La mia vita con lei
Nessuno Le disse di non perdersi per lei.
Fray Luis de León
La vecchia Facoltà di Filosofia di Zorroaga aveva un vero bar, di quelli che servono
bevande alcoliche, non una di quelle caffetterie che si trovano nelle università di
oggi, dove la cosa più forte che ti danno da bere è un caffè doppio. Tenevo le mie
lezioni di etica al mattino, tre praticamente di seguito, ripetendo la stessa cosa
in corsi differenti. Cercavo di non cambiare neanche una parola-chiave perché se introducevo
una novità, il giorno dopo avrei dovuto ricordarla per ripeterla alle altre classi
e lo sforzo di memoria avrebbe minato la tranquilla routine delle lezioni. Esisteva
anche un’altra minaccia: gli alunni più entusiasti, non so se masochisti o sadici,
che assistevano a tutte e tre le lezioni una dietro l’altra. Ovviamente, io facevo
per tre volte anche la stessa battuta come se mi fosse venuta in quel momento, con
quella naturalezza di cui sono maestroindiscusso. Ma era difficile fingere spontaneità quando vedevo insinuarsi sui loro
visi un insopportabile sorrisetto complice mentre si avvicinava il momento. Varie
volte provai a dissuaderli gentilmente dall’essere così assidui, ma fallii; si ostinavano
a credere che ci fossero delle significative variazioni nel triplo ritorno dell’identico,
e le loro menti allenate le scovavano nonostante i miei sforzi.
Tra una lezione e l’altra mi precipitavo al bar a bere un bicchiere di vino (o due,
se ritenevo che non avrei dato scandalo) o a mangiare addirittura un pacchetto di
patatine quando avevo un po’ più di tempo. Davanti al bancone, alquanto rozzo, professori
e alunni (questi ultimi riconoscibili dagli enormi panini ripieni di tortilla di patate che erano capaci di divorare in qualunque momento della mattina o del pomeriggio)
erano accompagnati da vecchietti con il basco che bevevano il loro bicchiere di vino
con evidente godimento. Erano gli ospiti della vicina residenza per la terza età (la
quarta non esiste) che scappavano dall’austero istituto per raggiungere un luogo di
libertà dove potevano non solo bere vino, ma anche circondarsi di giovani donne. Nessuna
li degnava di uno sguardo, certo, ma a questo li aveva già abituati la loro lunga
vita. Erano quelli che se la godevano di più in quel bar, che per loro aveva il gusto
del proibito come quelli di Chicago negli anni Trenta.
Accadde una mattina, dopo le mie prime due lezioni. Io stavo finendo in fretta il
mio bicchiere di vino – mentre decidevo se valeva la pena chiederne un altro – e le
mie patatine. In quel momento mi si avvicinò lei, decisa, come se venisse a darmi
degli ordini. Non dirò che non l’avevo mai notata prima perché sarebbe una bugia.
Ma non perché lei facesse qualcosa per attirare l’attenzione: la attirava e basta,
in modo semplice e naturale, come i fiori profumano e i tuoni spaventano. Era vestita
di nero con dei dettagli bianchi, proprio come l’avrei vista per anni, prima dell’avvento
del colore nel cinema della nostra vita. Aveva un taglio di capelli punk, con le punte
sparate all’insù, da cui il soprannome «Pelo Cohete» che lei stessa adottò come sempiterno
nom de guerre, anche se abbandonò abbastanza presto quell’acconciatura. Ricordo che uno dei primi
regali che le portai di ritorno da uno dei miei viaggi di interesse ippico a Londra
fu un piccolo busto di una ragazza punk con la cresta colorata, molto più appariscente
della sua, che avevo acquistato a Carnaby Street. «Ho assistito alla tua lezione.»
Esordì così. Non «Sono una tua alunna» (dare del «lei» non era consentito a Zorroaga),
«Frequento il tuo corso» o qualsiasi altra formula che riconoscesse il suo ruolo di
studentessa davanti al professore; anzi, adottò un’aria da ispettrice del ministero
in servizio. «E non mi è piaciuta per niente!»
Poi mi spiegò perché mi aveva dato una valutazione così bassa. Siccome non conservo
alcun ricordo dell’argomento delle lezioni né delle sue rimostranze, mi limiterò qui
a riportare il mio leggermente irritato, ma al tempo stesso incantato, stupore di
allora. Una ragazza attraente, moderna, sveglia, impertinente... Era esattamente ciò
che all’epoca mi terrorizzava, ma era anche ciò che cercavo. Pur essendo il peggior
psicologo del mondo in tema di relazioni di coppia, persino io mi resi conto che quella
di Pelo Cohete non era ostilità o avversione, ma il suo modo di stabilire – o meglio,
imporre – un rapporto di amicizia. O, chissà, forse anche qualcosa di più. Uff...
Meglio non pensarci neanche! Perché aveva notato proprio me? Ho sempre diffidato della
salute psichica, e persino fisica, delle donne che mostrano interesseverso di me. Sono come un povero invitato a una cena di pesce che sospetta che tanta
generosità sia dovuta al fatto che è andato a male. Continuammo a chiacchierare e
scoprii che era una grande appassionata di cinema, argomento di cui ne capiva molto
più di me. A quel tempo, io collaboravo con «Casablanca», una rivista diretta dal
mio amico Fernando Trueba, che mi aveva concesso una pagina in cui, col pretesto della
«settima arte», potevo scrivere di quel che volevo. Mi è sempre piaciuto poter divagare.
E, ogni tanto, fare en passant una confessione intima, meglio ancora se con un tocco di patetica autocommiserazione.
Lei aveva letto i miei articoli e li aveva molto apprezzati; di fatto, se aveva stroncato
la mia lezione, era perché la considerava al disotto delle potenzialità di uno scrittore
in gamba come me. Come anche in altre occasioni, rivaleggiavo contro me stesso e avevo
perso per un’incollatura. Uno dei miei articoli su «Casablanca» si intitolava Alone e parlava della solitudine che provavo o credevo di provare (più avanti capii che
il male non era la solitudine, ma la desolazione) con l’aiuto di alcuni rimandi cinematografici.
Io ero abbastanza contento del risultato, cosa che ogni tanto mi succede quando scrivo
articoli perché è l’unico generedi scrittura per il quale non mi ritengo completamente inetto. E anche a lei era piaciuto.
Molto. In un certo senso, lo considerò una chiamata. Insomma, ormai si era creata una specie di connessione. Com’è ovvio, io mi mantenevo
estremamente guardingo, perché mi sembrava molto giovane (non lo era così tanto, aveva
solo una decina di anni meno di me), troppo seria ed esigente (ahimè, ho sempre creduto
che mi piacessero le donne divertenti) e chiaramente schierata dalla parte degli euskaldunak,
dei bascofoni radicali... presso i quali io non ero esattamente popolarissimo. Su
questo, come su tante altre cose, mi sbagliavo. Lei era radicale, certo, lo è stata
dal giorno in cui la conobbi fino agli ultimi istanti della sua vita, più radicale
di qualsiasi antropoide con orecchino e kefiah d’ordinanza che bulleggiava a Zorroaga
e che oggi è impiegato negli uffici delle istituzioni basche. Più radicale di me,
anche se ammetto che così l’asticella non è molto alta, nonostante certe volte punti
i piedi anch’io. Lei era radicale nella ricerca di una libertà vitale, slegata da
qualsiasi costrizione superstiziosa, reazionaria o progressista, di sinistra o di
destra; a volte, radicale fino alla violenza, con la quale arrecava danno solo a sé
stessa, mai davvero agli altri; radicale senza tornaconti politici, senza concessioni
alla gerarchia accettata da altri, senza aspirare a un buon posizionamento rivoluzionario
o conservatore; radicale di un radicalismo basato sull’orrore metafisico, non sul
fastidio storico; radicale soprattutto nella compassione per i più poveri, bambini
o anziani che fossero, e per chi come lei aveva subito un abbandono, un abbandono
che nel suo caso le aveva forgiato il suo animo fiero. Non aveva niente in comune
con i radicali di provincia, con la gesticolazione sovversiva e sempre sovvenzionata
sottobanco della mafia separatista. Mi resi conto di tutto questo un po’ alla volta,
quando conobbi meglio lei e alcuni frammenti del suo passato.
Era molto gelosa dei dettagli della sua biografia, altri invece li raccontava spesso.
Ad esempio, non mostrava a nessuno la sua carta di identità, le dava fastidio farlo
persino in circostanze ufficiali. Credo che i suoi documenti non fossero del tutto
in regola, per non dire di peggio. Se le chiedevi le date o i nomi dei famigliari
ricevevi in cambio un grugnito. In ogni caso, portava i cognomi materni perché i suoi
genitori non erano sposati e non credo che si frequentassero molto. Quello che so
per certo è che era nata nell’isola di Gran Canaria, nella periferia del capoluogo,
o in un paesino vicino, il cui nome sembrava un segno del destino: Casablanca. Una
zona povera, molto povera; a dirla tutta, un vero mondezzaio. La madre, che conobbi
molto bene perché visse da noi i suoi ultimi anni, era una donna sensuale e sfrontata,
tutt’altro che stupida, con una durezza di fondo che poteva diventare implacabile
con chiunque non fosse sua figlia. Dovette fare diversi lavori (tra cui quello di
cameriera) e preferiva divertirsi piuttosto che mettere da parte dei risparmi. Le
piacevano gli uomini, che non le mancarono mai, e il suo idolo mascolino e artistico
era Alfredo Kraus, il che dimostra il buon gusto che aveva. Del padre, che non si
occupò mai di loro, la sola cosa buona che Pelo Cohete diceva era che assomigliava
a Clark Gable. Per il resto, era quasi certamente un pezzo di merda, tanto che la
figlia, a soli nove anni, gli scrisse una lettera che prese le forme di veri e propri
Cahiers de doléances, così implacabili e argomentati che l’imputato non riusciva a credere che fosse opera
di una bambinetta. Si scontrava anche con sua madre, che a quanto pare all’epoca la
picchiava (quando la conobbi io, provava un’autentica venerazione per la figlia),
e trascorse qualche tempo dalle suore, delle quali non conservava un buon ricordo.
Doveva avere sette o otto anni e scappava di frequente da quel convento-prigione.
Se ne andava nelle radure e sulle colline dei dintorni per giocare da sola, lei e
le sue fantasie. E lì incontrava spesso un vecchio vagabondo, al quale dava confidenza
senza timore. Si parlavano appena, e lui non si prese mai la benché minima libertà
con la bambina, che era veramente bellissima. Si davano solo la mano, senza dire una
parola, e passeggiavano insieme per la campagna; forse lui pensava alle sue disavventure
del passato e lei presagiva quelle le avrebbe riservato il futuro. Quando tornava,
di solito la mettevano in castigo. Cosa darei per averla potuta conoscere a quel tempo,
una bambina seria e ribelle, piena di grazia inconsapevole e con un carisma schivo
che non la abbandonò mai.
Nonostante la miseria e le fatiche di quegli anni, anche i suoi ricordi di bambina,
che mi raccontava di tanto in tanto, avevano degli aspetti luminosi, propri dei giorni
passati al sole, in riva al mare, su arenili dove non mancavano mai la frutta (i manghi
che adorò per tutta la vita e che erano la sua madeleine proustiana!) e il pesce, giocando sempre all’aria aperta, come in certe pagine scritte
da un altro bambino povero ma felice, Albert Camus. All’inizio dell’adolescenza, si
trasferì a Barcellona con la madre e il fratello minore, un ragazzino di bel garbo
a cui, però, mancava l’energia che in lei abbondava. Nonostante Pelo Cohete ne dicesse
peste e corna e gli attribuisse la colpa di molte sue disavventure giovanili, fece
sempre di tutto per aiutarlo, anche più di quanto sarebbe stato prudente, perché lui
finì per guardarla con gli occhi del parassita. Morì all’improvviso e in modo drammatico
un paio di anni dopo di lei; è stato l’unico momento in cui sono stato contento che
Pelo Cohete non ci fosse più, perché sarebbe stato un colpo durissimo che le avrebbe
fatto rivivere tutta la sventura della sua infanzia, che già era rimasta abbastanza
vivida. In Catalogna si stabilirono a vivere a Hospitalet, in un piccolo appartamento
straordinariamente modesto di un quartiere operaio. Nonostante tutto, lo ricordava
come un’importante ascesa nella scala della confortevolezza. Lì frequentò le superiori,
contribuendo a pagarsi gli studi con piccoli lavoretti, come vendere gelati sulle
Ramblas. Me la immagino, volenterosa e vivace, mentre offre con aria seria la mercanzia
a quegli zotici pseudoilluminati che vanno a comprare i biglietti per El Liceu! Peccato
non essere stato lì a vederla, ad applaudire il suo garbo, a comprarle tutti i gelatiin una volta e a dirle: «Su, hai finito, lavoro concluso. Puoi tornare a casa a leggere»!
Molti anni dopo, quasi cinquanta, trascorremmo una notte terribile all’Hospital Clínico
di Madrid. Lei stava morendo, e io la vedevo morire, spaventato e impotente. Erano
le fatidiche ore che precedono l’alba. Né addormentati né svegli, sprofondati in un
dormiveglia da incubo, sentivamo continuamente in sottofondo il canale di notizie
24 ore su 24. Ad un tratto, venne nominata L’Hospitalet e lei si risvegliò un poco.
Con la gola lacerata dal sondino e la voce resa infantile dalla sofferenza, mi disse:
«Hospitalet! Ehi, è il mio paese!». La cosa più commovente fu sentire un che di allegria
nella sua voce. Con l’ultima alta marea tornava a riva il ricordo dell’adolescente
che con animo puro sconfiggeva la miseria vendendo gelati. Il mio paese! Aveva dimenticato
l’infanzia alle Canarie, la gioventù tra la Francia e San Sebastián, l’età adulta
al mio fianco, Maiorca... Nella sua agonia decise – o l’imperscrutabile memoria decise
al posto suo – di tornare definitivamente ai suoi tredici o quattordici anni quando
era una secchiona (la più brava in matematica, così mi disse, e di sicuro anche in
altre materie) e faceva diversi lavoretti per guadagnare qualche soldino e aiutare
la famiglia sempre bisognosa. Ovviamente parlava catalano come se fosse davvero stata
di Hospitalet, che dico Hospitalet, di Olot. Né lei né la sua famiglia furono mai
«immigrati» nel senso – peraltro del tutto rispettabile – in cui lo sono quelli che
oggi arrivano, chiedendoci ospitalità, dalla Siria o dall’Africa subsahariana. Erano
spagnoli che si spostavano all’interno del loro paese per vivere dove più gli aggradava,
senza dover chiedere il permesso a nessuno. Non erano nemmeno els altres catalans, «gli altri catalani» di Francisco Candel, ma semplicemente spagnoli e spagnole di
origini diverse, come quasi tutti quelli che vivevano a Hospitalet; spagnoli – e ci
mancherebbe che non lo fossero! – come tutti quelli nati in Catalogna. È incredibile
che oggi questi concetti fondamentali siano stati dimenticati dai sinistrorsi nostrani,
che più sono radicali più si lasciano irretire negli inganni separatisti, dimentichi
di cosa sia la cittadinanza, se mai lo hanno saputo, e soprattutto del fatto che l’erosione
del principio di uguaglianzaall’interno dello Stato va sempre a scapito dei più umili. La cittadinanza libera
e uguale per tutti è l’unica ricchezza di coloro che non ne possiedono altre!
È a partire da questi scampoli di notizie e da queste rivelazioni ottenute di sfuggita
che ho iniziato a ricostruire la storia che sto cercando di raccontare ora per la
prima volta con ordine. Non le domandai mai direttamente del suo passato. Non volevo
risultare un impiccione né volevo farle rivivere controvoglia momenti della sua vita
che potevano lasciare un retrogusto amaro al nostro presente insieme, che invece volevo
fosse per lei impeccabilmente felice. Per questo motivo a volte devo riempire alcuni
vuoti della sua storia con supposizioni mie, che faccio in modo siano il più sobrie
possibile. A 16 anni, al termine delle superiori, se ne andò in Francia con un ragazzo,
francese credo. Con la sua consueta facilità, imparò la lingua del posto quasi alla
perfezione. Poi, non so se proprio quel ragazzo o un altro la introdusse negli ambienti
del nazionalismo radicale basco. Si trasferì a vivere nei Paesi Baschi francesi e,
anche in questo caso, com’era sua abitudine e quasi suo destino, imparò l’euskera
con una scrupolosità invidiabile. Subito dopo entrò nell’ETA. Sì, prego, lettore ipocrita
(devo considerarti un mio simile ma non ti chiamerò mai «fratello» neanche sotto tortura),
ora puoi scandalizzarti quanto ti pare. L’amore della mia vita fu militante dell’ETA
per almeno un anno. E non è tutto: due o tre dei miei migliori amici lo sono stati
per molto più tempo. Pertanto, quando faccio le mie tirate contro la banda non è solo
per la sacra paura borghese della sovversione armata, che considero giustificabile
nel caso di flagrante inagibilità democratica, ma perché conosco le terribili esperienze
dirette di persone della cui onestà umana mi fido.
Dell’epoca in cui fu una terrorista mi raccontò poco e io non le chiesi quasi nulla.
Ovviamente, non entrò nell’organizzazione terroristica spinta da un’ideologia nazionalista
che non condivise mai (né il suo passato né la sua intelligenza la conducevano in
quella direzione) ma come atto di ribellione nei confronti della società: sin da bambina
voleva lottare contro chi calpesta i poveri. Non fu mai coinvolta in atti che richiedessero
l’uso delle armi, anche se una volta le fu ordinato di compiere, insieme a un compagno,
un agguato a una persona, e fu messa a loro disposizione una pistola sul cui uso entrambi
avevano nozioni piuttosto elementari. Di comune accordo, tergiversarono e lo lasciarono
scappare. La conoscevo bene, dubito che se ne avesse avuto l’occasione sarebbe stata
capace di far male a qualcuno; era molto coraggiosa e di modi bruschi, ma per niente
crudele.
A volte, spinta dal temperamento o dalle circostanze, era capace di fare del male,
ma sempre e solo a sé stessa, e quindi anche a noi che le volevamo bene e soffrivamo
per lei e con lei. In ogni caso, quando morì Franco le fu chiaro che la ragione che
l’aveva indotta a entrare nell’ETA – se mai una ragione ci fu, cosa di cui poi lei
stessa non era più convinta – si era esaurita con il funerale della dittatura. Mi
raccontò però un fatto molto significativo dei suoi ultimi mesi di militanza. Il gruppo
di giovani etarras si riunì a Parigi con alcuni intellettuali progressisti come Julio Cortázar e addirittura
Sartre cum Simone de Beauvoir, la coppia divina, per esporre le ragioni dell’organizzazione.
Quei ragazzetti violenti ma ingenui ricevettero dagli illustri letterati solo complimenti
e attestati di ammirazione, non un solo invito ad aiutare a ristabilire la democrazia
e a scegliere la via politica per difendere i loro ideali. Al contrario, furono esortati
a non abbandonare la lotta ora che era morto il dittatore e a dare il colpo definitivo...
Sono sicuro che se avessero parlato con Albert Camus, avrebbero ricevuto consigli
ben diversi, ma comunque mi stupisce – oggi come allora – la nociva imbecillità politica
di molti intellettuali di sinistra.
Fortunatamente, malgrado la gioventù e il carattere veemente, Pelo Cohete non era
molto disposta ad ascoltare quei santoni. Non si lasciava mai impressionare dalla
reputazione di chicchessia, nemmeno se si trattava di una reputazione cinematografica,
che era quella che rispettava di più (ne è un esempio lo scontro che ebbe con quell’essere
repellente di Jerry Lewis qualche anno dopo al Festival del cinema di San Sebastián).
Il suo radicalismo non era ideologico – perché aveva letto molti poeti e scrittori
ma mai Marx e compagnia bella (il suo pensatore politico preferito era Platone) –,
ma derivava dalla miseria della sua infanzia e dall’istinto compassionevole che la
caratterizzava. Per questo le fu immediatamente chiaro che il de profundis di Franco rappresentava il grido di ritirata per i guerriglieri antifranchisti. Tornò
in Spagna, nei Paesi Baschi, di cui adorava i paesaggi e la cui diabolica lingua parlava
meglio della maggior parte dei poco loquaci nativi. Coloro che la conobbero lì, con
quel suo fare forte e deciso, con cui teneva testa agli uomini più navigati, indifferente
a tutte quelle stucchevolezze o affettazioni che definiscono il lato cortigiano dell’universo
femminile, la consideravano epitome della femmina basca nella sua purezza più intimidatoria.
Me la portavano come controesempio delle mie teorie antietniciste: «Di’ pure quello
che vuoi, ma si vede che la tua ragazza è più basca del Monte Gorbea». Io annuivo
sorridendo. Perché ho sempre creduto che l’identità culturale non deriva dal luogo
di nascita o dalla genealogia, ma è un’invenzione personale, unica e irripetibile.
Uno può nascere nelle Canarie da una famiglia originaria delle Canarie ed essere comunque
catalana di Hospitalet quando vuole, e poi basca perché le va, e rimanere comunque
sé stessa, inconfondibile, come la mia meravigliosa ragazza.
Già dopo la prima chiacchierata nel bar di Zorroaga, ci ritrovammo spesso per parlare.
Avevamo passioni intellettuali comuni, come Schopenhauer (che chiamavamo familiarmente
Txopin). Una volta lei lasciò apposta che le parlassi a lungo di Thomas Bernhard e le raccomandassi
di leggerlo assicurandole che la sua scoperta non l’avrebbe lasciata indifferente
(povero Pigmalione!), per poi interrompere quel suo cortese silenzio con un sorrisetto,
dimostrandomi in due minuti che lo conosceva molto meglio e più a fondo di me. Condividevamo
anche passioni francesi: lei mi mandava delle brevi lettere con le poesie di Jacques
Prévert (due suoi versi riassumono perfettamente il mio destino: «Ho riconosciuto
la felicità dal rumore che ha fatto andandosene») ed entrambi preferivamo la chanson francese ai miti anglosassoni del momento. Mi fece conoscere Barbara e Serge Reggiani,
che ascolto ancora adesso che lei non c’è più con un’emozione difficile da descrivere.
Non ci emozionavano minimamente né i Beatles né i Rolling Stones, per non parlare
del rumoroso sciame dei loro imitatori; dell’universo musicale anglo-americano salvavamo
solo Elvis. Invece, Jacques Brel o Edith Piaf... Adorava anche Arthur Rubinstein:
un altro dei primi regali che le feci fu un’audiocassetta del grande pianista, comprata
a Venezia. Ovunque andasse ad abitare, lì troneggiava un pianoforte Steinway (ora
ce l’ho io, nella stanza che fu sua) che non le ho mai sentito suonare.
In altri ambiti non potevamo essere più diversi. In quei giorni (e ancora oggi, nella
misura in cui la mia salute non più florida come un tempo me lo consente) io ero incline
all’eccesso in qualsiasi cosa, era una forma di entusiasmo. Bevevo e mangiavo come
la caricatura di un basco, provavo tutte le droghe che mi capitavano sotto mano –
tranne quelle che si iniettano, gli aghi mi hanno sempre suscitato una repulsione
superstiziosa – e scopavo più che potevo, soprattutto con l’immaginazione. Come sottolinea
Ramón Eder in uno dei suoi magnifici aforismi, «nei sogni nessuno è monogamo». Lo
sport? Avrei potuto aspirare alla medaglia d’oro nella siesta a stile libero, se questa
fosse stata una disciplina olimpica. Ancora oggi credo di essere quasi imbattibile
in questa specialità. Al contrario, lei non fumava e beveva appena, e per il resto
dei paradisi artificiali non ebbe mai la minima curiosità. Si alimentava fondamentalmente
di frutta, che consumava a tutte le ore, e i piatti elaborati – tranne il confit de canard, un vizio acquisito durante l’epoca parigina – li trovava sempre «troppo forti». Era
una di quelle persone per me incomprensibili, che si dimenticano di mangiare agli
orari prestabiliti; anni dopo, viaggiando in paesi come Francia e Italia, in cui io
inizio a pensare al menu dal primo momento in cui apro gli occhi, se dopo pranzo cominciavo
a proporle dei posti dove cenare, mi rispondeva infastidita: «Andiamo di nuovo a mangiare?».
Vale la pena ricordare la prima volta che la invitai a cena fuori. Andammo al vecchio
Urepel, sul Paseo de Salamanca, davanti al Kursaal e alla foce del fiume Urumea; a
quei tempi era il ristorante con il miglior rapporto qualità-prezzo di San Sebastián.
All’epoca mi appassionava quella stronzata della gastronomia, ancora adesso arrossisco
al pensiero. Era la moda di quel fenomeno che in seguito, una volta fuori dal tunnel
di quello spregevole snobismo, chiamai pensadores del pienso, «pensatori di becchime», piaga che non ha fatto altro che peggiorare e che oggi
contamina la televisione, i supplementi domenicali dei giornali e tutti i generi di
congressi e appuntamenti sociali. Siamo succubi dei Luculli a scarto ridotto che non
la smettono mai di dare continue istruzioni per soddisfare l’edonismo del palato.
Li rifuggo come rifuggo i predicatori di qualsiasi altra truffa paradisiaca e lussuosa:
quando scopro che a un ristorante hanno assegnato una stella Michelin, io non ci metto
più piede. Però in quel periodo mi piccavo di essere un intenditore di pietanze raffinate
e di vini da abbinare per esaltarli. A volte mi permettevo di rimandare indietro una
bottiglia appena aperta perché «era un po’ acido», o qualsiasi altra menata. Io, che
ho sempre bevuto solo per sentire gli effetti dell’alcol e che distinguo a malapena
il sapore di quello che tracanno! Comunque, quel giorno all’Urepel ero deciso ad affascinare
Pelo Cohete con la mia sapienza matura nell’arte della tavola. Scelsi un menu per
entrambi, sciorinando tutta una serie di tecnicismi pedanti, e poi dissi: «Ottimo,
ora la cosa più importante: il vino. Va bene se iniziamo con un bianco...». Il maître, l’ottimo Tomas, aspettava con pietosa compostezza la nostra decisione. Ma lei non
mi lasciò continuare a blaterare e tagliò corto con la sua solita energia: «Per me
una Coca-cola». Così iniziò a insegnarmi a vivere: mi purificò.
Come credo di aver già sottolineato, sono un disinvolto libertino in spirito, ma un
pover’uomo timido e complessato all’atto pratico. Insomma, come tanti. Quindi il mio
corteggiamento nei confronti di Pelo Cohete fu abbastanza maldestro. Fino alla fine,
non mi resi nemmeno conto che era lei che stava corteggiando me! Ovviamente mi attraeva,
era bella e molto sveglia, una combinazione che mi è sempre risultata irresistibile.
Al contrario di altri impediti di mia conoscenza, non ho mai avuto occasione di dubitare
dell’intelligenza delle donne e non perché mi attribuisca una vocazione femminista,
ma perché tutte le donne importanti della mia vita, da mia madre in poi, erano persone
intelligenti, più intelligenti, in generale, degli uomini che mi circondavano. La
donna bella e stupida con la quale passare una notte di sesso selvaggio è un personaggio
frequente nelle mie fantasie masturbatorie, ma nella realtà la rifuggo immancabilmente.
Uno spirito senza nerbo, volgare, ripetitivo, svilisce subito qualsiasi cosa bella;
invece, la prontezza di un ingegno autentico, originale, fa risplendere immediatamente i tratti meno aggraziati. Il mio problema con Pelo Cohete era che
le sue qualità mi intimorivano: era colta senza affettazione né pedanteria, capace
di esprimere concetti astratti con un linguaggio colorito e popolare (anche se la
rimproveravo sempre di essere sboccata senza motivo), attraente senza il minimo proposito
di sedurre, incapace di fare la civetta ma affascinante nel suo modo unico, energica
e decisa anche se ossessivamente pudica per quanto concerne il suo passato... Persino
un bue erotico come il sottoscritto si rendeva conto che con lei poteva succedere
di tutto, ma non un amorazzo da una botta e via. Senza volerlo e senza giocare al
tira e molla, era spontaneamente importuna tanto era sincera. L’ammirazione che a
volte mi dimostrava, quando le interessava un argomento intellettuale del quale io
sapevo di più, appagava il mio narcisismo di maschio, ma il contrappasso era la franchezza
con la quale denunciava con veemenza le idiozie che cercavo di imboscare nel fogliame
nella mia parlantina. Tuttavia, al tempo stesso, era capace di dimostrare un affetto
tanto commovente quanto brusco e a volte persino feroce. È possibile parlare di una
pantera tenera?
Mi rendevo conto che ero sempre più infatuato di lei ma non mi decidevo a farmi avanti.
Se c’era una cosa che Pelo Cohete non sarebbe mai potuta essere – persino io l’avevo
capito! – era un innocuo passatempo. E io a quel tempo credevo di preferire qualcosa
di più leggero, di meno impegnativo. Mi ero lasciato alle spalle un matrimonio traumatico,
poi una relazione di coppia stabile (di base soddisfacente, ma che mi aveva un po’
annoiato) e ora, a Madrid, vivevo due o tre rapporti torbidi ma che mi divertivano
(ho già spiegato che su queste questioni sono abbastanza imbecille) e mi facevano
sentire un viveur senza complessi. Dio mio, che delitto aver vissuto in tale devastante ignoranza quel
momento della vita in cui tutto è possibile, e aver imparato le lezioni basilari solo
ora, quando suona la campanella che segnala la fine dell’ora di ricreazione! C’era
poi la mia timidezza sessuale. Atteggiarmi a grillo parlante mi faceva sentire ragionevolmente
sicuro, nonostante le sue frequenti rispostacce; me la sono sempre cavata bene con
la lingua e l’intelletto, come con quasi tutto quello che non serve a niente. A letto
non mi imbarazzava fare la figura dell’imbranato con una partner occasionale, viva
Las Vegas!, ma provavo uno strano pudore, quasi premonitore, dinanzi al rischio di
poter deludere lei. Quindi il nostro strano fidanzamento consisteva in infinite passeggiate
in cui discorrevamo di questioni filosofiche e letterarie, una specie di Master dell’amore.
Condivideva con due amiche un appartamento a Donostia, nel quartiere Gros (gli abitanti
li chiamavamo comunemente «i grossolani»), in Calle San Francisco. Nelle nostre lente
passeggiate del tardo pomeriggio la accompagnavo fin davanti al portone di casa, attraversando
una parte di San Sebastián a me sconosciuta. Giunti davanti al portone continuavamo
a chiacchierare, e poi lei tornava con me fino al ponte del Kursaal (ancora non esisteva
l’oggi celebre edificio di Rafael Moneo). A volte ci salutavamo lì, ma più spesso
tornavamo di nuovo insieme fino a Calle San Francisco... per poi ripetere la scenetta.
Un fidanzamento all’antica, ma abbastanza assurdo nel nostro caso – ammesso che non
lo sia sempre – perché né io né lei avevamo genitori o parenti che ci aspettassero
a casa e che ci potessero fare domande vedendoci entrare insieme. Se fosse dipeso
da me, staremmo ancora camminando avanti e indietro, come una navetta dell’amore irresoluto.
Ma una sera, quando le diedi il bacio di addio nell’androne, mi disse con il suo tono
un po’ brusco e tuttavia irresistibile: «Beh, allora, sali o no?». Salii, certo che
salii. Un po’ emozionato, attraversai il Rubicone.
La più grande difficoltà nello svolgere il mio lavoro di memorialista è che dimentico
tutto (nomi, date, luoghi, avvenimenti) con stupefacente rapidità. Mi rimangono impressi
solo alcuni episodi sconnessi, quasi fluttuanti nel vuoto, ed è l’immaginazione a
colmare la distanza tra di essi con i suoi capricci intenzionali. Il risultato è,
a essere generosi, poco soddisfacente e poco affidabile. Ma ogni tanto un dettaglio
si fissa, nitido, quasi luminoso, in quel magma di transizioni sfocate. Inconfondibile,
indimenticabile. La stanzetta nell’appartamento di Calle San Francisco è uno di quelli.
Era in fondo, dopo quella occupata da una tedesca rotondetta e quella di Ana, la migliore
amica di Pelo Cohete, che era anche una mia studentessa. Era decorato con tocchi di
fantasia e barocchismo, almeno nei limiti in cui lo consentiva il pochissimo denaro
a disposizione. Era il marchio di Pelo Cohete, che non sapeva vivere senza personalizzare
l’ambiente che la circondava. Amava la decorazione, l’organizzazione domestica. Persino
la sua stanza nell’hotel di Baltimora durante il suo infruttuoso trattamento nel Johns
Hopkins Hospital si trasformò in un luogo pieno di quadri, vassoi originali, fiori
e via dicendo. Nella piccola stanza dell’appartamentino di Calle San Francisco il
centro era occupato da un ampio materasso piazzato sul pavimento, senza rete o altro.
Il materasso sul pavimento, nient’altro, con un cuscino, un lenzuolo blu scuro e la
coperta. Lì dormiva lei, lì ci sdraiavamo insieme, anche se non per dormire. Di recente,
pensando a questo libro, ho chiesto alla sua amica Ana di riportarmi per iscritto
le sue impressioni su Pelo Cohete. Per me lei aveva avuto il privilegio impagabile
di conoscerla e frequentarla prima della nostra intimità: «Aveva un grande successo
coi ragazzi – mi ha scritto Ana – e io, che ero tutto il contrario, a volte sentivo
un po’ di invidia; ma non aveva successo solo coi ragazzi: ce l’aveva con tutta la
classe in generale. Dove stava lei era come se ci fosse una luce a cui tutti rivolgevano
gli sguardi: era attraente, interessante, esponeva i suoi punti di vista e li difendeva,
senza paura. Ricordo una volta che andai a trovarla in un barnetegi, un college estivo dove facevano lezioni di euskera. Durante la cena, era lei il
punto di attrazione, persino il parroco del paese che cenava lì era ammaliato. Nel
viaggio che facemmo insieme a New York, andammo a visitare una mostra d’arte contemporanea.
I visitatori dovevano passare attraverso una porta e, in funzione della loro energia
vitale, si accendeva una luce. Le persone passavano senza che succedesse nulla, finché
toccò a lei, quella vitale: passò, e la luce si accese».
Racconta Plutarco che Alessandro Magno non emanò mai un cattivo odore, perché persino
il suo sudore, provocato dagli esercizi più duri, aveva una fragranza profumata. In
un’epoca di scarsa cosmetica maschile non era un merito da poco. Persino da morto
sembra che emettesse un aroma soave, delizioso, inconfondibile. Il lettore potrà dichiararsi
scettico e ritenere che quel passaggio di Plutarco sia un po’ agiografico, ma io posso
testimoniare che una tale stranezza è quantomeno possibile. Pelo Cohete non puzzava
mai, in nessuna circostanza. E dire che era solita dormire con camicioni e maglie
di lana, come se dovesse fare una gita in montagna, che poi teneva addosso tali e
quali quando si alzava e si metteva a girare per casa. Chiarisco, casomai ce ne fosse
bisogno, che non sono pignolo nel gioco sessuale: anzi! Condivido l’opinione di Woody
Allen quando dice che il sesso è una cosa sporca solo se è fatto bene. Gli odori intimi
che in occasioni meno appassionate possono risultarci sgradevoli, nei momenti dello
slancio amoroso mi risultano particolarmente eccitanti. Perciò se dico che Pelo Cohete
non emanava alcun tipo di odore potete credere che si tratta di un’opinione obiettiva
e disinteressata. Naturalmente questa pulizia olfattiva era precedente all’uso di
colonie e deodoranti che amava molto e sceglieva con buon gusto ma di cui non aveva
quasi bisogno. Quando le domandavo perché insisteva nel mettersi qualcosa addosso
se tanto profumava comunque di buono, lei quasi si seccava: probabilmente pensava
che lo dicessi per risparmiare...
Visto che stiamo parlando del materasso, il primo dei tanti che abbiamo condiviso,
racconterò un altro tenero segreto delle nostre notti, sebbene non lo scoprii allora,
poiché quelle prime occasioni erano troppo agitate per accorgermene e io di solito
tornavo a casa alle due o alle tre del mattino. Lei parlava nel sonno: o meglio, conversava
animatamente con personaggi invisibili, raccontava barzellette a sé stessa e cantava.
Le veniva una voce da bambina disubbidiente, rideva a voce bassa, e intonava canzoncine
incomprensibili ma che senza dubbio esprimevano una gioia segreta. Se durante la giornata
avevamo avuto qualche discussione, cosa che accadeva sovente e che mi agitava molto,
cercavo sempre di fare la pace prima di addormentarci. Nei nostri trent’anni abbondanti
di convivenza, non credo che il sonno ci abbia sorpresi imbronciati più di mezza dozzina
di volte. Però non mi fidavo della sua assoluzione (ovviamente era sempre lei a perdonare
me, e io mi prendevo sempre la colpa senza protestare: l’importante era vederla contenta),
fino a quando non la sentivo canticchiare addormentata. Anzi, per meglio dire, gorgheggiava,
un suono per il quale in francese si una il verbo gazouiller che non so bene perché mi sembra più adatto a lei. Mentre la ascoltavo nel silenzio
della notte, sapevo che era finalmente felice in qualche luogo irraggiungibile per
me, ma attribuivo a me il merito di averla fatta arrivare fin lì sana e salva. La
riconciliazione era consumata. Non ho mai provato una soddisfazione più completa,
non mi sono mai sentito finalmente libero dei miei molti peccati e profonde arroganze,
che nell’ascoltare quei trilli. Adesso che, nell’oscurità senza sollievo delle mie
tristi notti, resto a sveglio a lungo, da lontano, lontanissimo, mi sembra a volte
di riascoltare i suoi gorgheggi. Invece no, chi voglio prendere in giro? Non sento
nulla, solo il silenzio totale della disperazione.
Mi è capitato sovente di leggere e ascoltare persone dotate di istinto geniale che
raccontano di essersi innamorate al primo sguardo e di aver avuto la certezza fin
dal primo momento che proprio quella persona e non un’altra fosse destinata a essere
irreversibilmente (stavo per scrivere «irrimediabilmente») la loro compagna di vita.
Invidio il loro intuito, ma di sicuro non è il mio caso. Agli albori della nostra
relazione Pelo Cohete mi piaceva, non c’è dubbio; di più, mi emozionava in un modo inedito. Mi ha sempre commosso averla vicino, vederla, ascoltarla... persino
pensare a lei. Ma allo stesso modo, come ho già detto, mi intimidiva abbastanza e
trovavo in lei – accidenti a me – mancanze e difetti che mi impedivano di abbandonarmi
in modo completo. Ero contento di averla «conquistata» (fingendo di dimenticare che
il conquistato ero io), ma mi ostinavo a rimanere virtualmente aperto a ogni tipo
di flirt ed esperienze. Non che avessi la presunzione di un dongiovanni dei poveri,
nulla di tutto ciò; nessuno era meno sicuro di me in questioni amorose. La mia stupidità
era di altro tipo. Mi trovavo agli sgoccioli di una relazione, durata alcuni anni,
con una donna matura, colta, di gusti intellettuali e politici abbastanza diversi
dai miei, ma con la quale mi divertivo molto, a letto e anche fuori dalle lenzuola.
La sua compagnia mi offriva tranquillità e piacere: era una garanzia di appagamento
carnale e sociale. Mi aveva insegnato molte cose, non solo quando si svestiva. Ma
credo che di me lei si fosse abbastanza stancata. Per cui si trovò un amante più giovane,
come – stando agli stereotipi – facciamo noi maschi spietati. Quell’abbandono mi ferì
profondamente e soprattutto mi spaventò: dove potevo trovare una persona che fosse
complementare e adatta a me? Posso testimoniare che ha ragione La Rochefoucauld quando
assicura, in un perspicace e cinico aforisma, che tutti i tormenti d’amore sono tormenti
d’amor proprio. Ma devo correggerlo perché è vero solo per le pene d’«amoretto», non
per le pene d’amore. Quest’ultimo ha le sue pene, molto più nascoste, che adesso (solo
adesso) ho imparato a conoscere bene. La verità è che presi molto male il mio ricollocamento,
come se qualcuno avesse usurpato un mio diritto inalienabile. Feci ricorso a tutto
il ridicolo catalogo dell’uomo frustrato, senza risparmiarle nessun esercizio di rancore:
telefonate singhiozzanti al mattino presto, lettere (in quei tempi remoti si scrivevano
ancora lettere) in cui alternavo suppliche abiette a insulti osceni, goffe manovre
di interferenza seduttrice contro il mio rivale, manipolazione di amici comuni...
Un autentico e inconfondibile teatrino di stupidità rappresentato da una vanità erotica
delusa, difetto che avevo sempre disprezzato negli altri e che non avevo mai rilevato
in me fino ad allora.
In realtà il mio difetto peggiore (rimasto tale fino a poco tempo fa) era un difetto
davvero devastante, di quelli che condannano alla trivialità anche le questioni teoricamente
più serie della vita, ma che al tempo stesso impediscono di sprofondare in quegli
abissi senza fondo che inghiottono persone più formali: mi riferisco alla mia prodigiosa
capacità di divertirmi, in qualsiasi circostanza e contro tutti gli elementi. La gente come me (suppongo
di non essere il solo) non aspira al divertimento sopra ogni cosa, in realtà trova
il modo di divertirsi con qualsiasi cosa, anche se apparentemente non c’è nulla di
divertente. In pratica, sento imbarazzo, dolore, paura e frustrazione come chiunque,
ma in più mi diverto. Mi sono divertito in carcere durante il franchismo, mi sono
divertito a fare il servizio militare, mi sono divertito a litigare con gli etarras pur temendo al tempo stesso di trovarmeli di fronte, un giorno o l’altro, in un vicolo
oscuro (e mi sono divertito ancora di più quando una volta alla radio ho detto di
essermi divertito a combattere l’ETA, dichiarazione che scandalizzò tutti i sacrestani
politici che prima di tutto vogliono essere sicuri che una persona soffra per davvero).
A eccezione delle feste e delle conferenze dei colleghi, sono davvero in grado di
spremere gocce di divertimento da un qualunque ramoscello secco. E riuscivo a spremerle
persino dalla delusione amorosa che, d’altro canto, tanto mi umiliava e spaventava.
Degustavo l’agonia della mia situazione, mi affascinava trovare dentro di me pozzi
neri di rancore e malignità che prima non immaginavo neppure, mi inorgoglivo al solo
pensiero di sapermi una combinazione velenosa di Otello e Iago, giocavo a soffrire
moltissimo dandomi importanza. Digrignando i denti ammiravo l’impudenza della traditrice,
mentre ideavo piani di vendetta uno più infantile dell’altro. Approfittando del fatto
che mi sono sempre piaciuti anche i bei ragazzi, decisi di cambiare sponda e di diventare
un cacciatore omosessuale, per manifestare il mio sdegno verso l’eterno femminile
o per dimostrare che potevo incarnarlo meglio di qualsiasi donna. Ogni notte giravo
per i locali gay della movida di Madrid, obbligando il mio sofferente amico Luis Antonio
de Villena a indossare i panni del Virgilio rassegnato e scettico nella mia discesa
verso inferi immaginari... Non per questo rinunciavo comunque a correre dietro alle
donne che un minimo mi piacessero. Ci furono giorni con tre incontri – o scontri –
erotici di genere vario, incastrati con perizia artigianale per non disturbare eccessivamente
le mie ore di lettura, a cui non ho mai rinunciato per nessun motivo e per nessuna
persona. E tutto questo senza smettere di proclamarmi sfortunato come Melmoth. A ripensarci
ora, all’epoca dovevo avere proprio una salute di ferro!
Insomma, una continua e faticosa follia, sebbene avesse, come ho già detto, un lato
divertente. Se c’è un’altra vita nell’aldilà, risum teneatis, mi immagino che verremo premiati con la possibilità di rivivere i migliori momenti
passati sulla terra, mentre l’inferno consisterà nel ripetere quelli peggiori nei
secoli dei secoli. Sono certo che a me toccherà il castigo di rimanere bloccato in
quel mio periodo di libertinaggio rancoroso. A quell’epoca, percorrevo due volte a
settimana la tratta ferroviaria tra San Sebastián e Madrid, una all’andata, una al
ritorno. Passavo un paio di notti nel vagone letto, che partiva verso le undici di
sera e arrivava al mattino alle otto. Dormivo meravigliosamente bene, meglio che a
casa; mi cullavano il dondolio del treno, i fischi di altri treni lontani trascinati
dalla velocità, il rumore di voci allegre e apparentemente giovanili durante la sosta
nelle stazioni. In un dolce dormiveglia mi domandavo: «Dove saremo? Siamo già arrivati
a Burgos?». Con una certa frequenza mi dimenticavo se stessi andando o tornando. Per
rimediare, tenevo a portata di mano le chiavi della casa verso cui mi dirigevo, in
modo che bastasse sfiorarle nella semioscurità del mio scompartimento per fugare ogni
dubbio. Mi aspettava l’allegria di arrivare presto in una città fresca, umida, ancora
innocente e già piena di promesse. Le mie due vite, quella di San Sebastián e quella
di Madrid, non potevano essere più diverse. Qui, l’inquietudine dei mille flirt e
il mio ridicolo esibizionismo egocentrico; là, le lezioni, le bevute e le chiacchiere
con i colleghi della facoltà (era come riprendere la vita conviviale dell’adolescenza)
e... Pelo Cohete. A rifletterci retrospettivamente mi dà fastidio pensare a quanto
tempo ho perso in sciocchezze, indecisioni, invece di abbandonarmi completamente al
grande dovere della mia vita che, come accade alla maggior parte delle persone, consiste
nel gustare e sentire l’amore incondizionato. Ma il problema è che l’amore non si
manifesta all’improvviso, in un istante inappellabile e magnifico, senza intermediari,
senza contrasti, senza ambiguità; quello che giunge all’improvviso come un dardo è
il desiderio – cosa peraltro non certo disprezzabile –, ma non è amore. Questo somiglia
piuttosto alle fotografie della vecchia Polaroid, dove le figure apparivano poco alla
volta sulla carta che agitavamo con impazienza mentre soffiavamo per asciugarla più
in fretta: inizialmente sfocate, confuse, poi lentamente distinte fino a raggiungere
la massima nitidezza... o fino a convincerci che avevamo rovinato lo scatto. L’amore
si rivela. Per un certo periodo pieno di vicissitudini e contraddizioni continua ad assalirci
il dubbio che l’altra persona forse non sia quella giusta, che il vero messia amoroso
debba ancora manifestarsi: «Dopo molti anni, solo dopo molti anni, dopo che fra noi
e questa persona si è intessuta una fitta rete di abitudini, di ricordi e di violenti
contrasti, sapremo infine che era davvero la persona giusta per noi, che un’altra
non l’avremmo sopportata – che solo a lei possiamo chiedere tutto quello che è necessario
al nostro cuore» (Natalia Ginzburg, I rapporti umani, in Le piccole virtù). Poi sopraggiunge la pienezza della vita, ma anche il suo transito, perché tutto
finisce sempre troppo presto.
Tolstoj ha davvero ragione: non esiste una narrazione possibile – cioè sufficiente,
convincente – della felicità familiare. La felicità si degrada nello sforzo di raccontarla. Adesso
io vorrei essere in grado di trasmettere al lettore la qualità unica, inconfondibile,
della gioia amorosa che ho vissuto con Pelo Cohete, ma mi vengono in mente solo formule
convenzionali che trasformeranno l’eccezionalità di quei momenti in pallidi luoghi
comuni di un romanticismo blando. Sebbene, da che mondo è mondo, sia l’argomento poetico
per eccellenza, l’amore in realtà non può essere descritto, perché manca di dimensione
esterna: avviene tutto dentro. Le circostanze in cui si sviluppa, i rituali di corteggiamento,
i codici dell’estasi sono parte di avventure che impariamo a memoria e che costituiscono
una componente particolarmente gradevole della nostra tradizione culturale. Le teniamo
sempre a mente per confrontare le nostre esperienze sul metro di quei teneri stereotipi;
accarezziamo pensando a ciò che sappiamo di altre mitiche carezze; baciamo misurando
il nostro bacio su una scala ideale di baci inarrivabili che conserviamo nel nostro
archivio interiore, notiamo e raccontiamo la serenità o l’eccitazione di cui siamo
protagonisti con espressioni molto simili e alla portata di tutti. Come scrisse Henri
Bergson, «ognuno di noi ha il proprio modo di amare e di odiare, e questo amore o
questo odio riflettono la sua intera possibilità. Tuttavia il linguaggio designa,
per tutti, questi stati con le stesse parole; di modo che dell’amore o dell’odio e
dei mille sentimenti che agitano l’animo, esso è riuscito a fissare solo l’aspetto
oggettivo e impersonale». Così ciò che è intimamente irripetibile si adatta a modelli
esterni, illustri e frequenti: chi ci legge o ci ascolta lo capisce e rimane soddisfatto,
perché è certo di conoscere ciò di cui stiamo parlando. Quando uno se ne accorge,
si dispera, perché l’amore, la cui missione è quella di individualizzare fino all’indicibile,
si converte, nello sforzo per essere trasmesso, in una garbata generalizzazione. E
bisogna scegliere tra questo fallimento e il silenzio.
I migliori poeti, i geni letterari, possono permettersi di affrontare gli aspetti
più elevati dell’amore – del loro amore – e scoprire tratti inediti e rivelatori. Non è il mio caso, e non avete idea
di quanto sinceramente mi dispiaccia. Sicché mi rifugerò in ciò che è alla mia portata,
la rievocazione delle piccole cose, la fibra soave della trivialità. Se dovessi fissare
una sola immagine a emblema felice della pienezza vissuta con la mia amata, sceglierei
le zampette di scimmia. Chi ama in toni solenni si tappi le orecchie. Però prima devo
fare un piccolo passo indietro per poter entrare in tema di ciò che mi interessa.
Una delle cose che mi univano a Pelo Cohete era la nostra passione per il cinema.
Senza dubbio lei sapeva molte più cose di me, conosceva i classici più rinomati e
li analizzava alla sua maniera, vale a dire, senza alcuna pedanteria ideologica e
con una invidiabile capacità di penetrazione umana. Io non arrivo a quei livelli: mi piace il cinema come mitologia divertente, come
avventura tonificante che va oltre il quotidiano. Desiderio di evasione? E perché
no! Ne sono onorato. Come illustrò correttamente Tolkien, non meritano la stessa considerazione
morale l’evasione di chi abbandona la trincea che deve difendere e quella di chi scappa
da un carcere in cui sta ingiustamente recluso. Io non sono mai stato un disertore,
ma sono un «fuggitivo» convinto ed entusiasta. Quindi mi piace il cinema popolare,
di azione, fantasy e quello horror, non quello che fa vedere la vita come è, perché
per quello c’è già la vita stessa, senza bisogno di macchine da presa o carrellate.
Questo cinema adatto a tutti piaceva molto anche a Pelo Cohete, che a volte però mi
sgridava per il mio eccessivo infantilismo filmico e mi costringeva a vedere un film
più «serio», con un perentorio: «Non ti piacerà, ma lo devi vedere». Ma, ecco... e
le zampette di scimmia? Un momento che ora ci arrivo.
La lettura è stata il maggior piacere della mia vita; e lo è ancora. Mi è sempre venuta
in soccorso nei momenti peggiori, bilanciando avversità che senza di essa sarebbero
state decisamente insopportabili, riempiendo le crepe del vecchio ospizio che minaccia
di cadermi addosso, sigillando il fondo della scialuppa che imbarca acqua, mentre
intorno nuotano gli squali. Nietzsche disse che la vita senza musica sarebbe stata
un errore; a mio modo di vedere, invece, una vita che fosse privata della lettura
sarebbe ben peggio di un errore, sarebbe un crimine, una raffinata tortura. Anche
se il cinema mi piace moltissimo, non riesco a metterlo allo stesso livello dei libri,
come fonte di piacere e di palliativo dell’esistenza. Salvo per un aspetto, sì, un
vantaggio – mi azzardo a chiamarlo così – che il cinema ha (anzi aveva) per me rispetto
ai libri. Non avendo patito i refettori monastici né le fabbriche di tabacco ottocentesche,
leggere è per me un vizio deliziosamente e necessariamente solitario. Comprendo molto
bene sant’Ambrogio, saggio maestro di sant’Agostino, che leggeva per sé stesso in
un’epoca in cui nessuno dominava ancora questa strana abilità, preferendo correre
il rischio di sembrare poco caritatevole ma impedendo così agli importuni di distrarlo
dal suo incantesimo «monoposto» con domande e commenti. Ebbene, se la lettura è e
deve essere un atto solitario, il cinema nei migliori momenti della mia vita è stata
una cosa a due. Alla fine di ogni giornata, una volta terminati gli impegni quotidiani
e condivisa la cena, Pelo Cohete ed io guardavamo insieme film alla televisione, al
computer o sul supporto tecnologico che a seconda dei casi avevamo a portata di mano
(ovviamente nessuno dei due nutriva quella ridicola superstizione secondo la quale
i film si possono vedere solo in una sala piena di adolescenti che giocano con i cellulari
e mangiano pop-corn). Abbiamo visto insieme film e serie tivù nella nostra casa di
San Sebastián, a Madrid, nell’appartamento maiorchino di San Telmo (ricordo in particolare
come, su quella magica terrazza, nella notte calda e fragrante di aromi marini, ci
divertivamo a rivedere sghignazzando i film di Fantomas con Jean Marais e l’esilarante
Louis de Funès). È sempre stata un’esperienza felice, perché il piacere dell’uno raddoppiava
quello dell’altro, ci incoraggiavamo reciprocamente per goderci meglio i momenti migliori
o per stroncare insieme quelli peggiori. E fu durante quelle sessioni cinefile dei
nostri primi anni insieme, mentre trascorrevamo qualche giorno a Madrid, che Pelo
Cohete inaugurò un paio di pittoresche pantofole che imitavano le enormi zampe di
una scimmia. Occupavamo l’ampio sofà davanti al televisore: io mi sistemavo di fronte
con i piedi allungati su un vecchio pouf che avevo preso anni prima in Marocco, mentre
lei stava sdraiata di traverso, con le zampe da scimmia in grembo a me. Io gliele
pizzicottavo, a volte le baciavo e lei le muoveva da una parte all’altra come fosse
Queen Kong. Accidenti, so che non ci sarà paradiso per me, perché non esiste l’aldilà
e soprattutto perché l’ho già vissuto! Il Giardino delle Delizie non ritorna, una
volta perduto. Il rilassato piacere di quei momenti era così assoluto che sovente
mi addormentavo, provocando l’indignazione più o meno simulata della mia compagna:
«Fernan! Ti sei già addormentato! Come sarebbe a dire “no”? Ti sto sentendo russare!».
All’inizio protestavo tra le nebbie del sonno, assicurandole che ero sveglio e attento
al film, il cui soggetto si prolungava nei miei sogni con svolte capricciose che a
volte lo miglioravano. Poi, dopo essermi leggermente ripreso con i titoli di coda,
mi scusavo senza grande convinzione prima di andare a letto: «Finirò di vederlo domani».
Lei mi rimbrottava teneramente, mi salutava con un bacio e continuava a guardare altri
due o tre film. Era una spettatrice instancabile, sebbene alle quattro o alle cinque
del mattino cedesse anche lei alla seduzione dell’irresistibile Morfeo. Quando a quell’ora
mi alzavo per una gita in bagno, sentivo a volume molto basso il parlottio della tele
e me la ritrovavo sdraiata per lungo sul sofà, difettosamente coperta da un plaid
che scopriva da un lato i capelli arruffati e dall’altro le sue zampette da scimmia,
finalmente tranquille.
Adesso, ogni sera, continuo religiosamente a vedere un film, ormai senza quelle zampette
da scimmia sul mio grembo. Anche se a volte mi sento stanco della giornata trascorsa,
anche se sovente sono mezzo ubriaco, o forse un po’ di più, mai e poi mai mi è capitato
di addormentarmi di nuovo in queste sessioni di cinema notturno. Sono stato cacciato
dal paradiso.
Tra le mille cose che ci univano dur comme le fer, ce ne furono alcune inconfessabili e altre innocenti, la maggior parte innocentemente
inconfessabili. La più esplicita fu la nostra predilezione... ma che dico predilezione,
la nostra passione per il fantastico e il mostruoso. Fin da piccolo, i racconti e i personaggi del terrore
sono stati il vero e proprio terreno dell’immaginazione su cui ho desiderato edificare
la mia casa. Nel libro Contrattempi, ho già parlato di Orencio, quel barbiere maestro di eloquenza da cui appresi nella
mia infanzia i miti canonici (cioè, secondo la Universal) dei Cinque Grandi: Dracula,
Frankenstein, l’Uomo Lupo, la Mummia e la Creatura della Laguna Nera. Conoscevo ogni
leggenda con tutte le formule esatte e ricorrenti del caso, e mi scandalizzavo se
gli adulti, con superficialità inammissibile, ignoravano che le pallottole d’argento
erano efficaci contro l’Uomo Lupo ma non contro Dracula, o che Frankenstein riusciva
a guardarsi senza problemi in uno specchio, a differenza del vampiro... Loro furono
gli angeli custodi che protessero – e continuano a proteggere – i quattro angoli del
mio letto, con uno a fare il supplente. King Kong, il Ciclope e gli altri membri dell’esercito
di Ray Harryhausen, Alien, i tirannosauri e i velociraptor sono amici che arrivarono
un po’ dopo. Se ero impaziente di crescere non era per ottenere il permesso di concedermi
uno dei presunti piaceri dell’adolescenza (di cui ad ogni modo comunque abusai non
appena furono alla mia portata), ma per poter vedere al cinema i film dell’orrore
che erano sempre vietati ai minori di sedici anni. Mi consolavo vedendo Gianni e Pinotto contro i fantasmi, in cui tra il serio e il faceto comparivano personaggi come Bela Lugosi, Lon Chaney
e Glenn Strangem, un Frankenstein che non era Boris Karloff ma che in epoca di carestia
poteva valere da rimpiazzo.
Il primo viaggio all’estero con i miei genitori fu a Ginevra (ovviamente ero già andato
in diverse occasioni a Hendaye, Biarritz, Bayonne, addirittura a Lourdes, però quello
non era «estero» ma solo quartieri periferici di San Sebastián). Avrò avuto undici
o dodici anni. Nelle librerie cercavo romanzetti di Henri Vernes con Bob Morane come
protagonista, che mi piacevano abbastanza in mancanza di nuove avventure di Tin Tin.
Mentre passeggiavamo senza meta lungo le strade più antiche della città, aspettando
che arrivasse l’ora di mangiare qualcosa accompagnato da molte patate fritte e passando
migliaia di volte davanti alla casa natale di Jean-Jacques Rousseau o a quella del
grande attore Michel Simon (dei quali non sapevo ancora nulla) o davanti a quella
in cui decenni dopo sarebbe morto Borges, scoprii un negozietto dove vendevano giocattoli.
Nella vetrina erano esposte delle scatole con disegni multicolori che sul coperchio
mostravano i miei mostri preferiti: Dracula, Frankenstein e via dicendo. Erano i kit
di Aurora, modellini dei personaggi della Universal da montare e colorare che si potevano
poi collocare in un sobrio diorama. All’epoca era un giocattolo semplice e non molto
costoso (anche se credo che non arrivò mai in Spagna), oggi ricercatissimo dai collezionisti
di questo tipo di memorabilia. Non potevo immaginare che nel vasto mondo esistessero simili meraviglie alla portata
di alcuni fortunati; viaggiare valeva davvero la pena! Pregai e supplicai i miei genitori
che me lo comprassero, promettendo loro che non avrei mai più chiesto nulla. I libri
e i fumetti non contavano, perché in quel campo non mi negavano mai alcun capriccio,
ma i giocattoli erano un’altra cosa: obiettavano che ne avevo molti, che non era il
mio compleanno... Alla fine, però, si arresero: «Dai, chiediamo quanto costano e te
ne compri uno». Uno! Soltanto uno! Naturalmente il primo prescelto sarebbe stato il
vampiro, ma come potevo rinunciare a Frankenstein, alla Creatura della Laguna, a...
Ci fu (da parte mia) un patetico braccio di ferro, davanti allo sguardo della commessa
svizzera, che pareva del tutto indifferente al numero – uno o cento – di figure che
mi sarei portato via. Ciò detto, non sono mai esistiti genitori migliori dei miei,
la cui occasionale severità sfociava sempre in cedimenti affettivi, per cui alla fine
riuscii a portarmi via tre figure: Dracula e Frankenstein, ovviamente, mentre credo
che la terza fu l’Uomo Lupo, o forse la Creatura... Chissà, non ricordo più. Mia madre
con il suo consueto piglio ironico, mentre uscivo felice con le mie scatole abbracciate
al petto, mi disse: «Bene, ma chi li costruirà?». Questa stessa domanda me la stavo
facendo io stesso imo pectore da parecchio tempo. Tutti sapevano, a partire dal sottoscritto, che nessuno era più
goffo di me nei lavori manuali. E in questo, sessanta anni dopo, non sono affatto
migliorato. Ma mio nonno Antonio, complice in tutti i miei progetti, certamente sarebbe
stato disposto ad aiutarmi. E poiché era un pittore della domenica, le sue scatole
di acquerelli ci sarebbero servite per dipingere i modellini quando fossero stati
terminati. Perché nella mia immaginazione li vedevo già finiti e perfetti.
Tra me e mio nonno – io contribuii con i nervi; lui con la pazienza – riuscimmo a
costruire i modellini, del cui aspetto definitivo conservo un’immagine sospettamente
gloriosa, che forse deve più alla fantasia che alla memoria. Girarono per anni sulle
librerie della mia camera, subendo scalfitture e mutilazioni provocate dall’ingiuria
del tempo. Scomparvero per sempre in seguito a qualche trasloco, forse quando mi sposai
e lasciai la casa dei miei genitori. Certamente non facevano più parte del mio corredo
domestico nel palazzone di San Sebastián, quando Pelo Cohete poco per volta venne
a vivere con me. Però al suo posto avevo un Dracula di stoffa, acquistato non so dove,
e un Frankenstein fatto di pezzi (non brandelli di cadaveri, come quello autentico)
di resina plastificata come quelli mitici della marca Aurora ma di dimensioni un po’
più grandi, montati e dipinti da mio fratello Juan Carlos. Questi due personaggi erano
ciò che la attraeva di più di tutto l’arredamento poco ispirato di quel mio domicilio
che all’epoca fungeva per due o tre mesi all’anno da casa estiva di famiglia. In seguito,
grazie alla sua fantasia trasfiguratrice diventò lo spazio magico dei nostri amori,
un paradiso per due che adesso si è convertito nell’inferno di uno solo. Ma allora
mancava ancora molto perché il fair e il foul, per parlare al modo delle streghe di Macbeth, si manifestassero tra quelle vecchie
pareti che un giorno avevano ospitato i membri della dinastia taurina dei Bienvenida
quando d’estate venivano a partecipare alle ferias di Vitoria, San Sebastián e Bilbao.
Dell’entusiasmo un po’ infantile e quasi religioso di Pelo Cohete per quei teneri
mostri che facevano parte del mio piccolo olimpo intimo fin da piccolo (e che finalmente
potevo condividere con qualcuno senza che mi considerasse un ritardato mentale) conservo
vari aneddoti, tra i più preziosi nello scrigno della memoria. Il primo accadde a
Madrid, durante i primi tempi di assestamento della nostra relazione. Poiché non sono
mai stato un entusiasta della capitale, non sapevo dove portarla per farla divertire.
Dopo aver visitato il Museo del Prado e El Corte Inglés, rimasi a corto di idee. Allora
feci ricorso al nucleo infantile che condividevamo e la portai a un parco di divertimenti,
dove ce la spassammo alla grande. C’era una casa degli orrori o qualcosa di simile,
abbastanza dimessa (credo che in seguito fu ingrandita e modernizzata) ma più che
sufficiente per dare spazio all’allegria di persone che come noi ce l’avevano ben
piantata dentro. Uno stretto corridoio di curve e controcurve per sfruttare al meglio
lo spazio ristretto, illuminazione molto scarsa con luci tremolanti, rossastre, livide,
ragnatele artificiali, bamboloni sanguinolenti con ciuffi feroci di cartapesta, registrazioni
di grida isteriche o risate da fantasmi. I maggiori spaventi di questo piccolo inferno
erano garantiti da apparizioni di esseri in carne e ossa con travestimenti cadaverici
che tormentavano i visitatori con i loro ululati e persino colpi di ramazza indolori.
Ci muovevamo in una specie di fila indiana che si contagiava del lieto panico esplodendo
in strilli più divertiti che spaventati. Ma quando appariva il mostro previsto, tutti
fingevamo di scappare da lui come doveva essere. In una curva del sentiero tenebroso
una porta si aprì cigolando e apparve la creatura di Frankenstein, con la sua caratteristica
andatura traballante e le braccia tese in avanti per catturarci. Tutti arretrarono
con schiamazzi impauriti; tutti tranne Pelo Cohete, che con il tono felice di chi
ritrova un vecchio amico si diresse verso di lui per salutarlo: «Ehilà, Franky! Ciao,
Franky!». Credo che il suo spontaneo benvenuto riuscì a spaventare colui che doveva
spaventare noi.
L’incontro decisivo ebbe luogo a New York, durante il primo viaggio che facemmo insieme
negli Stati Uniti. All’epoca, come per la maggior parte della mia vita, avevo l’ossessione
per le librerie, una fissa da cui poi mi sono in parte liberato ma che subisce delle
ricadute quando vado a Parigi. Mi ero annotato l’indirizzo di Strand, alla fine di
Broadway, come una delle tappe obbligate della nostra visita alla Grande Mela. Poi
ci sono tornato in diverse occasioni, senza cercare nulla tra i suoi scaffali scalcinati
(dove una volta scovai un mio libro tra uno di Santayana e uno di Sartre) o, meglio,
cercando il me stesso felice di quella prima visita in compagnia del mio amore, avvolto
in lei... Scendemmo percorrendo quella famosa strada che attraversa tutta Manhattan
assaporando ogni passo e ogni secondo come può accadere una sola volta nella vita.
Poi sostammo a lungo nella libreria, guardando e riguardando volumi vecchi o seminuovi
che ormai ho scordato. Quanto sono stato noioso coi libri, Dio mio! Quanto tempo dedicato
a spulciarli come lì dentro fosse possibile trovare la redenzione dall’inevitabile,
l’assoluzione che non merito! Finalmente uscimmo con una borsa ben carica e iniziammo
a fare un giro nei dintorni alla ricerca di un sandwich di pastrami che ricompensasse
la nostra colta mattinata. Strada facendo le feci notare una vetrina e lì avvenne
l’epifania. Il negozio era Forbidden Planet (titolo di uno dei nostri film preferiti,
Il pianeta proibito) e la vetrina piena di modelli di mostri da costruire, fumetti fantasy, film di genere
e gadget dello stesso tenore. Pelo Cohete rimase stregata dal negozio; quando un momento
prima eravamo passati davanti a Tiffany, si era fermata solo cinque minuti a guardare
la vetrina, credo più per rendere omaggio a Audrey Hepburn che altro. Da lì invece
non si muoveva, non si decideva neppure a entrare nel negozio. Tentai di prenderla
per un braccio e portarla dentro e mi scrollò via quasi con violenza: «No, lasciami!
Non sai che cosa significa questo per me!». Rimase un momento estasiata, indicandomi
attraverso il vetro questa o quella cosa che riusciva a vedere, come se avesse paura
che oltrepassando la porta del negozio tutta quella meravigliosa mercanzia sarebbe
svanita, come di solito accade in alcuni racconti orientali o nei sogni. Finalmente
entrammo e la realtà fu all’altezza – o quasi – di quel piacere che vi aveva proiettato.
Sappiamo che tutto ciò che esiste nel mondo è poca cosa e che visto da vicino vale
ancora meno, ma in quell’occasione fu sufficiente. Ci fermammo a lungo nel magico
emporio, girando e rigirando su e giù, aprendo scatole, chiedendo prezzi, accarezzando
tutto. I commessi ci sopportarono con gentilezza, nonostante fossero molto giovani
e con aria un po’ freak; assomigliavano più a clienti che a venditori e ci seguivano con un languido entusiasmo
che gareggiava con la vivacità del nostro; soprattutto del suo, perché, sebbene parecchie
cose piacessero anche a me, io mi stufai prima. Avevo fame, ma non lo verbalizzai;
la prospettiva del pastrami per il lunch era svanita e non volevo che la mia impazienza fosse castigata con una discussione
che mi lasciasse anche senza cena. Uscimmo carichi di borse, molto più che pesanti,
voluminose e difficili da reggere, che si aggiunsero a quelle che già ci portavamo
appresso, e naturalmente meritai una ramanzina: «Se non ti fossi messo in testa di
comprare tutti quei libri...». Però ero felice di vederla felice e non pensavo di
permettere che quei pochi pacchetti mi rovinassero la giornata.
Quella visita a Forbidden Planet segnò l’inizio della passione di Pelo Cohete per
costruire e comprare pupazzi fantastici per arredare la casa. A confronto della mia
incapacità, lei aveva una grande abilità nel mettere insieme i pezzi e poi dipingerli
in modo convincente. Soffriva di impazienza cronica per quasi ogni cosa eccetto che
per questa. Altri personaggi arrivavano già completi, con i loro mantelli, i denti
aguzzi e le provette piene di veleno, ed erano destinati a occupare il posto nell’angolo
strategico che era stato loro assegnato. Ogni volta che vedevamo un nuovo film del
nostro genere preferito aspettavamo con ansia l’arrivo del merchandising a tema che avrebbe arricchito la nostra collezione. A Londra scoprii un altro negozio
in franchising di Forbidden Planet e da quel momento tutti i miei viaggi nella capitale
britannica per ragioni ippiche iniziavano con una visita al negozio, richiesta con
insistenza da chiamate telefoniche della mia fanciulla che dalla Spagna mi sollecitava
a comprare le ultime novità. Il nostro criterio di selezione era molto ampio: dalle
figurine più piccole in plastica della serie Star Wars fino ai modelli di resina di formato più grande, con il loro diorama incorporato,
per non parlare dei pupazzi di Tin Tin e Milù, fatti di cartapesta e di dimensioni
quasi naturali. Di Boris Karloff, il nostro santo protettore, ci procurammo riproduzioni
di quasi tutti i ruoli che aveva impersonato sullo schermo e addirittura un paio di
busti dell’attore in falso alabastro nero. Pelo Cohete si abbonò ad alcune riviste
di questo tipo di arte minore e addirittura tenne una corrispondenza con alcuni appassionati
americani che vendevano pezzi esclusivi fuori mercato. Alcuni amici ci donarono le
loro creature: abbiamo un Evilio regalato da Santiago Segura e un Hellboy procuratoci
da Guillermo del Toro. Mentre scrivo questa pagina commemorativa, tanti anni dopo
questi fatti, leggo una graphic novel (in sostanza un fumetto in formato gigante) di Emil Ferris intitolato La mia cosa preferita sono i mostri, la cui protagonista è una bambina che sembra l’alter ego della mia meravigliosa
ragazza. Tra i vari progetti di collaborazione che avevamo avviato e che la sua morte
ha cancellato, insieme ad altre cose più preziose, c’erano un paio di libri. Uno,
a cui lei riservava un’importanza speciale, e che invece a me non convinceva molto,
era composto da una serie di conversazioni tra noi due, in cui io avrei parlato di
ciò che mi interessa davvero («Nelle interviste non ti fanno mai domande sulle cose
veramente importanti, perché ti conoscono solo per sentito dire»). L’altro libro,
in cui riponevo le sue stesse aspettative, sarebbe stato composto dalle fotografie
dei pupazzi fantasy che riempivano le nostre case di Donosti e di Madrid e che costituivano
la nostra autentica famiglia condivisa (li avremmo collocati in diorami creati da
Juan Carlos, il mio fratello pittore, e la fotografa sarebbe stata Pelo Cohete): le
immagini sarebbero state accompagnate da brevi testi, miei, poetici o umoristici.
Si sarebbe intitolato (e per me si intitola, dal momento che questo libro mi si è
impresso nel cuore, come se lo avessimo fatto per davvero) Il cielo dei mostri, e avrebbe avuto come epigrafe questi versi scritti dall’eccentrico poeta colombiano
Porfirio Barba Jacob, che tanto amavamo:
Dammi, o Notte, le tue ali di Mistero,
per volare nel cielo dei Mostri...
Peraltro, la nostra smania di conoscere negozi specializzati su questi temi ci procurò
una curiosa avventura che sarebbe anche potuta finire male. Eravamo di nuovo a New
York e uno degli obiettivi principali del viaggio era visitare un negozietto che era
molto consigliato in una delle sue riviste e di cui si diceva che in alcune occasioni
avesse ospitato addirittura Madonna. Sebbene non fosse molto affidabile come guida,
essendo dotata, come da tipico stereotipo femminile, di scarso senso di orientamento
(persino peggiore del mio, che è tutto dire), in quell’occasione, dato il suo appassionato
interesse, lasciai che prendesse il comando della spedizione. Il taxista che ci caricò
a bordo sembrò molto riluttante quando sentì l’indirizzo che lei gli aveva fornito,
e se lo fece ripetere diverse volte. Quindi, grugnendo, spiegò che non sarebbe stato
semplice tornare indietro da laggiù. Io commentai a mo’ di battuta che sembrava uno
di quei taxisti a cui nei film di vampiri gli incauti chiedono di essere portati al
castello di Dracula. Iniziammo a girare per Manhattan e il viaggio cominciava a risultarmi
insolitamente lungo. Scomparvero dal paesaggio i grandi grattacieli e i negozi di
lusso; soprattutto scomparvero i bianchi. In tono allegro ma anche con una leggera
punta di inquietudine commentai che mi sembrava stessimo addentrandoci in Harlem.
Lei non ci fece caso, immersa nella lettura del promettente catalogo che proponeva
la sua rivista. Ci fermammo a un semaforo e i miei dubbi furono fugati: ci trovavamo
all’incrocio tra Martin Luther King Street e Malcolm X Street. «E allora? Che problema
c’è?», sbuffò Pelo Cohete, stanca dei miei timori borghesi. Se il negozio si trovava
ad Harlem, non c’era motivo per mettersi a tremare. Abituato com’ero a darle retta,
tralasciai di dirle che non mi pareva il genere di negozio tipico di quella zona.
Sebbene non fossimo arrivati ancora all’indirizzo indicato da Pelo Cohete, il taxista
decise, senza lasciare spazio a ulteriori discussioni, che il viaggio era concluso.
Quando timidamente gli chiesi se poteva aspettarci un pochino, sbuffò irritato: non
aveva alcuna intenzione di aspettarci e riteneva che non saremmo riusciti a trovare
facilmente un altro taxi che venisse a prenderci lì. Lasciammo l’auto, io con una
certa inquietudine, lei fresca come un’insalatina. «Dovremo domandare a qualcuno»,
fu il suo unico commento. Pochi metri più in là c’erano un paio di neri, grassi e
vecchi, seduti su delle sedie intrecciate di paglia davanti alla porta di casa (suppongo
fosse la loro casa), che prendevano un po’ d’aria e ci guardavano con pacifica ironia.
Pelo Cohete si diresse verso di loro con aria disinvolta e spontanea, come se fossero
suoi vicini da sempre. Devo sottolineare che amava i neri (sua madre ne aveva una
grande considerazione come amanti) e addirittura sosteneva che la sua pelle così abbronzata,
che assumeva una tonalità di miele scuro appena stava al sole, si doveva al fatto
che nelle sue vene scorreva un po’ di sangue africano. Quindi domandò nel suo simpatico
inglese – molto migliore del mio, quasi inesistente – se in zona ci fosse un negozio
di fumetti, merchandising cinematografico e cose simili. Aggiunse, per precisare l’identikit, che in quel negozio
ci andava spesso Madonna. I due anziani si scambiarono uno sguardo complice e quello
che sembrava un po’ più vecchio rispose tutto serio che viveva lì da sempre e non
aveva mai visto Madonna in quel quartiere. Magari, però, in quell’altro isolato...
Proseguimmo per qualche metro e improvvisamente ci ritrovammo in mezzo a una scena
da film. Due giovani stavano correndo e dietro di loro, a sirene spiegate e preceduta
dal sibilo dei pneumatici in curva, apparve un’auto della polizia. Un agente corpulento
balzò giù mentre questa era ancora in movimento e, impugnata la pistola, fece partire
diversi colpi... mi auguro in aria. È necessario aggiungere che i giovani erano neri
e che il poliziotto era bianco? Uno dei ragazzi riuscì a svignarsela di corsa, mentre
l’altro si fermò con le mani in alto e poi, obbedendo agli ordini che gli abbaiava
il voluminoso agente, le allungò sopra il tettuccio dell’auto e aprì le gambe. Ho
l’impressione che tutti abbiamo visto una scena simile in una qualche serie televisiva.
Io mi trovai, senza sapere com’ero arrivato lì, con la schiena attaccata alla parete
dell’edificio che faceva angolo. Non alzai le mani, ma ci mancò poco. Accanto a me,
ma col corpo molto più rilassato, c’era Pelo Cohete, che non sembrava troppo spaventata
da tutto quel dramma; solo infastidita perché rallentava le nostre ricerche. Per un
breve ma spaventoso momento credetti che sarebbe andata dal poliziotto o dal prigioniero
a chiedergli se per caso sapeva dove si trovava il benedetto negozio frequentato da
Madonna.
State tranquilli, tutto finì bene, come avrete già capito. Gli agenti portarono via
il giovane fuggitivo sui cui delitti possiamo formulare solo delle ipotesi (non posso
mettere la mano sul fuoco che fosse innocente, ma per qualche istante mi identificai
così tanto con lui che spero sia stato assolto e abbia vissuto abbastanza a lungo
in quell’ambiente ostile da votare per Obama un po’ di anni dopo). Noi non trovammo
il famigerato indirizzo perché non era ad Harlem. Pelo Cohete si era sbagliata a leggere
la cartina (era l’unica cosa che io facevo molto meglio di lei) e il negozio si trovava
al Greenwich Village, che in effetti era un quartiere socialmente e culturalmente
più appropriato per un negozio del genere. Morti dal ridere, camminammo per almeno
un’ora in un quartiere che non ci sembrava più così pericoloso finché non trovammo
un taxi accogliente che ci condusse finalmente alla destinazione desiderata. Madonna
o non Madonna, il negozio non era granché, ma comprammo un po’ di caramelle e una
placca metallica con la pubblicità di Jaws, la famosa attrazione degli Studios Universal, in cui un immenso squalo con denti
enormi minaccia a fauci spalancate una piccola imbarcazione piena di turisti. Ce l’ho
proprio di fronte a me, sulla libreria della mia stanza, mentre scrivo queste righe
dilaniato dalla nostalgia per quella avventura con cui ce la procurammo e per tutto
quello che ho perso dopo.
Fu sempre negli Stati Uniti, ma sulla West Coast, che Pelo Cohete trovò un equivalente
del collezionismo che praticava (sebbene non per puro spirito di collezionista bensì
piuttosto perché si incapricciava di certi oggetti al punto da non sopportare l’idea
che potessero esistere lontano dal suo sguardo). Eravamo a Los Angeles, dove accompagnavamo
José Luis Garci a partecipare all’omaggio organizzato in suo onore per l’anniversario
del Premio Oscar. Per Pelo Cohete fu come essere stata invitata a Camelot nell’epoca
migliore della Tavola Rotonda. Andammo a Disneyland, agli Studios Universal (quelli
che hanno prodotto la maggior parte dei nostri film preferiti) e passeggiammo per
la Walk of Fame, dove le scattai una fotografia accanto alla stella di Greta Garbo
(con macchina usa e getta da un dollaro), che costituisce il mio apice in quell’arte
per la quale sono sempre stato ostinatamente negato. Una guida agli angoli più pittoreschi
di Hollywood ci informò che era possibile visitare la casa-museo del mitico Forrest
J (senza punto dopo la «J»: non gli piaceva) Ackerman, direttore delle riviste «Famous
Monsters of Filmland», «Monsterworld» e «Spacemen», autore di racconti e antologie
di argomento fantastico, attore occasionale (è uno dei morti viventi del film originale),
amico di tutti i grandi della cinematografia di genere, erudito insuperabile e possessore
di un’immensa collezione di opere di fantascienza, fumetti e memorabilia di classici
di cui basta pronunciare il nome perché il cuore degli appassionati acceleri i battiti.
La sua casa era una villa in cima a una collina con un panorama mozzafiato sulla «Karloffornia»,
come la chiamava lui con la sua nomenclatura. Come consigliato dalla guida, avevamo
avvisato della nostra visita, precisando che venivamo dalla Spagna e che saremmo arrivati
alla tal ora. Quando ci trovammo di fronte alla cancellata che circondava il piccolo
giardino ci sentimmo un po’ intimiditi. Pelo Cohete suonò il citofono e quando le
risposero cominciò a spiegare che eravamo gli spagnoli che poco prima... quando all’improvviso
una voce fintamente tenebrosa e burlona iniziò a declamare le prime parole della famosa
canzone Lady of Spain. E fu così che entrammo nel palazzo incantato. Ackerman era un magnifico anfitrione,
teatrale e accogliente. Lui stesso si considerava, a buon diritto, un pezzo del suo
stesso museo e si faceva fotografare insieme ai suoi ospiti, mostrando con un sorriso
furbo le sue mani grassocce, in una delle quali aveva l’autentico anello che portava
Bela Lugosi in Dracula, mentre nell’altra aveva quello di Boris Karloff in La mummia, entrambi di dimensioni considerevoli. All’epoca doveva avere ormai più di ottant’anni
(morì che ne aveva novantadue) e si muoveva con una certa difficoltà, rimpiazzata
in parte dal suo cordiale entusiasmo. Quanto alla collezione, che altro dire, se non
che era inesauribile come il tesoro di Ali Babà? Collezioni complete e originali di
tutti i fumetti leggendari, a cominciare da Shazam!, il mio preferito (in spagnolo si chiamava Capitán Marvel: lo lessi all’età di nove o dieci anni), prime edizioni dei capolavori della fantascienza
sulle riviste originali in cui furono pubblicati, manifesti cinematografici semplicemente
stupefacenti o, per dirla con la sua voce artefatta, astounding, di film indimenticabili ormai ricordati solo dai fanatici del genere, oggetti unici
utilizzati in quegli stessi film (maschere da marziani, mantelli di vampiri, bare
ancora utilizzabili, modellini del King Kong di Willis O’Brien, autografi di tutti
i santi infernali a cui eravamo devoti...). Presto rinunciammo a un esame esauriente
di tutte quelle meraviglie e ci limitammo a passeggiare tra gli scaffali stipati,
chiamandoci a vicenda di tanto in tanto quando ci imbattevamo in qualcosa che non
si poteva tralasciare senza condividerlo con qualcuno che potesse apprezzarlo a sua
volta. Ma quello che rendeva più adorabile quel piccolo emporio era la sua fragilità:
una cicca di sigaretta spenta male o un cortocircuito potevano distruggere tutto i
pochi minuti. Ackerman ci disse che nessuno aveva voluto assicurare la sua collezione,
preziosa e vulnerabile. A quanto ne so, prima di morire regalò (o vendette, dopotutto
era un americano) gran parte dei suoi tesori al Museo del Cinema di Berlino, dove
sicuramente si trovano tuttora. Io conservo soltanto una foto di Pelo Cohete accanto
a Boris Karloff nei panni della Creatura di Frankenstein, scattata con la nostra macchina
senza prezzo in un angolo di quel labirinto magico. Ora è qui, sul tavolo dove mi
trovo, e in essa è ancora racchiuso qualcosa dell’allegria ormai irraggiungibile di
quel giorno.
Il grande sogno di Pelo Cohete era di dedicarsi al cinema: come regista, come sceneggiatrice,
come docente di teoria cinematografica... come qualunque cosa. E con un po’ più di
fortuna sarebbe potuta essere una qualunque di quella cose o tutte quelle cose insieme,
perché oltre ad aver accumulato molte conoscenze a forza di ore trascorse davanti
allo schermo, aveva un raro intuito nel capire che cosa in quell’ambito fosse bello
o brutto. Quando tenne i suoi corsi di estetica a Zorroaga (le lezioni erano in euskera,
per cui potete immaginare che gente squisita fossero i suoi alunni), proponeva tra
le altre cose la proiezione e il commento di film. Allora sembrava un’audace novità
e molti colleghi, tra i più impresentabili della categoria, che erano anche i più
numerosi, protestarono perché la consideravano una perdita di tempo. Oggi è diventata
una pratica abituale, e il cinema nelle aule è diventato frequente come un tempo lo
erano le diapositive. Cominciò inoltre a collaborare con l’assessorato alla cultura
della città all’interno di un gruppo incaricato di programmare cicli cinematografici
e poi di pubblicare una rivista. Uno dei suoi compagni in quel gruppo era José Luis
Rebordinos, che più avanti arrivò a dirigere il Festival del Cinema di San Sebastián.
Rebordinos l’avevo già conosciuto un po’ di anni prima quando organizzava un cineforum
a Rentería. Il nostro incontro avvenne così: tramite il mio amico Fernando Mikelajáuregi
– con cui, oltre alla passione per il cinema e la musica classica, ne condividevo
una ancora più grande: le corse dei cavalli – mi fu offerto di presentare Fort Apache di John Ford e poi condurre il relativo dibattito. Accettai entusiasta, e così incontrai
per la prima volta il giovane, simpatico e intraprendente Rebordinos. Dopo la proiezione,
avendo notato che il mio entusiasmo per il film non era troppo condiviso dai presenti
in sala, chiesi a José Luis come gli fosse venuto in mente di contattarmi per l’occasione.
Con qualche giro di parole riconobbe che si erano rivolti a me come ultima ratio, perché nessuno voleva presentare il film di un fascista come John Ford. Così erano i tempi in cui vivevamo... e forse vivono ancora alcuni.
Sicché nel gruppo dell’assessorato municipale Pelo Cohete doveva essere una bestia
rara. Ma certo si fece valere; credo che con le sue conoscenze e la sua personalità
espressiva intimidisse un po’ gli altri.
La rivista che cominciarono a pubblicare, e che per alcuni anni fu la migliore del
genere in Spagna, fu chiamata «Nosferatu». Inutile dire chi avesse scelto il nome.
Su quelle pagine scrissero personaggi dei più eminenti, a cominciare da Guillermo
Cabrera Infante, che adorava Pelo Cohete (e lei adorava lui). Era molto bravo a fare
interviste, ne fece diverse buone e una memorabile a Narciso Ibáñez Serrador. Fu sempre
Pelo Cohete l’ispiratrice della Settimana del Cinema Fantastico e di Terrore, che
da più di trent’anni, a fine ottobre, si tiene a San Sebastián. Il resto dei membri
del gruppo di «Nosferatu» non erano grandi appassionati del genere. A José Luis Rebordinos
quello che allora piaceva tanto era il porno. Per colpa sua ebbi allora una discussione
civile con il vicesindaco Gregorio Ordóñez, che anni dopo sarebbe stato vigliaccamente
assassinato dall’ETA. A un certo punto il gruppo organizzò un ciclo di cinema porno.
Io e Pelo Cohete passammo un paio di settimane a casa sua a vedere film improponibili
per selezionare i titoli; entrambi li detestavamo non perché fossero brutti, ma perché
erano noiosi, ma Pelo Cohete rimaneva stoicamente sveglia fino all’ora beata a sopportare
glutei e verghe mentre io me ne andavo a letto a leggere il mio romanzo. Quando fu
annunciato il ciclo, Gregorio Ordóñez protestò in municipio (c’est le cas de le dire!) per il fatto che il denaro pubblico venisse sprecato in simile immoralità. Io gli
risposi ironicamente dalle colonne del «Diario Vasco», e la cosa si chiuse lì, senza
ulteriori contrattempi. Qualche anno dopo, rimpiansi che quello fosse stato il mio
unico rapporto personale con Goyo, un politico conservatore popolarissimo a Donosti,
che sicuramente sarebbe diventato sindaco. Per questo lo uccisero, non credete mai
alla versione della «violenza cieca».
La Settimana del Cinema Fantastico era il momento più felice dell’anno per Pelo Cohete.
Di lì passarono Santiago Segura e Álex de la Iglesia, Peter Jackson e Guillermo del
Toro, Robert Englund e addirittura Ray Harryhausen, Juanma Bajo Ulloa; alcuni personaggi
ormai consacrati, altri ancora sconosciuti ma destinati a diventare celebri in seguito.
Diversi di loro furono nostri ospiti a casa e apprezzarono i modesti prodigi della
decorazione ad hoc progettata da Pelo Cohete, anche se all’epoca era ancora ai suoi inizi. Mi è sempre
dispiaciuto che tra quegli ospiti VIP al nostro museo casalingo non figurasse l’incomparabile
Ray Harryhausen. Credo che si sarebbe divertito, perché l’ottanta per cento della
nostra collezione era un omaggio alla sua opera e alle sue creature. Ma Pelo Cohete
fu vittima di un eccesso di pudore: «Che cosa penserà il maestro di noi?». E perse
un’occasione, perché Harryhausen morì non molto dopo il suo soggiorno a Donosti. Ricordavamo
sempre le meravigliose parole che Guillermo del Toro gli aveva dedicato in un’intervista:
«La verità è che bisogna essere delle cattive persone per non apprezzare i film di
Harryhausen». Amen! Più tardi cominciammo ad avere problemi più gravi con gli etarras e i loro servizi ausiliari, di cui parlerò più avanti. Per due volte cercarono di
aggredire Pelo Cohete per strada finché non fu costretta a dotarsi di una scorta e
perse la facilità di movimento che le permetteva di assistere alle riunioni dell’Ente
per la cultura e alle proiezioni settimanali. Maturò l’impressione di essere diventata
un elemento di discordia e persino di essere malvista all’interno del gruppo, formato
da persone molto più accomodanti di lei per i tempi difficili che vivevamo. Aveva
un carattere forte, assai poco portato alla diplomazia e molto orgoglioso; si sentì
rifiutata e cominciò ad allontanarsi, cedendo il suo posto all’interno di una realtà
che praticamente aveva creato lei o quantomeno aveva contribuito decisivamente a creare.
Quella storia la fece soffrire molto e io non fui capace di aiutarla come avrei dovuto.
Perdere la Settimana del Cinema Fantastico e dell’Orrore fu uno dei suoi più grandi
dispiaceri. Già da diversi anni non aveva ormai alcun vincolo con l’evento quando,
in occasione del venticinquesimo anniversario, venne chiamata per partecipare alla
celebrazione. Ricevemmo la chiamata a Baltimora, dov’era stata appena operata per
la prima volta del tumore al cervello che l’avrebbe uccisa. Rispose senza esitare
ma rimase molto amareggiata. Quando si parla di vittime del terrorismo, spesso si
dimenticano altri tipi di attentati che, come questo, hanno distrutto delle vite non
meno delle bombe.
Tra i tanti vantaggi che ha portato Internet, uno dei pochi aspetti negativi degni
di menzione è l’evanescenza della corrispondenza, la perdita della sua dimensione
fisica. I messaggi in rete spariscono subito, cancellati a beneficio dei seguenti
(salvo nel caso di ricattatori e storici) e non lasciano la traccia di fogli piegati
nervosamente, buste con timbri quasi illeggibili e francobolli di paesi lontani, grafie
rivelatrici delle nostre personalità, parole con l’inchiostro stinto per l’umidità
di una lacrima o per un gocciolone di vino. Gli amanti del genere epistolare, che
ha prodotto squisitezze letterarie firmate da Madame du Deffand, Flaubert, Nietzsche,
Virginia Woolf, Ramón Gaya e via dicendo, oggi non hanno vita facile. Si scrivono
più missive che mai, ma è comunemente accettato che siano effimere. Per preparare
meglio queste memorie d’amore con Pelo Cohete o semplicemente per conservare più reliquie
di lei, tutte quante preziose per me, ho cercato le lettere che ci scambiammo nei
primi tempi della nostra relazione. Purtroppo sono uno di quelli che non conservano
nulla, né le cose belle né quelle brutte. Non ho mai ritagliato la recensione di un
mio libro e non possiedo quasi lettere dei miei corrispondenti più amati, salvo molte
inviatemi da Cioran e una molto speciale di Octavio Paz. A mia ulteriore ignominia,
non conservo quasi nessuna missiva dei miei flirt e neppure dell’unico amore della
mia vita. Adesso darei qualunque cosa per aver conservato qualcuna di quelle poesie
di Jacques Prévert che mi mandava agli inizi, copiate con la sua grafia ingenua e
ribelle.
Fortunatamente lei era molto più scrupolosa di me. Tra le cose che ha lasciato ho
ritrovato una scatola di legno senza fronzoli di alcun tipo (il che era strano, perché
le piacevano le belle scatole, laccate o metalliche, da quelle piccole come le bomboniere
a quelle che potevano contenere due o più scarpe). Piena di papiri, lettere, ritagli,
qualche foto, figurine, cartoline... C’erano molte lettere mie ancora nelle loro buste,
credo la maggior parte di quelle che le inviai nel corso degli anni precedenti all’avvento
di Internet. Erano indirizzate per lo più all’appartamento di Calle San Francisco,
a Gros, che condivideva con delle amiche. Dentro alla scatola ho trovato anche bigliettini
e foglietti con bozze delle lettere che lei mandò a me e io, ahimè, non ho conservato.
Mi tenta l’idea di riprodurne alcune, che forse possono aiutare a conoscere meglio
gli inizi della nostra relazione (perché quella relazione, quell’amore, è l’unico
tema di questo libro; il resto è silenzio). Tra le carte di quella scatola, copiata
con la mia grafia, c’è la splendida poesia che Fernando Pessoa dedicò alle lettere
d’amore e che può fungere da avvertenza al lettore rispetto a quello che segue:
Tutte le lettere d’amore sono
ridicole.
Non sarebbero lettere d’amore se non fossero
ridicole.
Anch’io ho scritto ai miei tempi lettere d’amore,
come le altre,
ridicole.
Le lettere d’amore, se c’è l’amore,
devono essere
ridicole.
Ma dopotutto
solo coloro che non hanno mai scritto
lettere d’amore
sono
ridicoli.
[...]
La verità è che oggi
sono i miei ricordi
di quelle lettere
a essere ridicoli.
Chissà perché Pelo Cohete, che amava molto Pessoa, aveva conservato questa poesia;
forse a mo’ di avvertimento. La maggior parte delle mie lettere risalgono ai mesi
estivi, soprattutto giugno e luglio, quando ogni anno ci separavamo (poi, ad agosto,
tornavo a Donosti per vedere lei... e per le corse dei cavalli all’ippodromo di Lasarte).
Io soggiornavo varie settimane a Torrelodones coi miei fratelli, con mia madre, con
mio figlio – che all’epoca aveva otto o nove anni – e coi miei nipoti – che erano
ancora più piccoli. Adesso a volte mi capita di rimpiangere il tempo perduto lontano
da lei, ma mi godevo ogni minuto anche di quello passato coi miei famigliari. Noi
che abbiamo conosciuto la felicità più improbabile e infrequente, quella familiare (naturalmente non priva di un’angoscia quasi inesprimibile, proprio perché originata
dalla felicità), siamo gli unici veri aristocratici, sempre in debito col passato,
sempre considerati incapaci di goderci davvero la vita dai non-parenti, sempre scettici
rispetto alle promesse di un futuro in cui non ci saranno più coloro che abbiamo amato
davvero, quelli che ricambiavano. Pelo Cohete era solita rimproverarmi il fatto che
per me, in sostanza, contassero solo i Savater, la protezione e la massoneria familiare.
Fu vero finché non mi innamorai di lei e anche dopo, ad esser sincero, nella forma
di una nostalgia sorda di un’inesplicabile armonia umana dalla cui perdita non mi
sono mai del tutto ripreso. Fatto sta che, dalla nostra villetta di famiglia a Torrelodones,
in un mese di luglio di inizio anni Ottanta, le scrivevo cose come questa:
Ho appena finito di farmi un bagno in piscina e di prendere un po’ di sole per abbronzarmi
e non vergognarmi di stare al tuo fianco quando ci rivedremo ad agosto. Ad ogni modo,
sai bene che vergognarmi accanto a te è uno dei miei sport preferiti... Mentre scrivo,
la gatta e i quattro gattini (sono nati tre mesi fa) giocano a una complicata versione
del nascondino inglese tra le mie gambe. Mio nipote Guillermo (undici mesi) insegue
il gattino bianco con quelle che Schopenhauer definirebbe intenzioni chiaramente omicide.
Per il resto leggo Santayana e Isak Dinesen, scrivo per una radio tedesca le mie «Istruzioni
per dimenticare Don Chisciotte» e fumo degli ottimi sigari Rafael González che ho preso a Ginevra. Dopo quattordici
anni di insegnamento e altrettanti libri pubblicati, le nostre autorità hanno generosamente
deciso di considerarmi idoneo per questa faccenda dell’Accademia. Sono molto contento! A quanto pare l’anno prossimo
vorrebbero affidarmi dei corsi a Zorroaga (ricordi quelle terme deliziose?), Saizarbitoria
e Atxaga: ci sarà modo di parlare con questa gente ad agosto? Domani vado a Madrid
a vedere L’uomo che sapeva troppo, stasera danno Il servo di Losey alla tele, per cui sono quasi completamente felice. Diciamo che mi manca
una certa cosetta... ma ne parleremo ad agosto, quando tornerò a Donosti.
Questo tono leggero è il più sopportabile delle mie lettere, piene di bagattelle (che
sono la materia di cui è fatta la vita vera), e con il loro puntuale tocco di ironia.
Altre volte, mi duole ammetterlo, diventavo melodrammatico e cominciavo ad appiopparle
storie del tipo che non avrei più potuto amare perché avevo il cuore spezzato (peraltro
sempre chiarendo che, dei tanti frantumi in cui era smembrato il mio muscolo cardiaco,
il più grande spettava a lei), che l’avrei fatta soffrire quando mi fossi allontanato
da lei perché il mio destino era andarmene (me ne andavo sempre), che avrebbe fatto
bene a trovarsi un altro fidanzato con uno stato d’animo migliore e con meno tendenza
alla fuga, eccetera. Tutte queste impresentabili panzane servivano solo a dissimulare
il mio panico rispetto all’idea di impegnarmi davvero, a mascherare la mia pretesa
di avere la botte piena e la moglie ubriaca, cioè di tenermi lei ma con il biglietto
di ritorno aperto, casomai avessi avuto voglia di rimettermi a mangiare uno di quei
piatti lasciati a metà che stavano ancora lì ad aspettarmi. Pelo Cohete mi dava spago
in quella mia vena romanticoide con tutta la sua più buona volontà, anche se fortunatamente
credo che mi prendesse meno sul serio di quanto non mi prendessi io. Così mi scriveva,
ad esempio: «Gioia dei miei giorni, desiderio delle mie notti, avrò mai la ventura
di vedere i tuoi pensieri volare da me? Mi pesa dover sopportare questa assenza e
maledico quelle future. Senza di te sono forza che fu, che geme in me e attende pazientemente
il tuo ritorno. Tutti i giorni sogno e cado in inganno, mi dico che non è importante
se tu ci sei o sei assenza. Che cosa non posso fare, che tu ci sia oppure no? Perché
deve essere lui a calmare la mia sete? Ma la mia capacità di resistenza si calcola
in secondi, non sono forte, sono stata formata a una debolezza che mi rende impossibile
resistere. Vivo tra la paura e la speranza...». Non inganni il tono, che sembra essere
stato contagiato dalle mie lettere peggiori: lei ha saputo prima addirittura di me
che io ero suo, ma ha avuto la delicatezza di farmi credere che le mie titubanze le
provocassero agonie d’amore. Si veda quest’altra bozza di una lettera che alla fine
forse non mi mandò mai, dove spunta un certo dolce timbro ironico: «Se il mio destino
fosse di amarti, male mio che mi fai bene, perché ostinarsi a evitarlo? Se mi dicessi
che il tuo corpo non sarà mai più la mia perdita, se cercassi di opporti al destino,
non potrei rinfacciartelo. Tuttavia, senza i miei baci, le tue labbra non si ritroverebbero
un po’ nude? Queste tue belle mani non si ritroverebbero un giorno a giocherellare
con sé stesse?». Insomma, rammentate le opinioni poetiche di Pessoa sulle lettere
d’amore. Le nostre, soprattutto le mie, sembrano fatte apposta per dargli ragione.
In quelle estati degli anni Ottanta e inizio dei Novanta passavo sempre alcune settimane
all’Università di Middlebury, nel Vermont, dove tenevo lezioni di cultura spagnola
per ispanoamericani che non ne volevano più sapere di quella che retoricamente veniva
denominata «Madre Patria» e – sospetto – a non ben dissimulati agenti della CIA che
si preparavano per lavorare in paesi iberoamericani. Ho dei buoni ricordi di Middlebury,
l’ho già raccontato in altre sedi. Ma ho anche trovato molte lettere (credo quasi
tutte) scritte da lì e conservate da Pelo Cohete. Ricordo le mie peregrinazioni quasi
quotidiane al piccolo ufficio postale sulla High Street della cittadina per assicurarmi
che la mia corrispondenza viaggiasse con tutte le garanzie postali richieste. Per
fortuna, quelle missive non avevano un tono troppo lamentoso e contenevano più che
altro battute e aneddoti. Ne trascrivo un paio a titolo d’esempio:
Ho sempre pensato che nel giardino dell’Eden dovessero essere tutti mezzi idioti benché
infinitamente felici. Ho avuto modo di verificarlo qui. Tutto è verde, florido e fresco,
i conigli e gli scoiattoli gironzolano liberamente per le strade, non si sente neanche
un clacson, la temperatura è deliziosa, e la gente sorride, amichevole e vegetariana.
Nessuno fuma, nessuno beve, nessuno pratica sesso in modo improprio o ostentato. Questa
è una grande e felice famiglia. Insomma, non vedo l’ora di tornare. Di tanto in tanto
mi chiedono con gentile interesse notizie dei Paesi Baschi e prendono diligentemente
nota delle mie risposte su un quadernetto. Poi fanno grigliate e spettacoli teatrali
e cantano canzoni country. Ieri hanno proiettato Tristana al cinema del College, ma non l’hanno apprezzata: troppo deprimente, mi hanno spiegato.
Una brunetta mi ha domandato stamattina perché nella letteratura spagnola appare così
tanto la morte. Le ho risposto che in effetti, di solito, la gente muore di tanto
in tanto. Lei ha annotato la risposta su un quadernetto agitando la testa con preoccupazione.
La mia vita è regolare, come sempre. Mi sveglio presto, preparo le lezioni, leggo
Emerson e Mark Twain, pratico il mio scarsissimo inglese. Mi ricordo a volte di esseri
lontani e amati, che sopportano con pazienza le mie debolezze e il cui affetto non
credo di meritare. Mi sento dunque melancolico, solitario e grato.
Amore mio, anche se ti scrivo il giorno della festa dell’Indipendenza in realtà non
sento alcun desiderio di rendermi indipendente. Al contrario, non sono mai stato così
felicemente dipendente come ora. Tutto quello che mi circonda e che tocco mi ricorda
te. Scrivo con il pennarello che abbiamo comprato insieme a Parigi e ogni volta che
lo uso mi scuotono raffiche di aria proveniente da Longchamp e mi si riempie la bocca
di confit de canard e pavé avec frites... Sono sempre stato così bene con te! Quando sono arrivato qui, il mio primo dispiacere
è stato accorgermi di aver dimenticato la tua foto, quella in cui hai l’aria tanto
feroce e seriosa – e tanto amata – che avevo con me l’anno scorso. Quando me ne sono
reso conto ho pianto come un cretino. Ieri ho visto La città e i cani, dal romanzo di Vargas Llosa. È un film onesto e tutt’altro che brutto, che si segue
con interesse costante. Credo sia il primo film peruviano che ho visto in vita mia...
Mentre ti scrivo suonano a festa le campane del College per il 4 luglio, e qualcuno
suona una melodia dolce e lamentosa con una cornamusa scozzese...
In questa scatola in cui conservavo i miei ricordi, scopro anche lettere spedite dal
Messico, la mia patria adottiva, dove andavo tutti gli anni a trovare il mio amico
Héctor Subirats e a godermi i piaceri sensoriali e intellettuali di una terra che
ho tanto amato e dove mi hanno tanto amato. Trovo una lunga lettera del novembre ’85
che merita di essere collocata nel suo contesto. Quell’anno ero stato invitato a tenere
alcune conferenze all’Università Nazionale Autonoma del Messico, che avrebbero dovuto
aver luogo a settembre ma erano state posposte per problemi di bilancio di quelli
che capitano in tutte le università del mondo. Posso dire senza esagerare né enfatizzare
la cosa che a quel rinvio devo la mia vita. Un paio di giorni dopo la data in cui
avrei dovuto arrivare a Città del Messico (avevo già le valigie pronte e il volo confermato)
si era verificato il grande terremoto che aveva provocato migliaia di vittime e distrutto
buona parte della capitale. L’hotel in cui avrei dovuto alloggiare, e dove ero già
stato altre volte perché si trovava vicino a casa di Héctor, aveva un nome premonitore:
Finisterre. Il sisma lo distrusse completamente uccidendo quasi tutti gli ospiti.
Data l’ora del disastro, tra le sei e le sette di mattina, non è azzardato supporre
che persino un uomo dai costumi poco morigerati com’ero io all’epoca si sarebbe trovato
a letto a quell’ora, ragion per cui il mio destino pareva segnato... retrospettivamente.
Alla fine mantenni l’impegno con l’UNAM a novembre e, come si legge nella lettera,
riuscii ad andare a passeggio per le strade della città sfondata dal terremoto. Ometto
di aggiungere che quello spettacolo mi emozionò fino alle lacrime (confesso che sto
versando molte lacrime in queste memorie, ma ho il pianto facile e, quel che è peggio,
emotivamente sincero). Non so se a causa dell’evento sismico, ma l’ultima parte della
lettera ricade nel ritornello ipocrita del «non ti merito», «puoi trovare di meglio»,
eccetera, salvo terminare con una nota molto più sincera quando aggiungo «spero che
tu non mi prenda troppo sul serio»... Forse volevo riportare la mia vita sentimentale
in equilibrio estetico con gli effetti del terremoto che si manifestavano tutt’intorno.
Faccio notare, inoltre, una coincidenza. Finisterre è stata anche la prima meta dove
ci siamo recati durante l’uscita autorizzata dall’ospedale di Pontevedra dopo la diagnosi
fatale (lo racconterò nell’ultima parte del libro). Lì abbiamo scattato la più bella
foto tra quelle chi ci ritraggono insieme, consolazione e al tempo stesso condanna
eterna della mia vita.
Ecco dunque la mia lettera messicana:
Questa città continua a sconcertarmi, con o senza terremoti. Ieri ci siamo coricati
dopo quattordici ore di viaggio, abbastanza distrutti e abbastanza ubriachi, perché
il whisky è l’unica medicina utile per sopportare tutto questo trambusto. Stamattina
alle sei siamo stati svegliati dal fragore delle trombe e dei tamburi militari: era
il cambio della guardia davanti al palazzo del Governo. Abbiamo capito che, ci piaccia
o no, ci toccherà svegliarci a quell’ora tutti i giorni. La nostra stanza si affaccia
sullo Zócalo, la grande piazza di Città del Messico, dove le campane della splendida
cattedrale suonano impietosamente... ogni quarto d’ora! Tomás ed io abbiamo chiesto
alla direzione dell’hotel una camera interna meno disturbata da frastuoni militari
o religiosi e il brav’uomo si è stupito: ma come, vi abbiamo dato la stanza con la
più bella vista di tutto l’hotel! La breve passeggiata notturna attraverso la città
ci ha rivelato ieri il peso della catastrofe: edifici piegati come ubriachi, case
non solo crollate ma irriconoscibili, schiacciate, polverizzate come se un gigante
le avesse calpestate con un piede. A volte ne vedi una caduta e accanto una intatta,
come se il fato dei terremoti scegliesse le sue vittime come quell’angelo sterminatore
che castigò i primogeniti d’Egitto. Lo dice bene Rilke: «Tutti gli angeli sono tremendi».
Domani terremo il nostro intervento alla UNAM, che ci occuperà tutta la mattina. Poi
saremo liberi di recuperare tutti i piaceri e le ombre di questa città che almeno
io amo così tanto. Spero che non sia troppo duro... Ti ricordo sempre con nostalgia
e tenerezza. Ho paura di perderti ma anche di diventare schiavo del tuo affetto, obbligato
a rinunciare a questa strana – a volte opprimente – inquietudine sessuale che è parte
integrante di me. Continuo a non capire come sia possibile che tu, così bella e così
forte, continui a essere affascinata da un uomo che non è una cosa né l’altra, uno
come me, per certi versi – e per tante cose – finito. Mi fa piacere – e mi spaventa – che tu mi ami, anche se non so perché. Ormai non
mi difendo più dal tuo amore, e soprattutto non mi difendo più dal mio amore per te.
Sei la vittoria dell’inatteso e della gioia sull’orizzonte vuoto dell’assenza irrimediabile.
La qual cosa è dolce e atroce, allarmante e carica di speranze. Ormai il tessuto della
mia vita, ahimè pieno di rammendi e rattoppi, è fatto in gran parte della tua fibra
indistruttibile: il filo del tuo amore mi trafigge in ognuna delle estasi in cui mi
sciolgo per te.
Un anno dopo trascorsi un trimestre lontano da lei in Italia, dove tenevo un corso
all’Università degli Studi di Parma, invitato da Ferruccio Andolfi. Alloggiavo in
un appartamento affittato da una signora gentile e passavo il mio tempo a guardare
la tivù in italiano, che mi affascinava per il dolce fruscio della lingua, e a fare
ogni sera interminabili telefonate con Pelo Cohete, entrambi ormai abbandonati alle
confidenze amorose. Ci è sempre piaciuto parlare al telefono, fino alla fine. Quando
ero in viaggio la chiamavo tutti i giorni, a volte anche due o tre volte, cosa che
spesso mi costava le canzonature dei miei accompagnatori, spesso sotto forma di elogio
ironico: «Certo che la ami proprio, accidenti!». Be’, sì, molto più di quanto potreste
immaginare, teste di mulo che non siete altro. Quando stavo in America, calcolavo
l’ora in cui l’avrei potuta chiamare, preferibilmente al momento del risveglio mattutino,
e allora le telefonavo, a costo di alzarmi alle tre o alle quattro di notte. Parlavamo
a lungo, a dispetto della distanza e del costo delle chiamate. A volte, quando magari
era già passata mezz’ora, per salvare le apparenze uno dei due diceva: «Senti, magari
riattacchiamo, se no questa chiamata ci costa un sacco di soldi», ma poi continuavamo
tranquillamente ancora per un’ora. In fondo non siamo stati amanti né «compagni» (orribile
espressione, adatta ai giochi di carte o al tennis, ma non all’amore) e neppure una
coppia sposata: siamo stati fidanzati, sempre fidanzati, fidanzati come – da che mondo
è mondo – sono tutti i fidanzati, quelli da «dai, riattacca tu», «no prima tu». Il
nostro record telefonico, però, lo stabilimmo durante quel mio soggiorno a Parma.
Che ubriacatura di conversazioni su questioni intime e pubbliche, politica e cinema,
su di noi che eravamo il mondo intero l’uno per l’altra. Per chiacchierare io usavo
il telefono dell’appartamento dove alloggiavo e non pensavo quanto avrei pagato per
quella logorrea in teleselezione. Una settimana dopo il mio ritorno a Donosti, mi
arrivò la fattura inviatami dall’attenta e preoccupata padrona di casa. La spesa equivaleva
quasi esattamente a quanto avevo guadagnato col mio corso all’Università di Parma,
per cui dopo aver saldato il debito mi resi conto che dall’avventura italiana non
avevo intascato neanche una lira. E tuttavia posso dire con assoluta convinzione che
si trattò di uno dei migliori affari della mia vita. Infatti, nonostante tutte quelle
telefonate (che stavano alla realtà delle nostre vite sminuzzate come quella mappa
di cui scrisse Borges, grande come il paese che rappresentava), avevo ancora voglia
di scrivere lettere come questa, trovata nella cassetta dei ricordi, che evidentemente
risale all’inizio del mio soggiorno a Parma, quando non avevo ancora alle spalle tutte
quelle ore di chiacchierate notturne:
Amore mio, non ho ancora avuto neanche il tempo di comprare i dolcetti che ti volevo
mandare, ma ti scrivo prima che cominci a maledirmi, come sei solita fare. Parma è
una città piccola e tranquilla, e i suoi abitanti (che effettivamente si chiamano
«parmigiani», come il formaggio) ne vanno molto orgogliosi. Ogni pochi metri c’è una
macelleria dove vendono il famoso Prosciutto di Parma, che loro considerano superiore
al Jabugo e a tutti gli altri prosciutti (è davvero buono, ma non fino a questo punto),
o un negozio di formaggi, pieno di forme del non meno celebre Grana, questo sì incomparabile.
Normalmente il Parmigiano che vendono in Spagna è secco e serve solo per essere grattugiato,
ma qui se ne trova di più morbido e fresco: un’esperienza indimenticabile! Spero solo
di non ingrassare, tra tante delizie... La città si attraversa facilmente a piedi
in mezz’ora, come San Sebastián. Tutti quanti, giovani e vecchi, vanno al lavoro in
bicicletta. Appena arrivato me ne hanno offerta una, che ho declinato gentilmente:
ho raccontato loro che qualcuno mi aveva riferito che il filosofo Nicolai Hartmann
era morto investito da un tram mentre andava a fare lezione in bicicletta (l’hanno
presa molto seriamente, come se gli avessi spiegato che fumare fa venire il cancro,
o cose così). Be’, io almeno so che non morirò così (parlo della bicicletta, del fumo
non so). Per il resto la gente è allegra e gentile e ti dà confidenza. Insomma, poi
ti racconto... Ti amo. Mi manchi.
A proposito delle salumerie non ho menzionato un aneddoto accaduto anch’esso all’inizio
del mio soggiorno ma di cui sicuramente ridemmo in una delle nostre conversazioni
telefoniche. Siccome, oltre al prosciutto, io frequentavo e celebravo anche il salame
locale, il mio anfitrione Ferruccio Andolfi mi raccomandò di assaggiare anche quello
di felino. In Toscana avevo già provato, con una certa riluttanza vinta solo dal mio
spirito di sperimentatore, il salame di carne d’asino, per cui mi dissi disposto ad
assaggiare il salame di gatto se questo serviva per approssimarmi al geniusloci. Sganasciandosi dalle risate, Ferruccio mi spiegò che il suo consiglio era di provare
i rinomati insaccati di Felino, una piccola località nei pressi di Parma dove mi condusse
per consumare un pranzo stupendo.
Prima di chiudere questa cassetta così piena di ricordi, ne menziono due a mo’ di
congedo. Il primo è una cartolina raffigurante l’arazzo della dama e l’unicorno del
Musée Cluny di Parigi, su cui avevo scritto poche righe che ricordavano i primi tempi
in cui condividevamo la casa in Calle del Triunfo 3 a Donosti, quando io ogni settimana
prendevo il vagone-letto da Madrid per arrivare la mattina presto a San Sebastián:
«Amore mio, questo unicorno narcisista che si guarda nello specchio della bella dama
ha più o meno la stessa espressione che mostro quando arrivo all’alba a Donosti e
ti trovo ancora a letto. Vero?». L’altro ricordo è un bigliettino con poche righe
scritte da lei, la cui prima frase mi emozionò per via del suo inatteso tono profetico:
«Se per qualche motivo tu dovessi ricordarmi, che sia accanto a quella che, insieme
alla musica e all’amore, è la mia maggiore fonte di piacere: il cinema. Laurence Olivier,
Orson Welles, Joan Crawford, Anne Baxter e film come Falstaff, Queimada, Da qui all’eternità, che rimarranno anche quando noi...». Qui si interrompe quel breve testo, come decenni
più tardi si sarebbe interrotta la sua vita, quando c’era ancora tanto da aggiungere...
Pelo Cohete ed io viaggiavamo molto insieme. In alcune occasioni mi accompagnò alle
conferenze a cui mi avevano invitato all’estero, più spesso abbiamo visitato luoghi
che lei voleva conoscere, e ci inventavamo progetti di lavoro che ci obbligavano a
muoverci insieme. A me piaceva tornare con lei nelle città che già conoscevo per impressionarla
facendole da cicerone. In realtà, però, era lei a scoprire le cose più belle, vivaci
e interessanti dei luoghi che credevo di aver perlustrato da cima a fondo. È uno degli
svariati miracoli dell’amore: lo stupore del mondo che si rivela attraverso lo sguardo
della persona amata. Non sono mai stato un buon viaggiatore, e nemmeno un buon turista;
alcune volte ho scritto che il mio momento preferito di un viaggio è quello del ritorno
a casa. Non entrano nel computo le spedizioni internazionali per motivi ippici, per
la stessa ragione per cui non potrebbe essere conteggiata come visita turistica il
pellegrinaggio a Lourdes del malato in cerca di guarigione; sono stato per molti anni
(e continuo ad essere) un pellegrino del turf, ma solo per curarmi l’anima, non per conoscere il mondo. Delle ragioni abituali
per cui si viaggia, le meraviglie artistiche mi stufano in fretta e i paesaggi dopo
un po’ mi annoiano. Si narra che un giorno, passeggiando in un giardino, così rispose
Voltaire a un amico che gli aveva manifestato ammirazione per quanto erano cresciuti
certi alberi: «È che non hanno altro da fare», massima che per quanto mi riguarda
vale per tutta la Natura nel suo insieme maestoso. Eppure, quando viaggiavo con lei,
rinasceva il mio interesse per l’arte, per le bellezze naturalistiche e per tutto
quello che incontravamo sul nostro cammino. Non mi emozionava quello che vedevo o
rivedevo; mi emozionava vederla vedere le cose e condividere con me le emozioni che
provava nel vederle. Quel gesto non mi stancava e non mi deludeva mai. I paesi esotici,
i musei che custodiscono capolavori, sono luoghi dove troviamo novità che ci meravigliano
e commuovono, ma solo fino a un certo punto. Solo la persona amata è un paesaggio
inesauribile, e il dono della sua compagnia rappresenta l’unica grazia che trasforma
il fortunato in un artista inaspettato.
Il primo dei nostri viaggi insieme fu quello a Venezia. Io c’ero già stato varie volte,
anzi avevo addirittura festeggiato più di un capodannoalla Trattoria da Bepi, in Strada Nova, in compagnia di buoni amici. Lei, invece,
non conosceva quella città inverosimile. Il primo giorno interpretai goffamente il
ruolo proteiforme di cicerone dell’arte veneziana, sensale di delizie gastronomiche
locali e amante appassionato. La prima notte, dopo una lauta cena accompagnata (solo
nel mio caso, ovviamente) da abbondante vino, svolsi abbastanza gagliardamente il
mio dovere amoroso. La mattina seguente, tuttavia, ormai evaporate le infide brume
etiliche, non approfittai del rinnovato impulso erotico dell’aurora per migliorare
significativamente le mie performance erotiche. Ahimè, come scrisse l’ormai dimenticato
André Maurois nel titolo di uno dei suoi deliziosi libri, L’inatteso arriva sempre. Era ancora molto presto quando fui svegliato da un malessere che conoscevo fin troppo
bene e che non potevo confondere con i banali effetti della sbronza: mi stava venendo
una colica renale. All’epoca ne soffrivo di frequente, eredità di mio padre che nei
reni custodiva un’autentica miniera. Questo hobby così doloroso è una delle poche
cose brutte che la vecchiaia ha attenuato. Ma ai tempi di quell’alba veneziana ero
ancora giovane e mi trovavo a letto con la donna che amavo. Mi ero fatto l’idea che
quella prima mattina in laguna sarebbe stata inaugurata dai gemiti di piacere e non
da quelli provocati dal dolore ai reni, per cui calcolai quanto mancava – secondo
la mia esperienza pregressa – all’acme della colica, e mi misi all’opera per assolvere
al mio compito erotico. Lo feci con un’urgenza in cui si combinavano il desiderio
e le prime fitte di una sofferenza fisica che andava peggiorando. Lei si svegliò a
metà, sorpresa e lusingata da un attacco così veemente. Anche se prediligeva il sesso
«romantico» e le coccole rispetto a quello duro («Certo che sei ben poco romantico,
tesoro mio: anzi sei proprio un bruto», era solita dirmi: e aveva ragione), quella
mattina rispose come un’autentica leonessa. E io non intendevo certo deluderla. Non
sono mai stato peggio godendo così tanto. Quando mi misi a rovistare nella valigia
e trovai il Buscopan, la colica era ormai in ritirata, forse spaventata dall’accoglienza
passionale che aveva ricevuto. Cercai allora di rivendicare i miei meriti, cupiditas omnia vincit, ma lei, dal bidet, replicò con affettuosa ironia: «Una colica renale? Be’, speriamo
che te ne vengano altre...».
Tornammo tante altre volte a Venezia; per un breve periodo, addirittura, ci stabilimmo
nella città dei dogi in un appartamento generosamente prestatoci da José Ángel González
Sainz. Il nostro piccolo alloggio si trovava in una zona lontana dal flusso turistico
e abitare lì non era esattamente come essere ospiti al Danieli (una volta ci capitò
di passare un capodanno anche al Danieli, invitati da una fondazione generosa ma non
troppo: ci appiopparono una stanza che sembrava uno sgabuzzino). Conoscemmo in quell’occasione
una Venezia più intima, più reale, se mai è possibile accostare questo aggettivo a Venezia. Facevamo la spesa in modesti
negozi del quartiere e frequentavamo trattorie dove non aveva mai messo piede neanche
un giapponese. Una sera, ormai a tarda ora, stavamo rientrando a casa dopo aver fatto
mille giri e aver sbagliato ripetutamente strada, quando a una svolta ci imbattemmo
in una targa che recava scritto: qui nacque giacomo casanova. Lo presi come un messaggio beneaugurante, perché è uno dei miei eroi letterari favoriti.
In un’altra occasione (forse in un altro viaggio) fummo sorpresi dall’acqua alta, accompagnata da un forte acquazzone, e fummo costretti a rifugiarci in un piccolo
negozio di ottica, quello del designer di occhiali Danilo Carraro. Poiché le condizioni
climatiche non miglioravano e mi vergognavo a fare la figura dello squatter, provai
diverse audaci montature di Carraro e alla fine acquistai degli occhiali grandi e
quadrati, di color arancione, i primi della mia collezione un po’ stravagante che
arricchivo a ogni soggiorno veneziano e che diventarono all’epoca uno dei miei contrassegni
d’identità. A Pelo Cohete piaceva che indossassi un certo tipo di cose un po’ ardite:
camicie a fiori, costumi da bagno un filino audaci, impermeabili con grandi cinture
alla Humphrey Bogart, cravatte di colori sgargianti... Se mi vestivo in modo più convenzionale,
non nascondeva la sua profonda disapprovazione: «Ma quanto ti invecchia!». Tornando
ai miei occhiali veneziani, mi propiziarono un incontro divertente. Eravamo a Parigi,
in rue de Rivoli, e lei stava curiosando in un negozio a quanto pare molto fashion che però non mi stuzzicava particolarmente. Decisi dunque di rimanere ad aspettarla
fuori e di prendere un po’ d’aria. Mi transitò davanti un passante di mezza età, senza
occhiali, che si fermò a guardarmi e, indicando i miei, domandò: «Danilo Carraro?».
«Carraro!», risposi deciso, come se si trattasse della parola d’ordine in un film
di spionaggio. Lo sconosciuto sorrise soddisfatto, mi salutò col pugno chiuso e il
pollice sollevato e proseguì il suo cammino.
Visitammo insieme paesi un po’ fuori mano come l’Islanda (durante il volo di andata
mi persero la valigia, dove tenevo i vestiti pesanti e una bellissima edizione illustrata
di Viaggio al centro della Terra, che ancora oggi lamento di aver perso), dove si mangiava malissimo ma ci divertimmo
molto. Lei si divertì a girare video maliziosi dei miei goffi tentativi di camminare
su un ghiacciaio (sono abominevole, come uomo delle nevi) e ad affascinare i nostri
compagni di viaggio sul bus turistico con la sua agilità ad arrampicarsi sui dirupi
più scoscesi appena ci fermavamo un attimo ad ammirare una cascata o un geyser. La
sera andavamo in una qualche discoteca vicino all’hotel, dove ancheggiava con la sua
grazia spontanea senza alcuna intenzione di provocare (era la donna meno civettuola
che conoscessi, pur avendo tanto di cui vantarsi) e io me la dovevo vedere con certi
troll con qualche litro d’alcol di troppo nelle vene che le ronzavano intorno in ammirato
silenzio. Ricordo noi due nelle calde acque solforose della Laguna Blu di Reykjavik,
a sguazzare languidamente sotto una nevicata e a vedere come i fiocchi si volatilizzavano
prima di toccare le nostre teste, come se fossimo stati coperti da una cupola invisibile.
Anche se per me la vera sorpresa fu scoprire che tutte le austere chiese islandesi
avevano dei gabinetti all’ingresso, accanto a degli utili guardaroba; una buona prova
del fatto che i pastori di quelle chiese credevano nella resurrezione dei corpi e
dunque non tralasciavano di occuparsene là dove si curano anche le anime.
Un’altra meta turistica remota e felice per noi fu in Giappone. Lei aveva sempre molto
apprezzato, fin da quando la conobbi, l’estetica giapponese. All’epoca vestiva sempre
di bianco e nero, con spille e altri ornamenti di gusto tipicamente orientale. E le
composizioni floreali erano la più grande passione della sua vita ben prima di aver
sentito parlare dell’ikebana. Le ciotole, i vassoietti, i bastoncini, le teiere e le altre meraviglie dei servizi
giapponesi da tempo erano diventati presenza costante sulla nostra tavola, a volte
come semplici elementi decorativi. Sicché quando la Japan Foundation ci invitò, non
discutemmo molto prima di accettare. Io ero già stato in Giappone alcuni anni prima
e conservavo un ottimo ricordo di quell’esperienza. Naturalmente il tempo non era
passato invano e il viaggio per Tokyo era diventato più agevole: la prima volta che
ci ero andato avevo dovuto prendere un volo per Amsterdam, da lì a Boston, da Boston
ad Anchorage (rammento ancora il grande orso polare imbalsamato che campeggiava in
piedi nell’aeroporto: il mio unico ricordo dell’Alaska), e infine, dopo aver sorvolato
il Polo, ero atterrato a Tokyo. Quando arrivai, scoprii che mi avevano perso il bagaglio,
come del resto è naturale, dopo tutti quei trasbordi. Accettai la perdita con sconsolato
fatalismo (dove venderanno gli spazzolini da denti e le mutande a Tokyo?), ma il mio
amico Fernando Sánchez Dragó, che mi ospitava a casa sua, fece il diavolo a quattro
in aeroporto cercando di convincere i dirigenti – che non avevano alcuna colpa della
mia tragedia – che io quell’anno ero dato come quasi sicuro vincitore del Premio Nobel
per la Letteratura (?), che avrei potuto perderlo se non avessi recuperato il bagaglio
(??) e che in tal caso avrei denunciato l’aeroporto di Narita per danni (???), eccetera.
Gli addetti ascoltarono queste frottole con l’abituale cortesia locale e la verità
è che l’indomani uno di loro si presentò con la sua auto a casa di Fernando per riconsegnare
il bagaglio smarrito. Non ho mai incontrato persone educate e gentili come i giapponesi.
In compenso, quando ritornai in Giappone con Pelo Cohete, prendemmo un volo diretto
Madrid-Tokyo. La Japan Foundation ci mise a disposizione una vettura con autista per
i nostri spostamenti e inoltre un o una interprete (a seconda della città) per supplire
alla nostra indigenza linguistica. Inoltre ci facilitò l’accesso a musei, monumenti
e incontri con personalità dei nostri ambiti professionali. Lei si divertì a visitare
studi cinematografici (in uno di essi incontrò il regista cinese Zhang Yimou che lavorava
a un film e che lei ammirava molto) ben più di quanto mi divertii io a visitare dipartimenti
di etica nelle università di Tokyo e Kyoto. I miei interessi accademici – lo riconosco
– sono sempre stati molto modesti, soprattutto a latitudini remote, dove le difficoltà
linguistiche formano una barriera quasi invalicabile. Ad ogni modo, per salvare la
faccia dinanzi alla squisita cortesia dei miei ospiti, formulavo qualche domanda a
caso o rispondevo, sempre a caso, a quelle che per rispetto rivolgevano a me. Per
fortuna, probabilmente la mia stupidità si diluiva nell’incomprensibilità grazie al
lavoro dell’interprete. Una volta questi mi riferì che un membro del dipartimento
era interessato a sapere se anche nella virtuosa Spagna i giovani si baciavano e accarezzavano
in pubblico con ostentata sfacciataggine. Dopo la mia risposta affermativa mi domandò
che cosa ne pensassi di questo scandaloso fenomeno. Gli risposi sinceramente che ero
molto invidioso, e stavolta la traduzione dovette essere abbastanza fedele, perché
mi guadagnai molti sguardi di divertito stupore tra i professori. Il problema non
è che i giapponesi siano puritani dal punto di vista sessuale, tuttavia sono molto
rispettosi delle convenzioni sociali, soprattutto di quelle che stabiliscono i diversi
ruoli del maschio e della femmina. Un esempio per tutti: per andare da Tokyo a Kyoto
avevamo deciso di prendere il famoso «treno proiettile», che ci sbalordì (parlo di
oltre venticinque anni fa) per la sua velocità e per il design d’avanguardia. Ci accompagnava
la nostra interprete, una ragazza giovane e molto sveglia che cominciò a lasciarsi
andare a commenti leggeri e ironici sul suo paese quando si convinse che eravamo capaci
di apprezzarli. Durante il tragitto, come sempre, Pelo Cohete scherzava con me, io
le tenevo il braccio intorno alle spalle e mi chinavo verso di lei per indicarle alcuni
punti del paesaggio, ostentando ingenuamente la nostra affettuosa complicità. Più
tardi la nostra accompagnatrice ci riferì tra risolini le critiche che il nostro atteggiamento
aveva suscitato presso alcune signore di mezza età che sedevano dietro di noi: «Io
non farei mai cose del genere con mio marito... neanche a casa!». L’interprete ci
ricordò che l’eccessiva urgenza amorosa della donna era considerata un motivo di divorzio
da qualunque maschio rispettabile.
Può darsi che da allora i costumi giapponesi siano cambiati. Tuttavia, all’epoca di
quel viaggio, la gerarchia tra uomo e donna era ancora chiara. Nelle nostre visite
ai dipartimenti di filosofia, di tanto in tanto Pelo Cohete formulava qualche domanda
ai professori, alternandola alle mie. Le rispondevano con grande gentilezza, ma sempre
rivolgendosi a me, come se io fossi stato una specie di ventriloquo e lei la mia bambola
portafortuna. Durante i ricevimenti ufficiali che ci offrivano gli organizzatori,
gli uomini si sedevano a un capo della tavola e le donne all’estremo opposto (cosa
che, venendo dai Paesi Baschi, non ci stupiva più di tanto: durante l’adolescenza
e la prima gioventù, quando andavamo in giro per bere nella parte vecchia di San Sebastián,
lo facevamo in gruppi separati di maschi e femmine). Pelo Cohete non lo consentiva,
così come non si rassegnò mai al fatto che ci separassero nei pranzi o nelle cene
formali alle ambasciate o in occasioni simili. Senza farsi grossi scrupoli, arrivava
per prima al tavolo e cambiava i segnaposto di ciascuno in modo da potersi sedere
accanto a me con sorriso di sfida. I nostri rispettabili ospiti tolleravano questo
oltraggio al protocollo da parte sua... anche se in fondo a me la cosa piaceva e divertiva.
In fin dei conti, che senso aveva ammettere la convenzione che ci considerava due
entità separate quando noi sapevamo che di fronte al mondo sociale eravamo una cosa
sola? Oltretutto i dirigenti della Japan Foundation avevano un discreto senso dell’umorismo.
In una cena di gala che ci offrirono a mo’ di commiato, il presidente pronunciò un
breve discorso sui grandi imperi moderni; quello spagnolo, che era durato tre secoli;
quello inglese che aveva prevalso per uno; quello nordamericano, che aveva già più
di sessant’anni di età... «Spero che il Giappone possa avere almeno quindici anni
di egemonia», concluse.
L’aneddoto più divertente di quel viaggio fu la nostra visita, grazie ai buoni uffici
della Fondazione, a un monastero buddhista per partecipare alla cerimonia del tè.
Lei era molto interessata alla cosa perché le avevano detto che lì avrebbe trovato
un giardino zen molto bello (anche se ne avevamo visti molti altri, non si stufava
mai), e a me faceva piacere perché faceva piacere a lei, anche se per i miei gusti
i giardini zen si somigliavano tutti (ma forse era la mia sensibilità grossolana a
non farmi cogliere le differenze). Entrammo dunque nel complesso monastico con il
dovuto rispetto e la consigliabile cortesia. Devo dire che a me tutte le religioni
sembrano altrettanto assurde nella loro interpretazione categorica dell’universo e
nel ruolo inverosimilmente centrale che vi svolgiamo noi umani. Ma si tratta di un
assurdo giustificato, quasi necessario: è indispensabile rendere in qualche modo poetica
la vita per dare un certo sollievo alla mancanza di significato, cioè all’insignificanza del nostro cosmo e a quella del cosmo stesso. Siamo animaletti che si nutrono del
mangime più improbabile, ovvero di significati. E quantunque i significati parziali che immaginiamo non abbiano la certificazione
di un essere superiore, non per questo sono da sottovalutare. Il che scusa le religioni,
per quanto inverosimili, e la filosofia, che cerca di svolgere un ruolo simile a quello
delle religioni ma minimizzando i danni di un’immaginazione fanatica tramite le cautele
della Ragione. Come scrisse il grande Lev Šestov: «Per affrontare il possibile, possiamo
contare sui nostri simili; per l’impossibile non ci resta che Dio». Chiedo scusa per
la digressione: mi ero ripromesso di raccontarvi la mia vita con lei e non filosofare
più.
Nella nostra visita al monastero ci accompagnò un giovane monaco spagnolo che viveva
lì già da vari anni. Il giardino promesso non era meno bello della media, le stanze
sembravano austere scatole di legno che emanavano dolce profumo di sandalo e i cui
pavimenti scricchiolavano sotto i nostri passi a piedi scalzi. Qua e là incontravamo
altri monaci furtivi e silenziosi. Forse per la mia clerofobia (che investe in egual
misura tutte le chiese), quelle comunità di maschi celibi senz’altra compagnia carnale
che quella di loro simili con le mani sudaticce mi fanno lo stesso effetto di un seme
secco. Credo che senza presenza femminile non esista santità possibile, e neppure
completa umanità. Pelo Cohete lo disse ad alta voce, con più sincerità che malizia:
«Insomma qui non ci sono donne». Mi parve che la nostra guida arrossisse un po’, mentre
spiegava col suo sorrisino da coniglio: «Al contrario! Vengono spesso: a pulire, a
cucinare...». Davanti all’inappellabile «Già...» di Pelo Cohete, preferì risparmiarsi
ulteriori spiegazioni. In sé, la cerimonia del tè consiste in una serie di gesti austeri
e leggermente maniacali per far durare il piacere di una buona tazza di bevanda verde
e cremosa. A quanto pare per molto tempo il tè che arrivava dalla Cina (come tutto
ciò che non portarono in Giappone i gesuiti spagnoli) fu un bene prezioso che non
si poteva consumare senza i debiti riguardi, come oggi i connaiseurs degustano un calice di grand cru facendovi ondeggiare dentro il liquido, aspirandone l’aroma e cercando di farlo durare
più a lungo possibile. Insieme al ragazzo spagnolo si occupò della cerimonia un altro
monaco, più vecchio e di aspetto più severo, che ci mostrava con una certa prosopopea
tutti gli ammennicoli utilizzati: la teiera, le tazze (ci avvisarono che erano molto
antiche) e il pennello per rimescolare la polvere verdastra dissolta nell’acqua calda.
Dopo aver provato la bevanda, quasi bollente, apparvero su uno splendido vassoio due
paste piuttosto grosse per accompagnarla. Pelo Cohete le osservò con scarso entusiasmo.
Anche se non sono un grande appassionato di dolci, ne presi uno con risolutezza e
mi disposi a dargli un piccolo morso di cortesia. Il nostro compatriota mi indicò
discretamente che dovevo consumarla intera. Era una specie di biscottone appiccicoso
che riempiva completamente la cavità orale e obbligava a respirare dal naso. Cercai
di esprimere il mio apprezzamento a gesti, perché non riuscivo a proferire parola
e se avessi provato a emettere un suono avrei espulso una nube di briciole. Incrociando
il mio sguardo con quello di Pelo Cohete, che si trovava a quanto pareva in una situazione
simile, a entrambi scappò una risata intempestiva e, date le circostanze, forse addirittura
un po’ blasfema. Cercavamo di deglutire senza scoppiare a ridere, perché non era certo
il caso di offendere i nostri premurosi ospiti. L’allegria spontanea è inopportuna
in tutti i templi; Cioran disse una volta che in fondo tutte le religioni sono crociate
contro lo humour. Il monaco spagnolo si era accorto della nostra ilarità e faceva
sforzi improbi per non lasciarsene contagiare, perché ancor prima che monaco, era
giovane e spagnolo. Per dissimulare il suo disagio, richiamò la nostra attenzione
sulle venerabili tazze che avevamo utilizzato e su non so quale santa iscrizione presente
sul fondo; per mostrarmela capovolse la tazza con così tanta sfortuna che questa rovesciò
sul tappetino il liquido che conteneva. Il superiore lo fulminò con uno sguardo che
doveva essere l’equivalente buddhista dello sparo alla nuca, e così si concluse la
nostra cerimonia del tè.
Ho sempre rimpianto – oltre a tante altre cose! – di aver fatto pochi viaggi insieme
in America Latina, la parte del mondo non europea che ha contrassegnato più a fondo
la mia vita. Avevamo in programma una spedizione in Messico per scrivere il capitolo
dedicato a suor Juana Inés de la Cruz nel nostro libro Aquí viven leones (Qui vivono i leoni). Alla fine però andammo solo in Argentina, sia pure attraversandola da un capo all’altro:
Patagonia, Ushuaia, Bariloche, e l’anno dopo Misiones, a salutare la cascate di Iguazú.
Di entrambi i viaggi conservo teneri ricordi, ma soprattutto ritratti di zoologia
pratica: il condor che, durante l’escursione in barca per osservare da vicino il ghiacciaio
del Perito Moreno, vedemmo entrare e uscire dal suo antro roccioso; i caimani yacaré
che, nella provincia di Misiones, galleggiavano sui fiumi come tronchi astuti accanto
alla nostra canoa; il ronzio da minuscolo bombardiere di un colibrì in un’aiuola fiorita
di fronte alle cataratte... Quanto le erano piaciuti quei viaggi, progettati solo
per lei! Mi piacerebbe ricordarla sempre con il sorriso di quei giorni argentini,
non con l’espressione amara di tanti brutti momenti che sono venuti dopo... Tuttavia
anche allora vi furono momenti in cui le lacrime bagnarono i suoi occhi. Accadde nella
provincia di Misiones, un pomeriggio in cui eravamo andati a visitare un negozio dove
vendevano le pietre semipreziose del luogo (io volevo a tutti i costi comprare un’ametista,
come quella che usava Nerone per contemplare le orge in Quo vadis?). Prima di arrivare al negozio, il taxi dovette rallentare per attraversare una spianata
ghiaiosa dove fummo circondati da una dozzina di bambini dai sei ai dodici anni, che
ci offrivano caramelle e chiedevano dollari con il simpatico quanto asfissiante chiasso
tipicamente terzomondista. L’assedio durò per un po’, forse cinque minuti, e il tassista
fu costretto a suonare il clacson perché gli bloccavano il passaggio. Io non diedi
importanza alla cosa, al di là dell’impazienza e dell’imbarazzo provati dinanzi a
quei teneri postulanti (chiedendomi come sempre, banalmente, perché non fossero a
scuola), ma all’improvviso mi accorsi di quanto quello spettacolo la facesse stare
male. Le vidi gli occhi riempirsi di lacrime e le labbra tremare nel tentativo di
spiegarmi quasi furiosamente che cosa le stava succedendo: «Dai, andiamo! Questi bambini,
i bimbi poveri... Tu non hai idea di che cosa voglia dire... Dagli qualcosa, per piacere,
che non ce la faccio a vederli così». Al negozio ci fermammo appena dieci minuti,
prima di rientrare in hotel.
La maggior parte dei nostri viaggi furono in Europa, com’è ovvio. Andammo tante volte
in Italia, dopo quella prima visita a Venezia. Riconosco che adoro l’Italia – mi piacciono
persino i suoi difetti! – e Pelo Cohete talvolta me lo rimproverava. Secondo lei,
mi bastava atterrare a Malpensa o Fiumicino perché mi venisse una faccia da beota
che durava fino al momento del ritorno: «Rieccoti col tuo sorrisino italiano», mi
rimbrottava. Un viaggio a Firenze coincise con la promozione di uno dei miei primi
libri, che era appena stato tradotto. La casa editrice Laterza aveva avuto la bella
pensata di piazzare una mia fotografia stampata a grandezza naturale su un cartone
sagomato, a mo’ di richiamo pubblicitario nelle librerie, temo con effetto dissuasivo.
Di sicuro mi rovinava il piacere di curiosare tra le novità librarie italiane, la
cui pregevole veste editoriale tanto apprezzo. Prima di entrare da Feltrinelli o in
qualunque altra libreria, mandavo Pelo Cohete in avanscoperta a controllare se anche
lì c’era il mio spaventapasseri: lei entrava nel negozio con un’affettata mimica da
guida indiana, e ne usciva per dirmi che il mio sosia non c’era oppure che era il
caso di darsela a gambe. Anche il bell’ippodromo romano delle Capannelle fu meta ricorrente
dei nostri pellegrinaggi, per assistere al Derby italiano o al Premio Presidente della
Repubblica, che si correvano a maggio. Anche se lei non era esattamente un’appassionata
del turf, si divertiva ad accompagnarmi alle corse e a fare le veci della fotografa, un ruolo
che svolgeva in modo eccellente. Nel paddock delle Capannelle c’erano dei jockey che ormai si erano abituati alla sua presenza e addirittura si mettevano in posa
quando la vedevano, come il simpatico Mirco Demuro. Con quelle foto, scattate negli
ippodromi più svariati, illustrammo A cavallo tra due millenni, il libro in cui celebravo le corse dei cavalli, uno dei vari apogei della mia vita.
Di tanto in tanto, a Pelo Cohete rimaneva impresso un campione e lo seguiva con passione,
come le accadde con lo splendido Sea the Stars. Due anni prima della nostra tragedia, spuntò fuori in Inghilterra un cavallo che
secondo alcuni è il miglior purosangue di tutti i tempi: Frankel. Io l’avevo visto correre quando aveva due o tre anni, e mi ero entusiasmato. Ad
agosto decidemmo di recarci a York, dove si disputava l’International, la sua gara
più importante fino a quel momento. Il nostro obiettivo era prima di tutto vedere
la corsa, e poi fotografare il purosangue fuoriclasse. Ci accompagnava il buon amico
comune José Luis Merino, elemento insostituibile della nostra squadra. Da eccellente
direttrice della fotografia qual era, Pelo Cohete predispose tutto quello che serviva
per immortalare il momento della vittoria. Io mi posizionai sulle gradinate per assistere
alla prova tranquillamente, mentre loro due si piazzarono vicino alla pista, in prossimità
del traguardo. José Luis si doveva occupare della fotocamera grande, lei di un’altra
più piccola, oltre che di gridare «Azione!» al momento opportuno. La prova fu un’impressionante
dimostrazione di potenza da parte del campione. Dopo aver affrontato la curva nelle
retrovie del gruppo, cominciò ad avanzare sempre più veloce sul lungo rettilineo di
York, sorpassando i suoi avversari – tra i migliori cavalli del momento – con una
facilità irrisoria, quasi fossero dei cippi piantati in mezzo alla pista. Fu uno di
quei momenti gloriosi del turf in cui si alza un clamore tra gli appassionati che non c’entra nulla con le scommesse
o le simpatie personali di ciascuno, ma in cui risuona l’ammirazione per l’ideale
del purosangue perfetto fatto carne mortale. Io gridai, tutti gridammo. E naturalmente
gridò anche lei con tutta l’appassionata veemenza con cui si schierava sempre dalla
parte della vita. «Frankel!», esclamò alzando le braccia bruscamente e rifilando un
tremendo scossone a José Luis, che a momenti perdeva sul prato la Canon accuratamente
messa a fuoco, mentre lei teneva la Leica puntata verso le nuvole. Avete indovinato:
non ci fu nessuna foto. Ma grazie a questo nessuna macchina si interpose tra noi e
la travolgente estasi della comunione con l’invincibile.
Quando mi invitavano per qualche attività professionale in un paese che lei non conosceva,
a volte riuscivo a convincerla ad accompagnarmi. Così visitammo insieme Vienna, Budapest
e Berlino. E anche Bucarest. A me la Romania interessava soprattutto perché era la
patria dell’ufficialmente apolide Cioran, che tanto ha influito nella mia vita. Ma
condividevo con Pelo Cohete anche la passione per il personaggio storico più famoso,
o forse dovrei dire più infame, di quel paese: Vlad Tepes, alias Dracula, il principe
tenebroso. Naturalmente il «nostro» Dracula doveva molto di più a Bram Stoker e a
Tod Browning che al personaggio di cui si occupano gli storici professionisti. E mi
sembra assai comprensibile che i romeni storcano il naso quando gli domandiamo delle
gesta del vampiro, perché la prendono per una mancanza di rispetto nei confronti di
un eroe nazionale. Immaginatevi se degli stranieri interpretassero a loro modo la
leggenda tradizionale secondo la quale il Cid Campeador vinse una battaglia da morto
e ne facessero un personaggio di The Walking Dead; o addirittura, come amava ripetere un mio amico buontempone, immaginate se credessero
che Charlton Heston sia sepolto nella cattedrale di Burgos... Ad ogni modo, io e lei
avevamo i nostri miti condivisi e non ci arrendemmo finché non fu possibile visitare
il presunto castello di Dracula (capitò la stessa cosa a Londra quando ci recammo
in visita al 221B di Baker Street, che non esiste sullo stradario, ma esiste eccome
nell’immaginazione, dove tutto conta di più) e comprammo le chincaglierie da merchandising più oscene e divertenti tra quelle in vendita. Ancora oggi mi capita di imbattermi
in alcuni di quei ricordi tra queste pareti ormai solitarie, loro sì davvero spettrali,
che mi riportano alla mia vera casa.
A Bucarest mi aveva invitato l’Istituto Cervantes, per parlare delle mie traduzioni
di Cioran e dell’accoglienza – particolarmente calda, peraltro – che il grande pessimista
aveva avuto in Spagna. La capitale della Romania era stata uno dei centri della vita
culturale europea prima della Seconda guerra mondiale, ma quando la visitammo durante
gli anni Novanta cadeva letteralmente a pezzi: l’automobile con cui venne a prenderci
all’aeroporto Ioana Zlotescu, direttrice del Cervantes, aveva un paio di grandi ammaccature
alla carrozzeria. Ci disse, con nonchalance, che erano state provocate da pezzi di cornicione caduti sull’auto mentre si trovava
parcheggiata in strada. A Bucarest scoprii per la prima volta che cosa pensavano nell’Europa
dell’Est degli intellettuali di sinistra dei paesi occidentali. Quando dovevano presentarmi
al pubblico del Cervantes di qualunque altro paese, di solito l’incaricato leggeva
un curriculum standard in cui si menzionava di sfuggita il mio breve soggiorno in
carcere durante la dittatura e la mia espulsione dall’Università Autonoma di Madrid.
Questi «meriti» di guerra erano un po’ imbarazzanti da ascoltare, ma mi procuravano
una certa qual aura da eroe presso il pubblico benpensante. Non accadde così a Bucarest,
perché notai che, mentre li elencavano, alcuni spettatori storcevano il naso. Il mio
presentatore si affrettò a spiegare gentilmente che, sebbene antifranchista, non ero
mai stato comunista, per cui le mie opinioni su Cioran potevano essere ascoltate tranquillamente,
perché in esse non vi era alcuna forma di partigianeria. Evitai di dilungarmi in ulteriori
spiegazioni, ma era comprensibile che coloro che avevano visto Rafael Alberti o Solé
Tura andare a spasso sulle auto di Stato insieme ai pezzi grossi della dittatura che
li perseguitava non nutrissero grande stima per gli avversari di Franco. Se fossi
entrato in argomento, avrei spiegato loro con grande piacere che, nel modo ingenuo
di quegli anni verdi, avevo lottato anch’io contro il nostro tiranno locale perché
aspiravo a un governo democratico come quello della Francia o dell’Inghilterra, ma
che dovendo scegliere tra Franco e Ceauescu (o tra Franco e la Pasionaria!), avrei optato – a malincuore ma senza esitazione
– per il Caudillo. Una scelta che oggi mi appare ancora più chiara di allora.
Nel corso di quel viaggio in Romania, più precisamente durante il nostro soggiorno
a Bucarest, a quanto pare concedetti un’intervista piuttosto lunga a una giovane studentessa
spagnola. Dico «a quanto pare» perché non ricordo quella conversazione, ma me l’ha
ricordata poco tempo fa l’interessata, alla Fiera del libro di Madrid, in occasione
di un evento organizzato dall’ambasciata della Romania, paese ospite della Fiera.
Si trattava della presentazione della traduzione di uno dei primi libri di Cioran,
e per la circostanza condividevo il palco con il traduttore e con una bella signora
romena, che parlava uno spagnolo impeccabile. Mi ha detto di essere la ragazza giovane
e ancora timida che mi aveva intervistato tanti anni prima a Bucarest e che poi ci
aveva accompagnato a visitare la capitale, in particolare l’immenso palazzo del governo
nella cui vacuità risiedeva la megalomania di Ceausescu. Si chiama Luminita Anca Marcu
e mi ha parlato di Pelo Cohete, di cui conservava un’impressione indelebile. Di quei
giorni, addirittura, aveva scritto alcune riflessioni, incentrate prevalentemente
su di lei, che ha avuto la gentilezza di inviarmi. Mi permetto di citare qui la similitudine
che propone tra Pelo Cohete e sua nonna, la donna più importante che dice di aver
mai conosciuto: «Ci sono donne che non possono morire come si muore di solito. Certo,
di mia nonna conoscevo ogni gesto, a volte parlo ancora con le sue parole e ho sempre
nutrito la certezza, grazie a migliaia di prove raccolte con cura nel corso degli
anni, che non sarebbe mai morta. La moglie dell’uomo che intervistai undici anni fa
a Bucarest l’ho vista solo per qualche ora, ma la sensazione è identica. Certezza,
la stessa certezza. Ho desiderato parlare con lei fin dal primo secondo, quando, dalla
finestra dell’hotel dove li stavamo aspettando, la vidi avvicinarsi con il marito.
Lo accompagnava, pensai, allora deve essere la stessa donna della dedica di Contrattempi: “Sara, guarda, amore mio...”. Non so bene come spiegarlo, ma ci sono donne che,
anche se stanno sempre attaccate a un uomo, agganciate al suo braccio o mano nella
mano con lui, non accompagnano mai. Vanno per conto proprio, senza che questo implichi
solitudine o egocentrismo. È più che altro un modo di stare al mondo. Se ne stanno
così, come stava quel giorno a Bucarest la moglie dello scrittore spagnolo. Sono quegli
esseri che si sanno completi, disegni definitivi. È qualcosa che si percepisce dal
primo istante, che non si può fingere e che ammalia. O che almeno ammalia me».
Più avanti la similitudine prosegue così: «Mia nonna leggeva a letto o faceva dei
cruciverba o muoveva un dito o alzava il sopracciglio, e comunque a me, che accanto
a lei lottavo per non scivolare nel sonno, mi tranquillizzava il fatto che in qualche
modo restasse in movimento. I bambini odiano i silenzi e l’immobilità. Credo di aver
colto la stessa cosa in Sara. Mi vergogno un po’ a chiamarla per nome, ma credo che
non le darebbe fastidio. Sì, deve aver avuto lo stesso eccesso di vitalità che sgorga
da dentro verso la superficie e in virtù del quale persino i tratti e le linee del
suo volto non rimanevano mai fermi. È per questo motivo, suppongo, che lei e mia nonna
erano di quelle donne che non dimostrano mai l’età che hanno. Non è che fossero belle,
nel senso classico del termine; è che sembravano giovani, definitivamente giovani
per quella permanente inquietudine epidermica. Ma lei era anche bella e basta, bruna
e delicata come un disegno giapponese, e quando parlava le si vedevano i denti un
po’ irregolari. Quando sorrideva, cosa che faceva spesso senza mai arrivare a ridere,
sembrava ancora più giovane, quasi una ragazzina. Una bimba birichina. E io, dinanzi
a lei, incapace di dire altro che “encantada”, perché non avevo le parole e quella
mancanza di lessico e grammatica mi imprigionava in una gabbia di stupidità. Sono
sicura che, nonostante lo spagnolo squisito che esibiva la direttrice dell’Istituto,
io avrei potuto dirle cose che l’avrebbero fatta ridere a crepapelle. Non so esattamente
cosa: sciocchezze sulla Romania, su Bucarest, ma sono assolutamente sicura che avrebbe
colto il mio tacito omaggio. Un riconoscimento, in fin dei conti. Bisogna aver conosciuto
almeno una donna straordinaria nella vita, come è successo a me con mia nonna, per
poterne riconoscere un’altra quando hai la fortuna di incontrarla. E se non glielo
fai sapere, se non le trasmetti in qualche modo la tua ammirazione, rimani con qualcosa
di indefinito che ti pesa come un segreto. Come qualcosa di desiderato e non vissuto».
Ho citato per esteso queste pagine del breve saggio gentilmente affidatomi dall’autrice,
perché mostrano una sorprendente perspicacia nella caratterizzazione interna ed esterna
di una persona appena intravista una sola volta. Ma soprattutto perché sono un buon
esempio dell’impressione – a volte mi verrebbe da dire della commozione – che provocava
Pelo Cohete in chi la conosceva.
Siamo stati in tanti luoghi, abbiamo condiviso spesso esperienze inedite – da quelle
grandiose a quelle strane, passando per le piccole meraviglie – ma tornavamo sempre
a Parigi. In realtà, per noi, andare a Parigi non era propriamente «viaggiare», lo
consideravamo piuttosto un giretto nel quartiere più distinto di San Sebastián. Io,
che venivo da Madrid, di solito arrivavo prima a Orly e passavo per il nostro hotel
abituale nel Quartier per lasciare il mio bagaglio a mano in una di quelle minuscole
stanze in cui c’era a malapena spazio per un letto e una sedia sotto la finestra affacciata
su una cordigliera di abbaini. Poi prendevo il plat du jour al Polidor (il mio preferito, hachis parmentier, lo servivano il venerdì) o al La Tourelle e mi affrettavo a raggiungere la Gare
di Montparnasse per accoglierla. Nell’enorme e poco aggraziato atrio della stazione,
c’è un negozio di fiori dove le compravo un paio di rose, le più gioconde e trionfali.
Le più spregiudicate. Brandendole in mano, mi situavo al fondo del binario dove sarebbe
arrivato il treno da Hendaye. Non mi seccava il fatto di aspettarla; al contrario,
mi piaceva. Quanto più si prolungava il momento delizioso dell’arrivo che non arrivava,
tanto meglio per me. Attendere la sua apparizione, sapendo che sarebbe sicuramente
apparsa: esiste forse piacere più grande? Per renderlo ancora più grande, poi, niente
di meglio che dar voce al tarlo del dubbio: «E se poi non arriva con questo treno?
E se lo ha perso?». Ma era solo una veniale forma di masochismo che serviva ad aumentare
il piacere di vederla finalmente scendere da un vagone laggiù in fondo e avanzare
sulla banchina con il suo passo elastico e deciso da sportiva, più francese di una
qualunque francese, emancipata ma mia, intenta a trascinare una valigia a mano con
quattro rotelle che al ritorno si riempiva di tutto. Riceveva il suo omaggio floreale
con la semplicità di chi sa di meritarlo. Senza smettere di camminare verso l’uscita
dalla stazione, mi dava un bacio rapido e pudico, impugnava le rose e mi afferrava
il braccio, continuando a trascinare la sua piccola valigia mentre mi diceva, a ritmo
di rap: «Ciao, finalmente, il viaggio non finiva più, sono molto belle, scemo». E
io sentivo dentro al petto una vittoria universale, come una croce al merito conferita
da dèi birichini e generosi, ma anche molto esigenti, un privilegio che non mi è mai
più ricapitato. A quel punto riuscivo a farfugliare solo parole felici e superflue:
«Allora, andiamo a La Coupole?». E lei, disdegnando i giochi di parole che suggeriva
il nome del ristorante, mi rimbrottava affettuosa: «E dai, non pensi altro che a mangiare».
Camminavamo a un ritmo allegro vivace perché entrambi avevamo fame: fame di Parigi.
La mia estate perfetta è quella che trascorro senza muovermi da San Sebastián: i bagni
alla Playa de la Concha, insaziabile delizia, le corse di cavalli a Lasarte, il clima
perfetto, tiepido di giorno e fresco di notte (con qualche acquazzone di tanto in
tanto per allontanare per un po’ i rompiscatole e lasciare la spiaggia tutta per noi
autoctoni), le passeggiate dal Peine de los Vientos fino alla punta della Zurriola,
senza mai attraversare una strada e senza allontanarci dalla riva del mare, le sieste
in compagnia di libri scelti accuratamente, il nostro film quotidiano, dacci oggi...
Purtroppo all’inizio del secolo il mio nome e le mie coordinate cominciarono a comparire
con preoccupante frequenza nei «papeles» dell’ETA, ossia nei documenti requisiti alle
cellule disarticolate dell’associazione terroristica, e mi fu consigliato con discrezione
di cercarmi una destinazione alternativa per trascorrere almeno una parte dei mesi
estivi. Siccome a Pelo Cohete, che era meno abitudinaria di me, non dispiaceva l’idea
di cambiare aria ogni tanto, per una volta decidemmo di agire con buonsenso. Dove
andare, però? Doveva essere una località di mare, naturalmente, perché a tutti e due
piaceva nuotare – lei da campionessa, io in stile cagnolino –, ma dove non facesse
quel «bel tempo» che è come chiamano i buzzurri la condizione atmosferica necessaria
per abbrustolirsi la pelle giorno e notte. Un luogo con una vegetazione ragionevolmente
abbondante, perché non eravamo gente da terre arse, e, possibilmente, con qualche
montagna praticabile per escursioni, che alla mia fanciulla piacevano tanto. Ovviamente
il nostro rifugio doveva trovarsi lontano dal territorio comanche frequentato dai
terroristi, altrimenti perché cambiare posto? Non era facile rispettare tutti questi
requisiti; l’unico luogo che mi veniva in mente era Maiorca: spiagge, montagne, paesaggi
capaci di accontentare persino un fanatico della costa basca come me, un clima mediterraneo
dolce ... Last but not least, era l’unica regione della Spagna europea che gli esperti consideravano al riparo,
grazie alla sua particolare geografia insulare, da attentati terroristici. In caso
di allarme, l’isola poteva essere chiusa quasi immediatamente. Per questo motivo l’ETA,
che aveva pianificato un doppio attentato a Palma di Maiorca ai danni di sua maestà
Juan Carlos e del presidente Aznar affidandosi a un tiratore scelto dotato di mirino
telescopico, non portò a compimento il suo proposito: perché non esisteva via di fuga
possibile per l’assassino. I terroristi non avrebbero mai corso il rischio di rimanere
intrappolati in un cul de sac. Qualche anno dopo imparammo dolorosamente a nostre spese che gli esperti si erano
sbagliati come in tanti altri casi...
Quando finalmente prendemmo la nostra decisione, era ormai quasi luglio del 2000 e
non era facile trovare una sistemazione conveniente a Maiorca. Il mio amico Basilio
Baltasar, maiorchino illustre che all’epoca dirigeva la Fondazione Bartolomé March,
ci rimediò una dimora improvvisata ma sontuosa: la Torre Cega, la regale residenza
di don Bartolomé al nord dell’isola, a Capdepera, che era rimasta chiusa dalla morte
del notabile. Si tratta di un edificio immenso (noi occupavamo solo un paio di stanze,
ma di che altro avevamo bisogno?), intorno al quale si sviluppa un magnifico giardino
adornato di sculture dei principali artisti contemporanei, tutte molto preziose e
tendenzialmente orrende, come era lecito aspettarsi. Vi trascorremmo quindici giorni
memorabili, senz’altra vita sociale che la nostra mutua compagnia e senz’altra connessione
col mondo che quella di una piccola radio a transistor che funzionava alla spagnola,
ossia arbitrariamente e con costanti interferenze. Qualche volta la sera, muniti di
una torcia, esploravamo con un piacevole brivido di paura le principesche stanze presenti
sui tre piani del palazzo, aspettando da un momento all’altro di vedere un fantasma
pararsi davanti a noi. Quella prima esperienza ci convinse che Maiorca non solo era
il male minore in attesa di poter tornare a San Sebastián, ma era un’alternativa da
esplorare con entusiasmo. L’anno seguente prendemmo in affitto una casetta sulla via
principale di San Telmo, un paese a circa trenta chilometri da Palma, relativamente
al riparo dal turismo di massa grazie a una strada dal tracciato intimidatorio. Anche
in questo caso riuscimmo a procurarci la sistemazione grazie ai buoni uffici del nostro
amico Basilio, ma un paio d’anni dopo Pelo Cohete trovò un appartamento perfetto in
cui stavamo comodi come una mano nel suo guanto. Aveva due piccole stanze da letto,
ciascuna con la sua doccia di pertinenza, un cucinino, una sala abbastanza grande
per noi, per i nostri libri e per i nostri dischi... e una terrazza affacciata sul
mare come la prua di una nave, di fronte all’isolotto di Pantaleu e con quello di
Dragonera sullo sfondo. Mi aveva detto: «Non potrai resistere a quella terrazza».
Aveva indovinato, come sempre. Da subito la maggior parte della nostra vita domestica
passò a svolgersi su quella terrazza, il miglior luogo possibile dove fare colazione
e pranzo. Affittammo quell’appartamento per dieci anni, e solo la morte ce ne privò.
Un paio di mesi prima di morire, anche se io non ci ero più stato da quando si era
ammalata, mi disse: «Guarda, secondo me è meglio se lo affittiamo per i prossimi quindici
anni, così non dovremo più preoccuparcene». Le assicurai con tono convinto che mi
sembrava un’idea stupenda e corsi a chiudermi in bagno a piangere da solo. Perché
sapevo che sapeva che non avremmo avuto a disposizione altri quindici anni.
All’inizio il nostro equipaggiamento era il più essenziale possibile. Pochi mobili
tipicamente provvisori da appartamento per le vacanze. I letti per dormire, le sedie
e un tavolo per sederci in terrazzo... Nient’altro. Per scrivere mi arrangiai con
un tavolino minuscolo, buono al massimo per servirci il tè, e uno sgabello coordinato.
Quando faceva molto caldo, avevamo un ventilatore a elica che produceva molto rumore
e poca aria fresca, e allora mi avvolgevo la testa in un asciugamano umido per rinfrescarmi
le idee. Così scrissi il mio libro su Borges, uno dei meno peggio tra quelli che ho
scritto. Non avevamo la tivù, ma rinunciare al nostro film serale sarebbe stato un
castigo troppo grande. Fortunatamente avevamo un vecchio computer portatile abbastanza
piccolo su cui potevamo guardare dei DVD. Ci sedevamo in terrazza, con la luce accesa
al minimo per non attirare insetti. Nell’oscurità vellutata, sentivamo ai nostri piedi
il dolce suono delle onde che si spezzavano e vedevamo lampeggiare le luci di posizione
gialle o rossastre provenienti dagli alberi dei velieri ancorati di fronte a noi.
A destra, in fondo, la spiaggia di San Telmo, dove c’era sempre fermento, e la terrazza
del vicino hotel, occupato generalmente da turisti svizzeri-tedeschi di mezza età
che si intrattenevano in giochi collettivi abbastanza innocui. Così guardavamo, testa
contro testa perché le dimensioni minuscole dello schermo non ci permettevano di allontanarci
troppo, vecchi film che conoscevamo a memoria ma che ci divertivano ancora. Quell’estate
fu la volta delle simpatiche avventure di Fantomas, con Jean Marais e Louis de Funès. Quanto ci facevano ridere le scemenze del comico
ispano-francese! In uno dei film, un maggiordomo che ha appena trovato la vittima
del crimine corre su e giù per le scale di una grande villa gridando: «Quel horreur!
Quel horreur!». E contagiando con quel ritornello tutti i personaggi che incontra. Anche noi due, per diversi giorni, forse addirittura
settimane, cominciammo a scimmiottare quel maggiordomo, urlando «Quel horreur, quel
horreur!» a ogni piccolo incidente domestico e morendo ogni volta dal ridere. Poi,
invece...
L’anno seguente il nostro appartamento a San Telmo era migliorato in modo spettacolare.
A Pelo Cohete piaceva stampare dei simpatici biglietti da visita, i miei illustrati
con le copertine dei miei libri, i suoi con l’amata maschera di Frankenstein, anche
se sui suoi avrebbe perfettamente potuto scrivere: «Fabbricante di paradisi». Perché
sapeva veramente creare dei paradisi, domestici e pieni di immaginazione, o quantomeno
era capace di crearli per noi due, che condividevamo tante passioni. Nel piccolo e
un tempo sguarnito appartamento, cominciarono a fare capolino mobili, comodi e bizzarri,
uno stupendo televisore al plasma (anche se io rimpiangevo le nostre teste appiccicate
davanti allo schermetto del computer), quadri e incisioni di nostro gusto alle pareti,
deumidificatore e aria condizionata, scaffalature per libri e dischi... Grazie a dei
vicini inglesi che abitavano nell’appartamento al piano di sotto (incapaci di biascicare
una sola parola di spagnolo nonostante trent’anni a Maiorca: un classico) dai quali
era diventata inseparabile, riuscì a sintonizzarsi in maniera non del tutto legale
su alcuni canali televisivi inglesi. In questo modo riuscii a vedere tutti gli anni
il Royal Ascot, che lei seguiva con me, orgogliosa della mia passione. La sera, come
di consueto, guardavamo qualcosa insieme, nella fattispecie vecchie serie come Mission Impossible o Gli Invasori, alternate a film di mostri anni Cinquanta, di cui avevamo una collezione molto completa.
Al mattino, abbastanza sul presto per evitare il caldo (che comunque ci raggiungeva
prima del nostro ritorno), facevamo escursioni abbastanza soft intorno alle pendici
della Sierra della Tramontana. A volte salivamo sulla Trapa, la cima – tutt’altro
che imponente ma per me piuttosto massacrante – che avevamo a portata di gita. Io
tornavo da queste gite distrutto e mugugnante, e al tempo stesso segretamente stupefatto
di essere stato capace di compiere simili prodezze senza ricorrere ad altra forma
di doping che la possibilità di vederla camminare davanti a me, atletica e affascinante,
e di sentirla incitarmi di tanto in tanto con un «Dai, pigrone!». Poi veniva l’ora
del bagno nella vezzosa spiaggia di San Telmo, con l’acqua sempre troppo calda per
i miei gusti da settentrionale e a volte con la presenza indesiderata di meduse che
lei catturava con un guadino che ci portavamo dietro nei giorni di in cui c’era l’invasione.
A volte prendevamo il traghetto, i cui orari erano sempre imprevedibili, e facevamo
la traversata fino all’isola della Dragonera, che poi percorrevamo da un capo all’altro.
L’isola ha un profilo intenso e un’aura misteriosa, soprattutto vista da una certa
distanza (quando ti ci trovi dentro non è la stessa cosa, come capita con le orge),
anche se il suo nome non deriva da una somiglianza con la spina dorsale del drago,
ma dalle lucertole autoctone che vi pullulano. Questo, almeno, fu ciò che mi raccontarono
certi amici sfata-leggende quando mi sentirono formulare congetture a proposito della
sua sagoma squamosa da stegosauro levantino.
Sotto il nostro condominio, nella discesa verso il mare, c’era un piccolo terreno
sterposo che veniva utilizzato solo come passaggio per scendere verso un piccolo porticciolo
tra gli scogli dove potevano ormeggiare barche a remi e canoe. In alcune circostanze
serviva come discarica d’emergenza. Ecco: lei trasformò quel non luogo in un piccolo
delizioso giardino. Sembrava impossibile, data la pendenza del terreno e la sua esposizione
al salnitro marino, eppure ci riuscì, con la sua pazienza così impaziente e talora
brusca, e con il suo amore per tutto quello che piantava. Era amica dei fiori e i
fiori la riconoscevano come tale. Grazie a lei e alle sue buone arti da maga neobabilonese,
quel pendio che nessuno notava diventò un giardino pensile. Il suo impegno stupiva
e in parte scandalizzava i vicini, anche se questi, essendo in maggioranza inglesi,
valutavano positivamente le sue aspirazioni come giardiniera. Io a volte la guardavo
dal nostro terrazzino, china sugli arbusti, intenta a scavare o a estirpare. Improvvisamente
se ne accorgeva, si voltava e mi mandava un saluto con la mano guantata e terrosa;
io la adoravo dall’alto più di quanto chiunque altro avesse mai venerato la sua deità,
ma mi limitavo a restituirle il suo cenno amichevole. Un paio di volte a settimana
bisognava innaffiare e io abbandonavo qualunque occupazione in cui fossi impegnato
per aiutarla: mentre lei trascinava il tubo dove necessario, io vigilavo sull’allacciamento
col rubinetto e aspettavo che mi dicesse «Apri!» o «Chiudi!» per eseguire immediatamente
i suoi ordini. Era un compito minimo, semplicissimo, adeguato alla mia goffaggine,
ma svolgerlo con zelo mi riempiva d’orgoglio e mi autorizzava ad assentire, arrossendo
di piacere, quando lei lo chiamava «Il nostro giardino». Per me quel giardinetto era
la miglior metafora di ciò che era lei: piccolo ma incantevole, coraggioso, quasi
inafferrabile, agreste e difficile da apprezzare, rifiutato dagli snob ma ammirato
dalle anime forti, audaci e solitarie come un personaggio di un film di John Ford.
Quel piccolo appartamento in affitto a San Telmo fu in realtà il più «nostro» tra
tutti quelli che abbiamo avuto. L’alloggio di Madrid e quello della casa di San Sebastián
erano stati trasformati radicalmente da lei, la fabbricante di paradisi, ma facevano
già parte da prima della mia vita e potevo immaginarli senza la sua presenza. Il nido
di San Telmo, invece, nacque da noi e solo per noi. Tutto quello che vi era contenuto,
tutto ciò che lo contornava, il paesaggio circostante, lo scoprimmo insieme, fu un
regalo reciproco. Era il nostro rifugio dove il tempo e il mondo non ci avrebbero
raggiunti. Ancora oggi mi sento risuonare nella testa la litania di quei luoghi che
conquistammo insieme: Andratx, Cala Conills, Cala Ratjada, Sóller, Paguera, Deià,
Sa Calobra, Torrent de Pareis, Es Trenc... Non tornerò mai più in quei luoghi, come
Adamo non tornò più nell’Eden, dove visse senza sapere che lo fosse. E tuttavia se
mai abbiamo lasciato da qualche parte il sedimento della nostra felicità, fu proprio
lì. Nella minuscola cucina dell’appartamento, dove non mancavano mai la soppressata
e il Campari, mi preparava, dopo essersi fatta pregare a lungo, le sue specialità
culinarie: i fegatini in salsa (che erano più buoni il giorno dopo) e i calamaretti
con cipolle. Io replicavo con cose un po’ più facili, pasta fresca di ogni tipo, soprattutto
ravioli o tortellini, fatta come piaceva a lei: non al dente, ma un po’ scotta. Non
ho mai mangiato meglio, perché in cucina tutto ciò che non è amore è routine o snobismo.
A volte, quando all’ora del tramonto ci sedevamo in terrazza a goderci un po’ di aria
fresca, lei diceva con ingenua convinzione: «Come ce la passiamo bene noi due, eh?».
Proprio vero, amore mio. Finché non ci ha separati ciò per cui non vi è rimedio...
Ora, nel mio perenne arrovellarmi sul passato come chi agita per l’ennesima volta
la sua borraccia per spremerne un’ultima improbabile goccia d’acqua, mi domando come
sarebbe stato avere un figlio con lei. O una figlia, come oggi mi viene da pensare
che avrei preferito. Poco dopo aver cominciato a fare sul serio nella nostra relazione,
cioè dopo essere venuta ad abitare con me nella casa di Triunfo, Pelo Cohete rimase
incinta. Immediatamente, con naturale realismo privo di qualsivoglia retorica ideologica,
decise di abortire, e io accettai senza discutere, come accettavo quasi tutto ciò
che mi proponeva, anche se le spiegai che da parte mia, e se lei lo avesse preferito,
non avrei avuto alcun problema a tenere quella creatura. La verità è che a quell’epoca,
reduce da una separazione abbastanza traumatica con la mia prima moglie, con un figlio
piccolo di cui mi occupavo meno di quanto avrei dovuto e la cui semplice esistenza
mi faceva sentire in colpa, avere un altro figlio in condizioni abbastanza incerte
sarebbe stato eccome un problema. Ma se lei lo avesse desiderato, non avrei esitato
ad accettarlo. A pelle, senza confessarlo a me stesso, sentivo che con Pelo Cohete
tutto valeva la pena, che anche le cose apparentemente prive di senso al suo fianco
diventavano ragionevoli. Inoltre, l’aborto mi ha sempre suscitato intimi dubbi e diffido
moralmente e intellettualmente, per dirlo con delicatezza, di coloro che lo considerano
una questione chiusa che non merita il minimo turbamento. Ovviamente concordo sul
fatto che non sia un crimine né un tema che possa essere regolato dal codice penale.
Ma ci sono cose che la legge non punisce e che tuttavia continuano ad agitarsi nella
nostra coscienza, come un pasto troppo indigesto che non permette allo stomaco di
dimenticarsi di lui. Ciascuno deve risolvere da solo questa questione morale, senza
l’interferenza semplificatrice di giudici o sacerdoti. Per quel che mi riguarda, l’unica
ragione che può giustificare un aborto è che nessuno deve venire al mondo se neppure
i suoi genitori hanno voglia di riceverlo, perché è come scendere in campo sapendo
di avere tutto e tutti contro.
Pelo Cohete rifiutò i miei buoni ma goffi uffici e se ne andò da sola ad abortire
in Francia. Lì c’era una dottoressa di cui si fidava, che alcuni anni prima, mi raccontò,
le aveva fatto delle mastoplastiche e da cui si recava regolarmente per i controlli.
Non l’ho mai conosciuta. Faceva parte di una serie di aspetti della sua vita che rivelava
solo a metà anche ai suoi intimi, ivi compreso il sottoscritto. Come la luna, aveva
un lato oscuro persino per coloro che, come me, la guardavano tutte le notti. Ricordo
le sue tremende arrabbiature quando qualcuno voleva vedere la sua carta d’identità,
quali che fossero i motivi: i dati di quel documento non dovevano essere molto attendibili
e le loro alterazioni le ricordavano l’infanzia irregolare, i magheggi su date, luoghi
e cognomi che servivano a nascondere il disinteresse del padre e le pregevoli doti
di ingannatrice della madre. Non ho mai saputo tutto di lei né ho mai preteso di saperlo,
anzi mi piacevano i suoi angoli nascosti, e tutte le volte che me ne si offriva l’occasione
cercavo di convincerla che a me poteva raccontare quello che voleva e tacere tutto
il resto, perché l’avrei amata comunque. Per cui andò in Francia, rientrò una settimana
dopo e non tornammo mai più sull’argomento. Dopo la sua morte, tuttavia, ci ho ripensato
spesso.
Come sarebbe cambiata la nostra vita se avessimo avuto un figlio (o una figlia, se
posso scegliere il mio sogno preferito)? Sulle mie doti di padre non posso farmi troppe
illusioni, perché lo sono stato senza grandi risultati, combinando l’isteria ultraprotettiva
con la trascuratezza. Ma lei? Sicuramente avrebbe mostrato nelle vesti di madre la
stessa tenerezza brusca, a volte persino aspra, che esibiva con me e che traeva spesso
in inganno coloro che ci vedevano discutere o assistevano alle sue epiche sfuriate.
Una tenerezza autentica, instancabilmente devota ma senza il minimo accenno di stucchevolezza.
Credo che avrebbe svolto il suo ruolo in modo efficace, come lo svolgeva tutte le
volte che si metteva d’impegno perché la situazione lo richiedeva. Accadde anche con
mio figlio Amador, di cui si occupò con tutta la naturalezza del mondo quando ce ne
fu bisogno, magari identificando prima di tutti un morbillo asintomatico che i medici
non erano riusciti a diagnosticare, oppure esercitando la sua autorevolezza razionale
quando il ragazzo, alla fine delle superiori, attraversò una tappa difficile della
sua vita che avrebbe potuto avere risvolti anche più gravi (e che mi fece uscire pazzo).
La verità è che con lei Amador parlava con più libertà che con me: evidentemente fu
capace di scegliere. Tuttavia non credo che ora, nel momento dello sconforto, mi avrebbe
aiutato molto avere un figlio suo... e neppure una figlia, nonostante su quest’ultima
continui ancora oggi a fantasticare. La sintonia intellettuale e vitale dei veri amanti
non potrà mai essere sostituita dalla pietà filiale. Nella relazione tra genitori
e figli, la componente più importante – in entrambe le direzioni – è sempre quella
assistenziale, mentre solo tra gli amanti domina l’essenziale: a questo tipo di rapporto è stato dato il nome di amore romantico, un amore che
oggi fa innervosire i pedagoghi «avanzati», che mettono in guardia, mi auguro infruttuosamente,
i loro alunni affinché non ci caschino. Mi pare sia stato Aristotele a dire, centrando
il punto, che i genitori amano i figli più di quanto i figli amino i padri, perché
li vediamo (ovviamente ingannandoci) come un’opera nostra, mentre loro guardano noi
con rassegnazione mista a ribellione, come una fatalità capitata tra capo e collo
nelle loro vite. No, le mie sofferenze attuali non sarebbero state alleviate da altri
figli, e nemmeno da una figlia, che forse me l’avrebbe ricordata troppo ingannevolmente.
Anche se in quest’ultima ipotesi si sarebbe trattato di una dolce tortura.
Devo parlare, inevitabilmente, della nostra battaglia comune – lei ed io, praticamente
un dream team – contro il terrorismo e la prepotenza nazionalista. Ho affrontato l’argomento nel
capitolo intitolato Zorroaga della mia autobiografia, ma in modo generale e senza quasi menzionarla, se non per
raccontare un momento di brio che la definisce indelebilmente. Cercherò di non ripetermi
qui, perché non sono scontento di come ne parlai allora: al mio stile, se posso esprimermi
in questi termini, si addice di più il nettare dell’allegria che il succo amaro della
pesantezza... Quando ci conoscemmo, Pelo Cohete apparteneva, per le vicissitudini
del suo recente passato, per il suo giro di amicizie, per la sua dedizione all’euskera
(nel mio breve tentativo di studiarlo ebbi come insegnante privato colui che all’epoca
era il suo amante, cosa che naturalmente venni a sapere molto tempo dopo) e per il
suo carattere ribelle... al mondo abertzale. Mi azzardo ad affermare che aveva una coscienza politica più sviluppata della mia:
era giunta alle sue conclusioni per effetto delle privazioni che aveva subito e dei
sacrifici che la vita le aveva imposto, non leggendo Bertrand Russell o Marcuse in
poltrona come era capitato a me. In fondo a me non è mai piaciuta la politica in quanto
tale, ma solo la ribellione contro la prevaricazione di chi difende l’ordine o il
disordine. Secondo alcuni simpatizzanti da me si sarebbe potuto cavare un buon politico.
È possibile, così come è possibile fabbricare un orinatoio di porcellana di Limoges,
solo che si spreca un materiale superiore. Per me vivere non è un’esperienza politica
(ho conosciuto altre persone, tutte rispettabili, per le quali lo era) e neppure economica
o scientifica, bensì poetica. A tratti epica, altre volte lirica, persino drammatica,
ma sempre poetica. Per questo motivo non sono mai potuto appartenere davvero a un
partito; in compenso sono capace di innamorarmi davvero. Lei invece comprendeva l’importanza
sociale della lotta politica e istintivamente percepiva il fatto che l’importante
non sono le sigle che conquistano il potere, bensì che cosa fanno da quella posizione
per coloro che non ce l’hanno e necessitano del loro aiuto.
Quando la conobbi, la sua posizione sui Paesi Baschi si riassumeva bene in una pagina
che ho trovato scartabellando tra i suoi documenti mentre preparavo questo libro.
Evidentemente era stata scritta per essere inviata ai giornali locali, non so se come
breve articolo o sotto forma di lettera al direttore (quest’ultima ipotesi mi pare
più probabile). Ignoro se sia mai stata pubblicata. L’argomento è il caso-Yoyes, la
dirigente dell’ETA che rinunciò alla banda armata, rientrò in Spagna (1985) e cercò
di riprendere una vita normale e legale dopo essere giunta a un accordo con le autorità
spagnole che non contemplava la delazione dei suoi vecchi compagni. María Dolores
Catarain, per gli amici Yoyes, si era laureata in Filologia e Sociologia durante un
soggiorno in Messico e voleva fare il dottorato a Zorroaga. Si iscrisse al mio corso,
che nel 1985-86 verteva sul problema del male nel Libro di Giobbe – tragica coincidenza
–, ma non poté terminarlo perché fu assassinata dall’ETA (immagino per dare l’esempio
a coloro che volevano seguire i suoi passi) nel settembre del 1986 alla Fiera di Ordizia,
mentre passeggiava mano nella mano col suo figlioletto. Poche volte la mafia dei terroristi
ha mostrato in maniera così lampante la sua vera natura totalitaria, la sua arrogante
e feroce essenza criminale. Quando la eliminarono, Yoyes aveva trentadue anni, tre
o quattro più di Pelo Cohete, e tra i loro percorsi biografici vi erano alcune analogie
che non potevano lasciare indifferente quest’ultima. Fin dall’inizio, infatti, accolse
questa tragica diserzione con una simpatia che andava oltre la dimensione strettamente
personale e si addentrava in un territorio più espressamente politico. È ciò che emerge
dal testo che riproduco qui di seguito, databile al 1985, ovvero ai primi anni della
nostra relazione.
Il ritorno di Yoyes
Yoyes, ex militante di ETA e membro di spicco della sua dirigenza, è tornata. I socialisti
hanno mostrato la loro soddisfazione tramite le parole del ministro degli Interni
Barrionuevo, il PNV attraverso quelle del senatore Azkarraga, Ramón Jáuregi ha elogiato
il coraggio dell’ex militante, i giornali – in particolare «El País» – la definiscono
una donna forte e responsabile, capace di ascoltare chi non la pensa come lei e di
dimostrare così facendo la sua capacità comunicativa; una donna, inoltre, piena di
buona volontà verso sé stessa e verso gli altri, estranea alle teorizzazioni ma sempre
portatrice di inquietudini culturali, dura e intransigente ma solo nelle prese di
posizione politiche. Morto o sconfitto che sia il nemico, perché esista la vittoria
occorre che vi sia riconoscimento. Coloro con cui, almeno apparentemente, non ha mai
condiviso nulla sono quelli che oggi la acclamano e riconoscono; quelli invece con
cui coltivò sogni e speranze citano soltanto la sua bassezza, il suo claudicare liquidazionista,
il grande errore commesso allontanandosi dal recinto e optando per una soluzione individuale.
Ha dimenticato che, una volta dentro, il contratto è a vita. Gli uni si mostrano implacabili,
gli altri invece disposti a perdonare qualunque cosa; i nemici diventano amici, e
gli amici carnefici. La storia di Yoyes non è una novità in questa piaga di falsi
riconoscimenti, odi e risentimenti che si estende lungo tutta Euskal Herria dall’ascesa
al potere dei socialisti: è solo il caso più eclatante, la più grande vittoria mai
ottenuta dai socialisti in fatto di reinserimenti. Vittoria la cui portata è stata
incrementata dal giustizialismo intransigente adottato dai rifugiati baschi. I socialisti
continuano a negare a questo paese una soluzione politica il cui primo e inderogabile
passo è l’allontanamento delle sempre mal denominate forze di sicurezza, verso cui
qui si nutre particolare odio; nel mentre gli altri, col loro sempiterno «o con noi
o contro di noi» continuano a spandere tristezza e senso di colpa, talora terrore.
Tutti sappiamo che cos’è il potere, ma da parte di persone che hanno deciso di giocare
forte e condurre una vita che alcuni di noi, per esperienza, sappiamo essere particolarmente
dura, ci aspettavamo che avessero capito che instillare sensi di colpa non crea mai
migliori individui e meno che mai migliori collettività. Per questo motivo, nonostante
le nostre reciproche diffidenze, ONGI ETORRI Yoyes.
Il testo è firmato col suo nome ma col cognome della sua amica Ana, che ho già menzionato
in precedenza, cui segue il numero corretto di Carta d’Identità.
Le posizioni politiche di Pelo Cohete erano, come si vede, molto radicali, ma al tempo
stesso tutt’altro che compiacenti nei confronti delle due parti in causa. Soprattutto,
alla retorica dell’interesse collettivo anteponeva il valore dell’individuo schiacciato
dagli ingranaggi del potere in carica e da quelli, ancora più pericolosi, di coloro
che aspiravano a conquistarlo ad ogni costo. La mia posizione era più moderata della
sua (non ricordo di aver mai condiviso l’avversione per la democrazia borghese guadagnata
a fatica né la simpatia per il paradiso sovietico che facevano parte del corredo ideologico
dei miei coetanei), ma non molto meglio orientata: anch’io credevo che l’ETA fosse
più o meno una squadra di angioletti e i poliziotti gli antagonisti obbligati nelle
nostre battaglie per cause che meritavano di essere ascoltate. Alcuni amici che avevano
conosciuto la Bestia da dentro, come Mario Onaindia, cercavano di disilludermi («Tu
credi che gli etarras siano come i Verdi», mi canzonava amabilmente Mario), ma rimbalzavano contro il mio
buonismo corazzato: sono sempre stato capace di cambiare le mie opinioni razionali
per altre meglio argomentate, ma mi aggrappo ottusamente ai miei coups de coeur ideologici. Il rapimento e successivo omicidio dell’ingegnere di Lemóniz José María
Ryan, ma soprattutto la fredda e tragica esecuzione di Yoyes fecero aprire definitivamente
gli occhi tanto a me quanto a Pelo Cohete. Mentre io ero ancora imprigionato dalle
categorie tradizionali di destra e sinistra, lei ebbe sempre una mente molto più aperta.
Cercava quelli che credeva capaci di affrontare meglio i problemi e soprattutto quelli
(e quelle, perché da subito il nucleo della resistenza basca contro il nazionalismo
obbligatorio fu formato da donne) che considerava persone decenti, nel normale senso
orwelliano della parola.
A quell’epoca, tra la fine degli anni Ottanta e i Novanta, la complicità inequivoca,
benché talora neppure premeditata, tra i nazionalisti soft del PNV e quelli radicali
dell’ETA (coi loro servizi ausiliari politici) era evidente a tutti gli occhi che
volevano vederla. Prima che Arzalluz formulasse la sua fortunata metafora di quelli
che scuotono l’albero e quelli che raccolgono le noci, tutti noi che eravamo interessati
alla questione sapevamo che l’unica vera discrepanza tra gli uni e gli altri era che
il PNV non era disposto a dividere le sue noci con i violenti, per quanti vantaggi
potesse aver ottenuto dai loro procedimenti non sanctos. Sono convinto che molti jeltzales provassero ripugnanza e un po’ di paura per i metodi dei terroristi, ma se ne beneficiavano
senza troppi scrupoli, così come quei finanzieri che costruiscono le loro fortune
grazie a dei gangster che li liberano dai loro rivali per mezzo dell’intimidazione
o della forza, ma ai quali non permettono di macchiare i tappeti delle loro eleganti
case con scarpe sporche di fango e sangue. Nella Facoltà di Zorroaga vedevamo costantemente
come si tesseva questa complicità in virtù della quale il nazionalismo cosiddetto
moderato metteva le idee e l’ETA le armi. La differenza essenziale, a parte la pratica
della violenza, era che il PNV non scommetteva tanto sull’indipendenza quanto sulla
gestione indefinita dell’indipendentismo perché sapeva che l’indipendenza effettiva
è fonte di problemi per chi deve affrontarla, mentre l’indipendentismo porta benefici
a coloro che lo gestiscono quando questi si offrono come alternativa ragionevole ai
violenti. Nelle aule incontravamo gli abituali cronisti di una guerra civile intesa
come crociata degli «spagnoli» contro i «baschi» (in Catalogna la situazione è la
stessa, basta sostituire «baschi» con «catalani»). Inoltre prosperavano alcuni teorizzatori
particolarmente pazzoidi, come un presunto antropologo, o qualcosa del genere, secondo
il quale i baschi avevano inventato le città migliaia di anni prima che i popoli mesopotamici:
nel senso che in realtà vivevano nelle caverne, ma queste erano organizzate in sale
e corridoi che prefiguravano la moderna struttura urbana.
Sia io che Pelo Cohete passammo da posizioni relativamente equidistanti tra nazionalisti
e sostenitori del Governo centrale (come all’epoca veniva chiamata la democrazia costituzionale)
a un sostegno deciso di quest’ultimo. Il terrorismo, eufemisticamente chiamato «lotta
armata», lo condannavamo entrambi senza remore fin dall’inizio, soprattutto lei che
ne conosceva dall’interno, e molto meglio di me, le miserie e la prepotenza. Per le
vicissitudini della sua biografia, il nazionalismo separatista e xenofobo le risultava
letteralmente incomprensibile; non ho mai conosciuto qualcuno meno localista di lei. Sapendo di essere forestiera ovunque, le sgorgava da dentro la xenofilia, la simpatia spontanea per coloro che non sono «di sangue puro», quelli che sono
arrivati da fuori. Il tutto, naturalmente, senza il minimo accenno di antispagnolismo
o antibaschismo: le stavano antipatici solo i prepotenti, gli arroganti privi di merito
e per pura presunzione, quale che fosse il loro sangue. Si burlava affettuosamente
del mio essere un donostiarra borghese e fighetto quando sarei potuto diventare un ottimo abertzale, perché mi riusciva bene...
Presto comprendemmo che non aveva senso lamentarsi della situazione ma bisognava fare
qualcosa, resistere e, se possibile, attaccare. Io le confessai che non ero disposto
a fare tranquillamente la mia carriera accademica come i miei colleghi più vicini,
maledicendo sottovoce gli abusi dei nazionalisti. Godevo di una certa notorietà nella
cerchia degli intellettuali progressisti e credevo di avere idee sufficientemente
chiare e ragionate per oppormi all’ideologia da «tutto a un euro» degli apologeti
o giustificatori della violenza. Le mie idee non erano ancora così precise come mi
vantavo di credere, ma servivano ad affrontare la barbarie narcisista dei «ragazzi
della benzina» (Arzalluz dixit), che lo erano anche del parabellum e della dinamite. Tuttavia senza il sostegno
e la collaborazione entusiasta di Pelo Cohete poco avrei ottenuto. Lei aveva più senso
politico di me e spesso correggeva la mia propensione alla retorica e i miei furori
astratti. Conosceva molto bene il giro dei nazionalisti radicali, leggeva le loro
pubblicazioni e guardava su ETB i programmi in basco; in breve, era al corrente di
informazioni preziose a cui né io né la maggior parte dei politici costituzionalisti
avevamo accesso o prestavamo attenzione. Grazie a questo, quando scrivevo i miei articoli
mi orientavo abbastanza meglio della maggioranza dei benintenzionati, che tuonavano
tutti i giorni contro l’ETA o Batasuna senza conoscere altro che i fatti di cronaca
di cui erano protagonisti. Tuttavia non si limitava a informarmi, ma mi segnalava
gli argomenti su cui avrei dovuto scrivere. Io mi incaricavo di dar forma e forza
letteraria alle idee che lei mi forniva. Come ho detto, eravamo veramente un dream team. Molti anni dopo un amico, forse esagerando, mi fece il maggior elogio che abbia
mai ricevuto: «Sei stata la persona che ha fatto di più contro il nazionalismo separatista
in questo paese». Anche se fosse un’iperbole, è assolutamente vero che fummo, a nostro
modo, imprescindibili. Dico «fummo» perché il merito non era, come pensava il mio
amico, di una sola persona, bensì di due.
All’inizio, la posizione esplicitamente contraria al terrorismo e al nazionalismo
obbligatorio (questa espressione è mia, come tante altre, perché sono sempre stato
bravo a trovare il nome giusto per le cose) era senza mezzi termini progressista,
di sinistra. Adesso, alla luce della degenerazione attuale che è arrivata a definire
«illuminismo radicale» il separatismo, risulta difficile credere che la prima manifestazione
contro l’ETA (anno 1978, in seguito all’omicidio di José María Portell, il primo giornalista
vittima dell’associazione terroristica) fosse convocata dal Partito Comunista dei
Paesi Baschi. Figure di spicco della politica e dell’intellettualità basca progressista
dell’epoca, come Agustín Ibarrola, Ramón Recalde, José Luis López de Lacalle, Mario
Onaindia, Ignacio Latierro, Eduardo Txillida, eccetera, guidarono la resistenza contro
i criminali salvapatria e le loro menate giustificatrici. Mancava ancora molto perché
i partiti di sinistra cominciassero a simpatizzare per le posizioni antisistema degli
abertzales, anche se presto si intuì l’imminente deriva in quella direzione. Se quella prima
manifestazione contro l’ETA fosse stata indetta da rappresentanti della attuale sinistra
degenerata, sarebbe stata considerata una provocazione di estrema destra... A Madrid
la cosa progredì più rapidamente, perché conoscevano peggio la situazione e per certi
progressisti (alcuni scrivevano sul mio stesso giornale, «El País») gli etarras erano dei guerriglieri mandati dalla provvidenza che ci avevano liberato dalla «terribile»
minaccia dell’ammiraglio Carrero Blanco, il delfino di Franco. Che lungimiranza! Cento
ammiragli Carrero non avrebbero rappresentato per l’incipiente democrazia spagnola
neanche la metà del pericolo costituito dall’ETA e dalla sua devastante influenza
nei Paesi Baschi.
In effetti, mi ha sempre meravigliato il malinteso di cui sono vittima i cittadini
spagnoli rispetto a quello che accadeva nella mia disgraziata piccola patria. Ancora
poco tempo fa, quando è uscito l’eccellente romanzo di Fernando Aramburu, Patria, la gente mi chiedeva, come svegliandosi da una lunga siesta: «Ma davvero è successo
tutto questo? Davvero avete dovuto sopportare quel martirio?». E bisognerebbe vedere
la faccia che facevano e che fanno ancora alcuni quando spiego loro che il romanzo
è molto più morbido e sopportabile rispetto alla realtà quotidiana che abbiamo vissuto
per tanti anni! Francamente, è difficile ammettere che in questa inconsapevolezza
rispetto a ciò che accadeva non ci sia stata una certa componente di malafede, anche
se l’ampiezza e la profondità della stupidità popolare non vanno mai sottovalutate.
Pelo Cohete si sforzava quanto più poteva di farla finita con quell’ignoranza radicale
e con i fraintendimenti che propiziava. Da un lato era convinta che i politici costituzionalisti
avrebbero dovuto imparare a difendersi bene con l’euskera. Era sempre disponibile
ad aiutare i principianti nello studio di quella lingua così difficile, che fossero
le sue amiche María San Gil e Vanessa Gómez o chiunque altro. Inoltre, come ho già
detto, seguiva le pubblicazioni abertzales di nicchia (all’epoca stava preparando la tesi di dottorato su Jon Mirande, uno dei
migliori prosatori in euskera ma poco strombazzato, ufficialmente per via delle sue
simpatie destrorse e per alcuni racconti scabrosi), raccoglieva articoli e con pazienza
ammirevole guardava gran parte delle trasmissioni in euskera della televisione pubblica
basca, dai dibattiti ai telegiornali passando per i programmi per bambini. Questo
le permise di preparare una videocassetta con un’antologia di highlights nazionalisti che illustrava abbastanza fedelmente la quotidianità che dovevamo sopportare
nella nostra terra. Ricordo come momento di spicco un rap ballato da bambini tra gli
otto e i dieci anni incappucciati come piccoli etarras e con un ritornello in cui si reclamava con le cattive maniere che gli spagnoli se
ne andassero da Euskal Herria. Copie di quella videocassetta, che rappresentava un
formidabile sforzo informativo sulla propaganda separatista e terrorista, furono inviate
a giornalisti delle principali testate scritte e radiotelevisive, senza alcuna risposta
né risultato. Maite Pagaza, preziosissima collaboratrice in quell’impresa, la aiutava
a preparare il materiale che avrebbe dovuto mostrare agli ignoranti quel che capitava
nella sinistra Euskadi in cui vivevamo: «L’obiettivo era aiutare a preparare tutto
il materiale che Sara aveva raccolto: barzellette terribili uscite su “Gara” e “Deia”,
articoli carichi d’odio (che dunque non era prerogativa solo degli etarras), diverse perle trovate su ETB e registrate su VHS. [...] In realtà le liste, la
compilation, il monitoraggio di ETB era tutta roba sua. Ed era una grande idea». Purtroppo
le «forze vive» dell’intellettualità, il mondo dell’informazione e la politica spagnola
non erano dello stesso avviso: volevano che li si lasciasse dormire tranquilli anche
se non perdevano occasione di dare consigli e di avvisarci circa i rischi di «attrito».
Oggi, mentre scrivo queste righe, negli ultimi giorni del 2018, hanno ancora lo stesso
atteggiamento da struzzi civicamente suicidi rispetto alla situazione in Catalogna.
Cercavamo anche di far conoscere quello vivevamo e sapevamo alle cariche dello Stato,
a volte perfettamente al corrente dei movimenti criminali della banda ma molto meno
della portata sociale e culturale del suo progetto totalitario. Quando Juan Alberto
Belloch, con cui avevamo avuto rapporti sia io sia il mio amico Javier Pradera, divenne
ministro degli Interni durante il Governo di Felipe González, nominò direttrice generale
della Sicurezza Margarita Robles. Pelo Cohete ed io parlavamo spesso con Pradera degli
avvenimenti dei Paesi Baschi e lui aveva in alta considerazione le sue opinioni, perché
sapeva che si basavano su fonti che la maggior parte degli «esperti» ignorava o trascurava.
Sicché Javier cercò in tutti i modi di programmare un incontro tra noi e la signora
Robles per metterla al corrente di ciò che, in base a quello che sapevamo, stava accadendo
nel labirinto basco. A tal fine, organizzò un pranzo a cui avrebbero partecipato la
funzionaria, lui e noi due. Io accettai perché, in mancanza di talenti più importanti,
sono dotato di buona volontà, e Pelo Cohete apprezzava molto Javier, anche se detestava
i contatti istituzionali, a meno che non fossero finalizzati ad azioni concrete di
resistenza civile. Il pranzo fu un disastro, e non esattamente per questioni gastronomiche.
Fin dall’inizio cercai di mettere in chiaro che noi – io soprattutto – non pretendevamo
di possedere una particolare saggezza sul tema del nazionalismo, ma disgraziatamente,
a furia di sopportarlo, avevamo imparato tante cose, come il malato di cancro finisce
per conoscere bene la propria malattia a base di letture e domande su ciò che lo affligge.
In quel momento l’ETA stava lanciando un’offensiva per estendere la propria influenza
in Navarra, col preciso intento di stabilire una continuità ideale con l’antico regno
la cui estensione territoriale avrebbe garantito una certa verosimiglianza alle sue
pretese indipendentiste (oggi ormai questo obiettivo è stato in buona parte raggiunto
o è in procinto di esserlo). Cercammo di illustrarle questa ed altre questioni, ma
lei sembrava più attenta a spiegare a noi quello che capitava nei Paesi Baschi che
ad ascoltarlo dalle nostre bocche. La Navarra, secondo lei, non interessava neanche
un po’ all’ETA. La neo-nominata direttrice della Sicurezza mi parve troppo sicura
di sé, poco interessata ad imparare e molto a dimostrare ciò che sapeva, per lo più
cose di scarso interesse o sbagliate; insomma, una persona poco intelligente, inutile
fare giri di parole. L’opinione che ne ricavò Pelo Cohete, che aveva un temperamento
più forte del mio, fu abbastanza peggiore, e ogni due secondi mi diceva, non esattamente
in un sussurro: «Andiamo Fernan! Dai andiamo!». Per rispetto verso Pradera, che era
piuttosto in imbarazzo, riuscii a farla resistere fino al dessert, dissimulando per
quanto possibile la nostra delusione.
Per combattere contro l’ETA e contro il nazionalismo, che tanto beneficiava delle
sue minacce, io tendevo in generale a cercare l’appoggio delle persone di sinistra,
la mia «famiglia» politica naturale. Ne ricavai grandi delusioni. Alcune volte ho
spiegato che nei miei rapporti coi due emisferi del mondo politico non c’è equidistanza,
bensì due pulsioni – o per meglio dire repulsioni – opposte: della cosiddetta sinistra
mi ripugna molto di quello che fa e abbastanza di quello che dice (specie in questi
ultimi anni), mentre dalla denominata destra mi allontana tutto ciò che è. Rispetto al nazionalismo, e a maggior ragione al terrorismo, alla mia ingenua beatitudine
gauchista risultava ovvio che la sinistra avrebbe dovuto essere radicalmente contraria. Mi
sembrava impossibile che un progressista obbligato a vivere tra i separatisti provasse
verso di essi qualcosa di diverso da una sacra ostilità, soprattutto agli albori tanto
agognati e fragili – una volta conclusa l’interminabile dittatura – del sistema democratico,
minacciato proprio dalla furia assassina degli uni e dallo scaltro e sleale opportunismo
degli altri. Invece mi sbagliavo, come tante altre volte. È vero che molti personaggi
di spicco della sinistra antifranchista furono i primi a combattere contro l’ETA e
il suo separatismo violento; ma molti altri, sulla carta più massimalisti, e in tutta
la Spagna, simpatizzarono segretamente – o non tanto segretamente – per i terroristi
per via delle loro posizioni antisistema. Come se fosse ugualmente encomiabile essere
antisistema sotto una dittatura o in una democrazia appena inaugurata! Invece per
questi dementi era più o meno lo stesso, perché continuava a comandare la borghesia
capitalista, che per loro era il vero nemico. Quelli che osservavano la situazione
attraverso la lente deformante della vulgata marxista erano favorevoli a tutto ciò
che scuotesse lo Stato dalle fondamenta, perché ritenevano che ciò avrebbe propiziato
l’avvento di una democrazia «popolare» tipo quella di Cuba o dell’Albania; i terroristi,
ispirati a Sabino Arana (un personaggio che si collocava ideologicamente un po’ più
a destra di Gengis Khan), attaccavano lo Stato in quanto Spagna, senza badare se si
trattava di una democrazia o di una dittatura; per loro era sufficiente sapere che
era la Spagna, non poteva esistere nulla di peggio; i più stupidi di tutti, invece,
che ovviamente erano anche i più numerosi (figuratevi che anch’io, all’inizio, facevo
parte della categoria), avevano in simpatia i separatisti in virtù del loro pedigree antifranchista. Ci volle del tempo per renderci conto che, sebbene la risma di alcuni
dei suoi avversari non assolvesse il franchismo dai suoi crimini, neppure le sopraffazioni
del franchismo potevano cancellare i fini e i mezzi di coloro che vi si opponevano.
In particolare i socialisti sembravano credere – e molti continuano a crederlo ora
che scrivo queste righe! – che cedendo costantemente al nazionalismo e colmandolo
di gratificazioni avrebbero finito per convertirlo ai valori di una cittadinanza moderna
ed egualitaria. È stato detto che gli dei accecano coloro che vogliono perdere, ma
stando alla mia esperienza i demoni antidemocratici svolgono questo compito in modo
molto più efficace.
Le manifestazioni pacifiste di organizzazioni come Denon Artean o Gesto por la Paz,
che convocavano raduni silenziosi dopo ogni vittima mortale, anche quando si trattava
di etarras caduti in servizio, erano senza dubbio meritorie, ma si mantenevano su un terreno
strettamente morale – e pertanto privato, quando non addirittura religioso – che ad
alcuni di noi non pareva del tutto convincente. Ciò a cui noi ambivamo era un movimento
esplicitamente politico, che difendesse la Costituzione e lo Statuto di Autonomia
e che ripudiasse il nazionalismo obbligatorio, sempre detestabile anche quando non
ha tratti criminali. Così nacque Basta Ya («Adesso Basta»), lo stesso anno – il 2000
– in cui l’ETA riprese l’attività terroristica dopo una falsa tregua che illuse quelli
che si lasciano sempre illudere. Negli anni precedenti Pelo Cohete ed io avevamo passato
degli anni abbastanza difficili. Io viaggiavo in giro per il mondo, soprattutto in
America Latina, mentre lei aveva cominciato a insegnare estetica (soprattutto cinematografica)
in euskera a Zorroaga. La nostra maggiore preoccupazione era rimanere permanentemente
in contatto. Fino a quando non apparvero i telefoni cellulari – che siano benedetti!
– viaggiavo con così tanti spiccioli nelle tasche per parlare dai telefoni pubblici
che a volte camminavo storto, come una nave mal bilanciata. La mia ossessione, a qualunque
ora e in qualunque luogo, era di sentire la sua voce per sapere se stava bene (la
prova che stava perfettamente erano le sfuriate che mi faceva quando alzava il telefono
e che adesso mi mancano tanto). Nella nostra facoltà, dove i detenuti etarras godevano di trattamento per VIP e superavano gli esami in modo quasi miracoloso dalle
loro celle, grazie alla complicità o alla rassegnazione dei professori (mi ci metto
anch’io), lei era tra i pochi che non si prestavano a questi traffici.
Quando assassinarono Gregorio Ordóñez, Pelo Cohete ed altri indissero una riunione
di alunni e docenti a Zorroaga, alla quale parteciparono una dozzina dei primi e due
o tre dei secondi. Negli anni di piombo dei Paesi Baschi, il ranking di indegnità dinanzi ai terroristi era guidato senz’altro dai preti, seguiti dai
cuochi, guide intellettuali di un paese dedito al culto degli aspersori e delle padelle,
ma i docenti universitari, e soprattutto le autorità accademiche, non erano da meno.
Siccome io ero lontano e sapevo che lei, tra quella gente codarda e mediocre, si sarebbe
fatta notare, mi preoccupavo. Aveva subito due tentativi di aggressione per strada,
che mi raccontò a metà, e all’interno della facoltà ci dissero che era impossibile
garantire la sua integrità fisica. Insieme ad altri professori nella stessa situazione
(amici molto cari come Mikel Iriondo, Carlos Gorriarán e Mikel Azurmendi), le proposero
la soluzione di una ritirata discreta e ben retribuita, cioè di restare a casa incassando
regolarmente lo stipendio, e di essere sostituiti da altri docenti meno decenti, più
graditi agli assassini che facevano valere le loro minacce nella più totale impunità.
Lei, che amava insegnare e fu pioniera nella nostra università nell’uso del cinema
come strumento pedagogico, non si riprese mai dall’amarezza che le provocò il fatto
di dover abbandonare le aule. Dubito che tra coloro che facevano lezione in euskera
ci fossero molti professori altrettanto capaci, moderni e aperti alla spontaneità
giovanile.
Visto retrospettivamente, sono sicuro che quella situazione le provocava più sofferenze
di quelle che voleva dare a vedere all’epoca. Fu sempre spronata dalla miseria da
cui proveniva e sentiva un bisogno di stabilità e di realizzazione professionale che
rappresentasse una sorta di rivincita. Il peso del ricordo della sua militanza nell’ETA
si accrebbe col tempo, tormentandole la coscienza come l’ennesimo errore di un passato
angoscioso. Il suo carattere era soggetto a burrasche interiori di intensità quasi
ossessiva, che sconcertavano e spaventavano quelli che la conoscevano bene perché
sfogava la sua aggressività più contro sé stessa che contro il prossimo. Ho sempre
pensato che le donne di carattere inalterabilmente equanime non appartengono al genere
femminile ma a quello bovino, anche se questo mi ha portato a cercare la compagnia
di persone che non mi hanno reso la vita più facile e che io stesso non ho saputo
aiutare come sarebbe stato opportuno. Ricordo il giorno di San Valentino (data di
infausta tradizione) del 1996, quando all’Università Autonoma di Madrid assassinarono
Francisco Tomás y Valiente. Paco ed io avevamo fatto coppia in diversi incontri (anche
se, naturalmente, la sua statura accademica era molto più alta della mia) per parlare
di terrorismo, impegno politico e via dicendo, affrontando le varie questioni lui
da una prospettiva giuridica e io da quella etica. Spesso mi chiedeva delle precauzioni
che prendevo per proteggere la mia incolumità nei Paesi Baschi (e che allora erano
pari a zero, a dirla tutta) e mi rimproverava amabilmente per la mia imprudenza. In
quanto ex presidente della Corte Costituzionale aveva avuto a lungo la scorta; gliel’avevano
tolta giusto quindici giorni prima dell’omicidio, essendo decorsi i termini di legge.
Il giorno stesso in cui era tornato alla sua cattedra dopo gli anni di aspettativa,
Jon Bienzobas entrò nel suo ufficio (in quel momento stava parlando al telefono con
il collega Elías Díaz) e gli sparò a sangue freddo. Probabilmente l’assassino non
sapeva nulla della sua vittima, autore del primo saggio sulla tortura in Spagna e
figura progressista di spicco all’università durante il franchismo. Il suo omicidio
sconvolse soprattutto il mondo dell’università, che fino ad allora credeva in modo
quasi superstizioso di essere una zona franca, un luogo sacro al riparo dalla violenza.
Io ero a Madrid quando avvenne il delitto e subito telefonai a Pelo Cohete per raccontarle
con voce rotta la tragedia. A differenza della maggior parte delle persone, lei non
aveva mai creduto al fatto che le aule potessero offrire effettiva protezione, anzi
era convinta del contrario, per cui le sue prime parole quando ricevette la notizia
furono nervosamente colleriche: «Vedi? Che ti avevo detto?». Subito dopo, però cedette
all’emozione, scoppiò a piangere – lei così coraggiosa, così energica – e mi ripeté
tante volte tra i singhiozzi: «Non voglio che ti succeda niente! Ti scongiuro, fa’
che non ti succeda niente!». Sebbene anch’io piangessi per l’amico e maestro, dentro
di me le sue parole mi produssero un calore consolante. Anche qui vale la pena ripetere
ancora una volta le parole di Goethe: «Dà più forza sapersi amati che sapersi forti».
La prima manifestazione di Basta Ya ebbe luogo nel febbraio del 2000, senza essere
presentata come reazione a un attentato appena avvenuto. Era una mossa che sfatava
molti pregiudizi ma che suscitò un certo scalpore: una manifestazione indetta non
per protestare ma per esprimere un sostegno, un’adesione! Un sostegno e un’adesione
nientemeno che alla Costituzione spagnola e allo Statuto d’Autonomia – e solo d’Autonomia
– perché il senso di questo non si capisce senza quella. Per opporsi all’ETA e ai
suoi crimini uno può appellarsi al quinto comandamento, alla compassione o al pacifismo,
ma come spiegare il sostegno alla Costituzione e allo Statuto? Solo rivendicando la
cittadinanza spagnola, l’unica con corso legale, quella cittadinanza che l’ETA ci
voleva negare con la forza delle armi e il nazionalismo basco di ieri e oggi con le
sue idiozie carliste. Quella manifestazione fu un grosso salto in avanti, tutti avevamo
paura di fare le cose con la forza, cercavamo di parlarne sottovoce o per mezzo di
perifrasi. Ancora in quella nostra prima manifestazione, sotto un acquazzone impressionante
(dei più violenti che abbia mai visto, e badate che di pioggia ne ho vista tanta a
Donosti!) osammo esporre per la prima volta uno striscione su cui c’era scritto ETA
EZ – ETA NO (altro che «No alla violenza» o «Pace per tutti») e un’altra ancora più
esplicitamente politica – PER CIÒ CHE CI UNISCE: STATUTO E COSTITUZIONE – ma non fummo
capaci di portare bandiere spagnole, che era un modo di dire la stessa cosa ma con
meno parole. Quanto fu difficile accettare ciò che bisognava difendere e imparare
a difenderlo senza titubanze! Mi duole ammettere che non fui tra i più solleciti a
cambiare atteggiamento, mi portavo ancora dietro i miei pregiudizi sinistrorsi come
una specie di acne giovanile...
Basta Ya non aveva una struttura gerarchica, né un organigramma, né un tesoriere che
si occupasse dei nostri conti, né conti di cui occuparsi. Era un fenomeno intermittente,
come l’aurora boreale: quando eravamo in piazza a manifestare, in quel momento esisteva
Basta Ya; quando l’assembramento di scioglieva e ciascuno tornava a casa propria,
Basta Ya scompariva – o entrava in letargo – fino alla manifestazione seguente. Eravamo soltanto quando occupavamo le strade e ci mettevamo in azione. Tutto il resto consisteva
in preparativi curati da volontari. La nostra prima manifestazione, quel giorno di
febbraio in cui diluviò, fu una carezza contropelo rispetto a tutto ciò che l’aveva
preceduta. Non avevamo idea di quanta gente avrebbe partecipato, vi era anzi il fondato
timore che probabilmente non saremmo stati più di un paio di dozzine. C’era solo una
prima fila formata dalle vittime e dai loro parenti. Dietro, eravamo tutti disposti
un po’ a casaccio, senza gerarchie. Fu anche necessario convincere diverse vittime
affinché occupassero la prima fila e portassero gli striscioni, che consideravano
troppo «politici». Erano abituati a essere simboli etici, a rappresentare la pura
dignità del dolore, e vedersi subito avvolti nel sudario appiccicoso della politica,
ancorché di una politica più inclusiva e meno settaria (cioè costituzionale), gli
sembrava quasi un tradimento della loro missione. Alla fine tutto andò come previsto,
salvo per il numero dei partecipanti, molto superiore alle attese malgrado l’inclemenza
del tempo e la novità dell’approccio rivendicativo. Per la prima volta molti negozi
di San Sebastián rimasero chiusi perché i loro proprietari e i loro commessi parteciparono
alla marcia. Non c’era bisogno di domandarsi che cosa si sarebbe ottenuto a medio
o lungo termine con la nostra iniziativa; era essa stessa un fine in sé, che restituiva
ai partecipanti l’allegria, fosse anche solo momentanea, di essere cittadini attivi
e non vassalli soggiogati a una forma di terrore umiliante. Ma il terrore era ancora
lì. Pochi giorni dopo la manifestazione, l’ETA assassinò con un’autobomba il vicepresidente
del Governo basco, il socialista Fernando Buesa (uno dei politici più capaci del panorama
locale), e un uomo della sua scorta, il giovane Jorge Díaz. Nei mesi successivi, poi,
furono assassinati il giornalista José Luis López de Lacalle e Juan María Jáuregui.
A settembre, poco prima della seconda manifestazione di Basta Ya (la più grande mai
organizzata a San Sebastián e probabilmente anche la più grande di tutti i Paesi Baschi
tra quelle non convocate dai nazionalisti), il socialista Ramón Recalde fu gravemente
ferito al volto da un colpo di arma da fuoco. In ultimo, verso la fine di novembre,
l’ETA assassinò a Barcellona Ernest Lluch, che era stato ministro del Governo socialista
di Felipe González, trascorreva lunghi periodi nei Paesi Baschi e aveva una posizione
dialogante e coraggiosamente comprensiva nei confronti dei nazionalisti. A dicembre
di quell’anno il PSOE e il PP sottoscrissero il Patto Antiterrorista, la presa di
posizione più energica contro i terroristi, ma anche contro i loro servizi ausiliari
politici, che fosse mai stata assunta da molto tempo. Il PNV, è bene ricordarlo, la
prese molto male e non lo firmò. Di sicuro quel patto non sarebbe mai stato concepito
senza gli interventi di Basta Ya, per cui qualcosa evidentemente riuscimmo a ottenere...
oltre a diventare bersaglio prioritario degli assassini.
Ci abituammo a viaggiare accompagnati da guardie del corpo. La prima fu una guardia
privata che insistette ad assegnarmi Jesús de Polanco, sempre molto generoso con me,
quando assassinarono Tomás y Valiente. Si chiamava (e suppongo continui a chiamarsi:
gli mando un abbraccio) Juanjo e mi accompagnava alla Facoltà di Filosofia della Complutense
di Madrid dove ero andato a insegnare dopo aver lasciato Zorroaga. Si comportava come
uno dei miei migliori alunni, prendeva appunti durante le lezioni e spiegava a quelli
che facevano più assenze l’argomento della lezione precedente. Pelo Cohete diffidava,
senza averne particolari motivi, delle sue capacità di vigilanza: «Questo qui dovrebbe
proteggerti, e invece gli stai facendo fare un master», mi diceva un po’ per scherzo
un po’ no. In seguito ho avuto molte altre guardie del corpo della Polizia Nazionale
e di tutti posso dire solo cose buone: gentili, pazienti, sempre ben disposti a sopportare
le mie piccole – o non tanto piccole – manie. Una volta, addirittura, mi capitò una
poliziotta giovane e carina con cui mi piaceva che mi vedessero camminare in strada
per potermene vantare. Anche Pelo Cohete ebbe la sua scorta dopo quei tentativi di
aggressione in strada ai quali riuscì a scampare grazie al suo coraggio... e ai suoi
piedi leggeri. La sua guardia del corpo si chiamava Juan Carlos ed era un ragazzo
originario dell’Estremadura buono come il pane, che lei amava mettere alla prova con
una certa malizia: ad esempio, entrava in un negozio e gli diceva perentoriamente
di aspettarla fuori. Poi svicolava da un’uscita laterale, gli si avvicinava da dietro
e lo sorprendeva con una pacca sulla spalla: «E niente, sempre con la testa tra le
nuvole, eh? E se fossi stata un sicario?». Nonostante queste mascalzonate, il ragazzo
le voleva molto bene e facemmo persino dei viaggi insieme in Estremadura, incantevole
terra che a Pelo Cohete piaceva ogni volta di più. Pur avendo terminato il suo servizio
da anni, Juan Carlos apparve nella camera ardente mentre vegliavamo sulla sua antica
e discola protetta.
Basta Ya fu un punto di riferimento attivo per la brava gente proveniente da tutti
gli angoli del cosiddetto «spettro politico» (che a volte è davvero uno spettro: del
male). Tutti quanti ci comportavamo reciprocamente con grande cameratismo, senz’altre
allusioni alle nostre differenti ideologie politiche che quelle indispensabili per
fare qualche battuta. Certo che all’epoca le nostre socialiste erano Rosa Díez e Maite
Pagaza, il PP era rappresentato da María San Gil, Olivia Bandrés e Vanessa Gómez,
mentre nelle file di Comisiones Obreras, il principale sindacato di sinistra, potevamo
contare su un elemento del calibro di Juan Luis Fabo... Ci univa una volontà evidentemente
progressista, ovvero rigeneratrice: quella di sollevare i cittadini contro il separatismo
xenofobo (tutti i separatismi lo sono, da tutte le parti) e violento di cui eravamo
vittime nei Paesi Baschi e che si estendeva nel resto della nostra democrazia. Alle
manifestazioni di Basta Ya, a partire dal settembre del 2000, parteciparono persone
provenienti da tutta Spagna. Ad animarle era una sorta di sentimento dell’essenziale,
del fatto che in quei luoghi stava nascendo la lotta più necessaria e meno eticamente
ambigua tra quelle che dovevamo affrontare. A vederla retrospettivamente, Basta Ya
era una sorta di cartina di tornasole per distinguere i veri militanti progressisti
da coloro che si limitarono a adottare posizioni di comodo per fare bella figura di
fronte alla muta vociante dei radicali da operetta. Un individuo di più di 35 anni
che non abbia mai partecipato a una manifestazione di Basta Ya – salvo che glielo
impedissero cause di forza maggiore – può essere definito in molti modi, ma certamente
non un progressista. E se in quei giorni o in quelli immediatamente successivi incontrava
gli abertzales più ottusi per elogiare l’intuizione politica dell’ETA, come fece Pablo Iglesias,
la diagnosi è molto più grave.
Per il resto, nella nostra eterogenea milizia avvenivano scene degne di essere filmate
con una telecamera nascosta, come le affettuose ramanzine che Pelo Cohete faceva all’allora
ministro degli Interni Jaime Mayor Oreja (di solito sgridava solo le persone che amava,
o almeno spero, nel mio caso!). Ricordo un giorno in cui gli fece una lezione teorica
sulla perfetta normalità della condizione omosessuale e sulle ragioni per cui non
avrebbe dovuto scandalizzarsene: «Dai Jaime, cerca di essere un po’ meno di destra...»,
e il buon Jaime la ascoltava con rassegnata attenzione e un mezzo sorriso. Quell’ambiente
in cui si riconciliavano differenze, privo di qualunque tensione, si ricreò anche
nei primi anni dell’UPyD, il partito che senza mezzi né sostegno dei media ha davvero
posto fine al bipartitismo nella politica spagnola, oltre a produrre tante idee che
poi altri hanno rilanciato come proprie. Pelo Cohete non riusciva ad abituarsi, quando
uscivamo dal nostro txoko, all’ostilità quasi programmatica tra i grandi partiti che governavano la conventicola
statale. Per esempio, qualche anno più tardi, quando trascorremmo diverse ore nella
casa dove agonizzava il nostro amico Javier Pradera, rimase sconvolta dal settarismo
che affiorava dalla maggior parte delle conversazioni tra coloro che entravano e uscivano
dalla triste riunione. Io non me ne accorsi, perché quella cerchia progressista ferocemente
partigiana è sempre stata il mio ambiente. Magari quando si riuniscono conservatori
e personalità di destra succede la stessa cosa: non lo so perché non li ho frequentati
tanto. Da quanto leggo sulle loro testate, soprattutto quelle digitali, direi di sì.
Ma ormai la destra difficilmente mi può deludere; la sinistra invece sì. E, almeno
in Spagna, uno dei problemi più grandi del normale funzionamento politico del paese
è che i rappresentanti intellettuali e morali della sinistra non sono mai riusciti
ad accettare la normalità dell’alternanza al Governo con la destra: per loro è sempre
stata una specie di usurpazione, una cosa più o meno fraudolenta o comunque radicalmente
ingiusta. E questa storia ce la portiamo dietro dall’altro secolo, dal 1934 per la
precisione, con una guerra civile e tante altre spiacevoli conseguenze. Ebbene, in
mancanza di altri risultati, che le circostanze non ci hanno consentito di ottenere,
anche se le conquiste non sono state di poco conto, la militanza prima in Basta Ya
e poi nell’UPyD riuscì ad immunizzare molti di noi al virus letale del mondo visto
come un’eterna dicotomia sinistra-destra e a schierarci a fianco dei difensori della
cittadinanza spagnola dell’una e dell’altra fazione e contro coloro che ambivano (e
ancora ambiscono!) a cancellarla: un discorso che si può applicare, attualmente, anche
alla questione catalana.
L’avvenimento più doloroso che Pelo Cohete ed io dovemmo affrontare durante l’epoca
di Basta Ya fu l’omicidio di Joseba Pagazaurtundúa. Joseba era uno dei membri più
attivi nell’organizzazione delle nostre manifestazioni: i palloncini colorati che
distribuivamo erano una delle tante idee sue, che ottimizzavano ingegnosamente la
povertà dei nostri mezzi. La vicenda personale di Joseba aveva un importante punto
di contatto con quella di Pelo Cohete, perché a sedici anni divenne membro dell’ETA
per poi abbandonarla ed entrare prima in Euskaldiko Ezkerra e poi nel Partito Socialista.
Fu un poliziotto molto competente, e grazie a lui furono arrestati diversi membri
del Battaglione Basco-Spagnolo e un intero commando dell’ETA. I terroristi lo braccavano
con quella ferocia speciale che viene riservata a coloro che ne hanno fatto parte
e poi se ne sono allontanati. Joseba sapeva di essere nel mirino della mafia etarra, per cui chiese di essere trasferito ad Andoain, una di quelle lugubri località di
Guipuzkoa piene di complici non sempre passivi dei criminali (proprio lì, poco prima,
era stato assassinato il suo amico José Luis López de Lacalle) dove fu capo della
Polizia locale. Purtroppo non gli badarono. Ma Joseba era anche fratello di Maite,
che io e Pelo Cohete consideravamo come una sorella. Non c’era nessuno tra i tanti
ottimi amici che avevamo in Basta Ya a cui volessimo più bene. Ero appena atterrato
a Barajas proveniente da San Sebastián, quel fatidico 8 febbraio (un altro febbraio
maledetto), quando mi squillò il telefono: un collega mi informava confusamente che
era appena avvenuto un attentato e che la vittima poteva essere Joseba. Cercai di
localizzare Pelo Cohete, non ci riuscii e senza uscire dall’aeroporto prenotai un
posto sul volo di ritorno per Donosti. Joseba era stato colpito a fuoco a tradimento
quella mattina mentre faceva colazione al bar Daytona di Andoain, ma non era morto.
Era ricoverato in condizioni gravissime nel reparto di terapia intensiva dell’Ospedale
Donostia. Ad assisterlo, ora dopo ora, rimasero la moglie Titi, i fratelli Iñaki e
Maite e Pelo Cohete; nessun altro. Il resto dei compagni di Basta Ya, guidati da José
María Calleja, che cercava di rendersi decisamente più utile degli altri, aspettava
fuori per occuparsi degli amici che venivano a chiedere notizie e anche degli esponenti
politici che passavano da lì. Bisognava impedire all’apparato del Partito Socialista
di appropriarsi della figura di Joseba, che nessuno aveva protetto quando si poteva
e doveva, e marcare le distanze, senza venir meno all’educazione, rispetto ad altre
figure la cui complicità con coloro che avevano attentato contro la vita del nostro
compagno ci sembrava assolutamente fuori discussione. Quando si presentò il lehendakari Ibarretxe, fu Iñaki, in rappresentanza della famiglia, a ringraziarlo per la presenza
e per l’interesse, prima di spiegargli che però quello spazio era riservato agli amici
e che lui non era considerato tale. Lo stesso trattamento fu riservato al repellente
vescovo (sia concesso il pleonasmo) Uriarte, che a quanto pare la prese molto male.
Di Batasuna comparvero solo alcuni famigliari di Titi e dello stesso Joseba, perché
nelle famiglie basche c’è sempre stata gente di ogni colore politico, e furono sistemati
in una sala a parte per evitare tensioni con gli altri. Naturalmente non si presentarono
cariche pubbliche abertzales, e dico «naturalmente» perché il plenum del municipio di Andoain con sindaco e maggioranza di Batasuna, riunito in tutta
fretta per l’occasione, rifiutò di condannare il delitto (di cui era stato vittima
il capo della Polizia locale!!), limitandosi a manifestare cordoglio e ad attribuire
la colpa al «conflitto», cioè a coloro che si opponevano alle loro pretese totalitarie...
come aveva fatto lo stesso Joseba. Quando finalmente il nostro compagno, il nostro
amico, il nostro fratello morì senza riprendere conoscenza, Pelo Cohete ed io sentimmo
che per noi non era stata una morte qualunque, di quelle a cui purtroppo ci stavamo
abituando. Questa vittima ci provocava una rabbia speciale, infinita. A partire da
quel giorno, e per molti anni, ogni 8 febbraio ci siamo ritrovati ad Andoain intorno
a una edicoletta scolpita da Agustín Ibarrola (La casa di Joseba, si intitola l’opera) per ricordarlo, ma soprattutto per non dimenticare per cosa
e contro cosa abbiamo combattuto e che dobbiamo continuare a combattere affinché non
vinca il peggio per rinuncia del bene. In quelle manifestazioni ad Andoain si sono
ritrovati anno dopo anno coloro che non si lasciano intimidire né corrompere, che
non credono di avere diritto di stancarsi solo perché qualcuno gli ha detto: «Il vostro
dovere l’avete fatto, i tempi sono cambiati, non c’è bisogno di insistere». Non abbiamo
mai fatto l’appello, ma se qualcuno vi raccontasse di essere sempre stato in prima
fila a difendere gli oppressi ma di non aver mai avuto tempo di andare ad Andoain,
potete dirgli da parte mia: «Vedi un po’ di andartene in quel posto!».
Mentre scrivevo questa pagina, ho chiesto a Maite se ricordava che ruolo avesse avuto
Pelo Cohete in quella giornata angosciosa dell’agonia e morte di Joseba. Trascrivo
parzialmente la sua risposta: «Non so quante allucinazioni devo aver avuto in quel
tempo sfocato ma incancellabile. Sara si occupava di noi con tenerezza. Con una cura
estrema. Facendosi in quattro per rispettare ogni secondo, ogni decisione, senza interferire
né manipolare, senza luoghi comuni, senza aggiungere ulteriore dolore a quelle terribili
ferite. Solo una persona libera e consapevole è capace di così tanto rispetto. Non
so in che momento venne con me, ma so che quelle notti – ricordo soprattutto la prima
– senza di lei non le avrei sopportate. Quando finiva il giorno – infinito, interminabile
– dopo aver dato animo a decine di amici, senza piangere, perché avevano bisogno di
vedere serenità, non riuscivo a dormire né a rilassarmi: pensavo solo al fatto che
non sarei riuscita, di lì in avanti, a sopportare il dolore di respirare, di mangiare.
A casa Calleja chiudevamo la porta della stanza da letto che ci avevano imprestato
e scoppiavo a piangere sconsolata. Se io non chiudevo gli occhi, non li chiudeva nemmeno
Sara. E se avevo bisogno della sua mano, era lì. E se avevo bisogno di un abbraccio,
era lì. E allora Sara era mia madre, mia sorella Sarita. Una generosità e una dedizione
assolute. [...] E così come era venuta per prendersi cura di noi, specialmente di
me, se ne andò senza far rumore quando tornai a casa».
Tre anni dopo aver avviato la sua nobile battaglia e dopo aver ricevuto dal Parlamento
Europeo il premio Sacharov per la difesa dei diritti umani, l’azione di Basta Ya cominciò
a farsi ripetitiva e a perdere la freschezza delle prime manifestazioni. Mancava tuttavia
un’ultima avventura potente e originale. La sua ideatrice fu Pelo Cohete. Progettò
un viaggio attraverso la Spagna, visto che la minaccia totalitaria del terrorismo
e del separatismo etnico era rivolta al paese intero, che partisse da San Sebastián
– noblesse oblige – e arrivasse fino alla culla della prima Costituzione, concepita perché gli spagnoli
fossero tutti liberi e uguali: Cadice. Malgrado la nostra cronica mancanza di mezzi
(malattia incurabile, perché non siamo nati per raccogliere fondi né per fare affari),
affittammo un bellissimo autobus il cui esterno fu decorato, con il consueto talento,
da Alberto Corazón. So bene che da allora si sono moltiplicati gli autobus di mobilitazione
politica, al punto che ormai non c’è campagna elettorale che non lo preveda, però
quello di Pelo Cohete era il primo, fu lei a dare l’idea. Il nostro piano era di scendere
verso Sud, fermandoci nelle città importanti ma anche in alcune più piccole, persino
paesini se fosse stato il caso. Così facemmo. L’equipaggio di quell’«autobus della
libertà» era formato, oltre che da alcuni dei membri più conosciuti di Basta Ya, da
vittime del terrorismo, politici di partiti costituzionalisti (cioè non nazionalisti)
e un paio di giornalisti. Non tutti fecero il viaggio completo, come Pelo Cohete,
il sottoscritto e pochi altri; la maggior parte dei partecipanti si univano alla spedizione
a un certo punto e la abbandonavano a un altro, a volte per risalire nuovamente sull’autobus
cento chilometri dopo. Questo garantiva rinnovamento permanente e freschezza di idee
nel nostro piccolo squadrone. In ogni località, grande o piccola che fosse, la prima
cosa che facevamo era fermarci in una zona centrale e affollata per attirare il pubblico,
come novelli burattinai, giullari della democrazia aggredita. Parlavamo coi passanti,
distribuivamo volantini esplicativi di quello che succedeva nei Paesi Baschi, a volte
improvvisavamo un comizio in mezzo alla strada e arringavamo con più ironia che truculenza
coloro che avevano voglia di ascoltarci. Per finire, andavamo in municipio a presentarci
davanti alle autorità comunali, a fare i nostri omaggi e a chiedere il loro aiuto.
Bisogna dire che da tutte le parti ci accolsero con interesse e persino con affetto,
sia la gente comune – anzi, soprattutto la gente comune – sia i maggiorenti, fossero
popolari o socialisti, ma anche di Izquierda Unida (Rosa Aguilar, sindaca di Córdoba).
Tuttavia, dove davvero la popolazione si buttò a capofitto con noi ed emozionò tutti
i membri della spedizione fu a Cadice. Fin dal nostro arrivo in città, le dimostrazioni
di interesse e di affetto tanto da parte della gente comune quanto da parte delle
autorità furono costanti. E l’atto di chiusura del nostro viaggio, nella splendida
cornice barocca dell’Oratorio di San Filippo Neri, tanto carica di rimembranze costituzionali,
fu motivo di grande conforto per coloro che più avevano sofferto e anche per noi che
tante volte ci eravamo sentiti dimenticati dai nostri compatrioti. Quella sera, stanchi
ed euforici nella nostra stanza dell’hotel Atlantico, lei mi guardò con quel sorriso
soddisfatto e un po’ beffardo che conoscevo bene: voleva dire che era contenta ma
non voleva esaltarsi troppo, perché poi non si sa mai, perché nulla riesce bene fino
in fondo, neanche nel migliore dei casi. Allora le dissi: «Brava, tesoro». E glielo
ripeto ora, disperato: Brava! Brava!
Maite Pagaza, a cui ho chiesto informazioni sulle difficili ore trascorse insieme
durante l’agonia di suo fratello, mi scrive di nuovo. Mi rammenta quanto si divertivano
a casa nostra le sue due figlie piccole, soprattutto durante le festività natalizie.
Pelo Cohete nascondeva regalini per loro in ogni stanza e io creavo delle zeppe divertenti
in rima per orientarle nella loro ricerca. Impossibile dire chi si divertisse di più,
se le bambine o gli adulti. Maite lo ricorda così: «Per le bambine, Sara era un essere
affascinante. Sara Mostriciattoli. Non avevano mai visto una casa decorata con mani
che ti afferrano se prendi una caramella o con pipistrelli che ti accolgono all’ingresso
svolazzandoti sulla testa. Le altre amiche della loro madre non si travestivano da
pirata, né le punzecchiavano con ironia perché non si comportassero come pecore ma
come esseri dotati di criterio. Nessuno, nella loro infanzia, faceva regali così “proteici”:
libri, grandi film, oggetti sorprendenti e amore per i personaggi affascinanti...
Adesso la nostra casa di Logroño riceve gli ospiti con le loro figure. È una dichiarazione
di intenti». Maite mi allega un disegno infantile e delizioso, non so se di Clara,
la più grande, o di María, che chiamavamo «María Basta Ya» perché Maite era incinta
di lei nel 2000 e dunque aveva partecipato alle nostre manifestazioni prima di nascere.
Sotto l’insegna «CINE», scritta con lettere maiuscole, si vede un grande schermo su
cui corrono dei cavalli che potrebbero essere anche formiche giganti (o conigli geneticamente
modificati), ma un altro cartello – «I cavalli galoppano» – chiarisce la questione
sgomberando il campo dagli equivoci. A sinistra e a destra dello schermo compaiono
due figure, spettatori privilegiati: una, chiamata «Fernando» dice «che bello!»; l’altra
è «Sara» e dice «Uau». Così mi piace immaginarci per sempre, insieme e incantati nel
cinema dei bambini.