Una vita con Sara. Il nostro destino unito per sempre

Simonetta Fiori intervista Fernando Savater

Il filosofo spagnolo Fernando Savater ha scritto un libro per ricordare la moglie scomparsa dopo una malattia. “Lei era forte, la sua assenza mi ha reso vulnerabile. A chi mi chiede di superare il lutto dico: il dolore non ha una data di scadenza”

Simonetta Fiori, la Repubblica, 17 febbraio 2021

Nelle memorie sentimentali la chiama Pelo Cohete, con il nomignolo che aveva da ragazza quando la conobbe all’università di San Sebastián. Impertinente fin dalla cresta punk sparata all’insù, passionale nell’affinità e nella dissonanza, sensibile come tutte le donne che hanno conosciuto il dolore. Solo alla fine diventa Sara, il nome vero, quello degli affetti quotidiani. «È il nome di mia moglie», dice Fernando Savater con la sua voce potente, uno strano impasto di vitalità e malinconia, a tratti punteggiato da un sorriso che sottolinea gli aspetti paradossali dell’esistenza. Sara è mancata sei anni fa, dopo una lunghissima storia d’amore, di gioco, di risate, di liti furibonde, di comune militanza politica e intellettuale. «Ho riconosciuto la felicità dal rumore che ha fatto andandosene». E in un verso di Jacques Prevért che lo scrittore filosofo trova le parole per raccontarsi. Al “basso ostinato” dell’allegria è subentrata una musica struggente. E L’amore che resta — uscito in Spagna con il titolo La peor parte. Memorias de amor e ora tradotto da Laterza — è il diario di una perdita e di una rinascita, perché solo il ricordo può mantenere in vita chi non c’è più.

È stata sua moglie Sara a chiederle di scrivere di voi?

«All’ospedale di Pontevedra, subito dopo aver saputo del tumore. Ne ignoravamo l’esito fatale, ma non la possibilità che potesse separarci per sempre. Ci stringevamo sul suo letto quando mi disse: “Se tu non lo racconti, nessuno saprà cosa siamo stati l’uno per l’altro”. Dopo la sua morte, mi è tornata in mente questa frase. E mi sono messo a scrivere».

Scrivere l’ha aiutata a elaborare il lutto? Leggendola non si ha questa impressione.

«La ferita resta e io continuo a vivere in uno stato di lutto permanente. Non voglio neppure superarlo, come qualcuno mi consiglia con impazienza. Io in questo momento vivo per ricordarla. E, nella misura del possibile, cerco di sentirla accanto a me».

Ma non c’è il rischio di affezionarsi al dolore? Come se mutare registro significasse tradire lamore per chi è mancato.

«A me sta succedendo una cosa diversa: mi sto abituando alla malinconia. Fino alla morte di Sara non avevo mai fatto nulla senza allegria, come diceva di sé Montaigne. La tristezza era un continente sconosciuto. È arrivata all’improvviso ed è stato un trauma. Ma ora fa parte di me, la riconosco non appena mi sveglio al mattino».

E non ha fretta di liberarsene. Lei lamenta anche nelle persone più care un eccesso di intransigenza verso chi soffre per una perdita.

«Gli amici spesso si comportano come se il dolore avesse una data di scadenza, superata la quale si diventa un peso. E un sentimento comprensibile: tutti vogliamo essere circondati da persone spensierate, le più generose verso gli altri. Mentre chi è prigioniero di un’assenza reclama costantemente attenzione. “Accidenti, sei ancora così giù”, è una delle frasi che mi capita di sentire, che poi significa: ma quando la pianti con queste lagne? C’è poi una sentenza-analgesico che mi fa impazzire: il tempo cura ogni cosa. Ma quando mai? Noi vecchi sappiamo che è vero il contrario: il tempo non solo non aggiusta, ma semmai rende tutto più difficile».

Leggendo del suo amore con Sara viene in mente una frase di Camus: “Eravamo solitari e solidali l’uno con l’altro”. Insieme coltivavate il privilegio della solitudine e il beneficio di una compagnia inossidabile.

«Sì, esattamente questo. L’amore per me è quando uno smette di vivere per qualcosa e comincia a vivere per qualcuno. Non si vive più peri soldi, il potere o la fama, ma per la felicità dell’altro che è la tua. Anche nei momenti più difficili non ci ha mai abbandonato la certezza di essere l’uno il destino dell’altro. Io mi sentivo felice quando da lei arrivavano segnali di approvazione: per un mio scritto, un comportamento, un gesto. Come se il suo beneplacito valesse più di un Nobel».

Però cera una zona inaccessibile per entrambi. Sara non le raccontava mai della sua infanzia povera.

«Era cresciuta in condizioni difficili, figlia di un padre mai conosciuto, costretta da bambina a migrare dai Paesi Baschi in Catalogna. Tutto questo aveva pesato sul suo carattere estremo, ma non l’ho mai vista ripiegata sul passato. Viveva nel presente, e di quel che era stato preferiva tacere».

E non avete mai parlato dei suoi tradimenti, Savater. Lei confessa di non esserle stato fedele.

«Il sesso è una cosa, l’amore un’altra. Io ho vissuto avventure erotiche che non avevano niente a che vedere con il mio rapporto con lei. In questo sono stato leale. La fedeltà è un’attitudine che si addice più alla razza canina».

Ma con Sara non ne parlava.

«Non mi sembrava di buon gusto. Mia moglie sapeva benissimo che non ero un casto giovane. E non mi ha mai chiesto nulla».

Alla fine di ogni anno lei aveva labitudine di dedicarle dei versi. Lultimo 31 dicembre, prima della scomparsa, lei le dice grazie. “Grazie perché non ti arrendi a niente e a nessuno, soprattutto a me”.

«Aveva un carattere fortissimo, spesso faticoso. Facevamo litigate terribili, che sgomentavano gli amici che vi assistevano: la sua natura poco conciliante prendeva di petto ogni aspetto dell’esistenza. Ma la sua forza mi rendeva più forte. Sara non chiedeva protezione, piuttosto la dava».

Ora questo scudo le manca.

«La sua assenza mi ha reso più vulnerabile. Mi fa tutto più paura e sono diventato ipocondriaco. È come se vivessi senza una rete di protezione».

Eppure all’inizio della vostra storia, nei primi anni Ottanta, lei non se ne è innamorato subito.

«Ero attratto dalla sua bellezza — studentessa ventiquattrenne, dieci anni più giovane di me — e dalla sua intelligenza genuina: aveva letto molto e mi stimolava con le sue riflessioni mai scontate. Mi emozionava, anche. Ma l’amore è stata una rivelazione lenta».

Lei ha cercato di difendersi dall’amore di Sara. Cosa la spaventava?

«L’amore impone schiavitù e sottomissione, questo può spaventare. Borges dice che innamorarsi significa creare una religione il cui dio è fallibile. Ma io aggiungo che significa creare una religione il cui dio può morire, circostanza assai più grave della fallibilità».

Cosa succede quando in una relazione d’amore arriva la malattia?

«Succede una cosa terribile. Il suo dolore misura la tua impotenza. Pur amandola moltissimo, non sono riuscito a salvarla dalla sofferenza. E per nove mesi è stato un inferno: per me e per lei».

É come se lei non si fosse sentito all’altezza.

«Da Sara traevo la forza che io non sapevo darle. Così era stato anche nella stagione delle lotte contro il separatismo basco: ero un bersaglio dei terroristi dell’Eta, ma il mio coraggio arrivava soprattutto da mia moglie. Ero un valente guerriero perché stavo accanto a Sara».

Come cambiava il vostro rapporto?

«Nelle lunghe ore trascorse in ospedale nascevano conversazioni emozionate e molto intime. Lei era più dolce, meno ruvida del solito. Avevamo sempre giocato: con la politica, con la letteratura, con il cinema e con l’amore. Ma ora eravamo di fronte a una sfida seria come la morte. A un certo punto smise di sorridere. Fu il momento per me più doloroso. Sara e io ci sorridevamo sempre, ogni volta che si incrociavano i nostri sguardi. Sorriderci era il nostro modo di stare insieme».

Cè stato un momento in cui avete pianto insieme o ciascuno piangeva di nascosto allaltro?

«Insieme non abbiamo mai voluto riconoscere che Sara stava morendo. Io mi fingevo sempre ottimista. E lei davanti a me non s’è mai sciolta in lacrime. Pur sapendo cosa l’aspettava, ha sempre avuto un atteggiamento di rifiuto della morte».

Nell’ultimo ringraziamento che lei dedica a Sara c’è anche questo: “Grazie per non aver mai accettato di morire”.

«Sara non si è mai voluta arrendere. E io l’ho assecondata in una lotta estenuante, che ha finito per allungarne le sofferenze. Abbiamo affrontato due o tre operazioni chirurgiche, continuando a progettare e a lavorare insieme. Per amore sono stato crudele con lei perché ho cercato di mantenerla viva. Forse più di quanto avrei dovuto. Ma alla fine non so dove sia il giusto».

Accompagnare qualcuno a morire aiuta ad abituarsi allidea della propria morte?

«No, per niente. Se hai fede, questo ti può aiutare. Ma laicamente condivido le parole di Simone de Beauvoir rivolte a Jean Paul Sarte: la tua morte ci ha separati e la mia non ci riunirà. E poi penso che in fondo nessuno di noi accetti di essere mortale, mentre la morte degli altri— soprattutto di chi ami— è là davanti a te, straziante e irrefutabile».

Continua a parlare con Sara?

«Sì, tutte le sere. Tengo le sue fotografie vicino al letto. E prima di coricarmi le racconto quello che ho fatto nella giornata, i film visti e i libri letti».

Le sarebbe piaciuto il libro del vostro amore?

«Credo di sì. È un libro che non parla dell’assenza, ma della vita. Parla di lei. E l’ho scritto perché il lettore si innamori di Sara, così come io mi sono innamorato di lei».

La sogna sempre?

«Sì, spesso. All’inizio mi tranquillizzava: vedi che continuiamo a stare insieme, non è successo nulla di irreparabile. Ma poi qualcuno mi chiede dov’è Sara, e io non so rispondere. Allora capisco che è solo un sogno».

 

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