Nella varietà delle posizioni raccontate in questo volume, nelle diverse concezioni
della storia, della cultura e della conoscenza che caratterizzano le figure intellettuali
che in esso compaiono, un punto appare comune. Tutte le volte che, dagli anni Settanta
del Novecento, la teoria culturale ha incontrato la storia si è assistito al superamento,
grazie a una nuova attenzione di volta in volta al linguaggio, alle costruzioni simboliche
e alle pratiche, dell’illusione che i fatti storici abbiano un significato intrinseco,
che il ricercatore dovrebbe semplicemente scoprire. Nella storia di matrice positivista
un metodo storico scientifico, applicato da uno studioso pienamente oggettivo, doveva
creare un ponte diretto tra i documenti (perlopiù ufficiali, perlopiù scritti) e la
verità di quanto è accaduto nel passato. Dopo la svolta culturale questo processo
appare a molti storici, se non completamente fittizio, perlomeno ingenuamente limitato.
In primo luogo perché questa svolta ha insegnato che lo storico (la sua «rete di significati»,
il suo linguaggio, le sue pratiche, il suo habitus, la sua episteme) è parte essenziale
e non neutrale del processo di creazione del sapere storico. In secondo luogo, ma
più importante, perché ha messo in discussione l’univocità del significato di fonti,
eventi e processi storici: attorno a documenti che ci sembravano trasparenti cominciano
ad apparire significati multipli, negoziazioni, strategie contrastanti.
Appaiono insomma gli attori sociali, non più come spettatori e gregari e non più solo
come oggetto della narrazione storica, ma come soggetti dotati di agency e come legittimi
creatori di significato. A nuovi campi di esplorazione (le emozioni, le rappresentazioni,
la memoria) si accompagna inevitabilmente un cambiamento della definizione stessa
di fonte storica, ampliata fino a comprendere ogni artefatto culturale: dai costumi
di scena della politica risorgimentale ai messaggi elettronici scambiati nelle comunità
informatiche (per citare solo i diversissimi argomenti di cui si occupano i due autori
di questo libro).
1. Lasciti
Come ha sintetizzato efficacemente Roger Chartier,
l’apporto più sostanziale della storia culturale è stato quello di obbligare gli storici
a mettere in discussione le loro certezze apparentemente più consolidate. All’evidenza
bruta dei fatti ha contrapposto la loro costruzione ad opera delle rappresentazioni
con cui i soggetti storici si sono misurati. Contro il postulato di un significato
intrinseco delle idee, delle dottrine, dei testi e delle immagini, ha affermato la
storicità del loro senso, che dipende insieme dalla loro materialità e dalle loro
appropriazioni. Alla quantificazione dei gesti e dei pensieri ispirata alla storia
seriale e statistica ha preferito l’analisi antropologica delle strategie consce e
delle costrizioni inconsapevoli. Di conseguenza, si sono profondamente trasformate
le pratiche di ricerca, i criteri di prova e i modelli di comprensione della storia.
Un altro elemento che sembra essere comune a tutti gli incontri tra storia e teoria
culturale sono stati dibattiti accesi, duraturi e talvolta catastrofisti. La destabilizzazione
della nozione di verità storica ha suscitato paure e ostilità che, per quanto prevedibili
e comprensibili, possiamo a posteriori definire eccessive. La storia non si è trasformata
in antropologia, né in filosofia, né in fiction e non si è rivelata un semplice linguaggio
autoreferenziale. Anche il relativismo assoluto, il rischio che più ricorre nelle
critiche alle posizioni postmoderne e poststrutturaliste, non si è rivelato capace
di portare alla «fine della storia» da tanti temuta.
Ciò che il poststrutturalismo ha messo in crisi non è l’indagine storica in quanto
tale. Sono semmai lo storicismo e i suoi indotti (l’idea che il passato possa essere
lineare e progressivo e il suo studio pienamente scientifico); le grandi narrazioni
ideologiche che pretendevano di fornire una chiave di lettura applicabile ad ogni
fenomeno e processo del passato; e l’essenzialismo (l’idea, già richiamata, che fatti e fenomeni possano avere un significato intrinseco,
indipendente dal linguaggio e dall’osservatore). Dal punto di vista filosofico non
si trattava di una novità, ma le riflessioni precedenti (quelle di Karl Popper ad
esempio) avevano ben poco pesato sulla storiografia. Diverso è stato l’impatto del
poststrutturalismo grazie al quale, come ha scritto Kevin Passmore, «non è più possibile
pensare agli uomini come naturalmente aggressivi, alle donne come naturalmente materne,
ai lavoratori come naturalmente socialisti o ai Celti come naturalmente selvaggi».
La storia, dal canto suo, è viva e vegeta, anche se deve affrontare nuove sfide indubbiamente
non facili. La «scienza del contesto» si è scoperta forse meno «scientifica», ma non
meno capace di comprendere e descrivere i contesti di riferimento – anche quando questi
sono resi significativamente più complicati dall’ampliamento dei campi di interesse
e delle tipologie di fonti. Tale ampliamento ha peraltro portato a un affinamento
delle metodologie, a una maggiore propensione al confronto teorico e a una maggiore
riflessività sui mezzi con i quali la conoscenza storica è creata e comunicata.
Potremmo dire che la svolta culturale ha riconfigurato ma anche rivitalizzato le nozioni
di sociale e culturale e le loro reciproche interazioni. Alcune delle certezze della
storia sociale (in particolare l’idea del sociale come un insieme di categorie relativamente
stabili ed omogenee) hanno lasciato il posto ad una maggiore attenzione a individui
e reti e alla fluidità delle identità collettive. La dimensione sociale si è rivelata
così più complessa, mobile, resistente alla semplificazione. Nello stesso tempo sul
fronte culturale abbiamo assistito ad un progressivo ma deciso scivolamento dall’idea
di cultura come discorso ad una incentrata sulle pratiche e le esperienze degli attori
sociali.
Come abbiamo visto tale percorso è stato in realtà da subito piuttosto chiaro, a dispetto
di tutte le preoccupazioni sulla dissoluzione del sociale che percorrevano le polemiche
di quegli anni. Già nel 1999, intervenendo nel volume Beyond the Cultural Turn, William Sewell sosteneva che essa aveva presto prodotto tra gli storici una reazione
forte contro l’idea che eventi ed esperienze si esaurissero nella loro articolazione
linguistica e proponeva una diversa concettualizzazione di cultura che comprendesse,
oltre a simboli e significati, anche pratiche ed elementi performativi. I percorsi
successivi della storia culturale hanno privilegiato questi aspetti. Dieci anni più
tardi Gabrielle Spiegel, interrogandosi sui compiti dello storico nella società attuale,
sosteneva che la sua indagine tende sempre più ad assumere la pratica (non la struttura)
come base di partenza della propria analisi sociale e culturale. E poneva l’accento
sulla torsione forte della svolta culturale verso agency ed esperienze, cosa che aveva
tra l’altro consentito un recupero forte di Bourdieu e della sua teoria della pratica.
Risulta oggi piuttosto chiaro che pratiche ed esperienze, anche nelle loro implicazioni
materiali e performative, costituiscono per il lavoro storico lo spazio d’intersezione
più significativo e cruciale tra l’ordine discorsivo e l’azione individuale. A ciò
si aggiunge, ed è uno tra gli orizzonti più interessanti della ricerca attuale, una
crescente attenzione alla materialità e alla corporeità della vita sociale e culturale.
Una più marcata enfasi sui corpi e sulle cose sembra quasi far da ponte, negli studi
più aggiornati, tra realtà sociale e dimensione culturale.
Science and Technology Studies
Vale la pena ricordare in questa conclusione che la storia e le discipline umanistiche
non sono state le uniche imprese intellettuali costrette a fare i conti con la destabilizzazione
del concetto monolitico di realtà. Anche le scienze cosiddette «dure» e di laboratorio
hanno conosciuto un analogo e parallelo processo di ripensamento delle proprie pratiche
e della verità da esse ricavata.
Una prima crepa nella concezione positiva della scienza appare con la pubblicazione
de La struttura delle rivoluzioni scientifiche, nel 1962. In esso Thomas Kuhn, fisico e storico della scienza, affermava che la
scienza non procedeva per accumulazione lineare di conoscenza, ma a strappi. A periodi
di «scienza normale», durante i quali gli scienziati di un determinato campo condividevano
un «paradigma» (un insieme di nozioni sulla natura della verità scientifica e sui
mezzi per scoprirla), seguivano delle rivoluzioni che rendevano il paradigma precedente
obsoleto e lo sostituivano con nuove pratiche e nuove verità. Al di là della natura
del processo, la cui descrizione oggi appare forse semplicistica, il saggio di Kuhn
è importante per due motivi. In primo luogo esso richiama l’attenzione non sui fenomeni
studiati dalla scienza, ma sulle comunità che fanno dell’osservazione la propria professione.
In secondo luogo il libro prova che non può esserci osservazione «neutrale», indipendente
cioè dalla teoria scientifica che essa vuole provare o sfidare.
Da questi due concetti si svilupperà il variegato campo di studi conosciuto come Science
and Technology Studies. Gli studiosi che lo animano sono convinti che la realtà scientifica
e tecnologica sia socialmente costruita: i fatti descritti dalla scienza non sono
naturali, ma sociali – il risultato di regole professionali, aspirazioni individuali,
pressioni sociali, pregiudizi culturali e strumenti tecnici. Non esiste insomma un
collegamento diretto tra la natura e l’osservazione, tra l’esperimento e la verità:
il fatto scientifico è costruito, non scoperto.
Tra gli storici il contributo probabilmente più importante a STS è stato dato da Thomas
P. Hughes, che nel suo Networks of Power (1983) mostrava come differenze di design tecnologico in diverse nazioni occidentali
fossero legate non a considerazioni tecnoscientifiche ma a fattori culturali, e in
interventi successivi sosteneva che il successo di uno scienziato/inventore (ad esempio
Edison) era legato, prima ancora che alla sua capacità di svelare le leggi naturali
o produrre apparecchi funzionanti, alla sua abilità di gestire un «sistema tecnologico»
(fatto di finanziatori, strumenti di laboratorio, amministrazioni locali, stampa,
comunità scientifica, tradizione artigianale...). In quegli stessi anni Hughes, Trevor
Pinch e Wiebe Bijker mostravano attraverso svariati esempi storici (ad esempio quello
dell’adozione delle prime biciclette – 1995) il ruolo che gli utenti avevano avuto
tanto nella definizione del significato quanto nell’evoluzione tecnica delle tecnologie,
aprendo un importante filone di studi sulla natura sociale e culturale dell’innovazione
tecnologica.
Il concetto di sistema è poi centrale alla Actor-Network Theory (ANT), una teoria
scaturita direttamente da STS e formulata negli anni Ottanta da Bruno Latour, Michel
Callon e John Law. Secondo ANT lo scopo della tecnoscienza è quello di costruire network
via via sempre più larghi e via via sempre più solidi. Ma laddove i sistemi tecnologici
di Hughes erano composti da attori e comunità umane, i network ANT comprendono anche
elementi non umani. Come spiega Latour nel suo studio sulla «pastorizzazione della
Francia» (1988) Louis Pasteur non si è limitato a scoprire il ruolo che i microbi
hanno nella diffusione delle malattie. Attraverso lo strumento del laboratorio Pasteur
ha sottoposto i microbi a «test di forza» volti a farli agire secondo i suoi fini.
Successivamente questi comportamenti accuratamente preparati sono stati esportati
in dimostrazioni pubbliche che avevano lo scopo di reclutare altri agenti: l’opinione
pubblica, gli amministratori, i medici, i legislatori. I microbi non erano solo oggetti
di studio, ma un nodo del network di Pasteur. Come tutti i nodi, inizialmente oppongono
resistenza, ma una volta che queste siano state vinte i microbi diventano alleati
di Pasteur, utili per rendere il suo network più esteso e solido. I vaccini non devono
allora il proprio successo al solo fatto di essere in grado di prevenire le malattie:
la loro esistenza è dovuta in ugual misura alle reti eterogenee che ne garantiscono
forza e diffusione.
Queste riflessioni hanno impiegato molto tempo per penetrare nella riflessione storiografica
al di là della storia della scienza, anche per la posizione di quest’ultima, spesso
autonoma e in un qualche modo isolata dalla riflessione storiografica più generale.
In anni recenti si è tuttavia assistito a un moltiplicarsi di riflessioni sulla agency
storica del non umano, in particolare quello animale (una prospettiva che Callon aveva
già sperimentato negli anni Ottanta, quando aveva raccontato il commercio marittimo
dal punto di vista della capasanta). È lecito aspettarsi che in futuro questa tendenza
si intensifichi, in ragione sia della crescente influenza degli STS al di fuori delle
indagini prettamente scientifiche, che della intensa attenzione ai temi dell’ambiente
e dell’Antropocene.
2. Nuove sfide
Le analisi condotte nei capitoli di questo libro si sono concentrate particolarmente
sugli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso e su una serie di sfide teoriche che
sono state capaci di offrire dei frameworks interpretativi utili a dare un senso ai fenomeni del passato. Ci rendiamo conto che
molti altri riferimenti teorici avrebbero potuto essere considerati, ma ci sembrava
importante concentrare lo sguardo su alcuni grandi incontri tra la storia e la teoria
culturale ed è quanto abbiamo cercato di fare. Solo due ulteriori autori vogliamo
almeno citare in conclusione perché hanno sollecitato anche di recente l’attenzione
degli storici: Michail Bachtin, le cui riflessioni sulla struttura dialogica e multivocale
di ogni testo (che contiene le voci dell’autore, quelle delle sue fonti o dei suoi
riferimenti anche inconsci, quelle del suo pubblico) sono state assunte come una modalità
particolarmente convincente di tenere insieme agency umana e ruolo chiave del linguaggio
(Passmore, 2010); e Jurij Lotman, i cui studi sulla semiotica della cultura possono
dare ancora oggi molte indicazioni importanti al lavoro storico, soprattutto sulla
nozione di memoria culturale (Tamm, 2019).
Va detto in ogni caso e sottolineato che l’appropriazione di teorie culturali da parte
degli storici ha comportato spesso un’enfasi sugli scarti dai modelli teorici, e dunque
un’attenzione alle complesse specificità dei contesti e delle esperienze. Nondimeno
il dialogo è stato cruciale, anche e soprattutto nel porre all’indagine storica delle
domande rinnovate. Certo, non sempre chi si occupa di storia vuole avere a che fare
con la teoria, come è stato denunciato dal manifesto dedicato a Theory and History di cui abbiamo parlato nel primo capitolo, o misurarsi con le implicazioni dei vari
turns descritti in questo libro. Ma possiamo anche dire che non tutti devono farlo. Una
delle lezioni che ci offre la teoria culturale è che il passato può essere cosa diversa
per diverse società, individui e gruppi di persone, ivi compresi gli storici e le
storiche che con esso si misurano professionalmente. E d’altronde non occorre cimentarsi
direttamente nell’agone teorico per essere influenzati dalle conseguenze e dai temi
imposti dalle battaglie metodologiche. Essi talvolta si impongono sottotraccia, come
è successo per numerose delle riflessioni che abbiamo fin qui esaminato.
Molti storici che hanno manifestato perplessità anche consistenti verso la svolta
linguistica oggi sono più consapevoli rispetto alle semplificazioni essenzialistiche
e magari integrano nel loro lavoro una sensibilità e delle prospettive culturali.
In linea generale appaiono ora ben più enfatizzate nel dibattito storiografico le
interconnessioni tra campi e approcci diversi (il sociale, il culturale, il politico,
l’economico) piuttosto che le loro diversità, e tanto meno le loro contrapposizioni.
Posto che la svolta culturale è ormai alle nostre spalle rimane da chiedersi se ad
un dialogo sempre rinnovato tra storia e teoria sia venuta l’ora di porre nuove domande.
La risposta è inevitabilmente sì, visto che nel frattempo le sfide che ci arrivano
dall’attualità sono cambiate, ed è forse proprio l’urgenza di nuovi interrogativi
che oggi si pone con forza alla disciplina. Come ha rilevato Lynn Hunt in un pamphlet
recente (2018) la questione della «verità» nella storia va ad esempio calata oggi
in uno scenario diverso rispetto al periodo della svolta culturale di cui abbiamo
parlato. Viviamo in una fase di vera e propria bulimia storica, in cui la richiesta
di narrazioni del passato attraversa con una forza inedita il mercato culturale. Biografie
e memorie di «eroi» del passato ottengono grande successo di pubblico, così come film,
serie televisive e videogame di argomento storico, mentre trovano sempre maggior seguito
forme di rievocazione o esperienze virtuali di scenari storici. La storia ci viene
offerta così nelle forme più diverse e inattese, come una sorta di merce culturale
estremamente pervasiva che viene consumata soprattutto nelle forme dell’intrattenimento
e dell’heritage.
Nel contempo l’era del digitale e dei social media ha amplificato il problema delle cosiddette fake news o della menzogna come strumento politico e ha fatto proliferare teorie cospirative
e complottistiche. I due processi, pur molto diversi, finiscono per convergere verso
una crescente indistinguibilità tra vero e finto che caratterizza le società contemporanee,
cosa che pone con un’urgenza diversa rispetto al passato il tema della fiducia nella
ricostruzione storica e nella possibilità di determinare con qualche certezza la veridicità,
o meno, delle indagini che si compiono sul passato. Per essere più chiari: come si
concilia tutto ciò con la consapevolezza, uno dei lasciti forti della svolta culturale,
che la ricostruzione storica è sempre il frutto di un’interpretazione che guida la
raccolta e la selezione delle evidenze?
Una risposta possibile è già presente nelle riflessioni teoriche che abbiamo preso
in esame. Nel lavoro di De Certeau sull’operazione storiografica risulta evidente
che la storia non può essere considerata una scienza a tutti gli effetti e che sono
le interpretazioni, che dipendono dal posizionamento del ricercatore, a rendere rilevanti
fatti altrimenti inerti. E tuttavia nella medesima riflessione di De Certeau risulta
altrettanto chiaro che per comprendere lo statuto molto specifico del lavoro storico
è necessario prendere in considerazione altri aspetti. L’operazione storica è fatta
di luoghi, procedure e tecniche che la distinguono dalla finzione e ne affermano una
tensione verso il vero che può essere considerata parte integrante di uno statuto che va riconosciuto come
strutturalmente ibrido, nella capacità di prendere in prestito linguaggi e metodi
sia dalle scienze sociali che dalle scienze umane (Maza, 2017).
Tali tecniche richiedono ad esempio coerenza nella ricostruzione della sequenza degli
eventi, completezza nel tenere insieme quanti più elementi possibili, una sostanziale
robustezza della spiegazione. Ciò non toglie, e va ribadito, che la ricostruzione
storica non può che rimanere un processo intrinsecamente aperto, dalle certezze provvisorie.
Sia perché nuove evidenze e nuovi punti di vista possono emergere, sia perché dal
presente scaturiscono e si offrono allo sguardo dello studioso sempre nuove domande,
in quello spazio aperto e in continuo movimento che si colloca tra noi e un passato
che non c’è più.
C’è poi una seconda grossa sfida di cui tenere conto e su cui molti storici hanno
di recente riflettuto: il ruolo dominante che nel rapporto con il passato giocano
oggi la memoria e la patrimonializzazione, relegando ad un compito virtualmente marginale
il lavoro storiografico.
Se nella storia si sono succeduti, come ha scritto lo storico francese François Hartog,
diversi «regimi di storicità» – ossia diversi modi di mettere in relazione passato,
presente e futuro –, quello della contemporaneità sembra essere dominato dal «presentismo»,
una sorta di schiacciamento sul presente legato ad un sostanziale appannamento delle
prospettive di futuro e di quella tensione verso il progresso che aveva nutrito la
modernità otto/novecentesca. In questo quadro acquisisce sempre maggior forza comunicativa,
ed efficacia mediatica, una storia memoriale al cui centro non è lo storico ma la
figura del testimone, capace di parlare in prima persona narrando quanto realmente
è accaduto. Si tratta, ha scritto Enzo Traverso che ha lavorato molto su questo tema,
di una storia agnostica, emotiva, fatta di vittime e carnefici, in cui il ricordo
mira a scongiurare o celebrare ben più che a spiegare.
Di fronte alla novità di un’incessante moltiplicazione dei passati nel mercato culturale
e di fronte alle voci ben più coinvolgenti dei testimoni quale contributo può ancora
offrire la ricerca storica? Detto in altri termini: abbiamo ancora bisogno della storia,
come si è domandato di recente Serge Gruzinski, o possiamo farne a meno? La risposta
che emerge dal volume ci pare abbastanza chiara. Concentrandosi sul dialogo con un
insieme di teorie culturali questo libro ha voluto puntare lo sguardo sulle trasformazioni
che l’operazione storica ha conosciuto al seguito della svolta culturale, giungendo
ad affinare una maggiore consapevolezza del proprio fare e metodi di indagine più
articolati, complessi e multidimensionali. Tutto ciò ne ha perfezionato e accentuato,
a nostro avviso, quella natura critica e interpretativa che la distingue e la caratterizza
rispetto ad altre forme di narrazione del passato, e ne ha ampliato la capacità di
misurarsi con temi e problemi sempre rinnovati, diversi, variamente collegati al nostro
presente.
Se torniamo allora al quesito appena posto possiamo dire che, diversamente da altre
forme di narrazione, l’indagine storica ha gli strumenti per indagare criticamente
anche su quegli stessi processi che oggi sembrano in qualche modo metterne in discussione
il ruolo. La memoria, le pratiche sociali e culturali ad essa connesse, sono ad esempio
oggi al centro di un ampio terreno di studi storici che analizza e documenta l’importanza
della presenza del passato nelle società prese in esame. I modi che le società hanno
di ricordare, di rappresentare e rilavorare costantemente la propria storia sono così
diventati oggetti di ricerca, aperti ad analisi sempre più attente e sofisticate.
Allo stesso modo il consumo e l’uso della storia nella finzione e nell’intrattenimento
della cultura di massa sono sempre più di frequente oggetto di indagine perché offrono
una chiave di lettura importante per capire come le società, in circostanze e contesti
diversi, diano senso al proprio passato e costruiscano un’immaginazione e una sensibilità
storica. I lavori di Jerome De Groot e di altri sui diversi modi di popolarizzazione
della storia nei media contemporanei hanno aperto la strada ad analisi ancora in gran
parte da sviluppare sui percorsi attraverso i quali nella contemporaneità si costruisce
una cultura storica collettiva.
È anche grazie all’influsso esercitato dalla svolta culturale che lo sguardo storico
si rivela oggi più che mai insostituibile, l’unico capace di approfondire e problematizzare
le altre forme possibili di rappresentazione, di nostalgia, di memoria del passato,
per interrogarsi su di esse e sul loro modo di incidere sul nostro tempo. Allo stesso
tempo una maggiore solidità autoriflessiva, l’abitudine costante a misurarsi con le
categorie e gli strumenti del proprio fare possono sollecitare forme nuove di interazione
e di scambio dell’indagine storica con altri linguaggi, in primo luogo quelli artistici,
capaci di mettere in relazione, con sguardi diversi, il passato, il presente e il
futuro.
Testi citati
Benigno F., 2013: Parole nel tempo. Un lessico per pensare la storia, Viella, Roma.
Bijker W.E., 1995: Of Bicycles, Bakelites, and Bulbs: Toward a Theory of Sociotechnical Change, MIT Press, Cambridge (Ma).
Callon M., 1984: Some Elements of a Sociology of Translation: Domestication of the Scallops and the
Fishermen of St Brieuc Bay, in «The Sociological Review», 32, pp. 196-233.
Chartier R., 2010 [2008]: Postfazione a Poirrier (a cura di), La storia culturale: una svolta nella storiografia mondiale?, cit.
De Groot J. (a cura di), 2016: Consuming History. Historians and Heritage in Contemporary Popular Culture, Routledge, London-New York.
Gunn S., 2012: Analysing Behaviour as Performance, in Research Methods for History, Edinburgh University Press, Edinburgh.
Hartog F., 2007 [2003]: Regimi di storicità. Presentismo ed esperienze del tempo, Sellerio, Palermo.
Hughes T.P., 1983: Networks of Power. Electrification in Western Societies, John Hopkins University Press, Baltimore-London.
Kuhn T., 2017 [1963]: La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino.
Latour B., 1988: The Pasteurization of France, Harvard University Press, Cambridge (Ma).
Maza S., 2017: Thinking about History, The University of Chicago Press, Chicago-London.
Passmore K., 2010: Poststructuralism and History, cit.
Sewell W.H., 1999: The Concept(s) of Culture, in Hunt, Bonnell, Beyond the Cultural Turn, cit., pp. 35-61.
Spiegel G., 2009: The Task of Historian, in «American Historical Review», 114, 1, pp. 1-15.
Tamm M. (a cura di), 2019: Jurij Lotman. Culture, Memory and History. Essays in Cultural Semiotics, Palgrave Macmillan, London-New York.
Traverso E., 2006: Il passato: istruzioni per l’uso, Ombre Corte, Verona.
Per approfondire
Sulla progressiva torsione della storia culturale verso l’analisi di pratiche ed esperienze
si veda soprattutto Spiegel, Practising History, cit. Sui percorsi più recenti della storia sociale, dopo il linguisticturn, si veda C. Waters, G. Noiriel, Is there still Place for Social History?, in Writing Contemporary History, a cura di R. Gildea e A. Simonin, Hodder Education, London 2008. E soprattutto,
per uno sforzo di sintesi tra storia sociale e culturale, M.A. Cabrera, Postsocial History: An Introduction, Lexington Books, Lanham 2004.
Tra le tante sintesi di STS consigliamo P. Magaudda, F. Neresini (a cura di), Gli studi sociali sulla scienza e la tecnologia, il Mulino, Bologna 2020. Le discipline storiche sono state particolarmente importanti
per gli studi sulla costruzione sociale della tecnologia. Il testo fondamentale in
questo campo è W. Bijker, T.P. Hughes, T. Pinch, The Social Construction of Technological Systems: New Directions in the Sociology
and History of Technology, MIT Press, Cambridge (Ma) 2012 [1987]. Uno dei migliori studi storici sulla costruzione
delle teorie e dei dibattiti scientifici rimane S. Shapin, S. Schaffer, Il leviatano e la pompa ad aria: Hobbes, Boyle e la cultura dell’esperimento, La Nuova Italia, Firenze 1994 [1985].
La miglior introduzione alla Actor-Network theory è data da B. Latour e S. Woolgar
in Laboratory Life. The Social Construction of Scientific Facts, Princeton University Press, Princeton 1979 e B. Latour, La scienza in azione: introduzione alla sociologia della scienza, Edizioni di Comunità, Ivrea-Roma 1998 [1987]. Sull’elemento più controintuitivo
della teoria, la agency attribuita a non umani, si veda J. Johnson, Mixing Humans and Nonhumans Together: The Sociology of a Door-Closer, in «Social Problems», 35, 3, 1988, pp. 298-310.
Per una introduzione al campo molto ibrido dei Performance studies si veda R. Schechner, Performance Studies: an Introduction, Routledge, New York 2013 (terza ed.); e per uno sguardo alle applicazioni sul piano
storico una sezione monografica della rivista «Ludica. Annali di storia e civiltà
del gioco» (25, 2019) dedicata a Performance, Politics and Play, a cura di A. Arcangeli ed E. Claire.
Sui rapporti tra storia e memoria, o quanto si comincia a definire mnemohistory, una utile rassegna è il saggio di G. Cubitt, History of Memory, in Debating New Approaches to History, cit., pp. 127-158. Molte e diverse prospettive sono inoltre presentate nei due volumi
collettanei seguenti: M. Tamm (a cura di), Afterlife of Events: Perspectives on Mnemohistory,Palgrave MacMillan, Basingstoke 2015; M. Tamm, L. Olivier (a cura di), Rethinking Historical Time: New Approaches to Presentism,Bloomsbury, London 2019.
Sul consumo di storia e la presenza del passato nelle diverse forme di fiction contemporanea
si veda di J. De Groot, oltre al volume citato, anche Remaking History: The Past in Contemporary Historical Fictions, Routledge, London-New York 2016.
Su linguaggi artistici, memoria e storia si veda il recentissimo Ce que les artistes font à l’histoire, a cura di O. Abel, T. Hirsch, S. Loriga, n. 8 di «Passées Futurs», dicembre 2020.