V. La narrazione melodrammatica dell’Italia oppressa
1. Finzione e non
Niun di coloro che scriveranno la storia distesa, o qualsiasi compendio di questo
periodo,
non potranno dividere, come facemmo noi fin qui, la storia politica dalla letteraria.
L’una e l’altra ebbero sì molte relazioni pur troppo; ma in questi ultimi anni elle
n’hanno tante,
che ne rimangono continuamente frammiste.
Cesare Balbo, 1846-47
Durante la prima metà dell’Ottocento il discorso nazional-patriottico si struttura
in Italia nelle forme di una narrazione coerente e ben definita, di cui gli studi
di Alberto Banti hanno magistralmente analizzato sia gli aspetti morfologici (individuati
nelle figure della parentela, della santità e dell’onore) che quelli archeologici
(colti in un intreccio tra linguaggio familiare, religioso e cavalleresco). Ciò che vorrei illustrare qui è come ad articolare tale discorso, tra gli anni francesi
e il 1848, intervenga anche, con forza e con efficacia, quanto abbiamo definito come
una modalità di narrazione e di espressione melodrammatica, cioè una struttura di
rappresentazione nata e cresciuta nell’Europa postrivoluzionaria, basata su un’estrema
amplificazione emotiva e su un manicheismo morale dai toni altamente spettacolari.
Nei suoi specifici dispositivi essa diviene, anzi, l’asse portante di quella narrazione
politica. Stiamo parlando di una costruzione narrativa dai connotati definibili come
prepolitici, nel senso che costituiscono il sottofondo condiviso di un movimento patriottico
che si trova poi ad elaborare e a proporre per la questione nazionale soluzioni politicamente
molto diverse.
Molto è stato scritto in anni recenti sulle narrazioni storiche nazionali nell’Europa
ottocentesca, la loro forza mitopoietica, i loro veicoli diffusivi. Sappiamo come nei diversi paesi gli storici di professione, figure di studiosi sempre
più riconoscibili e riconosciuti nella loro posizione scientifica e civile, abbiano
avuto un ruolo centrale nella loro creazione e diffusione, che avviene però in un
quadro di interscambio vario e articolato con altri generi di narrazione: la letteratura
di finzione, il teatro, la pittura storica, e persino forme di rappresentazione minori
come gli spettacoli ottici – panorami e diorami – o un arsenale di oggetti e dispositivi
materiali propri del cosiddetto «nazionalismo banale». Molti veicoli narrativi contribuirono in sostanza a definire e a diffondere gli
intrecci, gli episodi, gli eroi, i simboli visuali delle master narratives nazionali, cioè di quelle potenti strutture narrative che legittimano e danno significato
alle comunità della nazione.
Nel caso italiano questa interazione è stata particolarmente vivace e ha comportato
un sorta di mutuo supporto, talvolta di supplenza e spesso di interscambiabilità tra
produzioni testuali diverse. Romanzi e melodrammi, novelle e drammi in prosa, insieme
alla pittura e ai saggi storici, hanno contribuito a forgiare e ad amplificare una
narrazione del passato nazionale che, come quasi ovunque nel periodo, assegnava un
ruolo chiave al Medioevo, un’età dipinta in chiaroscuro e compresa tra confini piuttosto
incerti che tendevano a giungere fino al Cinquecento. Una porosità molto particolare tra i generi e le forme narrative distingue la produzione
culturale del periodo, producendo continui adattamenti e riappropriazioni di intrecci
e di personaggi tra letteratura di finzione e opere di storiografia, ma anche tra
romanzo, poesia e teatro. Sono travasi testuali continui e per lo più multidirezionali,
di cui risulta difficile, e forse poco proficuo, rintracciare una linea genealogica
precisa. È un’infinita galleria di specchi, ha scritto Alberto Banti, «in cui le fiction rimandano alle esperienze reali, che rimandano ad altre invenzioni ancora». Lo suggeriva peraltro già Cesare Balbo ai futuri storici nella frase posta in epigrafe:
districare la storia politica da quella letteraria sarebbe stata per gli storici futuri
un’impresa impossibile. Quanto possiamo ritenere per certo è il ruolo decisivo di
trait d’union tra storia e finzione svolto dall’opera del ginevrino Sismondi, in particolare dalla
sua Storia delle repubbliche italiane de’ secoli di mezzo. Simonetta Soldani l’ha sagacemente definita una sorta di «naturale “magazzino di
trovarobe” per chiunque volesse parlare della “storia del rinascimento della libertà
in Italia”, o meglio della Storia del risorgimento, de’ progressi, del decadimento e della rovina della libertà in Italia, come Sismondi stesso volle intitolare la prima traduzione italiana dell’edizione
ridotta delle Repubbliche, uscita a Lugano in due tomi nel 1833, e offerta ad appena due lire e mezzo a volume».
L’opera, in modo particolare nella sua versione sintetica più commerciale, rappresentò in effetti in quegli anni una vera e propria riserva di episodi storici
perfettamente attualizzabili e adatti ad ogni evenienza, anche a livello locale o
municipale. Così, dalla vicenda duecentesca dei Vespri in cui il popolo siciliano si rivoltava
contro il dominio francese, fino all’epica vittoria sui germani del Barbarossa da
parte dei comuni della Lega lombarda, dalla rinascimentale disfida di Barletta tra
cavalieri italiani e francesi fino alla morte eroica di Francesco Ferrucci nell’assedio
fiorentino da parte delle truppe imperiali di Carlo V, numerosi episodi della storia
nazionale – per lo più già presenti nella storiografia settecentesca, ma riattualizzati
con forza dall’imponente narrazione sismondiana – finirono per costituire la trama
figurale di un percorso verso l’indipendenza dallo straniero che acquisisce forma,
solidità ed efficacia comunicativa attraverso veicoli diversi.
Il vario trattamento di quegli episodi nella letteratura del periodo avviene infatti
quasi indifferentemente, persino da parte dello stesso autore, sul piano della finzione
e su quella della ricostruzione storica, forme di narrazione dai confini ancora mobili
e incerti. E, d’altronde, ciò che le accomuna è appunto il potere attribuito alla
dimensione narrativa, garanzia di un avvicinamento immediato all’esperienza del passato. Cesare Balbo – che fu insieme storico, letterato e uomo politico – prima di scrivere
il Sommario della storia d’Italia in cui le lotte dei comuni contro il Barbarossa prendevano il nome di «guerra d’indipendenza», aveva scritto parecchi capitoli di un romanzo à la Walter Scott dedicato alla Lega lombarda che sarebbe rimasto incompiuto. Aveva pensato
di fare altrettanto anche Michele Amari per il Vespro siciliano. E d’altronde il suo
avvicinamento agli studi storici era avvenuto sotto il segno di Walter Scott, come
era successo, aveva scritto, per migliaia di altre persone in Europa. Cesare Cantù – anch’egli letterato, storico e patriota – nella seconda metà degli
anni Venti lavorava quasi simultaneamente alla novella in versi L’Algiso o la Lega lombarda, storia di un amore contrastato nel mezzo delle lotte contro il feroce imperatore
germanico, e ai due volumi della Storia della città e diocesi di Como, il comune filoimperiale che si era opposto alla Lega, divenendone il riconosciuto
contraltare. A sua volta Carlo Varese pubblicava, tra la fine degli anni Venti e gli anni Quaranta,
numerosi romanzi storici di sapore ancora una volta scottiano, ma anche una Storia della Repubblica di Genova in otto volumi. Gli autori citati sono peraltro consapevoli di affrontare forme diverse di narrazione
del passato, entrambe legittime e caratterizzate da incroci e arricchimenti reciproci.
Gli esempi potrebbero continuare, ma il punto è che la linea di confine tra la scrittura
di finzione e quella che non lo è risulta in età romantica ancora in via di costruzione,
e si tratta di un confine che assomiglia alla consistenza morbida e permeabile di
una spugna. Lo ha scritto Hayden White analizzando il peculiare realismo narrativo
della storiografia romantica francese, ma appare ancora più vero in Italia dove la professionalizzazione del lavoro storico
procedeva più lentamente e con maggiore fatica. Succede cioè che nei primi decenni
del secolo XIX storici e scrittori di finzione condividessero l’ambizione di sperimentare
nuove forme di ricostruzione del passato, e la distinzione dei reciproci terreni iniziava
appena ad essere discussa e analizzata.
La creazione di un ambito disciplinare istituzionalmente riconosciuto per l’indagine
storica produrrà nella seconda metà del secolo una più netta demarcazione tra le due
scritture, i loro metodi e i loro dispositivi, nonché i loro protagonisti. È un processo
che ha ovviamente tempi e modi diversi nei vari paesi europei. Un percorso per certi
versi simile a quello italiano è stato individuato nel caso ungherese, e più in generale
nei paesi dell’Europa centro-orientale. Anche qui, complice una censura particolarmente
guardinga e una struttura accademica poco definita, i movimenti nazionali ottocenteschi
sono stati accompagnati da una vivacissima produzione storica di finzione; tanto che
ancora negli anni Cinquanta romanzi e saggi storici si pongono ben più su un piano
di reciproca mutualità che non di competizione nel racconto di una storia nazionale
che cresce in contemporanea tra storiografia e finzione.
2. Il dispositivo narrativo
Talora l’immaginazione si trovava a discendere nella realtà,
come nell’impresa della duchessa di Berry in Vandea
della quale si disse che la colpa spettava a Walter Scott
Benedetto Croce, 1932
Più che ritornare sul terreno vario e articolato degli strumenti diffusivi del discorso
nazionale, su cui molto è stato scritto, mi pare sia necessario metterne meglio a
fuoco i dispositivi narrativi, perché lì l’intreccio e lo scambio reciproco tra storiografia
e letteratura di finzione è palese e frequente, e dà forma a una narrazione decisamente
melodrammatica della storia nazionale.
Come abbiamo visto nei capitoli precedenti, la grande popolarità del mélo si era basata sulla costruzione di intrecci semplici e largamente prevedibili, anche
perché fortemente codificati e spettacolari. Il principio drammatico che stava al
cuore di tale formula narrativa, così come si era rapidamente sviluppata nella Francia
di inizio secolo e poi diffusa in tutta Europa, consisteva nella contrapposizione
basilare tra bene e male, tra luce e tenebre. Ad essere rappresentato era un mondo
fatto di opposizioni binarie in cui la virtù, innocenza violata e ridotta al silenzio,
veniva minacciata nella sua stessa sopravvivenza dalla malvagità. Questa trionfava
per gran parte del dramma, ma veniva alla fine inesorabilmente sopraffatta. L’azione
si snodava attraverso una concatenazione di eventi che prevedevano numerosi cambiamenti
di fronte e lasciavano lo spettatore col fiato sospeso, seppur in costante attesa
del consueto lieto fine: dapprima ostacoli, raggiri e macchinazioni di ogni tipo venivano
messi in atto dal malvagio; e poi duelli, inseguimenti, ma anche battaglie d’astuzia
erano combattute dall’eroe per difendersi e riaffermare la propria innocenza. Invariabilmente
la vicenda si scioglieva in due tempi: lo smascheramento della malvagità e l’individuazione
della virtù, dapprima, e la sua liberazione dall’oppressione del male, poi. Il finale
consisteva per lo più in un atto di «riconoscimento» collettivo che riguardava sia
il male che la virtù, e nell’eliminazione violenta del primo che presiedeva alla restaurazione
della seconda. Innocenza violata e virtù trionfante rappresentano dunque, generalmente,
i due poli di partenza e di arrivo della vicenda.
A introdurci nel cuore di quel dispositivo narrativo prendiamo un esempio al tempo
piuttosto noto, più volte tradotto in italiano nonché adattato in forma di opera lirica.
Il conte de’ castelli è il primo titolo della versione italiana di un mélo, Le Pélerin blanc, originariamente messo in scena da Pixérécourt nel 1801 e replicato all’Ambigu Comique
a quanto pare per 386 volte. Uno spettacolo di grande successo nella Parigi postrivoluzionaria che ritroviamo
tradotto, ripreso e adattato in molti modi diversi nei vari paesi europei nei primi
trent’anni del secolo XIX. In Italia esso viene pubblicato a Venezia come «azione
scenica spettacolosa» nel 1806, in una traduzione che si vuole dotata di «varj cangiamenti
per uso del teatro italiano». Conoscerà altre due traduzioni successive, con il titolo più letterale de Il pellegrino bianco, a Padova nel 1818 e a Milano nel 1830. Non abbiamo dati precisi sulle rappresentazioni
nella sua forma in prosa. Ma sappiamo che diventerà opera lirica nel 1838 con il titolo
I due Savojardi per mano del compositore messinese Mario Aspa, un operista prolifico che lavora soprattutto
in ambiente napoletano e predilige intrecci dinamici e larmoyants tratti dal teatro francese. Sarà rappresentata a Napoli, al Teatro del Fondo, nel 1838 e poi anche alla Scala
nel 1841. Si tratta insomma di uno di quei testi minori e oggi del tutto sconosciuti
che testimoniano però di una diffusione vasta, e periodicamente riemergente tra l’inizio
del secolo e gli anni Quaranta, degli intrecci del mélo francese, che ritroviamo dapprima in forma di vere e proprie traduzioni, e poi nella
veste di «adattamenti» che, come in questo caso, non riportano nemmeno il riferimento
al testo originario di Pixérécourt, nonostante ne siano una riproposizione pressoché
letterale. Essi diventano nel corso del tempo degli intrecci allo stato puro, delle
formule narrative riutilizzabili a piacimento che vengono riprese e tramandate come
tali.
Il racconto narra la storia di due fanciulli che si trovano in viaggio in una non
ben delineata Provenza seicentesca (che diventa Savoja nell’opera), poveri vagabondi
senza casa e senza famiglia, dopo che la madre, morendo, aveva lasciato loro solo
una piccola scatola misteriosa da aprire quando avessero raggiunto la maggiore età.
Totalmente ignari delle proprie origini, i due adolescenti nelle loro peregrinazioni
si trovano a incrociare i propri destini con i due malvagi che molti anni prima avevano
incendiato il castello e ucciso il conte loro padre («l’uomo più saggio e amabile
della Provenza»), dato per morto ma di cui mai era stato ritrovato il corpo. Si tratta
della baronessa de’ Castelli, nipote del conte, e del suo fido ministro Orlando. Entrambi
ne conducono ora le tenute, non essendo mai stata provata la loro responsabilità nel
dramma originario. Nel castello i fanciulli ignari incontrano anche altri personaggi,
e in particolare un torvo servitore, che si fa passare per sordo, di non ben chiare
origini tedesche. Si tratta in realtà del conte stesso, sopravvissuto all’incendio
e tornato sotto mentite spoglie nella sua terra alla spasmodica ricerca dei figli
che ora finalmente vede di fronte a sé. Come quasi sempre accade negli intrecci a
struttura melodrammatica, sono però i malvagi a fare avanzare l’azione con i loro
intrighi incessanti. Scoperto con l’inganno il segreto dei due giovani vagabondi,
gelosamente conservato nella scatolina materna, i due scellerati progettano infatti
di sbarazzarsene uccidendoli col veleno. E ci sarebbero certo riusciti se le loro
macchinazioni non fossero state sventate dal servitore stesso, alias il conte de’ Castelli, che nella scena finale si svela al mondo, rivela le loro malefatte
e ritrova gioiosamente i figli perduti.
È qui molto ben riconoscibile il quadro narrativo tipico dei cosiddetti melodrammi
«classici» ed è facile immaginare la popolarità e il successo di storie di questo
tipo, caratterizzate da un ritmo narrativo incalzante, da numerosi colpi di scena,
da un coinvolgente crescendo patetico. Diversamente dalle due maggiori forme drammatiche
(la commedia e la tragedia), il momento finale del mélo non è mai rappresentato da una riconciliazione delle parti, evidentemente impossibile
in una così netta contrapposizione tra buoni e cattivi, né tanto meno da una situazione
nuova e diversa, più o meno positiva rispetto a quella di partenza. Consiste invece
nel riconoscimento e nella ricostituzione di quest’ultima: l’innocenza originaria
viene collettivamente svelata e liberata da ogni fraintendimento, oltre che da ogni
oppressione e ingiustizia, ritornando al proprio stato iniziale. In questo senso, sostiene Peter Brooks, il melodramma può essere visto come un «dramma
sull’occultamento dell’innocenza», che attraverso una serie di prove può riaffermare
se stessa e la propria piena leggibilità di fronte al mondo. Non a caso il momento
del «riconoscimento» e dell’auto-nominazione dell’innocente protagonista («io sono
colui che...») rappresenta nei testi a struttura melodrammatica, si pensi al Conte di Montecristo di Dumas, uno dei momenti più spettacolari e più densi di pathos presenti in queste storie.
La narrazione della patria italiana oppressa dal malvagio dominio austriaco, così
come si costruisce nell’esperienza cospirativa e attraverso quell’interazione tra
storiografia e finzione di cui si è detto, ricalca fedelmente questo dispositivo e,
come vedremo, in alcuni casi ne ripropone anche in modo letterale gli intrecci e i
ruoli. Oppressa, ingannata, misconosciuta, la patria italiana è, manzonianamente,
«un volgo disperso che nome non ha». Solo riconoscendo se stessa e smascherando l’infida
malvagità dell’oppressore che da secoli grava sul suo terreno potrà ritrovare quell’unità
e quella grandezza originaria che un destino secolare di dominazione straniera aveva
minato e occultato. Non si tratta peraltro di una narrazione nuova. Essa rielabora
una serie di elementi provenienti da altre strutture discorsive, ma li condensa in
un racconto dai toni melodrammatici che risulta più moderno, comprensibile ed emozionalmente
coinvolgente.
L’apporto più profondo che confluisce direttamente in quel racconto, e si intravede
tra le sue pieghe, è quello della tradizionale narrazione millenaristica cristiana
basata sull’attesa di un futuro diverso che ineluttabilmente restaurerà l’ordine perduto. Ma sul piano più contingente va considerato anche il peso di una più recente narrazione
della storia letteraria nazionale che aveva avuto origine fuori d’Italia, e più propriamente
nel mondo francese e inglese, a cavallo tra XVII e XVIII secolo. Marcello Verga ha mostrato in modo molto convincente come una tale narrazione basata
sul binomio decadenza-rigenerazione, che Benedetto Croce descriveva come una sorta
di master narrative originaria degli studi italiani, fosse stata fatta propria dal mondo letterario italiano
nel corso della seconda metà del Settecento. E avesse conosciuto una nuova, potentissima fortuna nel primo Ottocento grazie a
un significativo scivolamento dal campo letterario a quello politico. L’idea della
decadenza postrinascimentale della penisola, della perdita di un’antica grandezza
in ragione di una serie di congiunture tra le quali soprattutto la lunga dominazione
spagnola, aveva finito cioè per affermarsi dapprima come paradigma dei discorsi sull’Italia
letteraria, confinando nell’oblio e nella marginalità il barocco italiano, e poi come
canone di interpretazione storico-politica codificato da tutte le ricostruzioni del
periodo, a cominciare dall’opera estremamente influente di Sismondi. Questa peraltro,
lo ha rilevato Adrian Lyttelton, doveva esser stata un vero e proprio tonico per gli
studi italiani e in generale per l’autorappresentazione degli intellettuali. Per Sismondi l’Italia aveva infatti insegnato al mondo la pratica della libertà
nell’età d’oro dei comuni medievali, rappresentando una sorta di raggio di sole nell’Europa
feudale, e trovandosi tuttavia a perdere ogni potenzialità all’inizio del Cinquecento,
sotto il peso dell’oppressione straniera. Tale passaggio sarebbe divenuto il perno
intorno a cui spiegare la secolare crisi italiana e anche costruire l’ipotesi di un
inevitabile slancio di riscatto come liberazione da quell’oppressione.
Così Cesare Balbo, nella sua veste di storico, a stretto ridosso della rivoluzione
quarantottesca, poteva descrivere un paese che in un breve momento (precisamente tra
il 1492 e il 1559) aveva perso tutti i vantaggi della libertà, e insieme ad essi la
sua operosità e la sua indipendenza, per sprofondare in una vera «decadenza». Era
una lettura che gli consentiva però – e qui sta il punto – di vagheggiare altri possibili
destini, allora perduti ma che la penisola poteva ben sperare di recuperare: «Se si
fosse continuata quest’opera dell’unione degli Stati, senza invasioni, senza preponderanze
straniere, Dio sa qual magnifico destino sarebbesi venuto ordinando fin d’allora all’Italia!
Dio nol volle, pur troppo».
Insomma la dominazione straniera aveva impedito uno sviluppo che appariva radioso
e sprofondato il paese nel più nero declino. È il riconoscimento fondamentale di quel
passaggio, lo svelamento di un’oppressione contro cui mobilitarsi, a costituire la
molla decisiva per la resurrezione attuale.
3. Oppressione e riscatto
La rifondazione profonda del discorso storico che si realizza intorno all’idea e alla
realtà delle nazioni produce anche in Italia, come nella maggior parte dei paesi europei,
una focalizzazione forte, in funzione essenzialmente mitopoietica, su di una lunga
età medievale che si protraeva fino al primo Cinquecento. Era un periodo molto utile
alla configurazione del discorso nazionale, poiché finiva per ricomprendere sia la
grandezza dell’età comunale che il declino prodotto dal dominio straniero, sia il
dramma delle «civili discordie» che avevano contrapposto città e Stati italiani, che
la speranza costituita da quei tentativi di riscatto, basati sul superamento dei conflitti
e l’afflato di federazione, a cui il presente poteva utilmente alludere e richiamarsi.
Quello di cui si parlava era un Medioevo che traboccava di passionalità e di furore.
Se un’accentuazione del pathos narrativo, una vivida euforia emozionale percorreva tutte le narrative dei paesi
che si trovavano a dover conquistare la propria indipendenza, nella narrazione patriottica risorgimentale il registro emozionale toccava punte
di un vero «parossismo delle passioni», per utilizzare un termine tipico del registro
melodrammatico. Quando Carducci parla delle Fantasie di Berchet – la poesia che più aveva divulgato l’immagine salvifica della vittoria
di Legnano – sostiene che quei versi non si potevano recitare «senza ruggire», ed
è indubbio che una carica di furente indignazione percorre quello come la gran parte
dei testi patriottici del periodo.
Se dunque condivideva con gli altri paesi tutta una serie di elementi (l’uso del passato
come serbatoio di memorie, la contrazione del tempo storico che attualizzava e ideologizzava
il Medioevo ponendolo in uno straordinario flusso di continuità col presente), il
caso italiano presentava anche delle peculiarità: in primo luogo il ruolo preminente
svolto dalle narrative di finzione, poi la centralità attribuita al dispositivo decadenza-risorgimento,
infine un emozionalismo esasperato che percorreva il racconto della storia nazionale.
L’elaborazione di una narrazione così strutturata, in cui un destino secolare di oppressione
veniva squarciato da singoli, brevi momenti di rivolta o di riscatto, si configura
e si codifica tra la fine del Settecento e gli anni Quaranta dell’Ottocento, in un
percorso intessuto di richiami al presente del tutto espliciti. Le declinazioni potevano
ovviamente essere diverse ed enfatizzare il ruolo di attori diversi. Così una lettura
neoguelfa insisteva sul ruolo chiave svolto dal papato nella lotta contro il Barbarossa,
mentre quella neoghibellina enfatizzava episodi in cui la Chiesa e gli invasori stranieri
marciavano nella medesima direzione. Ma il dispositivo narrativo rimaneva immutato.
A proporne una prima forma di politicizzazione era stata la letteratura democratica
e patriottica del cosiddetto «triennio giacobino», trovando un portavoce influente
in Ugo Foscolo e diffusori convinti in personaggi già più volte citati come Matteo
Galdi, Giuseppe Lattanzi o Melchiorre Gioia. Nei decenni successivi però, quelli della Restaurazione e dunque di una censura
molto presente, un tale discorso indissolubilmente storico e politico aveva trovato
la sua espressione prevalente nella finzione, dove si era codificata una serie di
episodi e personaggi spesso provenienti da Sismondi, ma riletti sulla scia di Scott.
La letteratura, il teatro, la pittura conoscono così una vera e propria invasione
di storie medievali o cinquecentesche facilmente inquadrabili come episodi di ribellione,
di resistenza, di affermazione degli italiani contro un’ingiusta e barbara oppressione:
così i molti episodi legati alla calata in Italia del Barbarossa, l’epopea dell’assedio
di Firenze, le vicende del Vespro siciliano, o, più prossimo nel tempo, l’episodio
della rivolta genovese contro gli austriaci nel 1746.
Sono tutte storie in cui la persecuzione di un oppresso da parte di un oppressore
si identifica in singoli personaggi, nei loro rapporti di odio, amore e tradimento
nel quadro di una comunità ristretta. Tali dinamiche narrative – in particolare il
triangolo eroe, eroina, traditore – sono state ben illustrate da Alberto Banti, ma
le opere da lui prese in esame sono solo la punta dell’iceberg di una produzione molto
più vasta. Per ogni Niccolini, Guerrazzi, D’Azeglio o Hayez, numerosi sono infatti
gli imitatori e gli epigoni, non solo di Scott ma degli scrittori italiani stessi:
letterati, drammaturghi o pittori minori, eruditi cittadini che si misurano con la
narrazione patriottica del passato nazionale e contribuiscono a reiterare e consolidarne
i tratti, magari a scala locale. Si pensi, per fare un solo esempio, alla quantità
delle rappresentazioni dei Vespri siciliani che si susseguono tra gli anni Venti e
gli anni Cinquanta, in forma di tragedie, di pitture, di melodrammi e di poemi, rivisitando
un plot che al pubblico doveva essere a quel punto ben noto: la rivolta contro la
dominazione sempre più aggressiva degli angioini.
A caricare di un crescente valore simbolico, e nel contempo passionale, tale materiale
del passato sono personaggi di orientamento politico diverso: dai più ferventi repubblicani
mazziniani ai più tenaci sostenitori della monarchia, a riprova del fatto che si tratta
di una narrazione che percorre trasversalmente il quadro risorgimentale. Ciò risulta
particolarmente evidente non solo nella letteratura ma nella produzione storiografica,
che aveva conosciuto negli anni Quaranta una decisa intensificazione e, insieme, un
vero e proprio crescendo di amplificazione emotiva, che, nel registro utilizzato,
tendeva a distaccarsi nettamente dalle originarie narrazioni sismondiane. Quando Michele
Amari pubblica nel 1842 il volume sulla guerra del Vespro, per il quale sarà costretto
a fuggire all’estero, l’obiettivo politico è evidente e nemmeno troppo celato. Egli
scrive anzi che non nasconderà «né l’amore né l’ira: perché uomo invano promette spogliarsene
ove narri i fatti degli uomini». Giuseppe La Farina, che già nel 1844 aveva curato la riedizione delle Rivoluzioni d’Italia di Denina, si era misurato con una Storia d’Italia narrata al popolo italiano pubblicata nel 1846 in vari volumi. Qui si rifaceva esplicitamente a Sismondi, ma
mostrando un ben diverso afflato emotivo.
L’insistenza sul binomio decadenza-risorgimento si accompagnava infatti a un linguaggio
crudo e violento, teso a mostrare come l’Italia fosse stata prostrata da varie dominazioni
e come «tutto divoravano gli avidi e insaziabili tedeschi». Compaiono così descrizioni come la seguente, imbevuta di una vera estetica dell’orrore:
«La Sicilia è messa a fuoco e a sangue da Arrigo VI che fa inchiodare corone di ferro
rovente sulla testa delle sue vittime; Milano è oppressa da Galeazzo II che fa divorar
gli uomini vivi dai cani, e trova modo di far morire i ribelli in quaranta giorni
con supplizi che la mente rifugge di ricordare; Siena è assediata, saccheggiata, insaguinata
da Tiberio mediceo; Firenze è contaminata di stupri ed inondata di sangue dall’infame
Alessandro».
Persino il Sommario storico di Balbo, pubblicato nel medesimo anno, non si sottraeva a una forte accentuazione
emotiva, presentando in sequenza i racconti dell’Italia decaduta e dei suoi tentativi
di riscatto, e mostrando con chiarezza il suo imprinting politico. Erano i primi tentativi di una storia generale d’Italia di cui lui stesso, lo abbiamo
ricordato, aveva lamentato la mancanza: un libro di storia «leggibile, volgarmente,
universalmente, nazionalmente letta», da mettere anche nelle mani dei giovinetti.
Nel 1848 sarà lo stesso Balbo a tradurre il volume sulla storia della Lega lombarda
dello storico tedesco Johannes Voigt, simpatetico verso il Barbarossa, proponendone
una sorta di inversione di significato e dedicandolo agli eroi delle Cinque giornate,
le cui imprese avevano emulato e superato quelle dei cavalieri comunali a Legnano.
Alla fine degli anni Quaranta il quadro d’insieme di tale narrazione era non solo
compiutamente strutturato, ma proposto e diffuso in molti linguaggi e media diversi.
I suoi principali tasselli (personaggi, episodi, immagini del passato) erano consolidati
e pronti ad essere oggetto di una pubblicizzazione più ampia, attraverso dei compendi
di storia per i giovinetti, o a prender vita nella propaganda politica vera e propria.
Certo non mancano gli assestamenti successivi, che aggiungono o tolgono qualcosa alla
narrazione costruita in quegli anni. Alcuni episodi storici, che inizialmente entrano
a far parte della master narrative condivisa, si ritroveranno ad esempio ad essere forzatamente espulsi in ragione di
pieghe inaspettate degli avvenimenti. Si pensi alla vicenda di Caterina Segurana,
la giovane donna plebea che nel 1543 si voleva avesse fermato la conquista di Nizza
da parte dei turchi e dei francesi, e che col passaggio di Nizza alla Francia perderà
tutte le ragioni d’essere inclusa nella storia della nazione italiana. Altri episodi,
invece, verranno aggiunti. Così numerosi racconti di eroiche difese di singole città
dal tentativo di conquista delle truppe straniere, recuperati dal passato locale e
proposti in numerose cronache o romanzi dotati di una struttura narrativa pressoché
identica. La gloriosa difesa di Vercelli dall’attacco dell’esercito spagnolo nel 1617
diventa, per fare un solo esempio, un vero episodio di «guerra d’indipendenza nazionale,
di libertà», ricostruito dallo storico e romanziere bresciano Costanzo Ferrari.
Nessuna di queste aggiunte successive pare acquistare la forza simbolica a scala nazionale
che gli episodi originari si erano ormai conquistati, ma consolideranno i contorni
postunitari di un crescente patriottismo municipale che andrà ad articolare di molte
eccellenze locali il mito dell’epopea risorgimentale.
4. Dal passato al presente: il triennio 1846-49
Il lungo Quarantotto costituirà un tornante sostanziale sul piano della comunicazione
e della diffusione di questa master narrative, soprattutto poiché ne produrrà la trasposizione esplicita nel presente della dominazione
austriaca. E la sua trasformazione in vero e proprio discorso politico, almeno virtualmente
aperto a una comunicazione allargata. Per la prima volta usciva infatti allo scoperto
– nelle piazze, sui giornali, nei teatri – un movimento politico che nelle sue varie
anime era fino ad allora cresciuto nella clandestinità. L’esperienza del Quarantotto,
è ben noto, ha rappresentato in Italia un’occasione straordinaria di estensione geografica
e sociale dei confini dell’opinione pubblica e degli strumenti comunicativi a sua
disposizione, verbali, visuali o gestuali che fossero.
Nel corso di quel triennio si assiste al proliferare impressionante della stampa periodica
e delle forme più varie di comunicazione delle notizie: avvisi, fogli volanti, bandi,
manifesti, libelli di ogni foggia segnano un paesaggio politico e comunicativo radicalmente
rinnovato. Un tale profluvio di parola stampata si distende a tal punto e in modo
inedito sui centri urbani piccoli e grandi della penisola da divenire oggetto anche
di raffigurazioni caricaturali, come quella che mostra “L’Arlecchino”, uno dei molti
giornali satirici del periodo, in una vignetta dove un passante viene letteralmente
tramortito dagli strilloni che lo circondano cercando di vendergli giornali («un accesso
di cartofobia», recita la legenda). Nel vario universo di questa propaganda patriottica la presenza di riferimenti alla
storia nazionale è costante, quasi martellante. Cenni anche fugaci agli eroi piccoli
e grandi della secolare lotta allo straniero percorrono con ossessiva continuità gli
inni, le poesie, i discorsi, le avvertenze, i catechismi politici dei mesi rivoluzionari,
ricordando a tutti i simpatizzanti della causa nazionale che era necessario fare come
a Pontida e come a Legnano, cioè affratellarsi nella comune lotta all’invasore, o
comportarsi con il coraggio e lo sprezzo del pericolo mostrati da Balilla a Genova
o da Giovanni da Procida in Sicilia.
Si tratta di un materiale propagandistico abbondante, e particolarmente disperso nelle
biblioteche italiane, che meriterebbe un’analisi a tappeto per indagarne con sistematicità
i principali elementi narrativi e linguistici. Risulta tuttavia chiaro, anche a uno sguardo più episodico, che nel passaggio quarantottesco
la storia nazionale fatta di decadenza e rigenerazione acquisisce tratti più apertamente
melodrammatici, che si richiamano talvolta in modo letterale agli intrecci e alle
situazioni di quella letteratura di consumo che anche in Italia cominciava a muovere
i primi passi. È il combinarsi, nelle storie degli eroi italiani e dei malvagi austriaci,
di violento manicheismo etico e senso di ineluttabile redenzione che impregna di melodrammaticità
tutto, o quasi, il materiale quarantottesco, oltre a una serie di altri elementi più
specifici. Mi riferisco all’amplificazione emotiva del registro linguistico, a un
linguaggio dei ruoli che fa di ogni personaggio la perfetta personificazione di facoltà
morali astratte, alla presenza costante di immagini di sangue e di violenza tese ad
accentuare la portata insostenibile della persecuzione.
Prima di ogni altra cosa, è la struttura stessa del discorso patriottico a ricalcare
il senso profondo del melodramma, ossia la lotta angosciosa per il riconoscimento
dell’innocenza come conquista di libertà e di identità. Un nemico-tiranno opprime,
sevizia, perseguita la patria italiana che da secoli giace inerme sotto il tallone
dello straniero. «Un giusto fremito di indignazione per l’innocenza tradita, per la
virtù oppressa, per l’infamia in trionfo» percorre la popolazione; cito da un proclama
napoletano dell’8 settembre 1848 che pare tratto da uno dei più classici mélo. È una comunità afflitta e misconosciuta che deve risorgere dalle ceneri e dai patimenti,
cacciando lo straniero, ma nello stesso tempo riconoscendo se stessa e facendosi riconoscere.
Nella seconda metà degli anni Quaranta, quando questa narrazione esce dai circoli
elitari della cospirazione per coinvolgere una popolazione numerosa e composita, essa si propone sia sotto forma di narrazioni più popolari, ad esempio storie d’Italia
raccontate al popolo, sia, come vedremo, nella veste di veri e propri culti patriottici
o di performance collettive.
Il nemico stesso, l’austriaco, riconosce l’importanza e la pervasità di questa narrazione,
la sua straordinaria capacità di suscitare empatia, anche a livello internazionale,
e il suo prescindere da ogni atto gli austriaci potessero effettivamente compiere.
Il conte Hübner nel suo resoconto degli eventi se ne dimostra ben consapevole e sottolinea
come «lo spirito nazionale si è sviluppato dappertutto», nonostante dal punto di vista
materiale la Lombardia non potesse a suo dire lamentarsi troppo del dominio straniero. E un veterano austriaco che pubblica a caldo i suoi ricordi dai campi d’Italia sostiene
che «l’odio contro l’Austria corrose e s’insinuò sì profondamente negli Stati italiani
e nella vita del popolo che nell’anno 1848 faceva esplosione [...]. Chi leggesse i
giornali senza visitare o studiare di persona l’Italia doveva credere che il paese
fosse caduto con la dominazione austriaca nella più profonda barbarie. In realtà nuova
floridezza, nuove strade che proseguono l’opera di Napoleone, grande sviluppo di Milano
ma anche di Venezia».
Eppure, scrive, «non v’era arbitrio di cui non fosse accusato il Feldmaresciallo Radetzky».
Tanto che non ci si poteva sorprendere troppo se la stampa straniera «si mostrò oltre
ogni credere malevola e ingiusta». Persino l’antagonista per eccellenza, il conte di Metternich, sembra ben conscio
di tutto ciò. In un memorandum del 1846 egli sottolineava che la «rigenerazione» era
divenuta il «fine costante» dei patrioti italiani, accompagnata da una rappresentazione
a tinte molto fosche della persecuzione subita: «Ad ascoltare tutti questi scrittori
è l’Austria che impedisce alla penisola di prendere il volo verso i suoi gloriosi
destini che l’attendono; così la nuova epoca non potrebbe datarsi, secondo loro, che
dal giorno in cui crollerà il dominio dello straniero».
Durante il triennio del lungo Quarantotto italiano lo sforzo di popolarizzare la lettura
sentimental-patriottica del passato e del presente nazionale esplicita la melodrammatizzazione
del conflitto e la articola variamente facendola divenire una delle cifre più forti
dell’intera vicenda. Da un lato, la narrazione della storia nazionale ripete, in un
calco anche puntuale, i dispositivi del racconto melodrammatico. Dall’altro, la propaganda
politica si serve ampiamente delle tecnologie di una nuova cultura mediatica, assume
un registro comunicativo imperniato sull’espressione accentuata e trasparente delle
emozioni e mostra, lo vedremo meglio, un’insistita volontà di drammatizzazione del
conflitto stesso.
Un ruolo chiave in questo sforzo immaginativo, all’insegna di una modalità melodrammatica,
è svolto da Mazzini, alla cui infaticabile azione internazionale si deve, ad esempio,
l’intuizione relativa alle grandi potenzialità politico-mediatiche della figura di
Garibaldi. Lucy Riall ha ricostruito con notevole maestria la complessa costruzione
giornalistica che nella seconda metà degli anni Quaranta, ben prima del suo arrivo
in Italia, fa crescere la fama di Garibaldi come combattente internazionale per la
libertà e le attese nei confronti di un suo impegno nella causa nazionale. Proprio
quella campagna si articola facendo ricorso al dispositivo tipicamente melodrammatico
dello smascheramento delle ingiustizie subite. La presentazione dell’eroe-soldato
e delle sue imprese sudamericane al pubblico nazionale e internazionale è giocata
infatti da Mazzini, che ne scrive in varie sedi compreso il “Times”, intorno all’idea
di una «persecuzione mediatica» ordita ai danni suoi e della Legione italiana a Montevideo
dagli avversari locali. Era una campagna che faceva di lui un avventuriero, un mercenario,
un ladro avido e pericoloso; ma erano insulti squallidi e vili che Mazzini si affrettava
a smascherare attraverso la pubblicazione di una lettera in cui si dimostrava tutta
la sua passione disinteressata per la libertà. Egli addita così contemporaneamente alla pubblica opinione sia la crudeltà dei suoi
nemici che le virtù da lui dimostrate, a fronte delle dure prove a cui era stato sottoposto.
Aveva subìto l’ingiustizia, la prigione e le torture, era stato sospinto all’illegalità
da una grande passione, aveva combattuto un nemico sovrastante con pochi uomini male
armati e mostrato un coraggio eccezionale. È una narrazione semplice e potente che
porta il lettore a una scelta morale obbligata, e che funziona anche, melodrammaticamente,
come forma di rassicurazione. Garibaldi ha dato agli italiani fiducia in se stessi,
avrebbe detto di lui più tardi Cavour, e ovviamente il giudizio era legato al suo
ruolo chiave nelle vicende successive. L’efficacia di quell’immagine, come sappiamo
amplificata nei due decenni seguenti da veri e propri romanzi, è connessa però anche,
già a partire dall’avventura americana, al ricorso a una formula narrativa melodrammatica
di facile e immediata ricezione.
5. Storie d’Italia raccontate al popolo
Correte, o miei libretti, io vi lento la briglia, volate come le foglie portate dal
vento, penetrate nei borghi e villaggi, posatevi sull’aratro del contadino, fatevi
leggere dall’artiere appoggiato all’incudine sua, fatevi sillabare dai fanciulli e
dalle donne. Per questo effetto io vi scriveva in facilissimo modo. Raccontate loro
per quanti motivi dobbiamo bestemmiare i tedeschi. Perché hanno ucciso i nostri padri,
hanno rovesciato le nostre città, hanno scannato i nostri fratelli [...]. Crescete
in essi l’odio contro quella esecrata genìa [...]. E mentre noi li ammazzeremo nelle
contrade le donne, i vecchi e i fanciulli dai campanili, dai tetti delle case li ammazzino
con tegole, sassi e olio bollente.
In alcuni casi, come quello cui appartengono queste righe, la storia nazionale diventa
oggetto di una divulgazione popolare specifica, una sorta di racconto pedagogico a
episodi. Si tratta di una piccola collana di volumetti storici intitolati Libri per il popolo, pubblicati tra la primavera e l’estate del 1848 da una tipografia torinese nata
in quegli anni, la Baricco e Arnaldi, e presto nota per le iniziative rivolte a un
pubblico più largo del consueto. Tra le migliaia di pubblicazioni patriottiche, opuscoli, inni e componimenti di
occasione che vengono pubblicati in tutta Italia nel corso di quell’anno, questi libretti
si distinguono, e meritano uno sguardo ravvicinato, sia perché sono il frutto di un
piccolo progetto editoriale ad hoc, che non si fermerà ma proseguirà in altra forma a Quarantotto terminato; sia perché
otterranno un notevole successo di pubblico di cui abbiamo qualche riscontro anche
quantitativo. L’autore è un personaggio interessante e non molto noto, forse anche
perché di difficile collocazione nella vulgata risorgimentale.
Felice Govean era un patriota piemontese allevato come da copione in una famiglia
di solide tradizioni giacobine. Il padre e prima di lui il nonno avevano dimostrato
aperta adesione agli ideali rivoluzionari. Oltre che della politica la sua formazione
era stata all’insegna dell’amore per il teatro. Così almeno sostiene Vittorio Bersezio
commemorandolo nel 1898 e promuovendo un comitato per erigere a Torino un monumento
che fosse dedicato a colui che definisce un «vero tribuno delle pubbliche libertà». Proprio perché aveva sognato di scrivere drammi come Schiller e di recitarli come
Modena, in gioventù era fuggito dall’impiego d’ufficio per entrare in una compagnia
comica milanese. Solo le necessità della vita lo avevano costretto a uscirne per apprendere
un vero e proprio mestiere, cioè l’arte del tipografo, che pure non aveva soffocato
del tutto la sua sensibilità teatrale. Rientrato a Torino nel 1846, a ventisette anni,
si era avvicinato al gruppo dei democratici piemontesi, personaggi come Domenico Carbone,
Michele Lessona o Giambattista Bottero. A quest’ultimo lo legherà una lunga collaborazione
giornalistica. La sua prima iniziativa editoriale era stata proprio la serie dei libretti
di cui stiamo parlando, dedicati agli eroi popolari della lotta allo straniero e messi
in vendita dalla Baricco e Arnaldi a un prezzo particolarmente basso per incoraggiarne
la diffusione.
Il primo era dedicato al giovane eroe Balilla, colui che aveva dato il via alla grande
insurrezione antiaustriaca di Genova del 1746, il piccolo Davide lanciatore di pietre.
I libretti seguenti si occupavano degli altri eroi di questa storia italiana letta
in chiave rigorosamente patriottica, lungo un filo pienamente coerente che metteva
a fuoco una serie di tentativi di liberarsi dal dominio straniero, germanico in particolare.
Erano testi molto brevi che raccontavano in forma romanzata e avventurosa, con uno
stile di facile lettura, episodi a quel punto molto noti di una storia «figurale»
della nazione italica, entrati nel comune sentire patriottico grazie ai molti veicoli
di cui si è detto e alla fortissima sensibilità narrativo-simbolica della propaganda
mazziniana. Al Balilla seguono dunque tutti i protagonisti del copione ben noto, e cioè Ferruccio, i Vespri siciliani, Masaniello, Segurana e quattro episodi di una saga del Barbarossa composta dai titoli seguenti: Il giuro di Pontida, Stamura di Ancona, L’assedio di Alessandria, la Battaglia di Legnano. La collana non sarà del tutto completata, per il precipitare degli avvenimenti bellici
e l’urgenza di altri progetti editoriali, ma sette dei nove titoli previsti vengono
rapidamente pubblicati e raccolgono un successo di pubblico piuttosto straordinario.
La preoccupazione che muoveva il giovane Govean in questa sua prima iniziativa viene
riferita in «due parole» al proprio pubblico contenute nelle prime pagine del volumetto,
dove l’autore esprime in modo colloquiale, di voluta intimità coi lettori, quanto
ha in animo di fare. Si contano sulle dita di una mano, scrive, i benemeriti tipografi che in Italia
avevano stampato libri «per due soldi». Al grande veneziano Remondini era succeduto
il Pomba, vero «imperatore dei tipografi». Infine a Torino ci aveva provato Alessandro
Fontana con la Biblioteca mista economica. Ora però si trattava di prendere un’iniziativa più decisa promuovendo una vera e
propria svolta nell’offerta editoriale proposta alle classi incolte, poiché «sarebbe
bene dare un colpo di scopa a certe immondizie come ad esempio Bertoldo, Bertoldino
e Cacasenno, la bella Magalona, Guerin Meschino, i Reali di Francia [...] unitamente
a certe porcherie di miracolose bugiarde leggende [...] fatte per addormentare i popoli».
Era tempo cioè di trovare un’alternativa convincente alla tradizionale editoria a
basso costo, quella fatta di almanacchi, satire del villano e raccontini di genere
cavalleresco, la cui fortuna straordinaria e persistente era ben nota e persino citata
da Manzoni nei Promessi sposi. Govean proponeva di sostituire testi di quel tipo con «opuscoletti che con semplice
e non tartaro stile imparassero al minuto popolo la storia dei gloriosi fatti nazionali,
dei nostri eroi, dei nostri uomini celebri di non chimerica esistenza», in un certo
senso riprendendo e ricalibrando in funzione civile il gusto popolare per la storia
dei «cavalieri antiqui».
Al centro doveva esservi dunque la storia nazionale di servaggio e di oppressione,
perché suscitasse sdegno e indignazione nei lettori e li incitasse a partecipare a
una battaglia comune. «Il popolo che fa la giornata ignora il come e la causa per
cui certe faccende successero perché non ha tempo di leggere i libri grossi [...].
Ho pensato di cominciare dalla prima radice del male che produsse poi lo sforzo per
isbarbicarla, onde il popolo abbia un filo, tenue se volete, ma pure continuato, principiando
dal quale vedrà da come e da quando i Tedeschi cominciarono a darci noia la prima
volta, e crebbe poi tanto che finì a Legnano!».
Si trattava insomma di dare spessore storico all’odio per i tedeschi come perenni
oppressori, e di farlo con storie avventurose e avvincenti che inducessero all’emulazione
degli eroi del passato. La crucialità di quest’ultima ragione è ben espressa nella
chiusa del Balilla che recita così: «Popolo italiano, questa è una pagina della tua
storia. Imparala. E possano gli storici futuri, scrivendo la storia dei nostri tempi,
registrare nei loro volumi molti nomi che assomigliano a Micca, a Ferruccio o al giovane
Balilla».
A quella prima serie di opuscoli storici avrebbe dovuto poi affiancarsi una seconda
serie di uscite dal titolo Fatti storici moderni e dedicata ad alcune figure contemporanee, ma già pienamente entrate nel pantheon
degli eroi di italianità. Erano Pio IX, Giuseppe Garibaldi, Vincenzo Gioberti e i
fratelli Bandiera. A riprova di quanto, nella primavera del 1848, i personaggi e gli
episodi citati fossero già immediatamente evocativi della causa patriottica, alcuni
degli opuscoli recano in epigrafe la relativa strofa dell’inno di Mameli (o, meglio,
di «Mamelli», come viene riportato a fianco delle seguenti celebri frasi: «i bimbi
d’Italia si chiaman Balilla», «Ognuom di Ferruccio ha il cuore la mano», «dall’Alpi
a Sicilia dovunque è Legnano»).
Di che tipo di storie stiamo dunque parlando?
6. Qualche cifra e un po’ di commercio
Prima di entrare nella struttura di quei racconti è importante notare il fatto, del
tutto infrequente per questo tipo di materiale effimero, per formato e natura, che
sappiamo qualcosa sulla sua effettiva diffusione, a quanto pare assai elevata rispetto
agli standard editoriali italiani. Nella quarta uscita – quella dedicata a Stamura
di Ancona – si leggeva infatti un ringraziamento al pubblico per il grande favore
con cui aveva accolto l’iniziativa editoriale. Ad esso erano accluse alcune cifre.
Del primo opuscolo uscito, quello su Balilla, erano state vendute 12.000 copie e stampate in tre mesi quattro edizioni. Poco meno
aveva venduto il Ferruccio, mentre la prima edizione del Giuro di Pontida era durata un solo giorno ed era stato necessario ristamparla immediatamente. Non
possiamo tentare comparazioni con pubblicazioni analoghe, ma la portata non comune
di queste cifre risulta più chiara se consideriamo che i due maggiori giornali liberali
creati a Torino dopo l’editto di parziale liberalizzazione della stampa nel 1847,
il “Risorgimento” di Cavour e la “Concordia” di Lorenzo Valerio, potevano contare
su di un pubblico che non superava i 1500 abbonati, quindi su un bacino molto più
stretto di lettori. “La Patria”, il giornale moderato più importante di Firenze, contava 600 abbonati
nel 1847, che sarebbero diventati 1200 l’anno successivo, in linea con le tirature
torinesi. Nella commemorazione di Govean già citata, Bersezio sostiene che nessun libro a
quella data aveva mai raggiunto in Italia «tanta copia di esemplari» e ciò aveva procurato
lauti guadagni all’editore. Stiamo parlando dunque di libretti che circolano ampiamente (seppur in un’area probabilmente
limitata, Torino e il Piemonte), e raggiungono un’audience più larga di quella che
normalmente si avvicinava al dibattito politico.
Se c’è in tale iniziativa una volontà politica evidente e manifesta, non mancano però
i risvolti commerciali, due piani che in figure come Govean si intrecciano indistricabilmente.
Le prime leggi di liberalizzazione della stampa, nel 1847, e l’abolizione della censura,
nel 1848, aprono in effetti agli editori, e agli imprenditori di cultura in genere,
un campo di azione fino ad allora precluso e che ora viene ampiamente sfruttato. Si
pensi ad esempio agli editori musicali. Già dal 1846 sia Ricordi che Lucca avevano
individuato negli inni patriottici uno dei prodotti maggiormente in sintonia con la
fase che si stava vivendo e al momento ben più vendibili degli spartiti consueti.
Li immettono quindi in abbondanza nei loro cataloghi, oltre che nelle pubblicità inserite
nelle pagine dei giornali. Allo stesso tempo, e per la prima volta, promuovono nei teatri testi operistici
incentrati su temi patriottici (come farà Ricordi, normalmente assai cauto in proposito,
con la Battaglia di Legnano nella Roma repubblicana). Quella e altre opere meno dichiaratamente impegnate vengono
pubblicizzate in quei mesi facendo leva proprio sulla loro vicinanza col presente.
Quando l’unica opera apertamente patriottica di Verdi, non a caso dedicata all’episodio
della Lega lombarda, viene messa in scena all’Argentina nel gennaio del 1849, trova
un pubblico a dir poco predisposto ad accoglierla.
Troviamo alcuni accenni a questi aspetti commerciali nelle corrispondenze e nei diari
di viaggio dei numerosi osservatori stranieri che, nel corso del 1848, attraversavano
il paese, soprattutto in quelli più critici nei confronti delle lotte in corso. Quando
Charles MacFarlane, un conservatore inglese che ritroveremo meglio più avanti, risalendo
la penisola a partire dalla Sicilia si ferma nel 1848 ad Arezzo, nota che i caffè,
sempre affollati, hanno spesso nuovi nomi dai connotati politici. Si chiamano Resurrezione
o Risorgimento, caffè della Libertà e dell’uguaglianza, o dell’Indipendenza italiana.
Passeggiando per Foligno si ferma presso un libraio-tipografo e rimane sorpreso nel
vedere il tipo di materiale esposto nella bottega. Tutto, sostiene, è all’insegna
delle vicende del presente: da opuscoli e proclami spesso non autorizzati e ardenti
di furore patriottico, alle opere complete di Gioberti, agli scritti di quello «stark
mad of Gavazzi»; e poi Mazzini, Guerrazzi e D’Azeglio. Nessun libro di letteratura, di arte o di
storia che non parlasse di patria era mostrato ai clienti di passaggio.
La vivacità del commercio di giornali e di fogli volanti doveva poi essere davvero
straordinaria, nella sua novità. Un patriota boemo che si trova a Napoli nel febbraio
del 1848 descrive il nuovo commercio che si era andato rapidamente creando in questo
modo: «Sorse così una nuova industria e specialmente nella via principale chiamata
Toledo, vi era un gran numero di bancarelle, in parte ambulanti in parte stabili,
con tutti i neofiti della stampa liberata. Si vedevan pure molti fogli singoli di
tutti i giornali siciliani e i proclami dei capi della rivolta siciliana [...]. Così
molti lazzaroni si procurarono nuovi mezzi di guadagno».
I risvolti commerciali vanno peraltro ben oltre la parola scritta e riguardano prodotti
di più largo consumo: così le acque minerali Nazionali o intitolate a Pio IX, pubblicizzate
dai produttori torinesi Riccardi e Bonino su “Il Mondo illustrato”, o ancora i dolci che nelle pasticcerie invogliavano i clienti con i colori papali.
Le forme e i percorsi del commercio delle emozioni patriottiche che si diffonde in
quel triennio sono stati ancora poco indagati e meriterebbero invece uno sguardo più
ravvicinato, nonostante la reticenza delle fonti. Non si tratta di «smascherare» gli
intenti commerciali nascosti dietro agli slanci ideologici, quanto di mostrare la
loro perfetta convivenza e il loro intreccio, come indotto della liberalizzazione
del mercato e della sua forza dirompente.
Lo testimonia il percorso stesso di Govean che, dopo il notevole – forse insperato
– successo dei libretti storici per il popolo, ottiene dal proprio editore il via
libera per un progetto più duraturo che sarà la “Gazzetta del Popolo”, un nuovo giornale
concepito per parlare di politica a un pubblico ampio. Gli opuscoli sulla storia d’Italia
sono dunque parte di un progetto articolato di riforma della comunicazione politica,
che ne facesse arrivare i messaggi a quei lettori che non erano in grado di capire
«le astruserie del Risorgimento, della Opinione e della Concordia» garantendo un formato
«a cui le facoltà del povero possano arrivare ed egli possa averne qualche utilità».
La nuova testata sarebbe stata diretta dallo stesso Govean e da Bottero, e inizia
le pubblicazioni il 16 giugno del 1848. Vede dunque la luce in una fase ormai avanzata
della guerra, quando all’entusiasmo della prima ora era subentrata la delusione per
l’andamento del conflitto e la presa di distanza papale dalla causa nazionale. Il
successo di pubblico è in effetti notevole, se comparato con le tirature degli altri
giornali torinesi. Nel 1850 il nuovo foglio conta 10.000 abbonati, che nel 1853 arrivano
fino a 14.000. Si può ipotizzare che le cifre siano sovrastimate dai protagonisti della vicenda,
se la relazione dell’ambasciatore inglese Hudson nel 1853 parla invece di 8000 abbonati,
ma si tratta in ogni caso di numeri a cui il mercato italiano, ancora a scala cittadina,
non era abituato.
Il requisito decisivo per spiegare tale popolarità era innanzitutto il prezzo decisamente
più contenuto rispetto agli altri giornali (5 centesimi rispetto ai 40 del “Risorgimento”
e ai 20 della “Concordia”). Ma vanno rilevati anche altri elementi di popolarizzazione, come il formato più
piccolo e maneggevole, o l’immediatezza del linguaggio, che richiedeva costanti interventi
dei direttori nella direzione di quella «semplicità, brevità, chiarezza» che già nel
primo numero si dichiarava come cifra stilistica fondamentale della testata. Tale
sforzo doveva avvenire a costo di veri e propri interventi redazionali sui testi provenienti
dai corrispondenti esterni, che i direttori giustificavano con l’intento di «vestirli
con parole adatte alle capacità di tutti».
Con Felice Govean e le sue iniziative ci troviamo così di fronte al più compiuto tentativo
editoriale quarantottesco di rendere accessibile la politica a un pubblico più vasto.
La melodrammatizzazione narrativa delle vicende storiche nazionali si inquadra in
questo medesimo sforzo e diviene parte di una cruciale opera divulgativa degli obiettivi
politici del movimento risorgimentale. Dal punto di vista strettamente politico la
posizione del giornale varia in effetti nei mesi e negli anni, passando da posizioni
filogiobertiane (un Gioberti presentato come «grande unificatore») a un marcato anticlericalismo
che tenderà a intensificarsi negli anni seguenti. Rimane ferma comunque la fedeltà
a un liberalismo costituzionale saldamente monarchico e lo scarso interesse per le
posizioni mazziniane, nonostante l’entusiasmo e il sostegno che verrà dato alle repubbliche
di Roma e di Venezia. Più che le posizioni politiche assunte, ciò che caratterizza quest’esperienza e
la rende degna di nota è il formato stesso della testata, il target che si propone
e la sua battaglia per l’istruzione e la lettura popolari. Tali elementi si coniugano
peraltro con un’attenzione costante rivolta a iniziative di forte impatto mediatico:
di volta in volta si propone la sottoscrizione per una spada d’onore a Garibaldi (il
condottiero sotto la cui guida «anche i fanciulli in pochi giorni diventano eroi»); oppure la costruzione del famoso obelisco alle leggi Siccardi; o ancora la raccolta
di fondi per dotare di cannoni la fortezza di Alessandria, quella stessa che Govean
aveva reso protagonista di uno dei suoi libretti di storia per il popolo e di una
pièce teatrale scritta nei giorni immediatamente successivi all’entrata degli austriaci
nella città.
Anche nel caso della “Gazzetta” gli aspetti commerciali dell’iniziativa sono ben chiari
e vengono anzi potenziati lungo il cammino. A partire dal secondo anno, il 1849, il
giornale prevede un supplemento intitolato Omnibus, che comprende annunci e inserzioni a pagamento sotto l’egida del motto «la pubblicità
aiuta il commercio». Di nuovo si rintraccia qui l’intreccio stretto con la politica. Tra le inserzioni
spiccano infatti quelle relative a pubblicazioni patriottiche di varia natura, come
la Biografia iconografica degli uomini celebri che dal secolo X fino ai dì nostri fiorirono
nei paesi oggidì componenti la Monarchia di Savoja, una carrellata di immagini di celebrità storiche, o romanzi storici tratti da episodi
della recente rivoluzione lombarda.
7. Violenze, inganni, assedi: la sentimentalizzazione della politica
I raccontini storici di Govean risultano particolarmente significativi del travaso
pressoché letterale di una modalità melodrammatica nella narrazione nazional-patriottica
e il loro successo di pubblico suggerisce che la formula doveva mostrare una certa
efficacia. Si tratta di un dispositivo narrativo che ritroviamo con sorprendente frequenza
in molte altre tipologie di testi pubblicati tra il 1846 e il 1849, sia documenti
della propaganda sul campo che racconti e cronache della rivoluzione in corso o appena
terminata. In particolare l’emozionalismo che li caratterizza si esprime in una sorta
di realismo iperbolico che tende a insistere, quasi con compiacimento, nella rappresentazione
della violenza e del sangue, facendoci comprendere appieno la distanza culturale che
ci separa da quelle vicende.
Tutto ciò si inquadra in un ben preciso linguaggio dei ruoli moralmente connotato:
i personaggi che popolano tali racconti sono sempre definiti da epiteti di ordine
morale che li qualificano in modo immediato agli occhi del lettore e dell’ascoltatore.
Come la figura maligna del traditore, che nei melodrammi è «quanto di più crudele,
di più orribile, di più abominevole racchiudono la terra e gli abissi infernali», così l’oppressore della patria, attuale o storico che sia, è sempre «spregevole»,
«infame», «insolente», «turpissimo», «abile nell’arte del raggiro» e «capace di gettar
fango a piene mani sul popolo italiano». Quando non un «barbaro» sanguinario, nell’accezione
politica che tale termine aveva assunto nel triennio giacobino come antonimo di «civilizzato».
Non meno estrema è la personificazione della virtù, i cui patimenti raggiungono punte
parossistiche. Le cronache di quei giorni riportano le storie di giovani volontari
che baciano gli arti che sono loro amputati, come reliquie dei giorni migliori della
loro vita; di feriti che sopravvivono giorni succhiando il lembo di un lenzuolo bagnato;
di tormenti e sevizie di ogni tipo inflitte ai patrioti, come nei moti calabresi del
settembre 1847, dopo i quali – si narra – «a qualcuno furono trafitte con chiodi le
tempie, ad altri fu strappata la barba».
Un tale modo di definire il nemico, da un lato, e gli eroi o le eroine, dall’altro,
si ripete in varie tipologie di testi. I toni più crudi e più violenti li ritroviamo,
come ovvio, nei testi della propaganda rivoluzionaria, cioè nei discorsi, nei proclami,
nelle avvertenze rivolte ai cittadini per sollecitare il loro sdegno e invitarli a
prendere le armi e a partecipare alla sollevazione in atto.
I barbari vittoriosi tutto vi rapiranno, tutto vi incendieranno: le vostre donne stuprate,
i vostri figli scherniti e trafitti serviranno di solazzo e di gioia alle sanguinarie
loro brame (Bologna, agosto 1848).
Fino a tanto che un sol Tedesco armatamente nemico profana col suo barbaro piede il
suolo italiano; fino a che l’afa e il puzzo della sua immondezza ammorba intorno intorno
questa terra [...] non possiamo intuonar ancora l’inno di libertà (Venezia 1848).
E il nemico non si dà per vinto. Copre di tranelli ogni terra, si getta sulle donne,
sui fanciulli e sui vecchi per le vie di Milano [...], bagna di sangue innocente Treviso,
scanna a Padova, corre assassinando a Milano, intima il silenzio col ferro, con l’esilio,
coi patiboli (Milano, maggio 48).
Di fronte a tali atrocità il movimento patriottico è sollecitato a una sorta di entusiasmo
del sangue:
Piemontesi, trucidiamo i tedeschi! All’ira nostra sia soltanto superiore l’ira di
Dio quando incenerisce col fulmine. [...] Insorgete, o popoli Piemontesi, a trucidare
i scellerati, i ladri, gli assassini, i Tedeschi! (Torino 1849).
I nemici sono spesso dipinti come capaci di violenze inaudite sui più deboli e indifesi,
che paiono costituire l’oggetto insistito della loro attenzione. Soldati austriaci
o gendarmi italiani al loro servizio sono descritti mentre maltrattano vecchi accattoni
agli angoli della strada, mentre prelevano dal proprio letto ammalati e moribondi
per condurli in prigione, o mentre fanno scendere la sciabola sul capo di una bambina
di sei anni. E se, come nell’episodio riportato da “La Patria” nel luglio del 1847,
può succedere che la bimba si salvi grazie alla prontezza del padre, l’esito può essere
non meno drammatico, se la marchesa Pallavicini presente alla scena si trova ad abortire
per lo spavento.
Come in ogni melodramma che si rispetti, i protagonisti, che sono anche le vittime
riconosciute della vicenda, sono personaggi per costituzione deboli e fragili (vecchi,
donne, bambini spesso orfani, malati), ma dotati di un coraggio, di una forza di volontà
e di un’astuzia che li rende capaci di vincere l’evidente superiorità del nemico,
la sua propensione al tradimento, la sua mancanza di rispetto per ogni legge morale.
Vittime strutturali, sono state definite, e dunque apparentemente senza difese rispetto a malvagi che tendono a usare il loro
potere in modo fraudolento. Al contrario il persecutore è spesso un uomo di potere,
o comunque una figura tutt’altro che ai margini della società, pienamente dotato della
capacità di parola e di azione, e portato al tradimento, al raggiro, alla frode per
raggiungere i propri obiettivi. La capacità di inganno è anzi, spesso, la prova provata
della bassezza morale dei malvagi, a cui non si può che reagire con altrettanta astuzia.
È interessante notare come anche in buona parte delle opere storiche pubblicate negli
anni Quaranta – quelle più politicamente orientate – il linguaggio e l’articolazione
narrativa risultino molto simili. Tra gli episodi dell’oppressione straniera, una
delle situazioni più codificate e impregnate di violenza è indubbiamente l’assedio,
dove truppe soverchianti e comandanti senza scrupoli riducono alla fame e alla disperazione
comunità indifese. Oltre ad essere un luogo consueto di innumerevoli melodrammi (si
ricorderà il Tékéli di Pixérécourt di cui abbiamo già parlato), l’immagine della città assediata dal
nemico ricorre con frequenza nelle master narratives nazionali europee. Basti pensare all’assedio di Buda da parte dei Turchi nel 1541,
che diviene una delle immagini più classiche della narrazione patriottica ungherese,
nella finzione e non. Nel caso italiano le diverse discese in Italia del Barbarossa
sono segnate da una lunga sequenza di assedi terribili su città affamate, tentativi
feroci e subdoli di far soccombere le popolazioni a cui spesso rispondono sforzi di
resistenza e di riscatto.
Nella seconda metà degli anni Quaranta i racconti dedicati a episodi di assedio si
moltiplicano e seguono formule molto simili, così come le narrazioni storiche in senso stretto. Cesare Balbo nel 1846 scrive
delle atrocità commesse dal Barbarossa nelle sue discese in Italia con un linguaggio
di estrema crudezza teso a rimarcare la ferocia dell’imperatore: «Federico fa da barbaro
impiccar i prigioni dinanzi alle mura [...] inferocisce, uccide gli ostaggi adulti
e attacca i bambini a una torre di legno che s’avanzava secondo l’uso dell’assalto».
Cesare Cantù nel 1844 descrive un Barbarossa assetato di sangue che «rimandava con
le mani tronche o senz’occhi i Milanesi che coglieva». Giuseppe La Farina illustra l’assedio di Ancona del 1174 riportando numerosi episodi
di crudeltà e di coraggio tra cui il seguente, che merita di essere citato per il
suo carattere davvero truculento:
La fame cresceva: mangiavasi cuoio macerato, erbe selvatiche, ortiche di mare. Gli
uomini cadevano sfiniti per inedia. Una gentil donna, giovine e bella, passando presso
Porta Balista, col suo lattante nelle braccia, vide un guerriero giacente a terra,
languente e moribondo per fame. «Sono quindici giorni, ella gli disse, che io non
mangio che cuoio, ed il latte comincia a mancarmi: pure alzati, e se il mio seno ne
contiene ancora qualche goccia, appressa le tue labbra, e ristorati per difendere
la patria». Il guerriero alzò il viso, conobbe la donna, vergognossi della generosa
offerta, riunì le forze estreme che gli rimanevano, si rizzò, imbracciò lo scudo,
imbrandì la spada, si lanciò furibondo sugli assedianti, ne uccise quattro... cadde
e spirò!
È spesso il tradimento la chiave di lettura dell’intera vicenda, come leggiamo di
nuovo in La Farina: «Leggendo i cronisti contemporanei sorge nell’animo il sospetto,
non la fame, ma il tradimento aver messo Milano nelle mani del Barbarossa. Il conte
Guido di Biandrate comandava le milizie milanesi, nonostante che la sua fede fosse
parsa sospetta in una giornata co’ Pavesi [...]. A me pare di scorgere in Guido uno
di quegli uomini che si mettono a capi de movimenti politici e, sotto la maschera
della moderazione e della prudenza, spengono la pubblica energia, sfiduciano il popolo
e tradiscono la patria».
O il suo succedaneo, l’inganno, come nel racconto dei tentativi dell’imperatore Arrigo
IV di prendere Roma: «Da un suo partigiano dicesi facesse appiccar fuoco alla basilica
vaticana sperando che i romani, accorrendo ad estinguere l’incendio, lascerebbero
le mura indifese; ma l’accorto Gregorio, anziché sguarnire rinforzò con nuovi combattenti
le mura: aggiungono spegnesse l’incendio con un segno di croce».
Molti di questi episodi trovano riscontro, lo abbiamo detto, nella Storia delle repubbliche di Sismondi. Qui però l’analisi tende ad essere più articolata e soprattutto meno
passionale. Descrivendo la discesa di Federico in Italia, l’intellettuale ginevrino
riporta ad esempio numerosi episodi di saccheggio, ma non si sofferma su particolari
cruenti e insiste piuttosto sulla difficoltà incontrata dall’imperatore nel tenere
a bada le intemperanze e le violenze del suo esercito, non certo sulla presunta «crudeltà»
del Barbarossa. Anche la storia molto nota dei bambini appesi alla torre mobile come
ingegnoso espediente per domare la resistenza della città di Crema, raccontato da
Balbo e da molti altri, viene segnalato nella Storia delle repubbliche con toni privi di brutalità e tanto più di compiacimento.
Più simili alle storie raccapriccianti appena viste sono i racconti proposti dai soliti
librini di Govean, anche se qui la vicenda è abbreviata, romanzata e arricchita di
personaggi che aggiungono alla storia un sovrappiù di audacia e avventura. «Lo sterminato
esercito del Barbarossa, composto per gran parte di gente barbara e spietata, veniva
giù come un torrente spianando le italiche città», scrive Govean. Era dotato di macchine da guerra di ogni sorta, ma il coraggio e la capacità di
resistenza degli abitanti costringevano il Barbarossa a stringerle d’assedio. La narrazione
metteva così a fuoco dei personaggi di eccezionale valore. Ad Alessandria l’eroe della
vicenda è un anziano pastore di nome Galiaudo che, servendosi di un vecchio e smisurato
spadone, fa giurare a tutti gli abitanti della città, convenuti sulla pubblica piazza,
di non cedere ai patimenti e ai pericoli, e di morire pur di non arrendersi alla signoria
tedesca. Quando poi i generali nemici fingono di concedere una tregua alla città per
il Venerdì santo, mentre preparano in realtà un feroce attacco notturno, è Galiaudo
stesso a sventare il piano diabolico: entra con l’astuzia nel campo tedesco, assiste
di nascosto alla macchinazione e avvisa i concittadini dell’attacco imminente.
Ad Ancona invece i due eroi che si incaricano di sollecitare e rappresentare l’ardimento
collettivo sono una giovane vedova e un prete. La prima si rivolge ai suoi concittadini
facendo roteare una minacciosa scure sopra l’elmo di ferro che mal arrivava a coprire
le sue trecce bionde. «O uomini, vi avranno dunque a insegnare le donne come per la
patria si debba morire?», così gridava mentre guidava la reazione contro le micidiali
macchine da guerra tedesche che premevano da terra. Il prete nel frattempo si dedicava
al fronte del mare, dove le navi veneziane alleate col Barbarossa cercavano di impedire
ogni tentativo di fuga da parte degli assediati. Fra una gragnuola di frecce, come
nella sequenza di un film d’azione, l’uomo di chiesa, che era anche ottimo nuotatore,
riusciva a raggiungere le navi veneziane e a tagliare con una scure le loro àncore
mandandole alla deriva.
Gli stessi dispositivi narrativi, indubbiamente moderni nella loro capacità di afferrare
l’attenzione del lettore, si ritrovano infine in molti dei racconti delle giornate
rivoluzionarie, nelle cronache, nei pamphlet, nei romanzi che vengono pubblicati nei
mesi e negli anni immediatamente successivi. Anche qui trovano spazio dei modesti ma valorosissimi eroi, in tutto simili a quelli
degli antichi assedi; e violenze talmente atroci che, come scrive qualcuno, «la mano
trema e s’indebolisce nel sostenere e guidare la penna».
Una delle più crude e densa di elementi sensazionalistici è la cronaca che Ignazio
Cantù, fratello di Cesare, figura ben nota nel mondo editoriale lombardo, dedica al
racconto delle Cinque giornate. Le sue pagine riportano le prodezze di molte figure
sconosciute che, nel furore dei moti, si rivelano capaci di azioni straordinarie:
Vidi un francese delirante pel trionfo della nostra causa con cinque colpi atterrar
cinque avversari; un cacciatore de’ nostri contorni ne atterrò otto in pochi minuti,
e così si dica di altri. [...] Un vecchio, visto un po’ di scoraggiamento: avanti,
disse, il mio petto vi farà da scudo! [...]
L’ostiere Carlo Carati di Corsico tra le palle nemiche superò due volte le mura con
notizie al Governo provvisorio; Antonio Leoncini, a chi voleva distorlo dall’assalir
il castello assiepato dai tedeschi rispose: le palle non offendono chi ha in fronte
il nome di Pio IX. Una signora disarmò tre poliziotti; un’altra uccise altrettanti
Croati, né fu la sola che in quei giorni facesse prodigi di tiro; un gruppo di inermi
ragazzi dagli otto ai dieci anni spogliaron dalle bajonette alcuni soldati [...].
Sul Carobbio un uomo combatteva colla sinistra mano dopo perduta la destra; [...]
un morente scriveva col proprio sangue sulla parete: coraggio fratelli!
Al contempo, la descrizione delle violenze austriache raggiunge dimensioni parossistiche
e fa di Milano un luogo dell’orrore e della strage:
Furono trovati molti bambini o infranti alle muraglie o calpesti sul suolo; un gruppo
di otto era trattato a quel modo; due altri inchiodati a una cassa, due bruciati coll’acqua
ragia, un altro per la bajonetta fitto a una pianta e lasciato là in un’ora di contorsioni
sotto gli occhi materni, un altro gettato sul cadavere della madre lattante perché
continuasse a poppare, uno squarciato in due parti e rilegato coi propri intestini
[...] sul cadavere di un fratello fucilato fu obbligato l’altro fratello a inginocchiarsi
e là trafitto; alcuni arsi vivi nella calce, altri cacciati vivi nelle fogne, nei
pozzi; altri coperti di pece lo stomaco e così abbrustoliti; senza citar i fucilati
nel letto, nelle camere, nei nascondigli [...]. I lontani mi accuseran per lo meno
di esagerato eppure non è che un piccolo saggio delle enormità che commise la loro
prevalenza momentanea di forze.
Un’altra cronaca di quei giorni, anch’essa costellata di «corpi d’uomini e donne massacrati
e mutilati in mille guise ed insultati», definisce tali immagini come impossibili
da trovare «tra genti civilizzate e neppure fra le asiatiche tribù», e degne di perpetuare
«in Lombardia l’esecrazione del nome Austriaco fino alle più lontane posterità».
Si trattava in realtà di immagini non così inconsuete per il lettore del tempo. Ancora
una volta il riferimento al mondo letterario è importante per cogliere quanto tali
modalità di rappresentazione fossero radicate nel contesto culturale ed emozionale
del periodo. In un bel volume in cui intreccia analisi letteraria e indagine storica
Ian Haywood sostiene che i lettori romantici sono esposti, tra la fine del XVIII e
l’inizio del XIX secolo, a un sorprendente diluvio di quella che definisce una «violenza
spettacolare»: storie in cui sangue, cadaveri, mutilazioni, atrocità di vario tipo
percorrono la narrazione sia letteraria che giornalistica, costituendone uno degli
elementi insieme più riconoscibili e meno studiati. E manifestano, se non una predilizione, certo una consuetudine con la descrizione
di spettacoli macabri, crudeli, terrificanti. Non si tratta di sostenere che il periodo
di cui si sta parlando sia più violento di altri, ma di rilevare come si imponga in
quella fase, segnata tra l’altro da eventi rivoluzionari di enorme portata, un particolare
investimento culturale in una rappresentazione della violenza che ne accentua gli
aspetti drammatici, viscerali, visuali. In ultima analisi «sensazionali», se con questo
termine si intende non solo eccezionali e superlativi, ma anche legati ai sensi e
alla sensibilità.
Haywood tende a cogliere in modo particolare l’interscambio che si attiva tra la dimensione
letteraria e la realtà politica del tempo, attraversata ad esempio in Inghilterra
da una rappresentazione particolarmente cruenta della schiavitù che percorre tutto
il dibattito abolizionista. Ma lo scambio è evidentemente a doppio senso, come è piuttosto
evidente nel nostro caso, in un flusso discorsivo che nutre l’immaginazione romantica
e manifesta un forte impatto sul pubblico. Nel caso della narrazione risorgimentale,
in modo non troppo lontano da quanto accade nel dibattito abolizionista, si tratta
di un dispositivo narrativo teso a produrre un messaggio morale dai toni fortemente
emozionali e per questo largamente intelligibili. L’insistenza sugli aspetti più cruenti
e sanguinari della dominazione/persecuzione straniera diventa parte di un discorso
politico che si vuole altamente performativo.
Non tutti gli scritti dedicati al racconto dei moti appena terminati presentano, com’è
ovvio, un livello di brutalità simile a quello dei testi citati, né un completo appiattimento
sulla valutazione sentimentale/morale dell’accaduto. I toni possono essere più moderati,
la narrazione argomentare in modo più articolato e razionale intorno agli avvenimenti
di quei giorni, individuando limiti, difficoltà, ambiguità del fronte patriottico
oltre che delle strategie austriache. E tuttavia anche il commento più razionale non
riesce a sfuggire alle spire di una narrazione melodrammatica che ne rappresenta il
filo più pervasivo e costante. Nella sua analisi delle giornate milanesi, scritta
in Francia nel settembre-ottobre dello stesso anno, persino Carlo Cattaneo finisce
per definire Radetzky «truculento», gli austriaci «un flagello delle nostre famiglie»,
Carlo Alberto «un infame», e il popolo milanese dotato «solo ed esclusivamente di
generosi sentimenti».
Come «modo dell’eccesso» che tende ad accentuare quanto più possibile la drammaticità
e l’intensità della rappresentazione emozionale, il melodramma, secondo Brooks, produce
una sorta di democratizzazione dell’etica attraverso la sua sentimentalizzazione. Tradotto sul piano che più ci interessa significa che rende possibile a tutti, attraverso
il tramite del sentimento, l’accesso alla dimensione politica. Il modo melodrammatico
offre così alla narrativa patriottica della storia nazionale, particolarmente nelle
sue declinazioni democratiche più propense all’emozionalismo, un linguaggio del sentimento
e della virtù che risulta accessibile ed efficace, un racconto capace di raggiungere
gli strati più profondi della sensibilità di ognuno e di produrre l’immediata identificazione
empatica con le vittime.
8. Il lessico dell’emotività tra colloquialità e arcaismi
Un’amplificazione del registro emotivo si rintraccia nella lingua stessa del 1848
che in molti casi, lo abbiamo visto per la “Gazzetta del Popolo”, diviene oggetto
di un’attenzione specifica da parte dei patrioti. Era evidente che per parlare a molti
servivano chiarezza, semplicità, immediatezza, come appunto si auspicava nel fondare
quel giornale, ma anche la politicizzazione del vocabolario morale e affettivo andava
in quella direzione. Un significativo precedente era rintracciabile nelle esperienze
del triennio giacobino. Per definire una lingua della politica, e renderla comprensibile
ai più, l’unico riferimento possibile risaliva a quel lontano momento di altissima
tensione militante che anche in Italia aveva segnato una vera e propria rifondazione
del linguaggio pubblico, seppure ancora limitata sul piano della reale popolarizzazione.
In effetti i richiami tra i due periodi sono piuttosto evidenti: oltre al reiterato
utilizzo in chiave politica del linguaggio dei sentimenti (amore, odio, virtù, umanità,
ma anche baci, abbracci, lacrime) tra gli elementi di più esplicita continuità con
il triennio repubblicano troviamo la dichiarata centralità accordata al pubblico,
che anche nel materiale politico quarantottesco, sia giornalistico che pamphlettistico,
è ben presente nella forma di appelli, avvertimenti, avant-propos rivolti ai lettori.
La lingua del Quarantotto si caratterizza in effetti spesso per un insistito colloquialismo
che sembra mimare un rapporto immediato, seppur evidentemente virtuale, tra gli scriventi
e il loro pubblico. Prendiamo ancora una volta i volumetti di Govean. Essi per lo
più iniziano o si concludono con un appello dell’autore al proprio pubblico che adotta
il registro tipico della lingua parlata e la tecnica consueta della presenza fisica
di una audience, come nello spazio concluso di una sala teatrale: «Perciò, buon popolo
italiano, dacché sembra che non t’annoia troppo il discorrerla con me, seguiterò ancora
a tenerti compagnia; già, siamo tutti della stessa famiglia, ed è probabile che andremo
d’accordo da buoni fratelli».
E ancora: «Popolo lettore che già tanto benevolmente accogliesti queste mie povere
pagine di storia che non con merito ma col cuore e coll’animo io scrivo per te, a
rivederci, e presto, alla battaglia di Legnano. Là ti dirò come fu trattata la pace
e come fu rotta infimamente».
L’intento che sembra sottostare a tale pratica è duplice. Da un lato sottolineare
l’importanza accordata al destinatario e alla parola d’ordine della piena intelleggibilità;
dall’altro rispondere all’esigenza di provocare l’azione e indurre comportamenti.
Quella del Quarantotto, sostiene Erasmo Leso, è al massimo grado «una lingua conativa,
espressiva, coniugata al futuro, luogo della performatività in cui talvolta dire e
fare coincidono». I richiami al pubblico rappresentano un’esortazione, più o meno enfatica, alla comunanza
di vedute, all’azione collettiva o alla condivisione virtuale dell’entusiasmo patriottico.
Non disponiamo per il 1848 di uno studio puntuale sulle strutture linguistiche del
discorso patriottico, ma gli studiosi di storia della lingua sono concordi nel rilevarvi
un notevole grado di innovazione lessicale, che si esprime d’altronde anche in una
rinnovata passione vocabolaristica. È significativo che Pomba e Baricco e Arnaldi,
due editori impegnati sul fronte divulgativo, pubblichino tra il 1848 e il 1851 due
dizionari che vogliono delimitare nei suoi contorni, e proporre al pubblico, una lingua
della politica utilizzabile anche dai non letterati. Il Dizionario politico edito da Pomba si rivolge alla gioventù italiana e dichiara l’obiettivo di «sparger
nelle moltitudini i rudimenti della Politica, della quale tanti ora si fanno maestri,
senza aver pur mai toccato colle labbra gli orli del vaso che ne chiude i segreti». Quali che fossero le sorti che il destino preparava per l’Italia – monarchia costituzionale
o repubblica democratica – era necessario «apparecchiarne i libri elementari» e il
lessico faceva parte di quei requisiti. In realtà il volume non prevedeva novità di
particolare rilievo, individuava soltanto alcuni lemmi nuovi che richiamavano per
lo più a esperienze straniere. È il caso ad esempio del termine «abolizionista [...]
per indicare quelli che avversano la schiavitù dei neri»; o del più vicino «albero
della libertà», simbolo che si dice di origine ignota ma ben presente anche nella
memoria politica italiana.
Più interessante, a partire dal formato stesso, risulta invece il dizionario politico
popolare promosso dalla “Gazzetta del Popolo”. Esce infatti in otto dispense mensili
di piccolo formato, con un programma dai risvolti pratici espressi chiaramente nelle
consuete indicazioni al lettore che in apertura suggeriscono quanto segue: «Quando
leggi la Gazzetta del popolo, o vai alle Camere, o siedi a un banchetto di operai,
oppure ascolti le chiacchiere dei politici da caffè e rimani a bocca aperta sentendo
profferire una parola che non mastichi bene, cioè non intendi, tira fuori il Dizionario
della propaganda e fatti istruire da esso. E ti prometto che in un mese di tempo tu
possederai il linguaggio politico».
Quale lingua viene dunque proposta dal nuovo dizionario? Pietro Trifone vi rileva
una certa creatività lessicale, espressa sia in numerosi neologismi che arricchiscono
il linguaggio politico fino ad allora conosciuto, sia in una sua più marcata specializzazione.
Significativa a questo proposito la presenza consistente di termini stranieri, francesi
ma non solo, come testimonia ad esempio il lemma meetings. È un caso che mostra quanto anche il lessico risenta della natura transnazionale
del movimento risorgimentale e delle sue esperienze nell’esilio. È inoltre ben visibile,
e si esprime in dispositivi di vario tipo, una preminenza del contenuto emotivo su
quello semantico. Lo si rileva nell’utilizzo frequente di forme di rafforzamento dei
significati come «ultra» (ultracodini, ultraradicali), oppure «one» (codone); nella
sottolineatura di specifiche coppie oppositive (progresso/conservazione; liberali/retrogradi);
nella definizione di alcune parole cruciali come quella di rivoluzione, «la parola
santa del popolo» che reazionari e moderati usano «in senso peggiorativo e a mo’ di
spauracchio».
Ciò che più colpisce però nella lingua del Quarantotto, sia in questi tentativi lessicografici
che ancor più nelle modalità espressive utilizzate nei giornali e nel materiale di
propaganda, è l’intreccio e la sovrapposizione di lessici e costruzioni sintattiche
di natura opposta, in una sorta di contraddittoria ma non meno costante oscillazione
tra la volontà di popolarizzare, semplificare, rendere più conciso il linguaggio,
e la persistenza di moduli letterari e arcaici all’insegna della tradizione. È tutt’altro che infrequente trovare nella pamphlettistica e nei discorsi pubblici
voci antiquate o di impiego poetico come «eziandìo» o «poscia»; «doglia» per dolore;
«guatare» per guardare; «sembiante» per volto; «anti vedere» per prevedere; «orare»
per pregare e così via. Abbraccio viene sostituito spesso dal latino «amplesso» o
dall’allotropo «abbracciamento».
Nell’esuberante stagione del nuovo giornalismo quarantottesco si individua indubbiamente
un passo avanti verso l’elaborazione di un linguaggio politico moderno, ma non certo
il superamento delle forme espressive auliche e libresche che continuavano a percorrere
la comunicazione politica oltre a quella letteraria. Continua cioè a prevalere, nell’informazione
come nella propaganda patriottica, una lingua composita in cui forme volutamente colloquiali
tese a rendere popolare e immediata la comunicazione si accompagnano ad arcaismi provenienti
da una cultura dai tratti persino latineggianti. Secondo Andrea Masini, che molto ha lavorato sulla lingua dei giornali ottocenteschi,
ancora dieci anni dopo, alla vigilia dell’unificazione, è l’italiano letterario della
tradizione il vero tessuto connettivo del linguaggio giornalistico. E d’altronde una medesima stratificazione di forme diverse si rintraccia nella gran
parte della cultura romanzesca del periodo, all’interno della quale l’impegno manzoniano
verso l’innovazione linguistica e la «pulizia» comunicativa rimane del tutto eccezionale
e isolato. Lo ha ben argomentato Maria Rosa Bricchi mostrando il prevalere persistente
e generalizzato, nella narrativa degli anni Trenta e Quaranta (successiva al potente
sforzo manzoniano), di un gusto per la parola arcaica, per una lingua anticheggiante
e involuta, di cui Guerrazzi è solo l’esempio più acclarato. La si può interpretare come una sorta di inerzia linguistica, di ossequio alla tradizione
che vuole nobilitare il genere romanzo immettendo in esso parole affidabili e legittimate?
O come un’opzione psicologica prima ancora che stilistica, utile a svolgere una funzione
rassicurante? Ciò che colpisce maggiormente è la contiguità forte tra il piano letterario
e quello della comunicazione politica nel prevalere di un connubio analogo di voci
auliche e medie.
Torniamo così al melodrammatico gramsciano, quella propensione verso una lingua solenne
e aulica che spesso accompagna l’eccesso emozionale risorgimentale, nei testi di finzione
come nell’oratoria quarantottesca, e che si ritrova non a caso ben presente nell’invettiva
dei predicatori, Gavazzi su tutti, dove ben si esplicitano gli echi millenaristici
presenti nel discorso nazional-patriottico. È un emozionalismo che spesso corrisponde a un’enfasi espressiva dai toni profetico-esortativi
in cui abbondano (ancora una volta come nel melodramma) le esclamazioni e le interiezioni,
e l’uso del repertorio retorico della tradizione tende a una sorta di intensificazione
del senso che prevede ad esempio la comparsa frequente di figure tipiche della ripetizione
e della polarizzazione di significato (l’iperbole, l’antitesi, l’ossimoro).
9. Un mélo sul Quarantotto
Una vera e propria summa delle figure, dei moduli narrativi e persino della lingua
tipica del modo melodrammatico si ritrova in un romanzo dedicato alle giornate rivoluzionarie,
pubblicato a Torino dopo la loro conclusione. L’autore scrive di averlo vergato «tra
le lacrime e la durezza dell’esiglio» allo scopo di «commuovere a sdegno ed affetto
tutti coloro che non disperano dell’avvenire». Conviene riportarne per esteso la trama perché riprende tutti gli elementi illustrati
fin qui e ci consente di ricapitolare sul funzionamento del dispositivo nel suo complesso.
Interessante anche notare che il curriculum dell’autore risulta significativo delle
traiettorie di una generazione. Costanzo Ferrari è un letterato e patriota bresciano
noto, almeno localmente, per aver scritto un ennesimo romanzo storico ambientato nel
XIII secolo, nel quadro dell’antica lotta tra Federico II e le città libere tra Parma
e Brescia. Esule a Parigi, dopo il 1848 è pienamente coinvolto nella rete dei fuoriusciti italiani,
guadagna qualcosa facendo traduzioni, svolge attività giornalistica sul “Courrier
Franco-italien”, il giornale fondato e diretto dal patriota siciliano Giacinto Carini.
Nell’esilio postrivoluzionario la sua attenzione si sposta dal passato al presente
per raccontare quella che definisce «una storia di sventura e di sangue, di virtù
e di abbiezioni, a cui tutti prendemmo parte».
La protagonista Maria è una giovinetta bella e vivace, dolce e semplice, pulita, ordinata
e senza grilli per la testa, ma attraversata da un bruciante amor di patria che cerca
con forza di trasmettere all’innamorato Ernesto. Lui era stato fino ad allora costretto
dietro il banco di un negoziante «a respirare cifre e calcoli», quanto di più lontano
dagli slanci dell’emozionalità politica. Eppure viene spinto all’impegno patriottico
dalla ragazza stessa che ne controlla i comportamenti e lo redarguisce con severità
quando si presenta di fronte a lei con il sigaro in bocca, in pieno sciopero del fumo.
Perché tanta passione politica in Maria? «Io sono infelice – spiega lei – ogni dolore
mi veniva da questi bruti, ogni pena da questo paterno governo». Il padre infatti,
capitano dell’armata napoleonica e poi carbonaro, era stato scoperto e costretto all’esilio,
come più tardi il fratello aderente alla Giovane Italia. Prima di fuggire, quest’ultimo
aveva iniziato Maria alla passione patriottica, facendole leggere di nascosto le poesie
di Berchet e le memorie di Pellico. A 15 anni la ragazza fremeva di odio per l’austriaco
e, quando si appressa il momento della rivoluzione, le sue idee sono chiare. Ai timori
del giovane innamorato per i pericoli che stanno correndo, Maria risponde indicandogli
gli immancabili esempi del passato, che costituivano riferimenti ancora freschi cui
richiamarsi: «Ben seppero i Siciliani cacciar i Francesi col loro Vespro – lo tranquillizza
la giovane – Le suoneremo anche noi le nostre campane. [...] Al Balilla di Genova
bastarono i sassi!».
Nelle giornate rivoluzionarie la famiglia si riunisce nuovamente, fervono le discussioni
politiche e si fanno veri e propri giuramenti familiari come questi: «Qui stretti
in famiglia giuriamo guerra eterna di sterminio a quelle belve vestite di umana forma,
ai crudeli che questa terra dilaniano, che gli infelici opprimono, che, non sazii
dei nostri tesori, il sangue stesso ci succhiano. Vendetta! Vendetta! Lo giuriamo!
Gridarono strette le mani i due amanti».
Ernesto e il fratello Giulio partono dunque per Milano e poi per il Tirolo; Maria
rimane a ricamare bandiere e a confortare la madre di Ernesto. Qui interviene, immancabile,
il personaggio del traditore, cioè Antonio, uno speziale, in realtà dedito ad affari
non troppo chiari, che da tempo guardava con interesse alla dolce Maria. Molti segni
del suo aspetto lasciano intuire la reale natura del suo animo, infìdo e ingannatore.
Come in tutti i mélo i segni corporei sono altamente rivelatori. In effetti Antonio è «grassotto nella
persona e zoppicante nel piede sinistro; bruno di carnagione ma di lineamenti regolari;
occhi nerissimi e irrequieti nelle orbite; voce dolce e portamento signorile; maniere
insinuanti; giammai un’emozione violenta che alterasse i tratti del suo volto».
Finita la rivoluzione e cacciati gli austriaci egli si spaccia per patriota e si dimena
con ostentazione tra le barricate, anche se, lo si saprà alla fine, è un informatore
degli austriaci. Trova però anche il tempo di ordire un tradimento sentimentale e
non solo politico, ossia una complicata macchinazione per allontanare Ernesto da Maria.
Assolda cioè a Milano una donna che, facendo leva sulla generosità del giovane, lo
adesca con l’inganno e lo seduce con subdole arti amorose. Finge dunque una gravidanza
e costringe Ernesto a chiederla in sposa, tramite una missiva che Antonio stesso fa
avere all’ignara Maria. Il raggiro è però scoperto da Giulio, fratello di Maria e
amico di Ernesto, che, sotto mentite spoglie, spacciandosi per un viaggiatore di passaggio,
si introduce nella casa della donna e la induce a confessare i retroscena della vicenda.
Il romanzo si chiude, dunque, con un doppio smascheramento: del tradimento privato,
da un lato, e di quello politico, dall’altro, visto che lo spregevole Antonio aveva
venduto agli austriaci documenti, notizie e cifre relative all’esercito italiano.
Nel romanzo di Ferrari il melodramma della nazione – nella sua versione contemporanea
e non solo storica – è perfettamente articolato. I suoi personaggi non sono eroi o
celebrità politiche, ma figure quotidiane, modeste e sconosciute, che vivono tutto
il dramma della persecuzione insostenibile a cui il paese è sottoposto. E cercano
di liberarsene smascherando la malvagità dell’oppressore e riconoscendosi come coraggiosa
e virtuosa comunità di fratelli. Lo fanno con il consueto armamentario di peripezie
e di travestimenti, di fughe e di riconoscimenti, di segni e di violenze che la narrativa
melodrammatica aveva inaugurato e riproposto in mille racconti, di finzione e non,
fin da inizio secolo. E di cui l’epopea risorgimentale continuerà ad arricchirsi nei
decenni successivi.