Perché sparano ai piccioni? avevo chiesto
un giorno a mamma. Perché sono uomini, aveva risposto. Gli uomini fanno così quando
non gli è permesso di spararsi fra loro.
Joyce Carol Oates, Perché sono uomini
Sono di quelle donne fascinose
al cui cenno la storia trasalì.
Ma tu sei un uomo, e mi vedi ai fornelli,
così me ne sto buona, con il mio libro, qui.
Dorothy Parker,
da «Canto di una delle ragazze»,
in Tanto vale vivere
Prologo.
Il corsivo è nostro
Sono libera di vivere dove e come voglio, di leggere ciò che voglio, di pensare a
tutto ciò che voglio come voglio, e di ascoltare chi voglio. Sono libera nelle vie
delle grandi città, dove nessuno mi vede, mentre cammino sotto la pioggia scrosciante
senza un dove né un quando, mormorando dei versi; sono libera nel bosco, e sulla riva
del mare in una solitudine benedetta, e nella musica che risuona in me, e nella mia
stanza, quando chiudo la porta.
Poche parole mi comunicano un senso di libertà e di esultanza come queste. Mettono
addosso una specie di allegrezza e di euforia infantili. Suonano come il grido di
un prigioniero appena evaso. A scriverle è Nina Berberova in Il corsivo è mio. Ma da dove evade Nina? Ha rotto da poco un matrimonio con il poeta Vladislav Chodasevi, con il quale era stata a lungo felice e che lascia quando si rende conto di provare
un «entusiasmo quasi folle di stare senza di lui, di essere sola, libera, forte, con
tantissimo tempo a disposizione, con la vita che ribolliva intorno, con gente nuova»
e scelta da lei. Se nel destino di un uomo la libertà è prevista, in quello di una
donna è una conquista. Una donna deve lottare prima di tutto contro se stessa per
apprezzarla. Può sembrare retorico sottolinearlo, vagamente rivendicativo, eppure
è così. A una donna la libertà può persino fare paura. Quasi fosse l’anticamera della
solitudine.
Non è soltanto per quel grido di libertà che mi sono subito, istintivamente, riferita
al Corsivo è mio della Berberova. È per la forza del titolo e per quello che implica.In corsivo va ciò che vogliamo mettere in evidenza. Il corsivo imita la scrittura
a mano inclinando le lettere verso destra. Il corsivo è una forma di sottolineatura.
Nina racconta il suo personale destino e insieme la storia della sua generazione,
ma si prende la responsabilità del suo corsivo rispetto a ciò che sceglierà di raccontare e a ciò che lascerà cadere. Parafrasandone
il titolo, mi concedo un plurale che vorrei estendere a tutto questo mio libro, sentito
come una responsabilità collettiva, quasi scrittura “a mano” appunto, cioè lenta,
antica: la mia parola legata a quella di tante donne che mi hanno preceduta e nutrita,
come un unico, variegato “canto”. Senza intenti enciclopedici. Solo una scelta personalissima
e asistematica di autrici che affollano la mia biblioteca, le autrici di cui possiedo
libri molto sottolineati, appuntati, deformati. Amati. Autrici che sono «materia prima»,
parafrasando Biancamaria Frabotta in una nota del suo Tutte le poesie. Materia prima che dobbiamo immaginare...
... come una goccia d’acqua, minuscola e necessaria, e se ne raccolgo anche un’infinitesima
quantità sul dito e la deposito sul vetrino di un microscopio e la osservo a distanza
ravvicinata, allora scopro un mondo complicato e insospettabile, di segrete corrispondenze,
simmetrie, microrganismi apparentemente autosufficienti e invece tutti fra loro solidali.
Ecco, sto facendo come Nina Berberova, prendo dalla libreria un libro dopo l’altro.
Ma il primo è stato il suo:
Poi andai a casa, feci sei piani di corsa, presi dalla mensola prima un libro, poi
un altro. Tutto era mio e io non ero di nessuno.
Era nata a San Pietroburgo nel 1901. Morì a Filadelfia nel 1993, dopo aver attraversato
senza illusioni la Rivoluzione russa, essere scappata con il marito in Italia, poi
a Berlino, poi a Parigi dove condivise la nostalgia della patria perduta con tanti
emigrés come lei (fra gli altri l’ammiratissimo Vladimir Nabokov, che poco ricambiava la
stima verso le donne scrittrici), e trasferendosi infine (come Nabokov) negli Stati
Uniti. Sorprendentemente, o forse no, ha ceduto al matrimonio altre due volte. È possibile
che invecchiando abbia presidiato con più forza la sua indipendenza. Chi lo sa. Questo
non mi sembra lo racconti nell’autobiografia. Di se stessa scriveva:
Amo me stessa, ma fino a un certo punto.
Mi piace questo «fino a un certo punto». È un’indicazione di percorso. Segna un limite.
«Devo conoscere me stessa e, dopo essermi conosciuta, correggermi». C’è umiltà in
queste dichiarazioni. Quanta distanza dall’intollerabile vanità – intellettuale –
di certi uomini. Quando una donna prova a salire su un piedistallo, prevale la paura
di vacillare. Prevale l’insicurezza. Non c’è donna che mi sia capitato d’incontrare,
anche famosa, che mi abbia comunicato un senso di sé “intollerabile”. Ricordo un giorno
a casa di Doris Lessing, a Londra. Ero lì per intervistarla. Mi ricevette in cucina,
con la borsa della spesa ancora da sistemare, perché era in ritardo e doveva preparare
il pranzo al figlio disabile. E Alba de Céspedes che si scomodò a venirmi a prendere
alla stazione di Pinerolo per evitarmi il cambio verso Luserna San Giovanni, dove
si trovava in vacanza. E Agota Kristòf. Arrivai raffreddatissima a Neuchâtel, dove
viveva, col mal di gola e febbricitante. Non riuscivo quasi a parlare. Non ci eravamo
mai viste prima e mi aveva concesso l’intervista malgrado stesse preparando un viaggio
e avesse poco tempo. Vedendomi in quelle condizioni, si è presa cura dell’ospite,
semplicemente. Mi ha misurato la febbre, mi ha preparato il tè. Mi sono sentita a
mio agio, come se ci conoscessimo da anni. Succede spesso fra donne, della stessa
età, di età diverse, famose, sconosciute. Ecco qualcosa che ci riguarda intimamente:
una certa tendenza ad accudire, indipendente dall’essere madri o no.
Ho amato e amo la vita, e non meno della vita (ma neanche di più) amo il suo significato
scrive Nina nella sua autobiografia. Vita. Significato. Sono due parole maiuscole
che ripenserò dentro una prospettiva femminile. Tiro giù dalla mensola un altro libro, L’albero dei desideri di Christopher Isherwood,in cui leggo:
Il significato della vita è imparare quale sia il significato della vita.
Non dissimile dal senso delle parole di Nina:
Il suo senso è in se stessa e in me che sono ancora viva.
Ha in mente probabilmente i tanti amici e compagni di strada che aveva visto morire,
a volte suicidi. Sopravvivere è un senso, sopravvivere per capire (o forse semplicemente
accettare) l’importanza di esserci, di resistere vivi oltre la perdita, oltre la solitudine,
oltre il dolore. E testimoniando il corsivo della propria esperienza.
In questo Lessico femminile, questo mio “mostro di Frankenstein” (così, fin dall’inizio, l’ho chiamato fra me
e me, perché frutto di smembramenti e ricostruzioni), seguirò impronte, ombre, tracce
volontarie, opere e fatti, i fatti della vita delle donne, di alcune donne, soprattutto
scrittrici, filosofe a volte, per rileggere il mondo dal loro punto di vista, o almeno
quella porzione di mondo su cui hanno avuto voglia di riflettere. Perché non è delle
donne lo sguardo globale, totalizzante. Le donne sono inclini alla concretezza. Non
so se è un atteggiamento migliore o peggiore rispetto a quello degli uomini. È semplicemente
diverso, e m’incuriosisce approfondire questa diversità, ricomporre come in un mosaico la
tela di un pensiero e di un lessico “nostri”. Capire qualcosa di più della mia stirpe,
trovare il bandolo del nostro comune sentire. Una mappa per orientarsi nel presente,
dopo tanto passato e un confuso futuro che a volte sembra farci arretrare e minaccia
di sottrarci tante combattute conquiste. Non perché il cammino delle donne sia tutto
giusto, e poi l’umanità – in generale, senza differenze di sesso – sembra non imparare
niente dai suoi errori. Ma è anche vero che l’umanità che dà la linea al mondo è perlopiù
di genere maschile. Forse il pensiero delle donne, inseparabile dalla materialità
delle cose, dall’urgenza della vita, ha una chance in più. È un pensiero naturalmente
autocritico, perché più solitario, meno esposto, frammentario, in massima parte inascoltato
(dagli uomini), se non volutamente sottovalutato e deriso.
Casa (pulita)
Lungo lo stretto di Øresund, dove s’incontrano i mari, il Baltico e il Mare del Nord,
in Danimarca, su una punta che sporge verso la Svezia, c’è un castello-fortezza detto
“castello di Amleto”, perché qui Shakespeare immaginò di ambientare la sua tragedia
sulle vicende di un leggendario principe sempre vestito di nero che con la sua ambiguità
e la sua indecisione fece impazzire una ragazza innamorata di lui portandola al suicidio.
Venticinque chilometri più a sud lungo il Rungsted Stranvej, la strada che corre sulla
costa, al numero 111 si trova l’affascinante casa-museo della baronessa Karen Blixen,
che passò diciott’anni in Kenya cercando di gestire la sua amatissima fattoria di
Bogani, una ventina di chilometri da Nairobi, e una fallimentare piantagione di caffè.
Tornata in Danimarca, malata, sola e depressa (dal marito aveva divorziato e l’inafferrabile
amante era morto precipitando col suo aereo), scrisse – nella casa di famiglia che
avrebbe ereditato e in cui visse per il resto della vita – una manciata di storie
gotiche, molti straordinari racconti e il libro di memorie che l’ha resa popolare,
La mia Africa.
Mentre mi aggiravo nel museo della scrittrice pieno di tracce del passato, di fantasmi,
di suggestioni e sortilegi, leggevo nel suo Dagherrotipi:
Per la donna l’ambiente conta molto più che per l’uomo, perché per lei non è un insieme
casuale, esterno, ma un ampliamento del suo essere. Secondo la mia esperienza, se
un uomo ha la possibilità di dedicarsi in pace al lavoro che gli sta a cuore, riesce
a ignorare completamente l’ambiente che lo circonda. Ai suoi occhi esso scompare:
può vivere nella sporcizia e nel disordine, tra le correnti e al freddo, ed essere
perfettamente felice. La maggior parte delle donne non sopporta di stare in una stanza
se trova sgradevole l’abbinamento dei colori.
Condivido. Tanto più adesso che è definitiva la conquista femminile a non essere chiusa
in un qualche interno. Per una donna l’idea di casa significa qualcosa di diverso
da un semplice riparo, è un’estensione dell’anima, un modo di esprimersi. Per gli
uomini la casa sembra essere un tetto necessario, qualche volta un guscio, un letto
dove dormire al caldo, una poltrona comoda per guardare la televisione. «Gli uomini
sono in grado di non badare all’ambiente che li circonda. Le donne no. Ogni donna
è la sua casa e viceversa». A scriverlo è un uomo, Martin Amis, in Esperienza, la sua autobiografia. Ai maschi intellettuali basta uno studio in cui rinserrarsi.
Mi colpì molto, visitando una mostra dedicata a Georges Simenon, una fotografia che
inquadra una bimbetta sui sette anni, delicata, bionda, bellissima: sua figlia Marie-Jo.
Saltellava davanti alla porta chiusa dello studio paterno dove lo scrittore stava
lavorando. Non intendeva essere disturbato per nessuna ragione, erano queste le sue
disposizioni in famiglia. Quella bambina era perdutamente innamorata del padre. A
venticinque anni, il 19 maggio del 1978, a Parigi, mise fine alla vita sparandosi
nel suo appartamento, non essendo mai riuscita a risolvere il devastante problema
edipico. In modo molto esplicito, prima di uccidersi, aveva scritto al padre: «Ricorda
il mio Amore anche se era folle. Per questo sono vissuta e per questo adesso muoio...».
Mi domando se mai una donna scrittrice potrebbe tenere chiusa ai figli, che la reclamano,
la porta del suo studio. Penso a Jane Austen che ha scritto i suoi romanzi seduta
a una piccola scrivania in mezzo a una stanza dove tutti potevano disturbarla, costretta
a interrompersi continuamente e a nascondere i fogli sotto la carta assorbente per
correre ad assolvere qualche impellente incombenza familiare. Karen Blixen non aveva
figli. Eppure permetteva a un bambino di fermare il suo lavoro quando voleva: si chiamava
Nils, figlio di una domestica. Aveva quattro anni. Per lui la sua porta era sempre
aperta: le piaceva raccontargli le fiabe, giocare ai safari sul tappeto del salotto,
intagliare giocattoli nelle patate. Gli aveva fatto montare un’altalena in giardino,
si faceva spruzzare con la pistola ad acqua. Lo spirito della casa di Rungstedlund
parla anche di questo: di un’anima femminile che sa essere infantile e spensierata.
E irriverente: curiosando fra i volumi di una delle sue librerie, scopro una lista
della spesa annotata su una pagina bianca di The Sun Also Rises di Hemingway e un altro elenco – stavolta di alberi da piantare in giardino – in
Requiem for a Nun di Faulkner. Sorrido. È in gesti così, frettolosi, casalinghi, che s’annida la femminilità.
E Karen Blixen è davvero «squisitamente femminile e “ancestrale”», come leggo in un
volumetto di interviste con lei. Penso a quanti amici maschi, che hanno verso i libri
un atteggiamento reverenziale, inorridiscono per come li tratto io: li squaderno,
piego le pagine in mille orecchiette, li annoto, li macchio col caffè.
Non so quanti titoli, di scrittrici come di scrittori, contengono la parola «casa»
(anche nel senso di “famiglia”, “casato”). Moltissimi. Uno per tutti, Star di casa della napoletana Fabrizia Ramondino – e sottolineo napoletana perché la casa che
racconta è quella di una nonna del Sud:
Come al momento del risveglio, per tutto il giorno in casa la luce era filtrata dalle
fessure degli infissi e delle persiane e ci sentivamo come molluschi fra due valve
socchiuse di conchiglia. La trasparente luminosa fessura, ora azzurra, ora dorata,
ora turchese, ora verde, nei punti in cui finestre e balconi davano sulle piante,
era composta di una sostanza tremula e liquida che veniva bevuta dagli occhi come
un magico elisir che aveva la proprietà di incantare il pensiero, privandolo di ogni
proposito o intento.
Rimanevano invece spalancate tutte le porte e traversavano gli spazi leggere correnti
d’aria che rendevano la casa come sospesa in cielo o come in balia di onde, quando
nelle sere estive si leva il maestrale.
Accrescevano l’impressione di vivere all’interno di una grande conchiglia le forme
architettoniche: archi, volte, nicchie scavate nelle pareti, la scala a chiocciola
che univa le stanze al tetto, come una spirale tra terra e cielo e che pareva il centro
o anima della casa, le arcate sulla loggia, quasi il bordo ondulato di una valva.
Ma, titoli a parte, quando si entra nel regno del romanzo, come potrebbero mancare
le case in cui vivono i personaggi, insidiate dal tempo e dagli oggetti? Ci sono mai
state – su ciò che fa la polvere degli anni a una casa abbandonata – pagine più potenti
di quelle intitolate «Il tempo passa» in Gita al faro di Virginia Woolf?
La casa fu abbandonata, non ci andò più nessuno. Rimase come un guscio di conchiglia
lì sulle dune a riempirsi di grani di sale, ora che la vita l’aveva lasciata. Una
lunga notte sembrò impossessarsene; le brezze leggere, mordenti, i soffi vischiosi
invadenti, sembrava avessero trionfato. La pentola si era arrugginita e la stuoia
distrutta. I rospi ci misero il naso. Pigro, indifferente lo scialle continuava a
dondolare. Un cardo s’infilò fra le mattonelle della dispensa. Le rondini fecero il
nido in salotto, il pavimento si coprì di paglia; l’intonaco cadeva a palate; le travi
rimasero nude; i topi prendevano da qui o da lì roba da rodere e se la portavano dietro
gli zoccoli di legno. Dalle crisalidi dischiuse uscivano farfalle che finivano spiaccicate
contro i vetri delle finestre. Tra le dalie crescevano singoli papaveri; il prato
sventolava d’erba troppo lunga; carciofi giganteschi troneggiavano fra le rose; un
garofano screziato fioriva fra i cavoli; intanto, durante le notti d’inverno, il filo
d’erba che batteva leggero alla finestra, diventò un rullio di tronchi robusti e rovi
spinosi, che d’estate inondarono di verde la stanza.
Mi chiedo se uno scrittore, di sesso maschile intendo (forse nemmeno Proust), abbia
mai dedicato tanta maniacale attenzione alla descrizione degli odori, dei suoni, dei
sapori, dei colori che s’annidano fra una carta da parati e un tappeto, un vetro rotto
e la polvere penetrata nell’intarsio della cornice di un quadro. Virginia sa quanta
responsabilità hanno le cose, le case, le stanze nella vita di una scrittrice. Per
questo sostiene a un certo punto di «Immagini del passato» (in Momenti di essere) che un suo lettore attento – se avesse conosciuto la camera da letto in cui lei
era cresciuta – non si sarebbe potuto astenere dal commentare: «Questa stanza spiega
molte cose». In quella casa di famiglia non amata in cui, dopo la morte della madre
e della sorellastra Stella, Virginia visse anni di profonda infelicità, strinse però
il più duraturo e fecondo rapporto della sua vita: quello con la sorella Vanessa.
Avvenne così che Nessa e io formassimo una cospirazione molto intima. In quel mondo
pieno di uomini, che andavano e venivano, in quella grande casa piena di stanze, noi
ci formammo un nostro nucleo privato. Lo visualizzo come un piccolo fragile centro
di vita intensa; di istintiva comprensione, chiuso nel grande guscio echeggiante della
casa di Hyde Park Gate.
Con Vanessa condivide la scissione fra la vita dello spirito, che praticano nelle
loro stanze ai piani alti, una leggendo, l’altra dipingendo, e la vita convenzionale
al pianoterra, nel salotto dove una porta scorrevole divide gli ambienti come le emozioni.
Ma poi il padre muore, Virginia dà di matto per la prima volta (sente cantare in greco
gli uccelli). Allora Vanessa si disfa della casa avita: «Vendette; bruciò; mise da
parte; stracciò», scrive la Woolf in «Vecchio Bloomsbury». «E ora tutte le stanze
erano vuote». E la famiglia smembrata. Restano i giovani Stephen, due sorelle e due
fratelli (Adrian e Thoby), e prendono casa insieme al 46 di Gordon Square. Qui nasce
il gruppo di Bloomsbury. «Qui Vanessa e io avevamo ciascuna un salottino; e c’era
l’ampio salotto di due vani; e uno studio al piano terreno». Perfetta parità, finalmente,
fra femmine e maschi. E quando la sera i fratelli portano a casa gli amici, magrissimi,
bruttini, ma intelligentissimi, soprattutto omosessuali, Nessa e Virginia si sentono
libere: di non comportarsi da brave signorine, di non doversi truccare e vestire per
gli ospiti, libere di dire la loro e di non sedurre. Quegli stranissimi maschi, silenziosi
e coltissimi, che si preoccupano di individuare la Bellezza in tutto ciò che leggono,
guardano, scrivono, e non gettano sulle ragazze occhi concupiscenti e non le mettono
in competizione fra loro, quei maschi, detti gli «Apostoli», che frequentano tutti
Cambridge preclusa alle donne, sono la loro università. Ma poi Vanessa si sposa, con
Clive Bell – l’unico etero del gruppo insieme a Leonard Woolf – e Bloomsbury cambia.
Diventa più scanzonato. Finisce la rigida supremazia della cerebralità maschile e
viene pervaso da un’ondata di scapestrata sensualità, omosessuale o etero non importa.
Sono Nessa e Clive col loro matrimonio “aperto” a dare il la. È la scoperta della
libertà anche fisica, non solo mentale. «Forse la fedeltà dei nostri genitori non
era l’unica né necessariamente la più alta forma di vita matrimoniale. Forse anzi
quella fedeltà non era rigorosa come si credeva», riflette Virginia. «Non c’era nulla
che non si potesse dire, nulla che non si potesse fare, in Gordon Square n. 46». Cominciano
a girare voci di feste in cui si denudano tutti. E se Virginia è sempre stata frigida,
Vanessa è una donna sensuale, passionale. Un giorno – dicono le voci – si è accoppiata
sul divano, in mezzo alla stanza, davanti a tutti, e con uno che non era il marito
(era Maynard Keynes, il futuro rinomato economista). Virginia non conferma e non smentisce.
Chissà cosa è davvero successo su quei divani in quegli anni fra il 1910 e il 1914,
prima che la guerra venisse a spegnere gli entusiasmi. Sta di fatto che sua sorella
è diventata una splendida pittrice, lei uno degli scrittori più grandi della terra.
Ci sono tante case nell’opera di Virginia Woolf, come nella sua vita. Ci sono le case
immaginarie dei suoi libri e quelle della realtà, raccontate in Momenti di essere. Oltre a «Immagini del passato» e «Vecchio Bloomsbury», in «Hyde Park Gate n. 22»:
«Talland House era piena di lei; la casa di Hyde Park Gate era piena di lei», scrive.
Questa “lei” è la madre, JuliaPrinsep Jackson, e Talland è la casa di vacanza in Cornovaglia, a St. Ives, che tanto
somiglia alla casa di Gita al faro, mentre al numero 22 di Hyde Park Gate, a Londra, c’era la casa di famiglia del padre,
il professor Leslie Stephen, dove era nato lui e dove nacquero i suoi figli. Ma le
case, si sa, finiscono per somigliare di più alle donne che vi si muovono dentro,
che le guardano con attenzione, le tengono pulite, accumulano soprammobili e ricordi.
Virginia descrive la casa, un’intera palazzina in realtà, stanza per stanza e nei
dettagli, fino a «un tavolino pieghevole che mi ha seguita, indesiderato, a Monks
House» (che è poi, oggi, la sua casa-museo, la residenza in campagna a Rodmell, nel
Sussex, dove visse con il marito Leonard Woolf e dove il 28 marzo del 1941 si suicidò
gettandosi nel fiume Ouse, che scorre accanto). Quel tavolino serviva per il tè, era
«cuore e perno [...] centro della vita familiare vittoriana» e lei, ribelle, detestava
il conformismo vittoriano.
Mobili che ereditiamo dagli avi, oggetti che ci seguono nei traslochi, cose che si
perdono per sempre o che vengono fortunosamente ritrovate, regali ricevuti, souvenir
riportati dai viaggi, vecchi giocattoli relitti dell’infanzia, specchi, sgabelli,
poltrone, scrivanie. La casa come una nave che protegge o che fa naufragio. Tradizionalmente
al timone c’è un uomo con la pipa in bocca, mentre a custode e a polena quasi sempre
una figura femminile. La forza dei simboli che si riverberano in mille frammenti riflettenti,
fra le righe dei libri che si continuano a scrivere con uno sguardo inevitabilmente
differente sul mondo, a seconda che a vedere e raccontare siano occhi femminili o
occhi maschili. Quando qualcuno mi chiede (c’è sempre qualcuno che continua a porre
questa domanda) se esiste una scrittura femminile, per quanto insensato sia mettersi
a fare simili distinzioni (la scrittura o è bella o non lo è, ed è questo a essere
decisivo), io, pensando a Gita al faro, non posso che rispondere sì, esiste eccome: di fronte all’eternità della morte,
alla scomparsa del passato, all’usura e alla rovina, una donna nota pentole arrugginite
e stuoini distrutti, il disordine fra i fiori che nessuno più cura, il singolo filo
d’erba che sbatte inascoltato al vetro di una finestra, l’irrimediabile malinconia
di un vecchio scialle che dondola nella brezza, nell’aria rimasta vuota della persona
che usava avvolgerselo intorno alle spalle.
Lo dico ancora una volta con le parole della Woolf: «Spesso le donne mi piacciono.
Mi piace il loro anticonformismo. Mi piace quel loro essere così complete». Cito da
Una stanza tutta per sé, che oggi forse potrebbe intitolarsi Una casa tutta per sé, visto che di progressi ne abbiamo fatti dal 1929. Sì, sì, dice Virginia, citando
a sua volta Coleridge, chiaro che «la mente superiore è androgina», chiaro che «la
mente androgina è risonante e porosa; che trasmette emozione senza difficoltà; che
per natura è creativa, incandescente e indivisa». Ma (un momento di sospensione)...
... è fatale che chiunque scriva abbia in mente il proprio sesso. È fatale essere
un uomo o una donna, puramente e semplicemente; si deve essere donna-maschile e uomo-femminile.
[...] Una qualche forma di collaborazione deve necessariamente aver luogo nella mente,
tra la donna e l’uomo, prima che l’arte della creazione possa realizzarsi. Un qualche
matrimonio degli opposti si deve consumare. La mente tutta deve mostrarsi aperta,
se dobbiamo ricevere la sensazione che lo scrittore stia comunicando la sua esperienza
in tutta la sua pienezza. Ci deve essere libertà e ci deve essere pace. Nessuna ruota
deve cigolare, nessuna luce tremare. Le tende devono essere ben chiuse. Lo scrittore,
pensavo, una volta che la sua esperienza è conclusa, deve sdraiarsi e consentire alla
mente di celebrare le proprie nozze nel buio. Non deve guardare né mettere in dubbio
quanto sta accadendo. Piuttosto egli deve sfogliare i petali di una rosa o mettersi
a guardare i cigni che galleggiano tranquilli lungo il fiume. E rividi la corrente
che si era portata via la barca e lo studente e le foglie morte; il taxi aveva portato
via l’uomo e la donna – pensavo vedendoli mentre attraversavano insieme la strada
– e la corrente li aveva trascinati con sé, pensavo sentendo in lontananza il rombo
del traffico di Londra, in quel flusso tremendo.
Quanto è maschile la mente che ha scritto queste righe? Ha senso chiederselo? «Le
tende devono essere ben chiuse». Le tende! Sfogliare petali di rosa, sdraiarsi nel
buio della stanza, affacciarsi e guardare i cigni sul fiume. È una scrittura incisiva
e femminile, è inconfondibile Virginia Woolf con quel suo gusto visionario per i piccoli
accadimenti contemporanei: cade il petalo di un fiore, e insieme si sente il grido
di un uccello, un cane abbaia, si vede passare una barca, ci s’incanta a guardare
una macchia sul muro. I suoi “momenti di essere”.
E quando in Gita al faro due anziane donne di servizio sono mandate a riaprire, a pulire, a far rifiorire
la villa al mare in cui la signora Ramsay non potrà più tornare, perché è morta, la
vita rinasce dai gesti umili e faticosi della quotidianità domestica, la casa risorge
grazie a due creature generalmente invisibili, come invisibile è il lavoro delle donne
nel peso del mondo. Sono due prezzolate ignoranti, e per giunta sono vecchie. Virginia
ne fa le eroine della trasformazione, la vita si riprende i suoi diritti sulla disfatta,
si riprende la scena:
Un bel giorno vennero con scope e secchi. Si misero al lavoro. [...] Lentamente, a
fatica, con scope e secchi, strofinando con lo straccio e con l’acqua, la signora
McNab e la signora Bast fermarono la decomposizione e l’imputridimento; salvarono
dalla pozza del Tempo che veloce si chiudeva intorno a loro, qui una bacinella, qui
una credenza. Una mattina sottrassero all’oblio tutti i romanzi della serie di Waverley e un servizio da tè; nel pomeriggio riportarono al sole e alla luce un paracenere
d’ottone e un servizio completo di ferri per il caminetto. George, il figlio della
signora Bast, ammazzò i topi e tagliò l’erba. Furono chiamati i muratori. Mentre le
due donne si piegavano e si rialzavano, sospirando, cantando, intanto che sbatacchiavano
e sbattevano, un parto faticoso, rugginoso sembrò avvenisse accompagnato dal cigolio
dei cardini, lo stridore dei chiavistelli, il battere e ribattere delle imposte marce
di salmastro. Quanto lavoro, dissero.
Presero il tè a volte nelle stanze da letto, a volte nello studio; interrompendo il
lavoro a mezzogiorno tutte sporche nella faccia, con le mani rattrappite intorno al
manico della scopa. Lasciandosi cadere su una sedia, contemplavano la loro mirabile
riconquista di bagni e lavandini; o il trionfo più arduo, parziale, sulle pile di
libri, una volta neri come corvi, ora bianchi a chiazze, che covavano pallidi funghi
e ragni che, di nascosto, ancora filavano ragnatele.
E poi c’è la casa della Signora Dalloway che dà una festa e dalle finestre vede altre finestre di altre case in cui si muovono
persone come spettri; e la casa di Tra un atto e l’altro: il libro si apre e si chiude nel corso di una giornata nel salotto degli Oliver,
dove si fa teatro. Qui le finestre sono spalancate, attraversate dall’aria estiva,
e ancora una volta trionfa la vita minima, appena percepita, degli oggetti (c’è anche
il balenio argenteo di uno scialle) con i rumori di sottofondo della vita domestica,
voci, orologi, il trafficare in cucina.
Una tagliò il pane, l’altra il prosciutto. Era riposante, rassicurante, questo lavorare
insieme. Le mani della cuoca tagliavano, tagliavano, tagliavano.
Rapidamente dal pieno si passa al vuoto. Quasi fossero, le donne, le custodi del vivere
inevitabile, operoso, costruttivo, accudente, quando sono insieme; ma basta uscire
dalla cucina, basta addentrarsi in altri spazi e dalla vita alla morte il passo è
brevissimo. Basta entrare in una stanza vuota.
Vuota, vuota, vuota; silenziosa, silenziosa, silenziosa. La stanza era una conchiglia
sonora di quanto era stato prima che il tempo fosse; era un vaso eretto nel cuore
della casa, alabastro, liscio, freddo, racchiudente l’immobile, la distillata essenza
del vuoto, silenzio.
Così la casa conchiglia diventa tomba. Riflette Grazia Deledda in un articolo del
1916 per la «Riviera ligure»: «Ricordo dei tempi primordiali, dei paterni nuraghes,
quando l’uomo amava la sua casa fino alla morte e dopo la morte, e vi si seppelliva
per diventare una cosa stessa con le sue pietre». Ma non per tutte l’idea di casa
significa protezione, o anche prigione e morte.
«La mia personalità è come la mia casa, apertissima», diceva Marguerite Yourcenar,
che amava irresistibilmente viaggiare. Di ciò che dice Yourcenar di se stessa, però,
non c’è da fidarsi. Nel senso che le piaceva dare di sé un’immagine forte e libera,
non sempre aderente alla verità della sua vita interiore, indossava per gli altri
non una, ma una serie di maschere. Per averne la prova basta visitare la casa americana,
detta Petite Plaisance, nell’isola di Mount Desert, che divise per quasi quarant’anni
con una compagna, Grace Frick. È manifestamente una casa-cuccia, doppiamente femminile
perché vi si riflette la personalità delle due abitanti. Fortissimo il segno della
Yourcenar: nei ninnoli che colleziona, sassi presi sulla spiaggia, peluche, barattoli
ordinatamente predisposti – in cucina – alla conservazione dei vari cibi con le scritte
di suo pugno a indicarne il contenuto, paralumi istoriati in greco e in latino da
lei, cartoline mai gettate via, appoggiate in piedi sulle mensole. E nel giardino
le piccole tombe dei suoi cani adorati. Eppure liquida così Petite Plaisance nel libro
intervista che le dedicò Matthieu Galey, Ad occhi aperti: «Punto geometrico sulla superficie del mondo: è qui che siamo... bisogna pur stare
da qualche parte». Lei, che sempre a Galey dice: «Non mi piace l’idea di possedere
troppe cose. Se ne conservano sempre troppe», voleva essere Pellegrina e straniera sempre, come il titolo che aveva scelto per un libro di saggi e memorie, e si sentiva
«a casa dappertutto e da nessuna parte». A volte si è una cosa e il suo opposto, e
Yourcenar era sicuramente una donna dalla doppia anima che non aveva fatto del tutto
pace con la propria omosessualità.
«La casa dentro. La casa materiale», scrive un’altra Marguerite, la Duras. Lo scrive
in La vita materiale, dove dice di aver letto Una stanza tutta per sé della Woolf e che non ha «trovato un solo uomo che l’avesse letto». E parla dell’«impresa
pazzesca rappresentata da una casa», un’impresa che ricade sulle donne: un posto dove
trattenere i figli e gli uomini, dove «raccogliere il loro smarrimento, distoglierli
dallo spirito d’avventura, di fuga, di cui sono dotati dall’origine dei tempi». Vi
parla della sua casa di Neauphle (una trentina di chilometri da Parigi) e del fatto
che le piaceva mettersi a cucinare per gli altri che intanto dormivano o lavoravano
o erano fuori in gita.
Mi piace occuparmi della casa. Mi è piaciuto per tutta la vita. Continua a piacermi.
Ancor oggi, devo sapere cosa c’è da mangiare in dispensa, se c’è tutto quello che
occorre, in qualsiasi momento, per andare avanti, vivere, sopravvivere.
Segue la lista delle scorte che devono essere presenti in casa, dal sale allo zucchero,
dal riso alla pasta, dal burro alle uova, fino alla carta igienica e alla candeggina.
La donna in casa «si fa carico di tutto» sostiene Duras. «La donna è il focolare.
Lo era. Lo è ancora». E fa un elogio della pulizia, la pulizia della casa cui presiedono
le donne. «È terribile una casa sporca». In L’amante a un certo punto racconta di sua madre che, verso la fine del pomeriggio, decideva
di far pulire la casa da cima a fondo, la casa che avevano sul Mekong (e forse anche
quella su palafitte in Cambogia che appare in un altro bellissimo romanzo, Una diga sul Pacifico). Ancora una volta grandi pulizie, dunque.
La casa è costruita su un terrapieno che la isola dal giardino, dai serpenti, dagli
scorpioni, dalle formiche rosse, dalle inondazioni del Mekong, da quelle che seguono
alle inondazioni della stagione monsonica. Questo permette di lavarla con grandi secchiate
d’acqua, di annaffiarla come un giardino. Le sedie sono capovolte sui tavoli, l’acqua
gronda e ricopre i piedi del pianoforte nel salottino, scende dalle scalinate esterne,
invade il portico davanti alla cucina. I piccoli boys sono felici, ci spruzziamo d’acqua
insieme a loro e poi insaponiamo il pavimento col sapone di Marsiglia. Siamo tutti
a piedi nudi, anche mia madre. La madre ride, non protesta. Tutta la casa profuma
dell’odore delizioso di terra bagnata dal temporale, un odore che fa impazzire di
gioia, soprattutto quando è mischiato all’altro, quello del sapone di Marsiglia, odore
puro, onesto, l’odore della biancheria pulita di nostra madre, dell’immenso candore
di nostra madre. [...] La madre è felice di quel disordine, può essere molto, molto
felice se riesce a dimenticare, lavare la casa può renderla felice. Va in salotto,
si siede al piano, suona le uniche arie che conosce a memoria, quelle imparate a scuola.
Canta. A volte scherza, ride. Si alza e balla, continuando a cantare. E tutti pensano,
come lei, che si può essere felici in quella casa che sembra trasformarsi all’improvviso
in uno stagno, in un campo in riva a un fiume, in un guado, in una spiaggia.
Quindici anni prima che Duras scrivesse L’amante, Natalia Ginzburg, che della scrittrice francese era ammirata lettrice, aveva composto
un racconto dal titolo «I lavori domestici», raccolto in Mai devi domandarmi, che ha una segreta consonanza con il brano citato – e con tutto ciò che Duras scrive
del fare le pulizie in Lavita materiale – per quella particolare soddisfazione che dà a una donna rendere ogni cosa linda
e luminosa. È un’attitudine che viene intesa generalmente come una forma maniacale
ossessiva, eredità magari di ataviche sottomissioni, ma che deve avere invece, nell’animo
femminile, più maestosi e profondi significati. Nei «Lavori domestici» un’anziana
signora, già nonna, passa le vacanze con figli e nipoti in una casa al mare. Si meraviglia
e disapprova il modo in cui figli e nuore crescono i nipotini, secondo un’idea libertaria
sessantottina (Natalia scrive nell’agosto del 1969), detesta il disordine che regna
nella casa, la sporcizia. È un racconto tutto pervaso di autoironia, ma allo stesso
tempo esprime una ferma consapevolezza femminile.
Era, da giovane, disordinata e pigra; invecchiando, le è venuta la mania dell’ordine,
e una sorta di torvo amore per i lavori di casa; e i figli, le nuore e gli amici usano
biasimare questa sua passione, la definiscono un segno squallido e deplorevole di
vecchiaia e di aridità. I lavori di casa sono in lei, essi dicono, un alibi per non
fare altre e più nobili cose: leggere, occuparsi di politica, coltivarsi. La vecchia
madre non ha mai capito nulla di politica; non ha più in testa che tre o quattro pensieri,
pietrosi e caparbi, e li coltiva mentre sta sul divano a fumare o quando infuria nei
lavori di casa [...].
In un tempo remoto e felicissimo, la madre allora giovane e non vinta dalle disgrazie
alzava i suoi bambini appena svegli, li lavava, gli dava il caffelatte e li portava
fuori. La sua propria madre le aveva insegnato che tutto questo era essenziale. Lei
ricorda di essere stata, come si è detto, molto disordinata e pigra; c’era tuttavia
nel suo disordine un pensiero incrollabile: che i bambini appena svegli dovevano essere
alzati, insaponati con forza, spruzzati di borotalco e portati, dopo il caffelatte,
nel primo e fresco sole del mattino.
Oggi vorrebbe fare lo stesso con i figli dei suoi figli: ma un’operazione così semplice,
come alzare e lavare questi nuovi bambini, non le è consentita.
Appena tutti escono per andare in spiaggia, la vecchia protagonista ne approfitta
per mettersi a pulire e riordinare, anche se le è stato esplicitamente chiesto di
non farlo.
Lavando i pavimenti con furia, la madre si chiede perché fa questa cosa, forse davvero
inutile e mortificante; se in memoria della propria madre o per un arido e maniaco
piacere. Non lo fa per amore della casa: della casa, ha capito che non gliene importa
nulla. Ciò che al mondo le importa sono i figli, e i loro dolci e riccioluti bambini:
persone a cui non interessa affatto, che i pavimenti vengano lavati o no.
Torna l’idea che per una donna la casa un po’ è tana, un po’ è focolare, il centro
di qualcosa che costituisce una comunità, un gruppo da difendere, figli da proteggere
ed educare: pulire la casa, come salvaguardia da tutto ciò che è brutto e sporco nella
vita. Alla fine la donna è esausta ma soddisfatta di aver svolto il suo compito, e
si pone una domanda conclusiva che sembra un interrogativo da niente, minimo, domestico.
In realtà è un quesito filosofico, pone una questione cosmica:
La madre siede sul divano, fuma, guarda ulivi e vigne ardenti nel sole di mezzogiorno.
Ora tutti ritornano, con salvagente, asciugamani umidi e intrisi di sabbia, canottiere,
pezzi di pane e giornali: il carico di questo gregge lentissimo, felice e indeciso.
La madre si chiede se qualcuno ancora, lei morta, laverà i pavimenti nella casa.
Appena una generazione dopo quella della Ginzburg, la generazione dei figli che Natalia
non capisce, un’altra narratrice italiana rifletteva sui lavori domestici con uno
spirito diverso e con diverso dolore, Clara Sereni in Taccuino di un’ultimista:
I lavori di casa ci assediano, tutte: come un impegno, come senso di colpa, come rifiuto
o come rifugio. Mangiare e abitare, coccolare e coccolarsi, ospitare e vestire: ogni
verbo tanti gesti, gli elettrodomestici e la colf eventuale non ci affrancano comunque
dal programmare, dal prevedere, dall’organizzare. Possiamo magari decidere di non
fare, ma la libertà di non pensarci non l’abbiamo in nessun caso. [...] A ogni attimo
una scelta, togliere la polvere o leggere il giornale, fare una doccia o cambiare
l’acqua ai fiori, fettina in padella o stufato con gli odori, manicure o letto sfatto.
Non c’è più pace: le ombre di generazioni e generazioni di madri – madri affaccendate
in cucina per ore, madri che allevavano torme di figli, madri che inamidavano le lenzuola
di lino prima di stirarle e poi era così gradevole dormirci in mezzo – ci sfilano
davanti, paradiso della memoria infantile, inferno delle loro vite annichilite dalla
fatica, dalla noia, dall’isolamento.
La Ginzburg, come Elsa Morante, teneva a essere definita scrittore, guai a chiamarle
“scrittrici”, eppure le loro pagine sono deliziosamente, intimamente femminili. Ma
erano ancora tempi, gli anni della comune giovinezza fino ai Settanta del Novecento
e forse anche oltre, in cui la parola scrittrice occupava un posto inferiore, di serie
b potremmo dire, rispetto al corrispettivo maschile, e perciò – pretendendo il titolo
di “scrittore” – esprimevano un’orgogliosa rivendicazione di parità, non un’insinuazione
sprezzante verso il proprio sesso.
Ancora Natalia, in La città e la casa, presta a un personaggio maschile, Giuseppe, una stravagante convinzione: «quella
sarà per sempre casa mia, anche se l’ho venduta». E allora vale forse la pena citare
il parere opposto di Gertrude Stein in Autobiografia di tutti (d’altra parte lei e Natalia sono due scrittrici lontanissime):
Si va ad abitare in un’altra parte e anni dopo, l’indirizzo che era tanto indirizzo
che era un nome come il proprio nome e lo si diceva come se fosse non un indirizzo
ma qualcosa di vivo e poi anni dopo non si sa che indirizzo fosse e a dirlo non è
più un nome ma qualcosa che non si riesce a ricordare.
Il “caso Gertrude Stein” è del resto l’esperienza di un totale sradicamento. Si trasferì
dagli States a Parigi nel 1902, a ventisei anni, e visse fino alla morte in Francia.
Il suo indirizzo parigino, al 27 di rue de Fleurus, sarebbe diventato leggendario
per gli scrittori e gli artisti che lo frequentavano.
Cosa rappresenta nel destino delle persone l’attaccamento a un luogo, a mura, a stanze
dove si è vissuto e che non rappresentano necessariamente le “radici”? Come se il
nostro passaggio sulla terra avesse bisogno di solidi punti di riferimento per dare
una qualche consistenza al fatto di essere esistiti, come se credessimo ai fantasmi
che restano imprigionati per sempre negli spazi che sono stati teatro della vita.
Come se la natura femminile non potesse prescindere, fra la culla e la tomba, dal
riconoscersi contenitore, protezione, tetto, rifugio per sé e per le creature amate.
Fino alla fine, fino alla distruzione, e oltre. Come quando, nella Storia di Elsa Morante, la protagonista Ida, che è provvidenzialmente uscita con il figlioletto
Useppe per fare la spesa, al ritorno trova la casa polverizzata da un bombardamento.
Tutto è andato perduto, anche il cane Blitz, rimasto sotto le macerie.
Il loro caseggiato era distrutto. Ne rimaneva solo una quinta, spalancata sul vuoto.
Cercando con gli occhi in alto, al posto del loro appartamento, si scorgeva, fra la
nuvolaglia del fumo, un pezzo di pianerottolo, sotto a due cassoni dell’acqua rimasti
in piedi. Dabbasso delle figure urlanti o ammutolite si aggiravano fra i lastroni
di cemento, i mobili sconquassati, i cumuli di rottami e di immondezze. Nessun lamento
ne saliva, là sotto dovevano essere tutti morti. Ma certune di quelle figure, sotto
l’azione di un meccanismo idiota, andavano frugando o raspando con le unghie fra quei
cumuli, alla ricerca di qualcuno o qualcosa da recuperare. E in mezzo a tutto questo,
la vocina di Useppe continuava a chiamare:
«Bùi! Biiii! Biiiii!»
Blitz era perduto, insieme col letto matrimoniale e il lettino e il divanoletto e
la cassapanca, e i libri squinternati di Ninnuzzu, e il suo ritratto a ingrandimento,
e le pentole di cucina, e il tessilsacco coi cappotti riadattati e le maglie d’inverno,
e le dieci buste di latte in polvere, e i sei chili di pasta, e quanto restava dell’ultimo
stipendio del mese, riposto in un cassetto della credenza.
«Andiamo via! andiamo via!» disse Ida.
Tutto è perso, ma loro due sono sani e salvi perché la madre doveva fare la spesa:
provvedere alla sopravvivenza. E adesso è Ida la casa di Useppe, dovunque andranno
a rifugiarsi insieme ad altri sfollati, senza possedere più nulla se non se stessi
e la loro relazione fondamentale, fondativa.
La grande casa di Nicole Krauss incarna addirittura il Talmud, il libro degli insegnamenti rabbinici,
la summa di un sapere sterminato e fondamentale, in sostituzione non di una semplice
dimora, ma di un’intera città, la città santa di Gerusalemme assediata e occupata
da Vespasiano nell’anno domini 70. Dopo la distruzione del Tempio, il Tempio diventa
un’idea, diventa un libro, il Libro. La vera casa che dobbiamo abitare, il luogo sacro
della nostra identità, per quanto ambigua e sfuggente, è dunque la ricerca di una
conoscenza, mai data per altro come acquisita, ma sempre in costruzione e labirintica.
Dentro l’ombra lunga di questo grande mito si muove la storia in una narrazione così
complessa e affascinante che – ricordo – ho dovuto leggere il romanzo tre volte per
venire a capo di tutti i suoi enigmi.
Opera temeraria per una scrittrice di trentasei anni (era il 2010 quando il libro
uscì), costruita a mosaico con i tasselli di quattro fili conduttori, con tanti personaggi
significativi e diverse voci narranti. La vicenda inizia in un appartamento con sei
finestre che chiudono male, in cui resta a vivere una scrittrice, Nadia, abbandonata
dal suo compagno. Lui porta via tutti i mobili e lei resta sola nella casa vuota.
Finché conosce un poeta cileno che deve partire per tornare nel suo paese – dove finirà
risucchiato nelle carceri di Pinochet – e le lascia il suo mobilio: un baule gigantesco,
un divano e un’antica scrivania con diciannove cassetti, di cui uno è chiuso e la
chiave non c’è. A quella scrivania Nadia scrive i suoi libri, mentre passano gli anni.
E intanto la scrivania diventa il centro di tumultuose peripezie, oggetto di desiderio
per decifrare destini tragici e lontani, scrigno di un segreto indicibile. Alla fine
è la scrivania che trionfa nella scena che conclude il libro:
... l’enorme mobile era là solo, muto e incapace di comprendere. C’erano tre o quattro
cassetti aperti, tutti vuoti. Ma quello che avevo chiuso a chiave da bambino, sessantasei
anni dopo era ancora chiuso.
Cose (insignificanti)
Sempre più spesso mi trovo a riflettere sul fatto che il pensiero delle donne è inseparabile
dalla materialità delle cose, dall’urgenza della vita. Forse è per questo che di rado
è astratto. «Della vita di un genio al quale, se avesse albergato in un corpo maschile,
sarebbero stati tributati fama, alte cariche a corte e l’onore di comparire nelle
cronache storiche dell’epoca, non rimangono che rari e nebulosi dati», leggo in una
nota al libro di Sei Shnagon, scrittrice giapponese vissuta intorno all’anno 1000, la regina delle cose di poco conto.
È riuscita a comporre un libro intramontabile, le Note del guanciale, una specie di summa zen del suo pensiero di dama di corte, semplicemente facendo
il catalogo dei suoi mesi preferiti, dei ponti e dei villaggi dal «nome più grazioso»,
delle «situazioni preoccupanti», di quelle «scoraggianti» o delle «cose deludenti».
Eccone qualche esempio:
Cose che scorrono veloci
Una barca con la vela spiegata. I nostri anni. Il susseguirsi della primavera, dell’estate,
dell’autunno e dell’inverno.
Cose il cui nome incute timore
Azzurri abissi. Valle a imbuto. Assi-pinne. Metallo nero. Spirito della terra. Il
Tuono Temibile, non soltanto di nome, ma anche di fatto. Tempesta di vento. Nubi funeste.
Cose brutte e luride
Le lumache. La punta di una scopa su un pavimento di misero legno. Le tazze di lacca
degli appartamenti dei nobili.
Di Sei Shnagon, dunque, sappiamo solo che era figlia di un noto intellettuale esperto di poesia
e che condusse una vita sentimentale spregiudicata. Ebbe un marito e un figlio. Si
separò, e collezionò molti amanti. Fu stimata dama di compagnia dell’imperatrice Sadako,
e anzi fu Sadako a regalarle i preziosi fogli di carta su cui scrivere le sue note.
Erano così tanti che Sei Shnagon osservò che avrebbe potuto usarli come guanciale. Diceva infatti una poesia:
«Ormai questo vecchio segretario dorme con gli scritti come guanciale sotto al capo
canuto». Da qui il titolo del libro. Il suo pensiero appare solitario, frammentario,
autocritico:
Queste note le ho scritte soltanto per me, per trovare conforto nell’annotare i miei
sentimenti, e non ho mai pensato che avrebbero potuto allinearsi alle grandi opere
e attirare l’attenzione del pubblico, per cui mi stupisco quando mi sento dire: «È
un capolavoro!». I miei ammiratori devono appartenere, ne sono certa, a quel genere
di persone che lodano ciò che gli altri disprezzano e disprezzano ciò che gli altri
ammirano.
E alla rilevanza delle piccole cose aggiunge le perle di una sua leggera saggezza
perturbante:
Non capisco perché alcuni si arrabbino udendo dei pettegolezzi. Come si può non farne
mai?
Il primo capitolo del romanzo di Mercè Rodoreda La piazza del Diamante si apre su una serie di caffettiere di ceramica destinate a una riffa: «magnifiche,
bianche, con un’arancia dipinta, tagliata in due, che metteva in mostra i semi». Intanto
la protagonista, una semplice commessa di pasticceria, si veste per la festa di piazza,
ma poi l’elastico della sottoveste le tira tutto il tempo, disturbando i suoi balli
e il suo umore. Finché alla fine si romperà e la sottoveste le cade fra i piedi alla
fermata del tram.
L’elastico della sottoveste, che mi aveva dato non poco da fare per passarlo con una
forcina che non voleva passare, fissato con un bottoncino e un occhiello di filo,
mi stringeva. Dovevo avere già un solco rosso in vita, ma ogni volta che l’aria mi
usciva dalla bocca, l’elastico mi tormentava di nuovo. [...] L’occhiello di filo si
ruppe e lì rimase la sottoveste. La saltai, stavo quasi per infilarci un piede e via
di corsa come se m’inseguissero tutti i diavoli dell’inferno. Arrivai a casa e al
buio mi buttai come un sasso sul letto, il mio letto da ragazza, di ottone. Mi vergognavo.
Quando mi stancai di vergognarmi, con un colpo di piede mi sfilai le scarpe e mi sciolsi
i capelli. E Quimet, anni dopo, lo raccontava ancora come se fosse appena successo,
le si è rotto l’elastico e correva come il vento...
Elastici, forcine, bottoncini, vestitelli da quattro soldi e pure rotti... ben poca
cosa su cui romanzare, soprattutto se si pensa ai grandi temi, ai grandi libri degli
uomini. Penso, tanto per dirne uno, a Thomas Mann, alle conversazioni filosofiche
dell’umanista Settembrini e del gesuita Naphta nella Montagna incantata o al confronto del compositore Adrian Leverkühn con Satana in persona nel Doctor Faustus. Come possono competere quattro caffettiere bianche, istoriate con spicchi d’arancia,
e una povera storia d’amore e solitudine?
Cerco ancora nel mio scaffale. Natalia Ginzburg. Le piccole virtù:
... nel tempo che scrivevo i miei racconti brevi mi fermavo sempre su persone e cose
grige e squallide, cercavo una realtà disprezzabile e senza gloria. In quel gusto
che avevo allora di scovare minuti particolari c’era una malignità da parte mia, un
interesse avido e meschino per le cose piccole, piccole come pulci, era un’ostinata
e pettegola ricerca di pulci da parte mia.
La poetica della Ginzburg è stata “minimalista” molto prima che il minimalismo diventasse
una corrente letteraria, oltre che musicale e artistica, e alcuni detrattori hanno
confuso la sua scelta stilistica con una mancanza di immaginazione e di respiro narrativo,
relegandola spesso nella sottovalutata categoria “confessionale” di «scrittrice di
memorie». Destino condiviso in Italia da molte autrici. In un’intervista del 1983
che poi raccolsi in un libro, Lalla Romano mi disse:
Quando uscì La penombra che abbiamo attraversato, poco tempo dopo Lessico famigliare di Natalia Ginzburg, fummo liquidate tutte e due (anche da lettori fini e intelligenti
quali Alberto Arbasino) come scrittrici di confessioni. Ma scrittori della memoria
sono un po’ tutti. Dunque è un’idiozia usare una definizione del genere. C’è chi trae
ispirazione dalla vita degli altri e chi dalla propria; non fa grande differenza,
purché si sia in grado d’interrogare la propria esistenza tirandosene fuori.
(Adesso non c’entra niente, ma vorrei appuntarmi – perché tornerà subito utile – che
in quella stessa raccolta c’è anche un’intervista ad Anna Maria Ortese che mi diede
un’ispirata definizione di letteratura: «La letteratura, quando è vera, non è che
memoria di patrie perdute, non è che il riconoscimento e la malinconia dell’esilio».)
Chiusa parentesi. Torno al racconto della Ginzburg, «Il mio mestiere», da cui stavo
citando.
In quell’epoca che scrivevo i miei racconti brevi, con il gusto dei personaggi ben
trovati e dei particolari minuziosi, in quell’epoca ho visto una volta passare per
strada un carretto con sopra uno specchio, un grande specchio dalla cornice dorata.
Vi era riflesso il cielo verde della sera, e io mi son fermata a guardarlo mentre
passava, con una grande felicità e il senso che avveniva qualcosa d’importante. Mi
sentivo molto felice anche prima di vedere lo specchio, e a un tratto m’era sembrato
che passasse l’immagine della mia felicità stessa, lo specchio verde e splendente
nella sua cornice dorata. Per molto tempo ho pensato che lo avrei messo in qualche
racconto, per molto tempo ricordare il carretto con sopra lo specchio mi dava voglia
di scrivere. Ma non m’è mai riuscito di metterlo in nessun luogo e a un certo punto
mi sono accorta che era morto in me. E tuttavia è stato molto importante. [...] Lo
specchio sul carretto m’è sembrato m’offrisse delle possibilità nuove, forse la facoltà
di guardare una realtà più gloriosa e splendente, una realtà più felice, che non richiedeva
minuziose descrizioni e trovate astute ma poteva attuarsi in un’immagine risplendente
e felice.
In un modo o nell’altro le donne parlano spesso di vita familiare, di padri, madri,
figli, nipotini, e pur essendo la famiglia un grande tema della narrativa da sempre,
quando entra nel romanzo di una scrittrice decade, nella percezione di tanti, al livello
di “confessione” e la casa si restringe alla zona del tinello. Sarà davvero che gli
uomini pensano in grande e le donne no? Sarà per questo che Natalia Ginzburg il cielo
l’ha visto solo riflesso dentro la cornice di uno specchio e nei suoi libri non ha
poi mai contemplato quella «realtà più gloriosa e splendente» che vagheggiava finalmente
di descrivere? Anche quando ha affrontato Alessandro Manzoni, l’ha fatto sotto specie
Famiglia Manzoni... Eppure, eppure. Mi risuona dentro potente la frase della Ortese, così vera: la
letteratura è «memoria di patrie perdute», è «il riconoscimento e la malinconia dell’esilio».
Si può dirlo meglio? E dire che non sono i contenuti che contano, ma questa lontananza
struggente dalle cose che raccontiamo, perché proprio nella lontananza del tempo e
della percezione raggiungiamo il centro delle cose.
Inseguo questa suggestione sfogliando i libri che adesso ho tirato giù in massa dalle
librerie di casa e sparso su tavoli, poltrone, sedie, pavimenti. Ed ecco di nuovo
Lalla Romano. Questa volta è un suo romanzo del 1957, Tetto murato:
Chiudevo gli occhi e il gioco era aspettare che qualcosa si mostrasse.
Era la finestra a ponente, la luce calma del tramonto che entrava nella stanza, e
con essa un lungo silenzio, rotto alla fine da un’esclamazione di Ada, o dal bussare
timido di Nani. O, dalla finestretta della scala, la luce delle stelle sulla campagna,
nell’aria gelida notturna. O suoni, rumori: cantar di galli, latrati lontani, chiocciare
di galline; o, vicino, il gemito della porta, profondo, lento, familiare. E gli odori:
odore di letame, di pollaio, nell’androne, nei cortili; odore umido di muffa, nella
casa, o secco, di granaio; odore, nella cucina, di fumo, di mele.
E poi prendo in mano Leggere Lolita a Teheran dell’iraniana Azar Nafisi e lo sguardo mi cade non a caso sul titolo di una poesia
scritta da Yassi, la più giovane delle studentesse che si raccolgono nella casa della
loro insegnante, la stessa Nafisi, per leggere clandestinamente Nabokov e altri autori
proibiti dal regime degli ayatollah. La poesia di Yassi s’intitola Come sono piccole le cose che mi piacciono, vale a dire: «uno zainetto arancione, un cappotto colorato, una bicicletta...».
Nafisi e le sue ragazze, riunite in un gruppo di lettura come se ne sono moltiplicati
tanti in ogni paese – e soprattutto fra le donne, perché è un’altra caratteristica
femminile il bisogno di condividere – si liberano di foulard e chador; al nero dei
cappotti e degli scialli si sostituisce la danza colorata di vestiti sgargianti e
proibiti che indossano di nascosto. Si mettono comode e scomposte su cuscini, sedie,
divani. Mangiano cioccolatini buttandosi allegramente in analisi del testo e discussioni
letterarie.
Sedute intorno al tavolino, coperto di mazzi di fiori, entravamo e uscivamo dai nostri
romanzi. Guardandomi indietro, mi stupisco ancora di quanto abbiamo imparato, e senza
nemmeno accorgercene. Nabokov lo aveva descritto quello che ci sarebbe successo: avremmo
scoperto come il banale ciottolo della vita quotidiana, se guardato attraverso l’occhio
magico della letteratura, possa trasformarsi in pietra preziosa.
Sta parlando di Cose trasparenti del suo amatissimo scrittore russo? Mi pare proprio di sì. Leggiamolo:
Quando noi ci concentriamo su un oggetto materiale, ovunque esso si trovi, il solo atto di prestare
ad esso la nostra attenzione può farci sprofondare involontariamente nella sua storia.
I principianti devono imparare a sfiorare soltanto la superficie della materia se
vogliono che essa resti all’esatto livello del momento. Cose trasparenti, attraverso
le quali balena il passato!
A chi allude Nabokov con quel noi in evidenza? Noi, gli scrittori, circondati di fantasmi, gli scrittori che vedono
attraverso le cose e le persone. E così – insegna – nulla di meschino resta tale,
se guardato in trasparenza, niente è troppo piccolo o insignificante se messo a fuoco
dalla comprensione di uno scrittore.
Nafisi scrive: «ciò che cerchiamo nella letteratura non è la realtà, ma un’epifania
della verità», e non importa se questa epifania ci arriva direttamente da un cielo
stellato o solo dal suo riflesso in uno specchio, da una tazza di tè condita di chiacchiere
insignificanti o dal bucato nella tinozza su cui si piega un personaggio.
Come in una pagina di Lady Oracolo in cui Margaret Atwood ci mostra una romanziera fra scrivania e biancheria da lavare,
perché: oh, quanto si ragiona bene su trama e personaggi mentre si esegue un qualche
lavoro domestico...
Aprii gli occhi, mi alzai dal mio posto alla macchina per scrivere e andai a farmi
una tazza di caffè. Tutto sbagliato. [...] avrei dovuto cercare di scrivere un romanzo
vero, la storia di qualcuno che fa l’impiegato e vive amori squallidi e deludenti.
Questo però era impossibile, andava contro la mia natura. Aspiravo al lieto fine,
avevo bisogno del senso di liberazione che provavo quando tutto si risolveva nel migliore
dei modi e potevo far piovere la felicità sui miei eroi come riso nuziale, lasciandoli
alla loro beatitudine. [...] Non c’era caffè, così mi feci una tazza di tè. Poi raccolsi
la biancheria che avevo seminato un po’ dappertutto, sotto il tavolo, sugli schienali
delle sedie, e la misi nel lavandino. La sfregai con una lamella di sapone verde nell’acqua
rossastra che aveva un vago odore di ferro e di gas del sottosuolo; il water diventava
ogni giorno meno efficiente. Cattive fogne, cattivi sogni: forse era per quello che
non dormivo bene.
Strizzai la biancheria; la sentivo tutta granulosa. Dal momento che non avevo mollette,
la stesi sulla ringhiera del balcone...
Il lavoro domestico diviene mezzo psichico di distrazione dal dolore, dalla paura,
dai presentimenti della protagonista nella prosa di Joyce Carol Oates. In Storia di una vedova, romanzo autobiografico, Carol ritorna a casa dopo una pesante giornata in ospedale
dove il marito, Ray, è stato ricoverato per una polmonite che si spera guaribile.
Dal titolo sappiamo però che non lo sarà.
Desideravo fare una doccia, sfregarmi energicamente la faccia, le mani, i capelli
scompigliati e pieni di nodi. Ho pensato [...]: “No, prima i gatti”. Dovevo dar da
mangiare ai gatti, lasciarli andare fuori ombrosi e diffidenti, preferiscono uscire,
anziché mangiare nel loro angolo in cucina. “No, prima la posta”. Ma ero troppo stanca
per ritornare fino alla cassetta delle lettere [...]. “No, prima le luci”. Perché
tutta la casa era molto buia – una caverna, un sepolcro. Come una pazza che si è liberata
dal letto di contenzione, sono corsa per le stanze, accendendo le varie luci: luce
nel soggiorno, luce nella sala da pranzo, luce nell’ingresso, luce nelle camere, luce
nello studio di Ray – luce! [...] l’intera casa illuminata, come fosse programmato
un ricevimento. “No, prima devo pulire”. Mi dicevo che, con un’energia fanatica, avrei
passato l’aspirapolvere in ogni stanza, insistendo sui tappeti: di tutte le incombenze
domestiche, passare l’aspirapolvere era quella che mi piaceva di più, per l’ottuso
rumore sordo che rilascia e per l’immediata gratificazione che procura l’aggeggio:
c’è qualcosa di davvero gratificante nel passare l’aspirapolvere la sera tardi o magari
a notte fonda.
Il brano, fra straccio della polvere e bollette da pagare, continua con il catalogo
delle cose più urgenti da fare, fino a quando l’autrice mette a fuoco, in un crescendo
di pathos, ciò di cui ha veramente bisogno:
“No, voglio I vespri!” E così, alle due e quaranta del mattino, ho deciso di ascoltare un cd dei Vespri di Rachmaninov, una delle opere musicali preferite da Ray, una magniloquente composizione
corale di straordinaria bellezza, che mio marito e io avevamo apprezzato insieme in
un concerto anni prima – forse a Madison, nel Wisconsin, quando eravamo sposati da
poco, quando era appena incominciata la grande avventura di dar vita a una collezione di dischi; i maliosi e ondivaghi Vespri che qualche mese addietro avevo udito al ritorno da un viaggio, scendendo dalla limousine
nel nostro vialetto d’ingresso: mi aveva fatto sorridere il fatto di udire quella
musica emozionante provenire dalla nostra casa – Ray aveva alzato il volume dello
stereo, per ascoltarla nello studio, e io avevo pensato: “Sì, sono proprio a casa”.
Come definire banali e “insignificanti” certi gesti quotidiani se hanno questa voce?
Davvero niente è troppo piccolo o insignificante quando viene messo a fuoco dalla
comprensione di uno scrittore.
Epifania del bucato a mano. O dell’essere semplici osservatori della svagata vita
di tutti i giorni. Come quando Emma, nell’omonimo romanzo di Jane Austen, annoiata
dagli interminabili acquisti dell’amica, la lascia alle sue stoffe per mettersi a
contemplare l’attività della strada.
Harriet, tentata da tutto e suggestionata anche da una mezza parola, ci metteva sempre
un’eternità a fare acquisti; e mentre se ne stava ancora piegata sulle mussole senza
sapersi decidere, Emma per distrarsi se ne andò sulla porta... Non che ci si potesse
aspettare molto dal viavai del centro più trafficato di Highbury... Il dottor Perry
che passava frettoloso, William Cox che stava entrando nel suo ufficio, i cavalli
della carrozza dei Cole che rientravano dopo la passeggiata d’esercizio o uno smarrito
portalettere sopra un mulo ostinato erano gli spettacoli più interessanti che poteva
attendersi; e quando il suo sguardo cadde sul macellaio col suo vassoio, sulla linda
vecchietta in viaggio verso casa con il cesto pieno dopo le compere, su due cagnacci
che si litigavano un osso lurido e su un gruppo di bambini che gironzolavano intorno
alla vetrinetta del fornaio occhieggiando il pan di zenzero, sapeva di non aver motivo
di lamentarsi e comunque si distraeva quel tanto da continuare a starsene sulla porta.
Ricordo ne Il mare non bagna Napoli della Ortese una scena simile. È nel racconto «Un paio di occhiali»: la piccola Eugenia,
così miope da essere quasi cieca, inforca le lenti per la prima volta in un negozio
di ottica e viene invitata a guardare fuori, nella strada.
Eugenia si era alzata in piedi, con le gambe che le tremavano per l’emozione, e non
aveva potuto reprimere un piccolo grido di gioia. Sul marciapiede passavano, nitidissime,
appena più piccole del normale, tante persone ben vestite: signore con abiti di seta
e visi incipriati, giovanotti coi capelli lunghi e il pullover colorato, vecchietti
con la barba bianca e le mani rosa appoggiate sul bastone dal pomo d’argento; e, in
mezzo alla strada, certe belle automobili che sembravano giocattoli, con la carrozzeria
dipinta in rosso o in verde petrolio, tutta luccicante; filobus grandi come case,
verdi, coi vetri abbassati, e dietro i vetri tanta gente vestita elegantemente; al
di là della strada, sul marciapiede opposto, c’erano negozi bellissimi, con le vetrine
come specchi, piene di roba fina, da dare una specie di struggimento; alcuni commessi
col grembiule nero le lustravano dall’esterno. C’era un caffè coi tavolini rossi e
gialli e delle ragazze sedute fuori, con le gambe una sull’altra e i capelli d’oro.
Ridevano e bevevano in bicchieri grandi, colorati. Al disopra del caffè, balconi aperti,
perché era già primavera, con tende ricamate che si muovevano, e, dietro le tende,
pezzi di pittura azzurra e dorata, e lampadari pesanti d’oro e cristalli, come cesti
di frutta artificiale, che scintillavano. Una meraviglia.
Il mondo visto per la prima volta è tutto pulito e luminoso, tutto ori e cristalli.
Ma la seconda volta che Eugenia infila gli occhiali, quelli suoi, fatti su misura
per lei e tanto attesi, non quelli per prova del negozio, lo scenario è cambiato.
Questa volta la bambina si affaccia dal portone del condominio dove vive, in uno squallido
vicolo, vede il cortile. «Le girava la testa, e non provava più nessuna gioia».
Come un imbuto viscido il cortile, con la punta verso il cielo e i muri lebbrosi fitti
di miserabili balconi; gli archi dei terranei, neri, coi lumi brillanti a cerchio
intorno all’Addolorata; il selciato bianco di acqua saponata, le foglie di cavolo,
i pezzi di carta, i rifiuti, e, in mezzo al cortile, quel gruppo di cristiani cenciosi
e deformi, coi visi butterati dalla miseria e dalla rassegnazione, che la guardavano
amorosamente. Cominciarono a torcersi, a confondersi, a ingigantire. Le venivano tutti
addosso, gridando, nei due cerchietti stregati degli occhiali.
Forse, dopotutto, aveva ragione la zia quando le diceva: «Figlia mia, il mondo è meglio
non vederlo che vederlo». Lo spaesamento di Eugenia è identico a quello dell’autrice,
che in un’introduzione alla riedizione del 1994 dei suoi racconti spiega: «Io detestavo
con tutte le mie forze, senza quasi saperlo, la cosiddetta realtà: il meccanismo delle cose che sorgono nel tempo, e dal tempo sono distrutte. Questa
realtà era per me incomprensibile e allucinante».
Infatti: ciò che cerchiamo nella letteratura non è la realtà, ma un’epifania della verità. Nel caso di Eugenia, una ragazzina che scopre di colpo Napoli attraverso un semplice
paio di occhiali che le correggono la vista, la verità è che esiste una città dei
ricchi e una città dei poveri e semplici come lei. La “meraviglia”, provata fuori dal negozio del centro, si trasforma in
una brutale rivelazione all’interno del suo quartiere.
«Mammà, dove siamo?»
«Nel cortile siamo, figlia mia»
E la martellante insistenza della zia su quanto sono costati quegli occhiali («Ottomila
lire, vive vive!»), cui prima la bambina non aveva dato peso, ora diventa ulteriore
insopportabile rivelazione: è il denaro, solo il denaro, l’elemento magico che permette
di attraversare lo specchio per passare dall’una all’altra dimensione, dall’una all’altra
Napoli. Ma questo né la scrittrice lo dice esplicitamente, né Eugenia è in grado di
decifrarlo dentro il dolore di un improvviso male allo stomaco e alla pancia. È qualcosa
che resta implicito nel racconto, qualcosa che confusamente, come sempre nella grande
letteratura, si svela nel non detto di un’allusione, per toccare un elemento bruciante
della percezione e dell’essere, che una bambina, ignorante della vita, non avrebbe
potuto capire; soltanto “sentire” attraverso le viscere in subbuglio. Perché, generalizzando,
«il romanzo contiene più verità di quante ne contenga la realtà»: a dirlo stavolta
è Liliana Rampello spiegando Virginia Woolf in un’introduzione ai saggi della scrittrice.
La realtà con i suoi orpelli cambia continuamente, mentre le epifanie di verità nascoste
restano a emozionarci e a illuminarci attraverso il tempo, a farci intravedere un
briciolo d’immortalità sul fondo di una tazzina ormai vuota del suo contenuto.
Così certe piccole avventure del quotidiano, certe vicende di povere creature meschine
prendono lo spazio della «realtà più gloriosa e splendente». Per esempio in un passo
del libro Scrivere di Marguerite Duras, che ho sempre molto amato e che parla della morte di una mosca.
Un giorno imprecisato Marguerite, nella sua casa di Neauphle-le-Château, vede sul
muro bianco morire una mosca e dice:
La morte di una mosca è la morte. È la morte in cammino verso una certa fine del mondo,
che estende il campo dell’ultimo sonno. Si vede morire un cane, si vede morire un
cavallo e si dice qualcosa, ad esempio, povera bestia... Ma se una mosca muore non
si dice niente, non si registra, niente. [...]
Nel momento in cui la guardavo, a un tratto, erano circa le tre e venti del pomeriggio,
il rumore delle elitre è cessato.
La mosca era morta.
Quella regina, nera e azzurra.
Proprio quella, quella che avevo visto io, era morta. Lentamente. Si era dibattuta
fino all’ultimo sussulto. E poi aveva ceduto. Era durato cinque, otto minuti. Era
stato lungo. Un momento di assoluto terrore. E poi la morte se n’è andata verso altri
cieli, altri pianeti, altri luoghi.
Anche l’ultimo scritto di Virginia Woolf (a parte la lettera per il marito Leonard
prima di annegarsi, il 28 marzo del 1941) è dedicato alla morte di un insetto, una
falena. Lei pure, come Duras, si trova a essere testimone degli ultimi momenti di
vita del piccolo essere che lotta disperato per opporsi alla cosa inspiegabile che
gli sta accadendo.
Lo sforzo gigantesco di un’insignificante piccola falena contro una forza di tale
portata, per difendere ciò che nessun altro sembrava apprezzare o voler conservare,
era stranamente commovente. Ancora una volta, in qualche modo, si vedeva la vita,
un’autentica perla. Sollevai di nuovo la matita, pur sapendo che era inutile. Perfino
in quel momento permanevano i segni inequivocabili della morte. Il corpo si rilassò,
e subito s’irrigidì. La lotta era finita. La piccola creatura insignificante ora conosceva
la morte. Mentre guardavo la falena morta, quell’infimo irrisorio trionfo di una potenza
così smisurata su un avversario così modesto mi riempì di stupore. Se poco prima la
vita era strana, ora la morte era altrettanto strana. La falena che era riuscita a
raddrizzarsi da sola giaceva ora con dignitosa e stoica compostezza. Oh sì, sembrava
dire, la morte è più forte di me.
Nel romanzo forse più visionario di...