile stronzata che ho
rifilato a Mario è sfruttare la situazione, prendere Arturo in un momento di pausa
e chiedergli un aumento. Ma poi, quando sono in galleria, impegnata a versare Nero
D’Avola a professori universitari, artisti esposti al Moma, scrittori presenti con
almeno dieci pagine sulle antologie scolastiche, e tutti mi trattano da pari a pari,
mi hanno visto altre volte a fianco di Arturo, c’è come un senso di complicità, mi
fanno quasi intendere che al posto mio, dietro il tavolo da buffet, ci sarebbe-
ro potuti stare loro, si sarebbero messi a disposizione se solo li avessero avvisati
per tempo, tra una tartina e l’altra riesco addirittura a scambiare due opinioni sull’ultimo
Von Trier con un critico cinematografico che spesso va in televisione, e lui mi ha
detto: «Perfettamente d’accordo con te: parte con Brecht ma torna sempre a Ibsen»,
e insomma, in tutto questo clima parlare di denaro appare a un certo punto completamente
fuori posto. Due ore dopo sono di nuovo in metropolitana. Puzzo di vino. Man mano
che l’atmosfera della festa si dissolve inizia a montarmi nello stomaco un sentimento
rabbioso: Arturo, la gallerista, gli scrittori antologizzati... tutti ignobili avvoltoi,
penso. Di conseguenza, io? Io che cosa sono? Mi rannicchio sul sedile della metro,
senza un briciolo di premeditazione mi prendo la faccia tra le mani e inizio a singhiozzare.
Internet
Le quattro del mattino. Sul sito di «Repubblica», in prima pagina, c’è un link che
porta alle «classifiche degli italiani per reddito annuale». Apro la pagina con una
foga molto simile a quella con cui le adolescenti dei video porno affrontano questi
negri nascosti da orribili passamontagna. Mi muove un divorante desiderio di rientrare
nella media. Le fasce di reddito sono suddivise in questo modo: miliardari, facoltosi,
agiati, benestanti, poveri, poverissimi. Ma poi ci sono le variabili: allora inizio
convulsamente a calcolare per età, residenza, titolo di studio, settore produttivo...
Quando sono a due passi da un attacco isterico penso che forse potrei darmi una calmata
masturbandomi oppure cercando un sonnifero nell’armadietto dei medicinali. Poi scopro
un altro link: «Fasce di reddito nel resto del mondo». Verifico la situazione in Sudamerica,
in Asia, nei buchi infetti delle città dell’Africa centrale. Scopro che in Mozambico,
per esempio, si campa con 22 dollari al mese. Di nuovo questo strano sentimento di
gioia... Ne deduco che, considerando il reddito pro capite a livello planetario, non
posso essere considerata una miserabile. La globalizzazione serve a qualcosa. Mi addormento.
Faccio dei sogni orribili.
Al risveglio trovo un sms sul cellulare. È Mario. Mi invita a cena a casa sua.
Matteo
Prima di andare da Mario prendo un caffè con Matteo. Ci conosciamo da dieci anni,
è il mio ex fidanzato, l’ho lasciato io sei mesi fa. Come gli dico del festival scuote
la testa: «Smettila di farti sfruttare da quello stronzo», dice. «Non tutti siamo
dei raccomandati come te», rispondo come per un’autodifesa. «Nessuno mi ha mai raccomandato
per niente», si difende a sua volta. «Scrivi su ‘Repubblica’» lo incalzo, «scrivi
sul ‘Venerdì’ e sul ‘manifesto’: o hai dei santi in paradiso oppure ti sei messo a
fare le marchette». «Ma li leggi i miei articoli?», qui alza la voce. «Vaffanculo!
Raccomandato di merda!» mi esce dalla bocca. Matteo spacca tra le mani un bicchiere
di plastica. E così cominciamo a litigare furiosamente, proprio come ai vecchi tempi,
solo che all’epoca i motivi delle nostre urla erano totalmente diversi. Mi alzo di
scatto dal tavolo mentre con gli occhi rossi sta gridando: «Ma non capisci? Non lo
capisci che in questo modo diventa tutta una lotta fratricida?».
Arturo
Mi chiama al cellulare. Dice: «Scusami tesoro: un’altra emergenza...». Hanno anticipato
di una settimana la presentazione del libro di Tullio Kezich. «Bisogna darci dentro
con la faccenda degli inviti. Cerca di far venire più gente possibile». Verso l’ingresso
della metro ho un giramento di testa. Mi fermo in un bar. Rimango seduta al tavolino
per mezz’ora, senza ordinare niente.
La fine (l’inizio)
Sono arrivata a casa di Mario in una condizione penosa. Lui è sembrato non accorgersene.
Ha attaccato subito a parlare di non so bene quale film. Volevo tenere la conversazione
a un livello decente, ma mentre provavo a concentrarmi sulle sue parole non ho potuto
fare a meno di pensare che lui nel cinema ci lavora, conosce un sacco di gente in
vista, se solo volesse spendersi un po’ per la presentazione del libro di Kezich,
darmi una mano con la faccenda degli inviti... Non voglio che queste cose si mettano tra noi, mi sono risposta, e però c’è stata come una vocina, laboriosa come un ratto di fogna,
che a un certo punto ha cominciato a sussurrare digli degli inviti, digli degli inviti..., così ho cercato di pensare ad altro, ho provato di nuovo a capire di che film
stesse parlando, volevo godermi la cena ma la vocina di tanto in tanto faceva capolino
tra i discorsi, e mi ha seguito nel salotto, dove abbiamo preso un whisky, e mi ha
seguito in camera da letto, dove a un certo punto, non so come, stavamo già facendo
l’amore, ci sono stati inizialmente questi movimenti goffi, poi lui mi è entrato dentro,
e mentre gli dicevo: «Mario...» in una parte della testa continuava a risuonarmi come
da un pozzo senza fondo digli degli inviti, digli degli inviti..., era una voce del tutto svincolata dalla mia volontà, però, non so in che modo,
lui deve avere sentito qualche cosa, come un segnale, un’autorizzazione o una richiesta
patibolare, allora ha cambiato posizione, mi ha preso per il collo, ha cominciato
a farmi forte, e la vocina, la vocina degli inviti lo ha misteriosamente assecondato
attraverso il mio corpo, lui se ne è accorto, ha impresso più forza e regolarità ai
movimenti, una regolarità che mi ha fatto pensare a un esercito di monache con le
gambe tumefatte impegnate a sgranare un rosario recitando una statistica, a un certo
punto non era più la fluidità di due corpi umani ma la perfetta relazione che il cilindro
intrattiene col pistone, eravamo in un tunnel, eravamo nel fondo di qualcosa che non
ha ancora un nome, ma alla fine di ogni tunnel, mi sono detta, c’è una luce, e la
luce, l’ho capito come se fossi stata fulminata da una rivelazione, quella luce era
lo sbocco fognario verso cui stanno andando il lavoro, le relazioni umane, la vita
stessa, e così io ho urlato, una, due, tre volte, ho visto questo bagliore accecante
proveniente dal futuro e mi è uscita dalla bocca una voce che non avevo mai sentito,
una voce finalmente imprevista, il verso di una capra, di un gatto, di un vitello
con una sparachiodi puntata sulla fronte. Ho urlato, cazzo, e poi non ho pensato a
niente.
Tutte le donne di Zara
di Sara Ventroni
Zara non educa, promuove la volgarità.
Gianfranco Ferré
«È meglio se dormi vestita» aveva detto alla fine del discorso.
Mentre lo ascoltavo mi chiedevo in che modo aveva perso i denti e perché non se li
era ancora rimessi. Fabrizio, il boss del magazzino, stava seduto davanti a me. Mi
aveva spiegato le tabelle di marcia, le tariffe dei turni feriali e festivi. Mi aveva
offerto una sigaretta e adesso aspettava una risposta.
Era la fine del 2004 e in quel periodo tenevo un diario di bordo che avevo intitolato
La caduta delle illusioni, tanto per essere chiara sull’andamento delle cose.
Un lavoro con contratto, un lavoro con stipendio, un lavoro a tempo pieno, un lavoro
a tempo indeterminato, un lavoro con ferie e malattie pagate, un lavoro che...
Avevamo preso a parlarne con deferenza e commozione, forse perché il lavoro – per
come l’avevamo inteso finora – era diventato un mito del Moderno che restava solo
da raccontare.
si ricerca personale femminile dai 18 ai 45 anni per lavoro notturno, settore abbigliamento
A sinistra della rampa c’è una guardiola di vetro con una telecamera a circuito chiuso.
Dalla guardiola si accede all’ufficio. È lì che Fabrizio mi spiega di cosa si tratta.
Per due mesi pagano in ritenuta d’acconto. Se decido di continuare mi mettono in regola.
Finché non sono in regola prendo 6 euro all’ora, 7 da mezzanotte alle sei del mattino.
Nei giorni festivi sono 7 euro l’ora, 8 da mezzanotte alle sei. Dalle sei di mattina
non è più fascia notturna ma tariffa ordinaria, a 6 euro l’ora.
«Per me va bene», gli avevo detto alla fine.
Con le mani tozze da gigante buono, Fabrizio aveva tirato fuori dal cassetto alcuni
fogli prestampati per farmeli compilare e firmare, proponendomi di attaccare a lavorare
la notte seguente. Poi si era alzato in piedi e mi aveva stretto la mano, impregnandola
tutta di un profumo che saliva su per le narici, entrava in testa e mi costringeva
a un’intimità forzata con i suoi umori corporali. Prima di restituirmi i documenti
aveva dato uno sguardo ai fogli per controllare che fosse tutto a posto. «Ah, sei
laureata» aveva esclamato con tono interrogativo. «E come mai cerchi lavoro qui?».
Vogliono solo donne perché sono più svelte eppoi questo non è un lavoro da maschi.
Le rumene stanno sempre per conto loro. Una è incinta di sette mesi e le si vede la
pancia. Il ...