1.
Il mondo capovolto
“Ogni generazione, senza dubbio, si crede destinata a rifare il mondo”. È una frase
del discorso che pronuncia Albert Camus nel 1957, in occasione della consegna del
premio Nobel alla letteratura. Lo rileggo a marzo 2020, nei giorni di quella che penso
sia la fase acuta della pandemia in Italia. “La mia sa che non lo rifarà”, continua
Camus. “Il suo compito è forse più grande”, e
consiste nell’impedire che il mondo si distrugga. Erede di una storia corrotta in
cui si fondono le rivoluzioni fallite e le tecniche impazzite, la morte degli dei
e le ideologie portate al parossismo, in cui mediocri poteri, privi ormai di ogni
forza di convincimento, sono in grado oggi di distruggere tutto, in cui l’intelligenza
si è prostituita fino a farsi serva dell’odio e dell’oppressione, questa generazione
ha dovuto restaurare, per se stessa e per gli altri, fondandosi sulle sole negazioni,
un po’ di ciò che fa la dignità di vivere e di morire. Davanti ad un mondo minacciato
di disintegrazione, sul quale i nostri grandi inquisitori rischiano di stabilire per
sempre il dominio della morte, la nostra generazione sa bene che dovrebbe, in una
corsa pazza contro il tempo, restaurare fra le nazioni una pace che non sia quella
della servitù, riconciliare di nuovo lavoro e cultura e ricreare con tutti gli uomini
un’arca di alleanza. Non è certo che essa possa mai portare a buon fine questo compito
immenso ma è certo che, in tutto il mondo, è già impegnata nella sua doppia scommessa
di verità e di libertà e che, all’occasione, saprà morire senza odio.
Non so mai se abbia senso parlare in termini generazionali. D’altra parte, è pur vero
che c’è qualcosa che mi accomuna a quelli che hanno vissuto il passaggio tra i millenni.
Sono cresciuto, come chiunque abbia la mia età, con i miti – i feticci, alle volte
– politici del Sessantotto e del Settantasette: qualunque gesto somigliasse anche
vagamente a una rivolta, mi è stato detto di misurarlo con quel metro simbolico. E
lo stesso è stato per le sconfitte e i reflussi. Di quegli anni e di quelle lotte,
però, ho conosciuto anche la tinta della sconfitta. Il terrorismo da una parte e l’eroina
di massa dall’altra. In una generazione come la mia, che non ha mai avuto simili esplosioni
se non in forme minori e spesso emulative, il confronto con i momenti di sconfitta
è più interessante.
Siamo per lo più degli sconfitti, dei reduci, dei superstiti, senza aver ingaggiato
alcuna battaglia. Molti sono semplicemente implosi. Quarantenni, spesso tornati a
vivere a casa dei genitori, molti agganciati agli psicofarmaci. L’espressione assente,
il tono di voce distratto, il disincanto che si sclerotizza in apatia, il cinismo
di maniera che non riesce nemmeno più a proteggere. Gli anni fuori corso da uno, due,
diventano dieci o venti; quelli di precariato sottopagato l’intera età adulta. Quel
periodo brutto alla fine di una relazione si trasforma in una patologia irreversibile.
Non sono servite leggi speciali come negli anni Settanta: è bastata la fragilità della
tenuta psichica.
C’è un episodio che spesso mi torna in mente. Risale a più di dieci anni fa. Stavo
facendo un’inchiesta sul precariato cognitivo: intervistavo ragazzi tra i 25 e i 35
anni, i miei coetanei, laureati, iperformati, ipercompetenti, che vivacchiavano tra
assegni di ricerca volatili, elemosine dei genitori e nebulose promesse di contratti
– il paesaggio mesto che conosciamo bene. Mi capitò una ragazza, con un dottorato
in Antropologia, che era riuscita a strappare una collaborazione part time in una
fondazione che le garantiva 650 euro al mese; il resto del tempo lo impiegava tenendo
un paio di corsi, degli esami e un altro pseudo-volontariato universitario in vece
della sua docente di riferimento – retribuito poco più di un rimborso spese (un altro
migliaio di euro l’anno).
Tra gli intervistati, non era una di quelli messi peggio. Era una persona in gamba,
determinata, fiera della propria indipendenza (non voleva chiedere soldi ai suoi),
e soprattutto era consapevole delle condizioni di sfruttamento, delle dinamiche baronali
dell’accademia ecc. Viveva insieme ad altre quattro amiche in un appartamento a Tor
Pignattara. Condivideva una stanza doppia, un posto letto per cui pagava 200 euro
al mese, un prezzo buonissimo. Più o meno a conti fatti le restavano 500 euro, che
potevano aumentare un po’ con qualche introito delle ripetizioni (terzo lavoro, dunque).
Di questa cifra spendeva circa 300 euro al mese, mi confessò, per andare in analisi.
Diceva di averne un assoluto bisogno perché si sentiva piuttosto depressa: a 30 e
passa anni dormiva in un posto letto col materasso smollato come una matricola fuorisede
appena approdata a Roma, non immaginava nessuno sbocco lavorativo concreto a lungo
termine, si sentiva una fallita nei confronti dei suoi, non riusciva a prendere sul
serio nessuna relazione sentimentale, desiderava avere un figlio ma la sola idea le
sembrava pura incoscienza, era sempre stanca (la fondazione per cui lavorava aveva
sede dall’altra parte della città rispetto a casa e all’università), non faceva politica.
Non aveva nemmeno il tempo mentale per dedicarcisi.
Alla fine di quella lunghissima intervista, che si era tramutata in un botta e risposta
sulle condizioni materiali e morali di vita negli anni Zero italiani, me ne tornai
a casa triste. Dovevo ammettere che la mia situazione non era troppo differente dalla
sua; eppure, oltre questa sorta di empatia e di rispecchiamento, non era scattato
nessun senso di identità condivisa, nessun grumo di quella che un tempo si sarebbe
chiamata “coscienza di classe”.
Il malessere sociale che l’aveva contagiata, lei se l’era preso in carico proprio
tutto. La formazione di una coscienza di classe era stata sostituita da un percorso
individuale di ricerca di adattamento per cui spendeva quasi la metà di quanto guadagnava.
Mi sembrò un simbolo perfetto di quello che stava accadendo alle generazioni di quest’età
post-comunitaria. Invece di esternare il malessere, provando a generare conflitto
sociale o quantomeno affratellamento, il disagio veniva tutto introiettato e si tentava
di risolverlo a proprie spese – letteralmente.
Pierre Dardot e Christian Laval nella Nuova ragione del mondo descrivono in modo esemplare questa condizione:
Dal momento che il soggetto è pienamente consapevole e padrone delle proprie scelte,
è anche pienamente responsabile di quello che gli capita: l’“irresponsabilità” di
un mondo ingovernabile per la sua stessa caratteristica di globalità ha come controparte
l’infinita responsabilità dell’individuo per il proprio destino, per la propria capacità
di avere successo ed essere felice. Non accollarsi il passato, coltivare previsioni
positive, intrattenere relazioni efficaci con gli altri: la gestione neoliberista
di sé stessi consiste nel fabbricarsi un io efficiente, che esige sempre più da sé
stesso e la cui autostima paradossalmente cresce di pari passo con l’insoddisfazione
che prova per le prestazioni del passato.
La fonte dell’inefficienza ce la portiamo dentro, non può più venire da un’autorità
esterna. Un lavoro intrapsichico diventa necessario per cercare una motivazione profonda.
Se il Novecento è il secolo delle rivolte scaturite dai no, sotto il segno di Bartleby
lo scrivano di Melville e dell’uomo in rivolta di Camus, oggi dire no può essere complicato.
Il capo non può imporre, ma risvegliare, potenziare, sostenere la motivazione. La
costrizione economica e finanziaria si trasforma così in autocostrizione e autocolpevolizzazione, perché siamo i soli responsabili di quello che ci succede.
Cosa sarebbe accaduto a Bartleby se il capo, di fronte ai suoi preferirei di no, avesse replicato: “Va bene, fa’ come vuoi, la scelta è tua; se non ti vuoi realizzare,
fai come meglio credi”? Cosa succede quando persino le conseguenze etiche e psichiche
di un boicottaggio sociale deve prenderle in carico chi le subisce, attraverso lo
sviluppo di un malessere psichico? Come si fa a essere luddisti contro un algoritmo
che prevede i tuoi cambiamenti d’umore?
Non c’è nessuno come Mark Fisher che ci abbia aiutato a pensare che si dovesse mettere
insieme la politica e la questione della depressione. L’amico e teorico Simon Reynolds,
nel dedicargli uno struggente commiato sul “Guardian”, ricordava il modo in cui nel
Realismo capitalistaabbia mostrato come:
la pandemia di angoscia mentale che affligge il nostro tempo non può essere adeguatamente
compresa, o curata, se vista come un problema privato sofferto da individui danneggiati.
In un post del suo blog k-punk, Mark Fisher scrive:
Essere sfruttato non è più sufficiente. Oggi la natura del lavoro è tale per cui quasi
a tutti, indipendentemente dall’umiltà della mansione svolta, viene chiesto di esibire
un (super)investimento nelle proprie occupazioni. Non veniamo semplicemente costretti
a svolgere un lavoro, nel vecchio senso di compiere un’attività che non abbiamo voglia
di svolgere: no, ora siamo costretti a comportarci come se ci piacesse svolgerla.
Nel suo testo confessionale Good for Nothing (Buono a nulla) afferma ancora più esplicitamente che la depressione è una malattia di classe.
La depressione collettiva è il risultato del progetto di re-subordinazione messo in opera dalla classe dirigente contemporanea. Per qualche tempo, abbiamo accettato
l’idea che non eravamo il tipo di persone che possono muoversi, agire. Non per una
mancanza di volontà, ma perché la ricostruzione della coscienza di classe è un processo
assai arduo, e la soluzione non può essere preconfezionata.
L’interrogativo più acuto che possiamo porci è perché questo disagio interiore non
diventi coscienza di classe, perché questo basso continuo di recriminazione abbia
raramente un acuto di rabbia. Figuriamoci se si manifesta come ribellione.
Un po’ di tempo fa mi è capitato di vedere una puntata di un talk dedicato al lavoro.
C’era, come accade spesso, un servizio di dieci minuti su un disoccupato, un uomo
di mezza età che aveva appena perso il lavoro. Dalla sua casa in penombra raccontava
alla telecamera come la sua vita fosse miserabile, priva di dignità ora che si trovava
a spasso: si sentiva un verme perché non poteva pagare nemmeno la scuola di calcio
a suo figlio, come gli aveva promesso da tempo. Alla fine del servizio, gli imprenditori
che erano in studio avevano colto la palla al balzo e avevano subito dichiarato di
fronte al pubblico: lasciateci il numero di questo disoccupato, vedremo subito cosa
possiamo fare, uno straccio di lavoro in nome della scuola calcio del figlio glielo
troveremo.
La questione che mi ero posto non era tanto relativa a come la spettacolarizzazione
annullasse il valore della denuncia, anzi legittimasse l’immediata risposta degli
imprenditori filantropici. Lo sconcerto che provavo riguardava proprio la mostruosa
introiezione di questo meccanismo di sudditanza da parte del padre, e di noi spettatori
insieme a lui: anche il disoccupato – una volta avuta finalmente voce – non aveva
nessuna capacità di diventare un soggetto politico, di dichiarare la sua rabbia, di
rivendicare i suoi diritti, di ricordare i suoi trascorsi sindacali, di minacciare
la classe padronale che non aveva a cuore gli interessi dei lavoratori; e finiva col
mostrarsi semplicemente un miserabile, non riusciva a innalzarsi dalla sua condizione di sintomo di un malessere impersonale,
e proprio a quel punto, forse, otteneva un lavoro.
Questo rovesciamento negli ultimi anni è stato normalizzato, questa ritrasformazione
della classe in miserabili è visibile nella delegittimazione dei sindacati, nella
colpevolizzazione di chi non ha un lavoro. Nel 2007 Tommaso Padoa Schioppa, allora
ministro dell’Economia, a commento di una norma per l’agevolazione degli affitti disse:
“Mandiamo i bamboccioni fuori di casa”. Nel 2011 la ministra del Lavoro Elsa Fornero
a un’assemblea dell’Assolombarda disse: “Non bisogna mai essere troppo choosy [schizzinosi], meglio prendere la prima offerta e poi vedere da dentro e non aspettare
il posto ideale”. Nel 2012 Michel Martone, sottosegretario al Lavoro, durante un incontro
sull’apprendistato se ne uscì con: “Dobbiamo dire ai nostri giovani che se non sei
ancora laureato a 28 anni sei uno sfigato”.
Bamboccioni, choosy, sfigati. E si è arrivati a stigmatizzare persino le morti bianche. Nel 2010 ci fu
una costosa campagna istituzionale sulla sicurezza sul lavoro: le immagini mostravano
volti sereni, le didascalie riportavano i nomi e i lavori delle persone ritratte in
un momento di felicità privata, e una scritta: “Fa’ che questo momento non resti solo
un ricordo”. Sotto, lo slogan della campagna: “Sicurezza, la pretende chi si vuole
bene”. L’ovvio sottinteso era che se per caso ti infortunavi sul lavoro ti eri voluto
male.
Così, la distanza tra chi sfrutta e chi è sfruttato, oggi, passa tutta per un conflitto
interiore. E a lungo andare questa scissione – che non diventa mai dialettica – crea
una sorta di abituazione, una cronicizzazione del disagio. Ossia: un dispositivo clinico
per cui veramente si ritiene possibile, normale, permanere in una situazione paradossale
come quella di un quarantenne che vive da adolescente, o come quella di un ragazzo
che non capisce come gestire/rimuovere/capitalizzare il suo disagio psichico per un
lavoro che lo strema. Un malessere sociale a cui possiamo dare il nome di bipolarismo,
di ansia, di angoscia, di depressione, invece di riconoscerlo come coscienza di classe
narcotizzata. Insomma, una specie di medicalizzazione della tensione politica. Come
mai negli ultimi decenni non abbiamo avuto a che fare con lotte di classe, configurazioni
di classe, coscienze di classe? Perché abbiamo cominciato a dare per scontate formule
linguistiche come guerra tra poveri o ceto medio impoverito per descrivere i conflitti e le condizioni sociali? Perché i precari non sono diventati
un soggetto politico?
Eccoci: affetti, in molti, da una forma schizoide che è il sostituto psicotico del
conflitto di classe.
Del resto, siamo abituati al fatto che tutto – il nostro tempo di vita, la nostra
socialità, i nostri affetti – sia reso produttivo, perché non anche il nostro disagio?
Può apparire paradossale, ma le attuali patologie della psiche non sono diventate
anche vantaggiose in termini lavorativi? Quanto, per dire, è più efficiente una persona
ossessivo-compulsiva come organizzatrice di eventi, che telefona per confermare dieci
volte che tutte le persone invitate abbiano risposto, che le stanze degli alberghi
siano prenotate, che i treni non abbiano ritardi...? Quanto un narcisista incontenibile
può costituire un valore aggiunto come top manager rispetto a una persona con capacità
autocritiche? Quanto una persona in preda a irrefrenabili ansie da prestazione sarà
cento volte più disponibile per degli straordinari non pagati?
Che differenza c’è tra soft skills e manie, se il mercato del lavoro ci richiede un comportamento tossico? Sarebbe davvero
surreale se un giorno sul curriculum comparisse la voce Patologie al posto di Caratteristiche
personali o Competenze? Ormai non serve più che un partito ci indichi uno Stachanov
come esempio da seguire per farci amare il nostro stesso sfruttamento in attesa del
sol dell’avvenire, oggi workaholic è un termine vezzoso.
La sofferenza dello sfruttamento può arrivare a fare strame di noi agendo a un livello
psichico che neppure riconosciamo, al punto da farci accettare non soltanto il burnout, o di lavorare gratis, ma di rimanere, al tempo stesso, “dei soggetti neoliberali,
imprenditori di noi stessi, individui-impresa che fanno della competizione nel mercato
la propria intima ambizione e razionalità”.
La questione è complessa e complessiva, riguarda tutti, riguarda noi. C’è una possibilità
di inversione?
Insegno in un liceo, e circa tre-quattro anni fa devo portare i miei studenti ad assistere
a un sedicente esperto che dovrebbe introdurli alle tecniche di memorizzazione veloce
per “essere più performativi”. Un ragazzo di una mia quinta di allora, voti bassi
ma bravo, intelligente e simpatico, sempre un po’ polemico, ascolta in silenzio, ma
lo vedo innervosirsi man mano che l’esperto snocciola numeri, sorrisi, battute. A
un certo punto si alza e interrompe l’incontro: “Posso dire una cosa?” chiede. “Per
me essere performativi è una merda”. Il sedicente esperto mi guarda, io guardo il
mio studente, il mio studente guarda i suoi compagni.
Nel mondo della scuola è più facile riconoscere dinamiche ancora embrionali, accennate,
che diventano più organiche nel mondo degli adulti e forse anche per questo meno visibili.
Se esiste una cultura che siamo riusciti a riprodurre nelle ultime generazioni scolastiche
è un auto-assoggettamento legato all’ansia da prestazione. La scuola autoritaria, quella che dà ordini, ha lasciato il passo a un sistema educativo
che mima il contesto competitivo degli adulti.
In un’altra classe, una terza, assegno un compito su Socrate e Platone, la prima verifica
scritta. Quando correggo i testi, trovo che quello di L. è stato riempito fitto fitto,
per sei facciate intere, con lunghissimi brani identici al loro manuale, l’Abbagnano-Fornero.
È una copiatura talmente spudorata che non le metto nemmeno il voto. In classe, quando
riporto i compiti, lo riconsegno a L. con un’espressione arrendevole: “Come hai potuto
pensare che non mi accorgessi di nulla? Che senso ha?”. Ma L. replica che lei non
ha copiato, me lo stragiura, e comincia a ripetere a memoria tutto quello che ha scritto.
Io la ascolto sconcertato, lei scoppia a piangere. Ha studiato fino a notte fonda
per giorni e giorni per prepararsi. Voleva un nove, dice, e non sapeva come studiare:
filosofia è una materia nuova. “Ma fai così anche con le altre materie?”, le chiedo.
“Sì – singhiozza – nessuno mi ha mai insegnato come si fa”.
Come si fa?
Passo molto tempo a ragionare con i ragazzi, sul senso della scuola. Quasi nessuno
gli ha chiesto mai nulla di cosa ne pensano dei metodi di insegnamento, delle politiche
dell’istruzione, della valutazione. Apro discussioni in classe sul senso del voto.
Ipotizzo la possibilità di farne a meno; chi sarebbe d’accordo? Poi li faccio sempre
autovalutare, ma, alle volte, questa possibilità innesca dei cortocircuiti che sembrano
delle crisi.
In un’altra scuola, in un’altra classe, una quinta, B., una ragazza bravissima, al
primo banco, sempre attenta, coinvolta, brillante, intelligente senza essere secchiona,
generosa con i compagni, eccetera, si blocca quando le chiedo che voto si darebbe
per i primi due mesi di storia che abbiamo fatto insieme. “B. – le chiedo –, cosa
c’è che non va?”. Anche lei scoppia a piangere. Sembra che le stia facendo una violenza.
“Non puoi ammettere – le dico – che sei brava, che studi tantissimo, che t’impegni?
Puoi dartelo un nove, o anche un dieci, no?”. Lei piange e balbetta. Non ce la fa
a dirsi che è brava. Come si fa? Nessuno gliel’ha mai insegnato.
Come si fa a diventare grandi? Come si fa a farsi degli amici? Come si fa a essere
valorizzati? Come si fa ad arrabbiarsi? A lottare per una giusta considerazione? Come
si fa a impegnarsi politicamente? L’ansia da prestazione mina l’autostima, le relazioni,
provoca disturbi dell’apprendimento, rende infelici, toglie il sonno.
Le occhiaie dei ragazzi sono il sintomo che per anni ho visto come il simbolo della
generazione nuova che si affaccia al mondo. La correlazione tra ansia, dipendenza
da internet e riduzione del sonno è al centro di molti studi. Alcuni hanno lavorato
su campioni di studenti in contesti geografici e sociali estremamente diversificati,
dalla Turchia all’Iran, dalla Corea del Sud a Taiwan. Una delle forme dell’ansia da prestazione sociale è la cosiddetta Fomo (Fear of
Missing Out), ovvero l’ansia di perdersi quello che fanno gli altri e la paura di
esserne tagliati fuori. Immaginate che la gran parte della vita sociale dei vostri
amici si svolga online – nelle chat di gruppo o nelle partite contro altri giocatori
–, e immaginate che una parte importante avvenga la sera tardi, quando la giornata
è finita e si è tutti a letto. Se voi vi addormentate alle undici, vuol dire che vi
perderete ore di chiacchiere e giochi con i vostri amici. E allora, che fare? Non
accettare di essere tagliati fuori, oppure provare a dedicarsi a sé stessi e tutelare
una parte di sé non perennemente connessa?
Appena conosco una classe nuova, il primo giorno di lezione, azzardo con gli studenti
di cui non so nemmeno il nome: “Ragazzi, io non vi conosco, ma so qual è il vostro
problema”. “Quale sarebbe, prof.?”. “L’ansia”, gli dico. “In tutte le sue forme”.
Ci azzecco sempre.
“Non so come gestire l’ansia, prof.!”non vi sembra una frase sinistra pronunciata da un adolescente? Circa l’80% dei ragazzi
tra i 12 e i 19 anni in Italia consuma caffeina, più della metà oltre le dosi consigliate,
che sono di una tazzina di caffè al giorno. Si beve molto caffè, molti energy drink,
si assumono sostanze eccitanti. Alle superiori è normale preparare le interrogazioni
con le Red Bull. Da poco più di un anno la Coca-Cola – dopo aver prodotto da tempo
una bevanda senza caffeina – ha messo sul mercato una versione con più caffeina: la Coca-Cola Plus Coffee. I manifesti 6x3 che ne sponsorizzavano il lancio recitavano:
“Stai rispondendo alla centoventisettesima mail con oggetto: urgente?”. Oppure: “L’esame
di diritto è tra due giorni?”. In entrambi i casi la risposta era simile: “Nuova Coca-Cola
Plus Coffee. Riparti con una pausa dal gusto unico”.
Tirare, tenere botta, stare sul pezzo, il vocabolario della performance ci parla sempre
di più senza che ce ne accorgiamo. Secondo una ricerca dell’Efsa (European Food Safety
Authority), circa il 68% degli adolescenti consuma abitualmente bevande energetiche.
In circa il 12% dei casi il consumo è elevato e cronico, con una media di 7 litri
in un mese, e in un altro 12% il consumo è elevato e acuto. Aggiungiamo che anche
il 18% dei bambini fa uso abituale di bevande energetiche, e che in circa il 16% di
questo il consumo è elevato e cronico, con una media di 0,95 litri alla settimana
(quasi 4 litri in un mese). Come rispondono gli adulti o la scuola a questa situazione
che riguarda più della metà degli adolescenti, all’ansia di veglia, all’abitudine
a prendere cinque o sei caffè al giorno, al consumo incontrollato di energy drink?
In Italia non esiste alcun dibattito in merito. In altri paesi, come il Regno Unito
ad esempio, se ne è discusso per qualche anno e nel 2019 sono stati proibiti gli energy
drink ai minorenni; mentre in Lettonia e in Lituania sono vietati già da diversi anni
a chi ha meno di 18 anni.
Ragazzi che si affannano per restare svegli, che non riescono ad addormentarsi, che
cercano di cavalcare l’ansia da prestazione, o di resisterle. Come tutte le forme
di nevrosi, è interessante vedere quando questa arriva a un momento di autosvelamento.
In una quarta, in un’altra scuola ancora, arriva in classe a novembre, proveniente
da un altro istituto, S.: darkettona, simpaticamente malinconica, a ruota di caffè,
tè, energy drink. Le dico: “Mi raccomando, mettiti in pari con i programmi, stai attenta
in classe, ti interrogo tra una quindicina di giorni”. Qualche settimana dopo è lei
a venirmi incontro in corridoio: “Prof., io sono preparata, ma se lei m’interroga
faccio scena muta, così mi mette un’insufficienza e lo posso dire a mia madre”.
Rimango stranito: “Non ho capito, S.? Tu hai studiato?”.
“Sì”.
“Ma se ti interrogo fai scena muta?”.
“Sì”.
“Va bene – concludo – facciamo che ti sento un’altra volta”. E la saluto.
Ci rimugino su e la interrogo qualche tempo dopo. S. va bene. Alla fine dell’interrogazione
le chiedo di autovalutarsi. Lei mi dice: “Non lo so, prof., faccia lei”. Non è la
solita forma di ritrosia che spesso hanno gli studenti quando devono darsi un voto
da soli, la paura di essere boriosi, il tentativo di arruffianarsi il prof. tenendosi
bassi.
“Va bene qualunque voto?”.
“Sì”.
“Anche se ti metto cinque?”.
“Sì”.
“Anche quattro, S.?”.
“Sì”.
“Ma hai risposto a tutto. C’era qualche incertezza sì, ma perché dovrei metterti un’insufficienza?”.
“Non lo so, prof., come vuole lei”.
Alla fine le metto sette e mezzo. Ma tempo dopo, nei colloqui con i genitori, riferisco
l’accaduto alla madre, che ascolta accorata e poi mi racconta che, l’anno prima, S.
è stata bocciata perché invece di andare a scuola saliva sul terrazzo condominiale,
restava lì fino all’ora di pranzo e poi riscendeva e rientrava a casa come se da poco
fosse uscita da scuola. Ha continuato così per più di due mesi e accumulato troppe
assenze: l’hanno bocciata in automatico.
La madre fa un gran sospiro: “È vero – dice – in questi anni non mi sono occupata
molto di lei, sua sorella ha diversi problemi gravi e ho spostato tutta l’attenzione
su di lei perché pensavo che S. fosse più forte”.
“Non sono uno psicanalista – rispondo –, ma non mi sembra ci voglia del genio per
comprendere che S. sta cercando di andare male a scuola perché è l’unico modo che
ha trovato per attirare la sua attenzione”.
La performance è ovunque, si può aderire o boicottare, oppure – come spesso capita
– rendere performance persino il fallimento. Come il lavoratore disoccupato, o come
un fidanzato respinto. Esisto solo se faccio impresa di me, se mi posiziono, se curo
il mio empowerment, se riesco a estrarre valore da qualunque esperienza, se sono performativo anche
nel disastro, anche nella sofferenza.
Simile a un Instagram urbano, c’è un fenomeno marginale in evidente ascesa: le scritte
sui marciapiedi davanti ai portoni: “Perdonami, solo adesso ho capito quello che ho
perso”, “Con te ho vissuto anni di meraviglia”, “Ti prego ripensaci” ecc. La maggior
parte sono messaggi di supplica dopo un abbandono, ma ce ne sono anche molti che intendono
solo manifestare la propria gioia per un anniversario; o ancora più semplicemente
mettono bianco su grigio la gioia letteralmente incontenibile del proprio innamoramento.
Ecco, sicuramente un sintomo di una trasformazione antropologica avvenuta su larga
scala: oggi chi prova un desiderio o un’emozione, soprattutto, non può contenerla,
non riesce a fare a meno di esprimerla. Per quanto sia intima, per quanto sia ancora
informe, per quanto sia indefinita, nessuno oggi si azzarderebbe ad avere pudore per
i propri sentimenti. La timidezza è sempre meno una definizione del carattere: è una
patologia sociale. Non si dice “sei timido”, ma “sei asociale” – dove per società
si intende quel posto dove si deve per forza esibire disinvoltura. Si è sostituito
al sentimento del fallimento la sua esibizione. Si può essere tristi perché il proprio
amato è lontano, perché si è amati e non ricambiati, l’importante è che tutta questa
emotività sia posta in bella vista. La visibilità risulta l’obiettivo ultimo dell’esistenza
dei singoli individui.
Questo vittimismo romantico di massa, però, alla lunga può diventare difficile da
gestire. Se da una parte siamo costantemente sollecitati da questa specie di inconscio
collettivo vanesio a essere noi stessi, a esprimere i nostri desideri, a non vergognarci delle forme più recondite di turbamento
interiore, di senso di abbandono; dall’altra, non disponiamo più di quegli ammortizzatori
sociali simbolici per gestire la frustrazione nel caso in cui questi stessi desideri
si rivelino semplici illusioni, irrealizzabili: miraggi più che desideri. Una figura
paradigmatica come Cyrano oggi sarebbe pura archeologia emotiva: un innamorato non
può permettersi di non essere trasparente a sé stesso. Deve invece essere, come dire,
un ottimo performer del proprio cuore.
Inscenarsi, esistere se si dichiara di stare male, rendersi performativi, capitalizzare
la propria condizione di vittima, tutto questo forse spiega la ragione per cui gli
impostori sono gli eroi, o gli antieroi, della nostra epoca.
Qualche anno fa lessi la storia di Stephen Glass, giovanissima penna del “New Republic”
che venne sbugiardata dopo una folgorante carriera grazie alle sue inchieste su repubblicani
corrotti, giovani hacker avidi, finanzieri canaglieschi. Un articolo di “Forbes” svelò
che la maggior parte delle cose che aveva scritto era falsa. A ruota seguì uno sputtanamento progressivo. Glass prima cercò di giustificarsi
arrampicandosi sugli specchi, poi mentendo ancora, e infine ammise che, sì, effettivamente
quello che aveva scritto era una montagna di fandonie, per reggere le quali aveva
prodotto una quantità enorme di documenti inventati: pagine e pagine di note apparentemente
fondate, falsi biglietti da visita, falsi messaggi, lettere e fax che dichiarava di
aver ricevuto dalle sue fonti; e creato siti web finti, finte caselle postali, carte
di credito personalizzate e intere fanzine.
Fu licenziato dal “New Republic”, ma la sua storia fu ripresa da “Vanity Fair” che
ne scrisse un lunghissimo ritratto, Shattered Glass (“specchio infranto”); lui stesso ricavò un libro sulla vicenda intitolato The Fabulist; e chiaramente ci fecero un film nel 2003, con Hayden Christensen nei suoi panni
e Peter Sarsgaard in quelli del direttore che lo aveva licenziato. Perché l’aveva fatto? Perché un ragazzo che tutti definivano “talentuoso, divertente,
coraggioso” aveva segato il ramo su cui si era seduto?
Su due numeri di “Internazionale” – uno del 2012 e uno del 2015 – sono raccontate
due storie di impostori. La prima è la parabola di Rudy Kurniawan, per anni uno dei
più quotati esperti di vino a livello internazionale, diventato milionario contraffacendo
bottiglie e inventandosi un profilo da sommelier tanto sgangherato quanto, paradossalmente,
credibile. Voleva diventare ricco? Dall’articolo sembra piuttosto che ci fosse dell’altro;
un riconoscimento? un’ossessione da assecondare? La seconda è la storia magnetica
di Francisco Nicolás Gómez Iglesias, che si spaccia per esponente di rilievo del Partito
popolare spagnolo infiltrandosi alle cerimonie del parlamento e a Palazzo reale. Cos’hanno di speciale, questi truffatori?
Per capirlo bisogna spingere lo sguardo fin dentro la vertigine dell’impostura. C’è
una categoria, all’interno del novero degli impostori, che ha qualcosa di ancora più
inquietante e paradigmatico: i casi di finti superstiti della Shoah. Incredibilmente,
non sono pochi.
Il più noto è forse Enric Marco, la cui storia ha affascinato lo scrittore Javier
Cercas tanto da dedicargli un libro, intitolato proprio L’impostore: un meccanico, militante politico, che dagli anni Settanta comincia a raccontare
in conferenze, libri, articoli la sua esperienza di deportato e sopravvissuto ai campi
di sterminio a Mauthausen. Diventato un sindacalista di livello nazionale, presidente
di un’associazione di ex deportati, testimone invitato in tutte le scuole, Marco è
un eroe. Finché un giovane storico – insospettito dalla pacatezza con cui Marco ricorda
la sua esperienza nei lager – indaga e scopre che è praticamente tutto falso.
Non è l’unico a inventarsi un passato da ex deportato. Binjamin Wilkomirski nel 1995
pubblica un libro, Frantumi. Un’infanzia 1939-1948, in cui racconta di aver perso tutti i suoi parenti nello sterminio. Frantumi è subito un best seller tradotto in tutto il mondo. Dura tre anni. Nel 1998 Daniel
Ganzfried, uno scrittore svizzero, pubblica su “Weltwoche” tre articoli in cui svela
come il libro sia un falso, Wilkomirski si è inventato tutto. L’editore Suhrkamp ritira
le copie dalle librerie.
Perché Marco o Wilkomirski l’hanno fatto? Cosa spinge qualcuno a fingersi un ex deportato
per anni? Ogni volta che finiamo di indagare su una storia d’impostura ci resta addosso
una sensazione di delusione duplice: da una parte, la scoperta della distruzione di
un sogno – spesso un sogno edificante –, dall’altra, l’impossibilità di sapere fino
in fondo se stavolta siamo arrivati alla verità o rimane ancora qualcosa di inesplorato,
ingannevole, mostruosamente falso.
Chiara Lalli in Non avrai altro dio all’infuori di te, un pamphlet dedicato proprio all’impostura,se lo chiede a proposito del giornalista del “New York Times” Jayson Blair, un plagiario
che riesce a sopravvivere per anni nella redazione più scrupolosa del mondo. Quando
si scopre l’impostura, un lungo pezzo dello stesso quotidiano statunitense commenta:
“Negli ultimi mesi l’audacia degli inganni e cresciuta di settimana in settimana:
il lavoro di un inquieto giovane virava verso l’autodistruzione professionale”. E se lo chiede anche a proposito di Jonah Lehrer, altro giornalista truffaldino
e plagiario. Scoperto e stigmatizzato mediaticamente, si scusa con un discorso pubblico
alla Knight Foundation. Mentre lo pronuncia, la timeline di Twitter si riempie di
commenti di gente che non crede a una parola di quello che dice. “È possibile credere
a qualcuno che ha mentito per tanto tempo e cosi ostinatamente?”.
Effettivamente, come possiamo fidarci di qualcuno che è stato bugiardo addirittura
vita natural durante? Ma anche: come possiamo essere sicuri senza tema di smentita
che la nostra indagine sulla verità abbia più valore della grande bugia a fin di bene
di un impostore? Di uno come Marco o come Wilkomirski, cioè una bugia che in qualche
modo ha tenuto viva la memoria sui crimini nazisti?
Vogliamo che qualcuno veda, riconosca il nostro dolore; e l’unico modo che conosciamo
per farlo è esagerarlo? Di James Frey, come moltissimi, lessi – prima che venisse
a galla la verità su come era stato scritto – il best seller uscito nel 2003 In un milione di piccoli pezzi, ossia il resoconto autobiografico, crudissimo, di un’autodistruzione tra abuso di
droghe, alcol e carcere. Nel 2006 il sito web The Smoking Gun scoprì che molti dettagli erano stati gonfiati, esasperati – cinque ore in galera
erano diventate 87 giorni, per dire. Frey si giustificò: quale autobiografia non è
un po’ inventata? Ma la sua agente lo mollò e la sua casa editrice, la Random House,
decise di inserire nelle ristampe un’avvertenza e si offrì di rimborsare il costo
del libro a tutti i lettori che si fossero sentiti truffati.
Desideriamo la sincerità più esposta, ma spesso scopriamo che proprio dove ritenevamo
ci fosse un’autenticità spudorata, una capacità di mettersi a nudo, c’era solo un
artificio molto ben congegnato.
Il caso più emblematico per capire come l’impostura, prima ancora del narcisismo patologico
o dell’esibizionismo, sia forse una chiave di lettura più appropriata per interpretare
la generazione dei millennial – quella che Jean M. Twenge nel 2006 battezza come una
generazione di uffici stampa di sé stessi, la Generation Me – è la parabola letteraria a cui tantissimi lettori, me compreso, hanno creduto in
tempi non troppo lontani: la storia dello scrittore JT Leroy.
Come molti mi ero appassionato a JT, un ragazzino dal volto angelico e dai modi liminari
all’autismo che era riuscito in maniera così audace e al tempo stesso fiabesca a raccontare
in un paio di romanzi-memoir (Ingannevole è il cuore più di ogni cosa e Sarah) le esperienze di violenza pura di cui era stato vittima nella sua infanzia: abusi
familiari, tossicodipendenze e quant’altro.
JT è stato per qualche anno la personificazione dell’autenticità. Un angelo nel fango.
Come Rimbaud, come Sarah Kane. Per i suoi amici scrittori mentori, da Dennis Cooper
a Dave Eggers; per registi come Gus Van Sant e Asia Argento; per i suoi referenti
italiani, come il suo editor Simone Caltabellota, la sua traduttrice Martina Testa
e la sua biografa Valentina Pigmei (Chiedilo agli angeli); e per tutti i suoi lettori, JT era un amorevole monstrum di sincerità: la dimostrazione che in un mondo culturale dove molto è costruito e
indotto dalle regole di mercato, un ragazzino di 18 anni, ingenuo e genialoide, potesse
trovare lo spazio e le attenzioni che meritava. Un puro.
La realtà, però, è che JT Leroy non esisteva. I libri li creava Laura Albert, un’abile
scrittrice di 40 anni che non aveva ancora avuto alcun riconoscimento pubblico. E
per le foto si prestava Savannah Knoop, la figlia del compagno della Albert, una ragazza
che si presentava sempre in abiti larghi da uomo, con una parrucca bionda e occhiali
da sole, e nelle interviste dal vivo farfugliava bizzarrie. La truffa la scoprì il
“New York Times” nel 2005, e la biografia di Valentina Pigmei, letta a distanza di
quasi un ventennio, fa un effetto singolare. Perché, appunto, è un libro onesto. Mi
ricordo la dedizione con cui lo scrisse, ogni tanto turbata e irritata per le bizze
di JT durante le interviste telefoniche. Del resto, il marito di Laura Albert, complice
della truffa, sosteneva che lei veramente si sentiva JT, lei era JT.
Non è interessante come molte di queste imposture siano improntate a costruirsi un’identità
pubblica (e poi privata) di personaggi dolenti, spesso vittime della società, superstiti,
martiri, testimoni della sofferenza? Sicuramente riconosciamo in queste patologiche
truffe qualcosa che ci riguarda, un desiderio di riconoscimento che sembra l’unica
moneta sociale di un certo valore in corso.
Il romanzo più rappresentativo di questo millennio prestazionale, autopromozionale
che sta arrivando lo pubblica Emmanuel Carrère nel 2000, L’Avversario. La biografia del protagonista Jean-Claude Romand è quella che racconta in modo argentino
la tragedia dei mistificatori.
Romand sale all’onore delle cronache il 9 gennaio 1993, perché in un incendio nella
bassa Lorena muoiono la moglie, i figli, i genitori, i suoceri, il cane, mentre lui
la scampa per un pelo. Subito si scopre che è stato proprio Romand ad aver appiccato
il fuoco alla casa e ad aver sterminato la sua famiglia.
Ma questa atroce scoperta non è la più sconvolgente. La verità impensabile che sta
dietro alla vicenda è che quest’uomo mentiva sistematicamente da diciotto anni. Come
ricostruisce Emmanuel Carrère nel suo romanzo-inchiesta, Romand ha cominciato a fantasticare
la propria vita quand’era all’università, vantando con i suoi la buona riuscita di
un esame che invece non aveva passato, per poi continuare a mentire senza soluzione
di continuità finché non ha potuto più non essere sbugiardato: a quel punto ha dato
fuoco al suo mondo, letteralmente.
Mentire ai propri genitori, alla propria famiglia, ai colleghi, all’amante: Carrère
trova il suo e il nostro eroe in un impostore più tragico di tutti gli altri; e chiaramente
non solo perché è uno stragista. Romand non cerca la fama, un riconoscimento che lo
proietti in un’aura. Quello che cerca, letteralmente, con tutto sé stesso è un’esistenza da provinciale medio-borghese padre di famiglia: poter essere il rappresentante
di classe dei suoi figli, fare delle vacanze dignitose. La sua esistenza sembra la
dimostrazione sul campo della ricerca di Alan Ehrenberg, La fatica di essere sé stessi
che Ehrenberg fa sulla classe media in Francia. E il suo inganno non va a catafascio
perché non riesce più a reggere la menzogna, ma perché non ce la fa più con i soldi.
Il suo ménage economico si basa su uno schema Ponzi fatto in casa: millanta di poter accedere a
fondi molto convenienti e si fa dare denaro da amici e parenti, che credono di investirlo,
ma a un certo punto non riesce più a restituire i soldi ricevuti. Così, Romand diventa
figura di molti personaggi del nostro recente paesaggio contemporaneo. È un disoccupato
antilavorista, è un membro della classe disagiata, è un precario che prova a vivere con lo status di classe media che gli è stato sottratto,
è un maschio in crisi, è qualcuno che pur di avere un’esistenza sociale è disposto
a vendere l’anima al diavolo.
Esisto solo se mi faccio vedere. Anche quando sto male. Anche quando non sono più
niente. Autori come Annette Wieviorka, o René Girard, o Slavoj iek, o Daniele Giglioli
hanno analizzato come nel nuovo millennio, nelle contese storiche, lo status che ha
sostituito quello dell’animale sociale – dell’uomo pubblico di cui Richard Sennett
aveva decretato la crisi irreversibile – è quello della vittima: è la vittima stessa l’unico soggetto di diritti, degno
di ascolto e portatore di verità; sentirsi vittima può essere l’unico modo per poter
stare in una relazione, in una comunità. Sempre Sennett, in Autorità, scrive: “Nulla di più pericoloso di una condizione in cui l’idea stessa di diritto,
‘quello che mi spetta’, si può esprimere solo nella forma di ‘quello che mi è stato
negato’”; oggi potremmo aggiornare questa visione dicendo che nulla è più pericoloso di una
condizione in cui l’idea stessa di diritto si può esprimere solo nella forma di “quello
che mi ha ferito”.
David Foster Wallace ha inventato molti personaggi geniali. Uno è Eric Clipperton
in Infinite Jest: un bravo tennista, ma incapace di perdere, che gioca sul campo con la racchetta
in una mano e una pistola puntata alla tempia nell’altra, ponendo ai suoi avversari
un ricatto costante: se non vinco mi sparo. Il paradosso geniale che coglie Wallace
è che Clipperton non è una schiappa, ma è un atleta di talento: probabilmente vincerebbe
gran parte dei match a cui partecipa, ma non sa perdere, o meglio il suo godimento
non deriverebbe dal gareggiare, e quindi probabilmente dal vincere gli incontri, ma
dal mostrarsi vulnerabile, a costo di barare.
Come è sostenibile psichicamente per anni un’impostura? Come ci riescono, a quale
prezzo, Marco o Remond? Qual è la forza sociale che ci consente di incoraggiare il
nostro lato performativo? Come possiamo fare per non arrivare a un punto di non ritorno
nel quale per poter accedere alla verità dobbiamo rovinare la nostra vita, dare fuoco
alla casa?
L’inizio del racconto più struggente di David Foster Wallace, Caro vecchio neon, in Oblio, attutisce l’ombra di queste tragedie esistenziali:
Per tutta la vita sono stato un impostore. E non esagero. Ho praticamente passato
tutto il tempo a creare un’immagine di me da offrire agli altri. Più che altro per
piacere o per essere ammirato. Forse è un po’ più complicato di così. Ma se andiamo
a stringere il succo è quello: piacere, essere amati.