Contaminati e affascinanti: alla scoperta di Chernobyl, Najafgarh, Guiyu

Per la maggior parte di noi viaggiare significa visitare i luoghi più belli della terra: Parigi, il Taj Mahal, il Grand Canyon.

Non succede spesso di prenotare un biglietto per visitare il paesaggio lunare e senza vita dei giacimenti di sabbie bituminose del Canada o di far vela alla volta della Grande chiazza di immondizia del Pacifico. In Benvenuti a Chernobyl, Andrew Blackwell lo fa e viaggia per i luoghi più inquinati della terra: da Chernobyl alla grande isola di rifiuti del Pacifico, dall’Amazzonia devastata dalle coltivazioni di soia alle miniere di carbone in Cina.

Perché? Forse l’attrazione di risalire la traccia del futuro, oltre che del presente. Ma c’è anche dell’altro: qualcosa di inafferrabile bellezza abita questi luoghi. Scopriamo così che questo libro, irriverente e pensoso, è anche una lettera d’amore agli ecosistemi più contaminati e più degradati della nostra biosfera e una riflessione su che cosa significano per noi.

In questo estratto, disastri nucleari, fiumi di liquami, nubi di circuiti fritti: tre avventurose destinazioni per viaggiatori curiosi, pronti a cercare “pappagalli verdi volare sopra l’acqua scura”.

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  • Chernobyl

«Noi siamo qui. Chernobyl», disse, e batté sulla carta. «Andiamo con macchina a Kolači. Villaggio sepolto». Batté di nuovo. «Poi a Foresta Rossa. Questo oggi è punto più radioattivo». Mi fissò, come a sottolineare le sue parole. Aveva ancora addosso gli occhiali da sole.

Riprese, rivolto di nuovo verso la carta. «Da qui andiamo a Pryp’jat’. È città deserta. Poi possiamo andare vicino a reattore fino a centocinquanta metri». Era l’itinerario abituale, che permette ai visitatori di vivere i propri preconcetti su Chernobyl come luogo di disastro e orrore, ma senza allontanarsi mai dalle vie battute o rischiare di contaminarsi. Dopo tutto era quello che voleva la maggior parte della gente. Ma non ero venuto fin qui solo per sguazzare nella paranoia post-nucleare. Ero qui per godermi il posto e questo era il momento per riuscirci.

«C’è modo…». Come potevo dirglielo? «C’è modo di andarci in barca?».

Dennis mi scrutò con sguardo assente da dietro gli occhiali da sole. Nelle lenti argentate vidi il riflesso di uno che mi somigliava e che aveva sulla faccia un’espressione che diceva: Sì, sono un idiota.

«Questo non è possibile», disse Dennis.

«Be’, se fosse possibile passare per il fiume, o magari visitare un posto dove si pesca bene, rinuncerei volentieri a parte dell’itinerario previsto». Nella sala riunioni non volava una mosca.

Sul volto di Dennis passò l’ombra di una smorfia. «Questo non. È possibile», disse in modo asettico. Mi raggelava vederlo immune al mio entusiasmo che credevo contagioso. Ma è in momenti come questo, quando uno cerca di andare in vacanza nella zona di un disastro nucleare, controllata militarmente – e per visitare la quale, aggiungerei, nessuno ha mai pubblicato una vera guida – che bisogna avere più del solito il coraggio di fare la figura del cretino al servizio dei propri obiettivi. Scoprii tutte le mie carte.

«Guardi, mettiamo che io voglia fare un picnic e una gita in barca con gli amici in qualche punto della zona», dissi. «Parlando in via del tutto ipotetica, dove potremmo andare? Voglio dire, quali sono i punti migliori?».

Sulla sommità della testa di Dennis si era formato un accenno di ruga. Lo incalzai, dicendogli che i miei interessi non erano tanto da giornalista o da ricercatore, quanto da turista. Da visitatore. Per esempio, qual era un bel posto per fare un picnic nella Zona di esclusione? Lui dove andava nei giorni in cui non aveva da fare? E se non era possibile all’interno della zona, qual era il posto migliore più vicino? Indicai Stracholissja, appena fuori dalla zona, una cittadina che avevo identificato studiando la carta la sera prima. Lì com’era?

«Sì, quello è posto carino», disse Dennis. «Lì puoi pescare». Stavo facendo qualche progresso. Pescare? «Sì», disse Dennis, prendendoci gusto. «Ma questo posto è meglio». Indicò Teremci, una località minuscola nascosta in mezzo a un gruppo di isolette fluviali all’interno della zona. «Questo è buon posto per pescare», disse. «Sono andato una volta. Vado soprattutto per raccogliere funghi». Lo fissai. I funghi raccolgono e concentrano i radionuclidi del terreno e quindi sarebbero l’ultima cosa da mangiare nell’area contaminata. E Dennis li coglieva nel cuore della Zona di esclusione.

«Raccoglie funghi? E li mangia?». La mia voce manifestava soggezione.

«Sì, questa è area pulita, lo so. Questo non è problema». Non credevo alla mia fortuna. Appena arrivato, ero già pappa e ciccia con un tipo per cui la zona era una fungaia e una riserva di pesca. Volevo abbandonare l’itinerario. Perché uno dovrebbe andare a vedere un reattore nucleare distrutto quando appena più a valle si può pescare?

Non pensate che non lo abbia implorato. Ma Dennis era un professionista, troppo per scartare il programma ufficiale – con tutti gli incartamenti approvati, timbrati e firmati in duplice copia per ogni posto di controllo – solo perché uno straniero mezzo scemo gli diceva ti prego ti prego. Ma questa volta esitò per un attimo. «Questo non, ehm. È possibile», disse, tornando subito al copione. Ma intravidi l’accenno di un sorriso mentre si allontanava dalla carta.

 

  •  Najafgarh

Prima di partire da Delhi per il viaggio lungo il fiume, però, andai a vedere la fonte dei problemi. Il canale di scolo di Najafgarh un tempo era un corso d’acqua naturale, ma è stato completamente sopraffatto dal suo uso come canale per i liquami persino più dello Yamuna. Con una portata che si avvicina ai due miliardi di litri al giorno, comprese quasi quattrocento tonnellate di solidi sospesi – sì, quei solidi – il solo Najafgarh è responsabile di quasi un terzo di tutto l’inquinamento dell’intero fiume lungo quasi 1.400 chilometri. È il punto zero dello Yamuna.

Ci avvicinammo a piedi, facendoci strada nella baraonda di un cantiere edile. Stavano costruendo un nuovo ponte stradale che avrebbe oltrepassato il collo di bottiglia della strada che passava per lo sbarramento di Wazirabad. Superato il cantiere trovammo un ponticello pedonale che attraversava il canale a varie centinaia di metri dal punto in cui si immetteva nello Yamuna. Il ponticello pedonale era un sentiero in terra fiancheggiato da parapetti di cemento. Guardando di sotto si vedeva l’ampio letto coperto di cemento del canale, profondo forse come una casa di due piani. Una fanghiglia scura si agitava lungo il fondo. L’aria quasi risuonava dell’odore, quell’odore fermentato, quasi salmastro. Liquami. Era un odore in qualche modo distinto da quello delle feci vere e proprie. Un odore, si può dire, che distillava e concentrava qualunque cosa sia che nelle feci puzza così tanto. Avevo già sentito quell’odore, ma non aveva mai puzzato come puzzava quel giorno a Najafgarh. La puzza era tale che mi fece venire la pelle d’oca. La puzza era tale che mi riempì la bocca di saliva. I conati di vomito cercavano una presa per farmisi strada su per la gola. Cercai di inspirare a fondo.

Eppure.

Guardai di nuovo di sotto. La vegetazione si inerpicava nelle giunzioni del cemento sulle pareti del canale. Sopra l’acqua scura volavano pappagalli verdi con la testa affusolata. I piccioni si posavano su un margine di cemento e intingevano il becco. Le farfalle svolazzavano verso l’alto nell’aria assolata. Passando al lato del ponte a valle, vidi corone di fiori impigliate nei cavi elettrici che traversavano il canale. Erano rimaste lì quando la gente le aveva gettate. Persino qui facevano offerte.

E perché no? Sotto la puzza e il rumore, il motivo permaneva. Era un affluente dello Yamuna. Non dovremmo venerarlo soltanto perché puzza? Perché non essergli devoti, con tutti i solidi in sospensione? Che cosa ci può essere di più sacro di un fiume che sgorga dal ventre del tuo vicino?

 

  • Guiyu

Un salone di manicure con sei giovani donne in collant e stivali a tacchi alti lungo una strada piena di botteghe e di attività. A Guiyu tutte le donne giovani o giovanili vestono così. Chiacchieravano chine sul loro lavoro. Ovviamente non era un salone di manicure ma un negozio di circuiti. Ogni donna aveva una manciata di chip. Usando delle pinzette ne prendevano uno e immergevano ognuna delle due file di contatti in un recipiente di lega fusa su una piastra elettrica comune, lavorando con la velocità e l’efficienza di movimenti che deriva dal ripeterli con precisione tutti i giorni.

Chiedemmo se potevamo fotografarle mentre lavoravano. Risposero con risolini. Una di loro, nel secondo necessario per raccogliere la successiva manciata di chip, agitò la mano libera davanti alla faccia e sorrise. Per piacere no.

Vagammo per le strade, passando sopra piccoli canali zeppi di immondizia. Ma i rigagnoli zeppi di immondizia sono come i tramonti. Sono meravigliosi da ammirare, ma non è che significhino poi tanto. Sono più interessanti i molti odori presenti a Guiyu, le molte sfumature di acqua e aria che completano le nubi di circuiti fritti. Presso il fiume, macchie fluttuanti e sentore di fogna. Vicino alla stazione dei pullman, un odore fetido tossico generalizzato rimaneva sospeso sopra un canale lungo la strada. Sul ponte un puzzo inchiostrato di gas di scarico che viene da un trattore a tre ruote di passaggio. Guardai con un certo sgomento il pennacchio asfissiante che si avvicinava. Ma poi, mentre ci passava accanto, il conducente lasciò l’acceleratore per un momento, risparmiandoci il peggio. La cortesia era ancora viva persino a Guiyu.

Passando per un vicolo ci imbattemmo in un gruppo al lavoro su bancali di Motorola Broadband Media Center, i decoder per la tv via cavo. Un uomo ne aveva impilati una cinquantina lungo un lato dell’area di lavoro, formando un muro di scatole metalliche identiche, e passava dall’una all’altra con un’avvitatrice, svitando le stesse quattro viti di ognuna. Dietro a lui gli altri incolonnavano ordinatamente coperture, lati, sostegni di schermi a cristalli liquidi da cui penzolavano cavi a nastro: un groviglio di colori in un pomeriggio grigio. Lungo la strada ruttavano camion pieni di semiconduttori. Una motocarrozzetta ci passò accanto carica di strani oggetti verdi. Mi accorsi con un sussulto che erano cavoli.

Ci fermammo accanto a un autocarro col cassone sovraccarico di sacchi rigonfi da cui sporgevano angoli di circuiti stampati ripuliti. Materia grezza da portare ai misteriosi estrattori d’oro, dovunque fossero. Gli uomini che caricavano il camion sorrisero e mi chiesero da dove venissi.

Mei guo, rispondemmo. America. Che cosa porta il camion? Sorrisero un po’ meno. Cartone, dissero. Carta. Da riciclare. Montarono sul camion e partirono.

Un gruppetto di adolescenti ci sequestrò e ci portò a fare un breve giro fino a un centro civico in cui gli insegnanti cercavano di tenere sotto controllo una turba irrequieta di studenti di musica. Destammo sensazione. Per un momento capii la vita delle stelle del rock, che provocano convulsioni ai fan con uno singolo sguardo. I nostri rapitori ci portarono a un tempio vicino. È il nostro tempio, dissero. Ci addentrammo tra fatiscenti sale decorate, sotto lo sguardo di un plotone di divinità e semidei.

Dovresti pregare qui, dissero, a questo dio. Inginocchiati, unisci le mani, inchinati ed esprimi un desiderio. Lo feci. Ma non riuscivo a decidere se desiderare la pace o l’amore.

 

Scopri il libro:

Legenda. Libri per leggere il presente

Legenda è una piccola rassegna stampa, uno sguardo rapido ai fatti che hanno scandito la settimana e un invito a leggere il presente togliendo il piede dall’acceleratore.

Legenda è un tentativo di legare il mondo che corre alle parole che aiutano a capirlo.

 

Clima e disastri ambientali.

  • Il Canada occidentale è stato colpito da un’ondata di caldo senza precedenti: nella cittadina di Lytton, 260 chilometri a nord-est di Vancouver, la settimana scorsa sono stati registrati 49,6 °C, la temperatura più alta mai registrata in Canada. Come ricostruisce il Post, venerdì scorso il British Columbia Wildfire Service ha dichiarato che «dei 136 incendi attivi in quel momento molti erano stati innescati dai numerosi fulmini che avevano colpito la provincia il giorno prima […]; a favorirne la diffusione sono però le alte temperature e la scarsa umidità. Le stesse condizioni meteorologiche hanno contribuito alla morte di 719 persone nell’ultima settimana secondo il governo della British Columbia».
  • «La situazione è senza speranza»: in un video della CNN gli effetti sull’ecosistema marino a un mese e mezzo da quello che è stato definito uno dei peggiori disastri ambientali della storia dello Sri Lanka, e che ha visto la nave MV X-Press Pearl, carica di materiali pericolosi, bruciare per tredici giorni poco lontano dalle coste del paese e poi affondare.

→ Levantesi, I bugiardi del clima
→ Blackwell, Benvenuti a Chernobyl
→ Una selezione delle nostre proposte a tema Ambiente

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Europa e sovranismi.   Un «Appello per il futuro della Ue» è stato firmato da sedici partiti, come riporta Anna Maria Merlo sul manifesto, «appartenenti oggi ai gruppi Id e Ecr, da Lega e Fratelli d’Italia, ai belgi del Vlaams Belang, al Pis polacco, al Fpoe austriaco e al Rassemblement national di Marine Le Pen. Su questo eventuale nuovo gruppo se ne saprà di più in autunno […]. Ma il programma è pronto: difendere politiche a favore della famiglia, stop all’immigrazione di massa, priorità dello stato-nazione che deve poter “esercitare i legittimi poteri sovrani” contro un “super-stato Ue”, contro l’ “attivismo moralista” che vuole “imporre un monopolio ideologico”.»

→  Ottaviano, Geografia economica dell’Europa sovranista
→  Castronovo, L’Europa e la rinascita dei nazionalismi

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Angelo Del Boca. Ci ha lasciati Angelo Del Boca: lo ricordiamo con le parole di Nicola Labanca.

→ Le opere dell’autore

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Premio Strega. Vince l’edizione 2021 Emanuele Trevi, con Due vite. Per gli Editori Laterza ha scritto Senza verso, presto di nuovo disponibile in libreria e negli store online.
«Il calore e l’umidità ormai avevano preso ad aumentare senza tregua, giorno dopo giorno e notte dopo notte, senza che mai intervenisse un ostacolo, un fattore di equilibrio – nemmeno il minimo colpo di vento dalla parte del mare. L’esistenza si era fatta complessa in ogni minimo dettaglio, come a volte accade: ai limiti dell’ingovernabilità. Conosco bene, fin dalla primissima infanzia, questo sentimento di ingovernabilità dell’esistenza.»

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Euro2020.  Domenica 11 luglio la finale a Wembley: saranno Italia e Inghilterra a giocarsi il titolo di campioni d’Europa. Su Repubblica lo sguardo di Gabriele Romagnoli sulla storia di tre oriundi che, come Jorginho, Emerson e Toloi, avrebbero potuto vestire la maglia della nazionale: «Loro erano Enrico Guaita, Andrès Stagnaro e Alejandro Scopelli. Dovevano giocare nella Roma, favorita per lo scudetto del ’35-’36. A settembre furono sottoposti, come italiani acquisiti, alla visita di leva. Abili e arruolati. All’orizzonte c’era la guerra in Etiopia. Avevano preso la nazionalità per inseguire un pallone, non un posto al sole. Scapparono. In auto fino a La Spezia. In treno per Ventimiglia. A piedi oltre il confine. Un altro treno per Marsiglia, poi la nave per tornare nel continente d’origine. Si lasciarono alle spalle un rimpianto. E un ingiusto accusato: il presidente della Roma, Renato Sacerdoti, ebreo. I tre non ebbero più fortuna. Li inghiottì la storia. Guaita aveva contribuito alla vittoria nel mondiale del ’34 con un gol in semifinale e un assist in finale. Fa venire in mente Jorginho. In effetti l’Italia va a Wembley con tre oriundi: appunto Jorginho, Emerson e Toloi. Chissà da dove sono arrivate le loro anime?»

→  Ferrari, Ahi, Sudamerica!
→  Brizzi, Vincere o morire

In ricordo di Angelo Del Boca

Vent’anni fa, nel 2000, in occasione del suo settantacinquesimo compleanno, Angelo Del Boca scrisse: “Per più di cinquant’anni, prima come giornalista, poi come storico e docente, ho lavorato per fornire informazioni agli altri. È stato un lavoro particolarmente gradevole, perché secondato da una inesauribile curiosità e dal piace di tradurre in parole, in immagini, in verità a volte scomode, ciò che ho visto da ‘inviato speciale’ o scoperto da studioso nelle carte degli archivi. È stato soprattutto un grande bisogno di testimoniare, di denunciare menzogne e mistificazioni, che mi ha fatto scegliere quelle professioni. Penso che continuerò fino alla fine, fintantoché mi resterà un lettore e un contestatore, ad esercitare il mio diritto-dovere di informare”. Il passo è un po’ lungo, ma chiarisce perfettamente l’approccio, il taglio, il senso del suo lavoro.

Angelo Del Boca (Novara 1925-Torino 2021) è assai noto in Italia per le discussioni, diventate polemiche non per sua volontà, suscitate dalle sue pubblicazioni. Nel 1966 raccolse in volume una serie di corrispondenze giornalistiche che indagavano la guerra fascista d’Etiopia a trent’anni dalla sua fine. Pochi ne avevano parlato, ed era ancora troppo vicina per farne la storia. In quegli anni Del Boca dovette difendere quello che aveva trovato nei documenti dagli assalti rancorosi degli ambienti nostalgici di alcuni circoli combattentistici. A distanza di trent’anni, di fronte ad un’Italia che aveva dimenticato il passato coloniale e in particolare la vicenda fascista, nel 1996 Del Boca raccoglie gli studi già esistenti sul ricorso ai gas nelle colonie (fondamentali quelli, precedenti, di Giorgio Rochat). Di nuovo salì la polemica e se ne fece attore il giornalista Indro Montanelli, già volontario in Africa orientale, negando quel ricorso. Più tardi Montanelli avrebbe ammesso che i documenti trovati dagli storici erano indiscutibili: ma nel frattempo Del Boca era stato denunciato da una parte degli italiani come un denigratore antinazionale, mentre un’altra (e maggioritaria) parte lo ringraziava non solo per i contributi scientifici ma per quanto, nella coscienza civile nazionale, significava la presa in carico di un passato nazionale dalle pagine controverse. A seguito di queste discussioni pubbliche, che Del Boca sapeva ingaggiare e tenere vive con numerose interviste agli organi di stampa quotidiani, il suo lavoro di maggior successo editoriale fu certamente nel 2005 il suo Italiani, brava gente?, una carrellata nella storia nazionale in cui egli decostruiva il mito nazionale relativo agli italiani sempre buoni sempre e dovunque, un mito che non lo aveva mai convinto e che aveva imparato a demolire leggendo i documenti della storia coloniale italiana.

Ma Angelo Del Boca non cercava la polemica, era l’Italia che non voleva ricordare o sapere che ingaggiava, e perdeva, queste discussioni. D’altronde, era l’Italia che voleva sapere, che voleva ricordare e che anche voleva cambiare il proprio presente e futuro in base ad una più attenta conoscenza del passato che conosceva il suo nome, leggeva i suoi libri e lo ringraziava per le sue fatiche. Del Boca, come aveva scritto nel 2000, voleva solo informare, aveva piacere e sapeva informare.

Due altri elementi, però, vanno ricordati, soprattutto ora che Angelo Del Boca se ne è andato.

Il primo riguarda le sue conoscenze. Egli, parlando in pubblico o rispondendo alle domande dei giornalisti sulla guerra d’Etiopia o sul ricorso dei gas in Africa o della pericolosità del mito degli ‘Italiani brava gente’, sapeva di cosa si stava parlando. Da buon inviato nella storia, si era documentato. Alle spalle dei suoi scritti più puntuti, ci stavano i suoi studi storici sul colonialismo italiano. Fondamentali sono stati i suoi quattro volumi su Gli italiani in Africa Orientale, 1976-84, e i due volumi su Gli italiani in Libia, ivi, 1986-88: tutti editi da Laterza, così come con Laterza aveva fatto anche altre pubblicazioni prima e dopo di queste. E rispetto a quanto gli italiani sapevano, in quegli anni, del passato coloniale nazionale, questi sei volumi rappresentarono un eccezionale passo in avanti. È aspetto poco ricordato, ma a quella data – grazie ai volumi di Del Boca – anche nel contesto della memoria europea del colonialismo l’Italia recuperava un ritardo quasi quarantennale: prima di quei volumi, infatti, per la storia del colonialismo italiano, c’erano solo i volumi degli storici coloniali del regime fascista.

Il secondo elemento tocca un tema più ampio. Molti, in questi tristi giorni che seguono la sua scomparsa, certamente o ricorderà per le sue polemiche e le sue pubblicazioni storico-coloniali. È inevitabile, ed è giusto. Ma Angelo Del Boca fu molto più che questo. Era stato scrittore di racconti, giornalista, inviato speciale, redattore centrale di quotidiani importanti, presidente di un Istituto della rete degli Istituti di storia della Resistenza, direttore di riviste di storia. Insomma molto più che i soli gas in Etiopia.

Perdendo dopo una vita lunga e ricca protagonisti come Angelo Del Boca il panorama culturale, giornalistico, storico democratico italiano perde un altro di quei giovani che tre quarti di secolo fa, magari partiti da altre idee, avevano poi da partigiani contribuito a costruire l’Italia democratica. Giovani che erano rimasti tali anche crescendo, che lungo i suoi decenni avevano mantenuto la schiena dritta, ognuno nei propri campi: Del Boca, scrivendo e ricordandoci pagine del nostro passato nazionale che molti non conoscevano e che troppi volevano fossero dimenticate.

Nicola Labanca

07.07.2021

Legenda. Libri per leggere il presente

Legenda è una piccola rassegna stampa, uno sguardo rapido ai fatti che hanno scandito la settimana e un invito a leggere il presente togliendo il piede dall’acceleratore.

Legenda è un tentativo di legare il mondo che corre alle parole che aiutano a capirlo.

 

Carcere. Domani ha diffuso quanto registrato dalle telecamere interne del carcere di Santa Maria Capua Vetere della spedizione punitiva del 6 aprile 2020,  «l’orribile mattanza come l’ha chiamata Sergio Enea, il giudice per le indagini preliminari, che ha disposto 52 misure cautelari (arresti e interdizioni) per agenti e dirigenti, incluso Antonio Fullone, il provveditore regionale per le carceri della Campania […] Le immagini raccontano di agenti, uomini e donne, che partecipano alla brutale aggressione. Il tutto avviene nel pomeriggio per oltre 4 ore. Un pestaggio di massa, “premeditato”, precisano nelle carte i magistrati». In quei giorni molti detenuti avevano protestato a fronte della sospensione delle visite e dell’assenza di misure di sicurezza utili a contrastare il contagio da Covid-19, tanto più in una condizione di sovraffollamento tale da rendere vana ogni esigenza di distanziamento sociale.
La ministra della Giustizia Cartabia ha chiesto «un rapporto completo su ogni passaggio di informazione e sull’intera catena di responsabilità».
Su Internazionale un approfondimento di Giuseppe Rizzo: «Santa Maria Capua Vetere non è un’anomalia».

→ Bortolato – Vigna, Vendetta pubblica
→ #CasaLaterza – Vendetta pubblica: Bortolato e Vigna dialogano con Manconi

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5 Stelle.  Come ricostruisce il Fatto Quotidiano, «due giorni dopo l’ultimatum di Beppe Grillo, Vito Crimi ha effettivamente indetto le elezioni per il nuovo comitato direttivo del Movimento 5 stelle. Ma, come annunciato, lo ha fatto sulla nuova piattaforma SkyVote e non sulla piattaforma Rousseau […] Il nuovo portale sostituisce il blog di Beppe Grillo, primo organo di diffusione delle notizie pentastellate, ma anche il Blog delle stelle, che nella separazione con Rousseau è rimasto nella disponibilità dell’associazione guidata da Davide Casaleggio.»

→  Iacoboni, L’esperimento

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Pcc. Il Partito Comunista Cinese compie cento anni: nasce infatti il primo luglio 1921 a Shanghai, «dopo anni di fermento culturale nel quale le istanze più nazionaliste e populiste si erano mischiate alle idee socia­liste in arrivo dall’Occidente», scrive Simone Pieranni. Per saperne di più, suggeriamo “Orientarsi”, la sua rubrica su Instagram, che riassume in due minuti sette giorni d’Asia.
Sul sito della Cnn, i cento anni del PCC in foto.

→ Pieranni, Red mirror
→ Guido Samarani racconta “Mao Zedong, dalla Lunga Marcia all’egemonia comunista”

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Ustica. Quarantuno anni fa, il 27 giugno del 1980, un aereo di linea in volo da Bologna a Palermo si inabissava misteriosamente al largo dell’isola di Ustica. Ottantuno persone perdono la vita in una strage i cui autori, nonostante innumerevoli indagini e processi, restano ancora ‘ignoti’.

→  Ranci, Ustica 

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Opinioni. Il razzismo è anche un nostro problema. Giorgia Serughetti su Domani.
«Il razzismo è trattato come un problema degli altri. Non come un fenomeno strutturale in tutte le società e che riguarda anche noi. Eppure basterebbe ricordare Balotelli e i cori “non esistono negri italiani”.»

→  Mbembe, Nanorazzismo

Vendetta pubblica: il carcere in Italia

«Lasciamoli marcire in carcere!»: dietro questo slogan – che tanto piace a parte dell’opinione pubblica e a certi politici in cerca di facili consensi – c’è la negazione del nostro Stato di diritto.

Sì, perché secondo la Costituzione italiana la pena deve prima di tutto rieducare: chi è in prigione è parte della nostra comunità e i detenuti, prima o poi, comunque escono. D’altra parte i dati statistici lo dimostrano: in Italia la recidiva degli ex detenuti è record – sette su dieci tornano a delinquere – ma la percentuale precipita all’uno per cento per l’esigua minoranza di chi in carcere ha potuto lavorare. Evidentemente c’è bisogno di andare esattamente in direzione contraria alla ‘vendetta pubblica’.

In questo estratto di Vendetta pubblica. Il carcere in Italia, Marcello Bortolato e Edoardo Vigna esaminano il profilo violento del carcere, concentrandosi in particolare sull’eventualità che la violenza sia commessa dagli agenti carcerari, quindi “proprio dall’apparato dello Stato”.

 

Non possiamo poi raccontare la vita quotidiana in carcere se non parliamo, purtroppo, anche della violenza, del carcere e nel carcere.

Il carcere in sé è violento. Dice il filosofo del diritto Luigi Ferrajoli (in Diritto e ragione, Laterza, Roma Bari 2002) che è una violenza minima, strettamente necessaria a limitare quella privata che si svilupperebbe se ognuno fosse libero di farsi giustizia da sé. La vendetta pubblica, che sostituisce la vendetta privata, è altrettanto violenta. La vendetta di per sé è intrisa di violenza perché risponde alla stessa logica di chi ha commesso il reato. Si va contro un uomo, sia pure legittimamente, alla fine di un processo che ne ha accertato la responsabilità, costringendolo a subire una limitazione delle proprie libertà. Non si può non vedere in questo una forte dose di violenza, è innegabile. Il punto è stabilire quanta di questa brutalità sia necessaria o indispensabile e per quanti fra coloro che hanno commesso quello che la legge qualifica come reato: tutti o ad esempio solo quelli che ne hanno commessi di molto gravi?

Poi c’è la violenza che si sviluppa nel carcere: la costrizione forzata di più persone in spazi ristretti, con la necessità di soddisfare ogni giorno bisogni d’ogni tipo, scatena spesso dinamiche di sopraffazione. […] C’è poi talvolta la violenza degli agenti carcerari, quella cioè che proviene proprio dall’apparato dello Stato. Lo documentano le inchieste della magistratura, anche se è difficile che un detenuto la denunci: troppa la paura di non essere creduto o delle conseguenze sul suo percorso carcerario. Ma qualche volta succede, più di quanto si pensi. Tra tutti quelli ai quali si può confidare liberamente una violenza subita c’è proprio il magistrato di sorveglianza che è l’unica persona con cui il detenuto ha diritto di parlare da solo, riservatamente, oltre al proprio difensore. Con tutti gli altri che entrano in carcere non può avere colloqui sottratti al controllo. I colloqui visivi in carcere sono infatti sempre a vista, cioè qualunque persona che va a colloquio con un detenuto deve essere osservata da un agente di polizia penitenziaria. (È il motivo per cui non si possono fare i colloqui intimi, non potendo garantirne la riservatezza. Da qui il problema del diritto all’affettività […]) Al magistrato di sorveglianza vengono talvolta raccontati episodi di violenza avvenuti in carcere. Ma non si possono fare accuse generiche.

Sul tema della violenza non si cita mai abbastanza il famoso “Esperimento carcerario di Stanford”, un classico della ricerca in psicologia sociale: nel 1971 vennero reclutati con un annuncio su un giornale alcuni studenti “sani, intelligenti, di classe media, psicologicamente normali e senza alcun precedente violento”. L’esperimento doveva durare due settimane e coinvolgere i soggetti suddivisi casualmente in due gruppi, uno di guardie e uno di detenuti, in una simulazione di vita carceraria, allo scopo di mettere a fuoco le reazioni dei detenuti. Dopo soli cinque giorni, i lavori furono però interrotti: gli studenti che rivestivano il ruolo delle guardie si erano inaspettatamente trasformati in spietati aguzzini. Si constatava cioè la possibilità che alcune particolari situazioni sono in grado di indurre persone ordinarie a compiere i peggiori crimini. Il fatto che un gruppo fosse autorizzato a usare la forza mentre gli altri dovevano solo subirla aveva creato una tale dinamica di violenza.

Il carcere è un problema anche per questo: è infatti un luogo in cui c’è una gerarchia, dove c’è uno al di sopra di te che comanda perché ha il potere della forza che può usare contro di te. Non è un caso quindi se secondo Francesco Ceraudo, per venticinque anni presidente dell’Associazione nazionale dei medici dell’amministrazione penitenziaria, “nelle carceri italiane si entra puliti e si esce dipendenti”. Dipendenti da psicofarmaci, innanzitutto: secondo i dati di fine 2019 lo è un detenuto su due.

Appesi a un ponte tibetano

Il processo penale permette di passare dalla «res iudicanda» alla «res iudicata» in un bilanciamento di interessi governato da mani sapienti e razionali.

Simone Donati e Carlo Melzi d’Eril, il Sole 24 Ore, 12 gennaio 2020

Ci sono libri che leggi per piacere, libri che leggi per dovere, e libri che leggi perché finiscono per esserti utili. Quello che è appena uscito, di Glauco Giostra, Prima lezione sulla giustizia penale, per Laterza, un volumetto che disegna l’architettura del processo penale per non addetti ai lavori, vanta tutte e tre le caratteristiche. Prima di spiegare il perché, una confessione: entrambi noi, fin dalla più tenera età intellettuale, quella universitaria (prima pensavamo solo al pallone) ci siamo imbattuti negli scritti di Giostra. Laureandi e dottorandi in procedura penale, poi, siamo stati accaniti lettori dei suoi numerosissimi lavori. L’accanimento derivava dalla voglia di provare e riprovare quella emozione con cui si giravano le pagine, ognuna delle quali regalava un’idea, scioglieva un dubbio, semplificava un concetto complesso.

Più di vent’anni dopo, induriti dalla professione, e forse un po’ smaliziati dalla ricerca e dall’insegnamento, abbiamo preso in mano questo piccolo ma denso volume. Avevamo continuato a studiare gli interventi di Giostra, ma sempre per trovare un argomento a sostegno di una tesi. Questa volta abbiamo letto per imparare, come eravamo abituati da studenti e, forse, nel tempo, avevamo dimenticato. E abbiamo ritrovato la stessa emozione e capito perché ci troviamo davanti a uno dei rari esempi di testo con quelle tre caratteristiche di cui dicevamo.

Il piacere è quello di avere a che fare con una lingua ricca e sorprendentemente semplice: anche la letteratura scientifica ha autori capaci di scegliere la parola perfetta. Il dovere è, per così dire, deontologico: saremo schiavi del principio di autorevolezza, ma pensiamo che chi si occupa di processo penale deve leggere alcuni autori, tra cui il “nostro”. Infine, siamo convinti che questo libro sia utile a chiunque. In un’epoca di crisi dei corpi intermedi, in cui le istituzioni hanno perso la fiducia dei cittadini, l’opera di alfabetizzazione, ovvero divulgazione non banalizzante del sapere specialistico, è ancora più preziosa.

Giostra, espertissimo anatomopatologo, squaderna l’oggetto degli studi di una vita, ne spiega il funzionamento separando il grano della fisiologia dal loglio della patologia. Il processo è paragonato a «un ponte tibetano che consente di passare dalla res iudicanda (cioè il fatto da giudicare) alla res iudicata (cioè la decisione sull’esistenza del fatto e sul suo rilievo penale) che è destinata a valere pro veritate per l’intera collettività». Le disposizioni sono denudate, ne è scoperta la ragion d’essere, per ricondurre le regole di dettaglio a una cornice che ne svela il senso profondo. Improvvisamente tutto diventa così chiaro da riuscire a percepire il peso e la responsabilità delle scelte che stanno alla base di disposizioni: frutto di una «metabolizzazione socio-culturale spesso secolare» esse esprimono il nostro modo di intendere il rapporto tra Autorità e Individuo. In questo senso, a ragione, la giustizia penale può essere considerata «la più fedele carta d’identità di un popolo».

Nel compiere questa operazione, prima di tutto culturale, Giostra si fa maestro di metodo: in un mondo malinconicamente testardo nella direzione opposta, egli mostra che problemi complessi non consentono soluzioni condensabili in uno slogan. Ogni passo dell’iter verso la decisione è cadenzato da norme che costituiscono la colatura di un bilanciamento di interessi. Un bilanciamento che, per stare in equilibrio, deve essere governato da una mano delicata, insieme sapiente e razionale. Delicata per evitare crolli, sapiente per trovare la migliore distribuzione dei pesi, e razionale per rendere sopportabile quell’atto «terribile e odioso», come direbbe Luigi Ferrajoli, dell’uomo che giudica l’uomo.

Diamo un assaggio di questo metodo. L’autore affronta nelle prime pagine il “nocciolo laico” dell’assolvere e del condannare. Un compito definito «necessario» perché «una società non può lasciare privi di conseguenze comportamenti incompatibili con la sua ordinata sopravvivenza» ma anche «impossibile, perché non siamo in grado di conoscere la verità. O, meglio, non possiamo mai avere la certezza di averla conseguita». Il filo del discorso è ripreso nell’epilogo del libro, ove si rammenta l’intento delle pagine precedenti: «cogliere le difficoltà e i limiti dell’umana necessità di giudicare». Ecco subito un ammonimento: «la consapevolezza di queste inadeguatezze dovrebbe consigliarci di guardare con disincantata prudenza agli esiti processuali» che precede la «grande lezione»: «l’irrinunciabilità etica e politica di questa nostra giustizia imperfetta, amministrata da uomini imperfetti, ma indipendenti da ogni potere e soggetti soltanto alle imperfette regole a cui la collettività chiede loro di attenersi». La chiusa del ragionamento, e del libro, però, propone un impegno e suggerisce una speranza, così corroborante che, di questi tempi, merita di essere riportata per intero: «ci lasciamo, dunque, dove ci siamo incontrati: dinanzi a un ponte tibetano malfermo, fragile, dal costrutto contorto, insopportabilmente lungo. Ricordiamoci di tenercelo caro, questo ponte. Magari commiseriamone l’inadeguatezza, ma impegniamoci a difenderlo da chi intende reciderlo, perché passa comunque molto al di sopra di quell’intollerabile realtà di soprusi, di discriminazioni, di repressione del dissenso, di emarginazione delle minoranze, di imposizione di dommi politici o religiosi, di repressione rivoluzionaria, che troppo spesso, a tutte le latitudini della storia e della geografia, prende abusivamente il nome di giustizia». Ci hanno insegnato che le migliori recensioni sono quelle che contengono luci e ombre. Arrivati alla fine, ci siamo accorti di esserci concentrati sulle prime, dimenticando le seconde. Veniamo alle ombre, allora. La nostra consolidata esperienza di correttori di bozze ci ha permesso di trovarne una: nel testo, a pagina 138, manca una parola. L’aggiungeranno nella seconda edizione.

#CasaLaterza: Serena Luzzi dialoga con Fernanda Alfieri

Perché mai occuparsi di un conte bigamo, morto prigioniero in una fortezza di Luigi XIV? Di una moglie che si vendica come può del coniuge che l’ha abbandonata? Di un arcivescovo padre di quindici (forse sedici) figli? Di un uomo rinchiuso in una cella da vent’anni e più, perseguitato per causa di fede? Di una donna prigioniera alla Bastiglia? Tutti sono accomunati da almeno un agente: la volontà, se non la capacità, di sfuggire ai condizionamenti sociali, agli obblighi che il ruolo impone, alle norme, giuste o ingiuste che siano. 

Gli archivi della storia moderna sono ricchi di storie sorprendenti, di eccezionale normalità: ne abbiamo parlato con due storiche che li hanno esplorati a lungo, in diretta per Casa Laterza a partire da Il cacciatore di corte. Una vita ribelle nell’Europa del Seicento, di Serena Luzzi.

In dialogo con l’autrice, Fernanda Alfieri, autrice del libro Veronica e il diavolo. Introduce e modera Giovanni Carletti, nostro editor.

Quante storie: Claudia Bianchi dialoga con Bruno Mastroianni

«Solo in tempi recenti si è cominciato a denunciare in modo sistematico il carattere etnocentrico e sessista di molta filosofia tradizionale: dietro l’apparente neutralità, epistemologia, etica e filosofia politica hanno più o meno consapevolmente modellato le loro teorie su soggetti maschi, bianchi, eterosessuali, occidentali, di ceto medio-alto e privi di disabilità.»

Commenti sessisti, insulti razzisti, attacchi omofobici: le parole possono essere scagliate contro gli altri per deriderli, ferirli, umiliarli, e ancor più per rinchiuderli in ruoli e posizioni di inferiorità. Le parole possono essere potenti strumenti di oppressione, pesanti come pietre.

Chi parla, soprattutto se da posizioni di autorità o in contesti istituzionali, ha una pesante responsabilità: ciò che diciamo cambia i limiti di ciò che può essere detto, sposta un po’ più in là i confini di ciò che viene considerato normale, assodato, legittimo. E cambiare i limiti di ciò che può essere detto cambia allo stesso tempo i limiti di ciò che può essere fatto: ci abituiamo a una mancanza di attenzione e vigilanza sulle parole, che rende più accettabile la mancanza di vigilanza sulle azioni. Il silenzio, l’indifferenza o la superficialità con cui spesso accogliamo gli usi offensivi di altri corrono il rischio di trasformarsi in consenso, approvazione, legittimazione – e muta noi in complici e conniventi.

Ospite di Giorgio Zanchini a Quante storie, in questo video  Claudia Bianchi racconta il suo Hate speech. Il lato oscuro del linguaggio in dialogo con Bruno Mastroianni.

 

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Le conseguenze della guerra

«Abbiamo cercato di considerare Hitler un condensato, o se si preferisce come il catalizzatore di forze che si sprigionano dalla vertiginosa mutazione di quei sistemi economici, sociali e cognitivi che costituiscono l’Europa – in particolare l’Europa di mezzo – tra la fine dell’Ottocento e la Grande Guerra e che hanno trasformato il continente, le sue modalità di ‘gestire’ le masse umane, di nutrirle, guidarle, controllarle e di pensare la dimensione politica. Ciò che si delinea è quindi la storia di un uomo, di un destino, ma anche, per suo tramite, di un oggetto che abbracciò l’Europa e che si autodenominò ‘Terzo Reich’. Nel destino di quest’uomo si mescolano infatti militantismo frenetico, speranza imperiale, conquista dell’Europa, guerra ripugnante, inaudito genocidio.»

I fallimenti personali e i successi politici, le folli ossessioni e il freddo pragmatismo del più temuto dittatore del Ventesimo secolo: un estratto di Hitler, il libro di Johann Chapoutot e Christian Ingrao.

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Le conseguenze della guerra

Hitler non amava l’Austria, ma ha amato la guerra. La madre e la guerra: potrebbe essere questo un buon riassunto dei suoi anni di gioventù.

«La guerra è il padre di tutte le cose», dirà a più riprese negli anni Venti e Trenta citando Eraclito; la guerra è la matrice della sua identità. In essa ha vissuto la sua iniziazione alla vita, all’età adulta, la sua socializzazione, e in essa si è rivelato, in tutti i sensi del termine. L’arruolamento dell’agosto 1914 testimonia il suo impegno politico e personale per la causa pangermanica. Il fatto di aver disertato dall’esercito austro-ungarico nel 1913-1914 non era segno di repulsione verso la cosa militare o la guerra, ma di una radicale ostilità verso l’Austria-Ungheria. Non appena si tratta di battersi per la Baviera e per la Germania si arruola volontariamente nel regio esercito, nel 16° reggimento di fanteria della riserva che è diventato il reggimento List, dal nome del colonnello che lo comandava. Hitler ne ha fatto esperienza: l’ufficiale è importante per condurre il gruppo primario di battaglia almeno alla sopravvivenza, se non alla vittoria. Questo ufficiale, un “capo”, si chiama in tedesco Führer, un termine generico che significa “colui che conduce” e all’occorrenza colui che guida, che porta al combattimento e forse alla vittoria.

Da questa esperienza della guerra e del capo, Hitler tira fuori un’idea semplice: l’unico gruppo umano che funzioni e che valga non è costituito dalle monarchie – come la detestata monarchia austro-ungarica –, che nel 1918 e nel 1919 scompaiono, perché dovevano scomparire (Hitler è un darwinista sociale: secondo lui ciò che deve morire muore e ciò che muore doveva morire). E non è costituito neppure dalle democrazie, malgrado la loro apparente vittoria nel 1918-1919, perché esse funzionano sul principio contro natura dell’uguaglianza, e ciò contraddice agli occhi di un razzista e di un socialdarwinista come lui la naturale ineguaglianza. Peraltro le democrazie sono gli odiati nemici occidentali: la Francia, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, che hanno sconfitto gli imperi centrali. Quello che permette alla massa di fare razza e di restare unita è la comunità combattente, che è l’unione dietro un capo. Questa una delle convinzioni che trae dalla propria esperienza, una sorta di filosofia politica elaborata sul filo delle trincee. Hitler ha l’impressione di aver vissuto un’avventura in cui si è fatto onore per il proprio coraggio e per il semplice fatto di essere sopravvissuto: si tratta di una vittoria personale in quanto, in quattro anni, è stato ferito ma non è morto, cosa che statisticamente rappresenta una sorta di impresa. Ne trae una fiducia rasserenata e rinsaldata nella propria esistenza e nella propria missione: in mezzo a tanti morti, cadaveri e devastazioni, è riuscito a sopravvivere nel gruppo. L’uomo che inveiva e urlava, il solitario scorbutico e scontroso, quello che stordiva tutti con le sue invettive, ha continuato a esaurire gli altri nelle trincee ma ha l’impressione di aver vissuto una vita di comunità di battaglie e di destino. Una comunità illusoria, se si presta fede alle testimonianze dei suoi compagni di reggimento, perché Hitler non è un uomo che lega con gli altri. Ha amato a tal punto le regole della vita militare, dopo aver vissuto in una libertà spensierata e sregolata, da imporre agli altri le proprie regole di pulizia e di puntualità. Il suo grado di semplice caporale gli permette di prendersela e di moltiplicare i battibecchi con i suoi compagni di trincea, di pagliericcio e di battaglia, che certamente non gliene sono grati. Una comunità illusoria ma ai suoi occhi reale, questa Frontgemeinschaft (“comunità del fronte”), questa Kampfgemeinschaft (“comunità di lotta”), che egli contrappone alla Gesellschaft (“società”), la società alla francese, democratica e rivoluzionaria, a cui si aderisce con un atto di volontà. Per Hitler non si aderisce alla comunità mediante la volontà, ma perché si è dentro di essa e per essa si combatte. Anche qui si tratta di un’idea di filosofia politica primaria che trae dall’esperienza di guerra.

Hitler ha amato la guerra, il sentirsi utile, farsi onore, sopravvivere, combattere per il suo sogno pangermanico e per la Germania. Vive un trauma reale e profondo quando tutto finisce, nel novembre 1918. Apprende la notizia incomprensibile e intollerabile della fine delle ostilità, della sconfitta della Germania e del suo alleato austro-ungarico all’ospedale di Pasewalk, in Pomerania, lontano dal fronte, dove viene curato per la lesione dovuta al gas che lo ha accecato un mese prima. Una notizia incomprensibile, secondo l’analisi di Hitler, perché le sue percezioni sono organizzate secondo gli schemi dello Hurrahpatriotismus. Questo patriottismo ultrasciovinista, estatico, entusiasta e imbecille che aveva segnato gli anni 30 del Reich guglielmino ha dettato nei quattro anni di guerra i comunicati magniloquenti e le rodomontate dello stato maggiore tedesco che annunciavano la riconquista del forte di Douaumont per far dimenticare che era stato in precedenza perduto, o che promettevano la vittoria per domani o dopodomani. Questo lavaggio del cervello attuato con destrezza non ha preparato alla sconfitta né la popolazione tedesca, né i milioni di combattenti. […] Che cosa succede in Germania nell’autunno del 1918? A causa della stanchezza per la guerra, dei lutti, dello spossamento dei corpi e degli animi, della carestia e delle malattie provocate dal blocco economico messo in atto nei confronti degli imperi centrali, scoppia una rivoluzione: ammutinamenti e scioperi si propagano un po’ ovunque. Lo stato maggiore non ha più il controllo sulle truppe e sa che in ogni caso non sarebbe più in grado di spezzare il fronte occidentale, anche se il fronte orientale si è sbloccato grazie alla vittoria contro la Russia e alla pace con il nuovo potere bolscevico, siglata con il trattato di Brest-Litovsk (3 marzo 1918). È finita, ma la capitolazione è fuori discussione: sarebbe una decisione militare che metterebbe agli atti l’incapacità di uscire dalla morsa. La responsabilità della sconfitta deve ricadere sulle spalle dei civili. […] Non si dà grande rilevanza agli ammutinamenti ma si insiste molto sugli scioperi, i socialdemocratici, i sindacati, e, con una convinzione che diventa sempre maggiore, i capi dell’esercito adducono come pretesto una pugnalata alla schiena. Il soldato si trova davanti al nemico e regge il fronte, dicono, ma viene vigliaccamente pugnalato dall’anti-Germania, dai sindacati, dalla sinistra, da tutti quei socialdemocratici, comunisti, ebrei, elementi antinazionali che non possono sostenere la guerra e vogliono la sconfitta della Germania. […]

Che cosa succede a Hitler? La sconfitta gli risulta incomprensibile, e non capisce nulla del mondo civile al quale è restituito.

 

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Tentare di vivere

«Un mattino, quando il giorno non è ancora cominciato né ha dispiegato il suo corso fatale, un dubbio si insinua in noi: la vita potrebbe essere tutt’altra rispetto a quella che stiamo vivendo. Dubbio tanto insidioso quanto vertiginoso, forse il più antico del mondo, sorto con il mondo stesso: la vita che viviamo potrebbe non essere davvero la vita. Potremmo non avere nemmeno cominciato a esplorarla. Potremmo non avere neppure iniziato a vivere veramente

In un tempo di smarrimento profondo come è quello che stiamo attraversando, con La vera vita François Jullien invita a tornare ai fondamentali della filosofia per porre le giuste domande su una questione radicale: qual è la vita degna di essere vissuta? È vita vera quella che portiamo avanti giorno dopo giorno? O esiste una dimensione autentica che ci sfugge? E la storia della filosofia occidentale, da Platone a Cartesio e Heidegger, ci fornisce gli strumenti più adatti per tentare una risposta?

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Tentare di vivere

Non è possibile apprendere ciò che, più ogni altra cosa, dovrebbe essere appreso: non si può “imparare a vivere”. Si può forse imparare qualsiasi cosa, ma non a vivere. Diciamo che l’apprendere si trova in una posizione stranamente instabile rispetto al “vivere”: in un rapporto di inadeguatezza originaria che si sa come correggere o superare. Ammesso che si possa apprendere a vivere, che cosa si tratterebbe di apprendere? Per lo meno questo “che cosa” non dovrebbe essere riduttivamente definito nei termini della morale conformistica (come quando si dice con tono di rimprovero: “bisognerebbe insegnargli a vivere…”). Se una volta, a scuola, c’erano le “lezioni pratiche”, ci sono anche quelle che talvolta chiamiamo “lezioni di vita”? Ogni fallimento ci insegna una lezione, almeno così si dice… la lezione di cui qui si tratta però non potrà che essere puntuale, essendo strettamente connessa ad un avvenimento preciso: occorre pertanto chiedersi fino a che punto essa possa venire appresa. Inoltre, una lezione siffatta può davvero iscriversi nella trama della vita a venire e assumerne la guida o quanto meno influire su di essa? Il rinnovamento metabolico della vita non porta assai presto questo genere di lezioni al naufragio dell’oblio? Del resto, se non si può imparare a vivere, bisognerà almeno imparare a morire, ripete la filosofia, gettando la spugna (ma alzando il tono), a partire da Platone. Eppure, che cosa significa “imparare” che si deve morire, se non cedere alla rassegnazione? Significa semplicemente, progressivamente, tacitamente, solitariamente, per “sovraccumulo” dei morti, “farsi” da parte, senza più commenti, se non tra sé e sé: l’apice (nella morte) del “c’est la vie” sottomesso che non si discute. Si può infatti “comprendere” come la morte sia parte integrante della vita, sia correlata alla vita pur opponendosi ad essa, sia al servizio del gigantesco inabissamento nel fiume del divenire. Ma in che modo si può essere educati a questo, ci si può far convincere di questa verità che già si conosce? “Credo a questa verità senza arrendermi ad essa. Sempre meno. Io non ho imparato ad accettarla, la morte” (afferma Derrida nel suo ultimo scritto, Apprendre à vivre enfin, a titolo di sfida, forse per evitare la smentita).

Se l’imparare ha così poca presa sul vivere è senz’altro perché la vita non può essere oggetto di apprendimento – a dispetto di tutti i cosiddetti “romanzi di formazione”. I romanzi di formazione sono sempre solo delle ricostruzioni a posteriori, quando la vita ha già fatto il suo corso, se ne fa il bilancio e la si rivive nel ricordo. Ebbene, grazie a quale miracolo questa descrizione retrospettiva potrebbe capovolgersi – riconfigurarsi – in capacità prospettica? Se l’apprendere ha così poca presa sul vivere è perché il vivere, di sicuro, non richiede alcuna applicazione. La vita non ammette il rapporto teoria/prassi, dato che non ci si può preparare a vivere. In alcun modo ci si può apprestare a vivere, poiché, nel vivere, si è già da sempre implicati: abbiamo già incominciato a vivere, prima ancora di poterci pensare sopra; non c’è distanziamento rispetto ad esso. Sarebbe rassicurante, ma illusorio, credere che si possa dapprima apprendere e poi vivere. E anche se potessimo farlo un minimo, il ritardo è strutturale: “il tempo di imparare a vivere…” – il tempo di imparare a vivere grazie alle esperienze fatte, alle situazioni negative affrontate – “… è già troppo tardi” per approfittarne. Se questo verso di Aragon è diventato un adagio è perché in esso viene formulata e vi viene sancita quella discordanza temporale che è impossibile ridurre. Di modo che, se si può imparare qualcosa dalla vita, si potrà tutt’al più dedurlo da essa; lo si apprenderà solo indirettamente, tramite indizi o inferenze. Non tanto a partire da sé (si è troppo implicati nell’immediatezza del vivere per far questo), ma da ciò che si vede negli altri, con una certa distanza da sé. Non tanto a partire dalla vita stessa e retrospettivamente, ma a partire dalla morte che arriva, che si profila in seno alla vita stessa. Gettando progressivamente la propria ombra, essa vi produce, sommessamente, un alleggerimento, un disinvestimento, un disimpegno, da cui scaturisce una sorta di “lucidità”, anziché degli insegnamenti. Al punto che si potrà vivere, iniziare a vivere in modo autentico, solo a condizione di disimparare ciò che si crede di aver appreso dalla vita e che invece era solo pseudo-vita. E malgrado ciò “tutta una vita non basta per disimparare ciò che sottomesso, ingenuo, ti sei fatto mettere in testa…” (Henri Michaux, Trave angolare).

Non possiamo nasconderci, una volta di più, il carattere eminentemente paradossale del vivere, in virtù della de-coincidenza che esso implica. Bisognerà approfondire ulteriormente l’assoluta singolarità di questo verbo, al fine di sganciarlo dalla logica dell’adeguazione che la civiltà europea ci ha imposto: la logica dell’“essere”, che esclude il paradosso e la contraddizione. E di conseguenza per non rinunciare del tutto alla razionalità e per non doversi per forza “convertire” al fine di svelare l’irrazionalità del vivere stesso (superare la loro contraddizione) – conversione metafisica o religiosa, all’Essere assoluto o a Dio, intrapresa da Platone, la sola che può dunque salvare il vivere dall’“assurdo”. Ma il vivere in sé è contradditorio, perché sfugge per principio alla logica dell’Essere e del possesso. La mia vita è quanto ho di più proprio, in effetti, anche se posso esserne espropriato in ogni momento. La sento in me stesso come ciò che vi è di più intimo in me stesso; per me, essa è ciò che mi appartiene di più e anche ciò che soltanto può appartenermi in senso più proprio. Eppure, allo stesso tempo, non mi appartiene, da cui deriva la famosa formula di compromesso “dare in dono”, tanto spesso evocata: “Se Dio mi ha dato in dono la vita…”. Soprattutto, il fatto di vivere è per me la condizione di tutte le condizioni, la pre-condizione, addirittura il presupposto di tutti i presupposti, senza un al di qua al quale poterla ricondurre. Ora, allo stesso tempo, il vivere rappresenta l’aspirazione di tutte le mie aspirazioni, senza alcun al di là possibile: posso solo desiderare, o sognare di vivere, e questo anche se il vivere mi è comunque già dato. Il vivere è a un tempo la sola fonte alla quale possiamo attingere e il solo orizzonte che possiamo progettare. Posso solo avvalermi della capacità di vivere che è in me, ma per aderire a questa stessa capacità: vivere, insomma!

A voler interrogare con maggiore precisione, nel suo fondamento, sul piano lessicale, il significato della parola “vivere”, si può notare come questo verbo oscilli, in effetti, tra un senso primario, elementare (“essere in vita”), e, al di là delle sue diverse accezioni modali, un senso più ampio e pieno, ancora implicito. Nel dizionario francese Le Robert: “realizzare tutte le possibilità della vita”. In Hugo: “coloro che vivono sono quelli che lottano”. Ora, quest’ultimo significato, sorprendentemente, è segnato ancora da una certa vaghezza. Eppure, esso non è forse, al di là di tutti i suoi possibili utilizzi, il significato decisivo? Di tutti i significati concepibili, e persino di tutti i verbi immaginabili, quello che bisognerebbe pensare nel modo più rigoroso possibile? Più stranamente ancora, i dizionari di filosofia non riportano l’item “vivere”: di che cosa è il sintomo una tale circostanza? È proprio questo scarto infatti che bisognerebbe esplorare più di ogni altra cosa: tra il vivere inteso nel senso minimale, condizionale, di essere in vita al vivere inteso in senso ottimale, ottativo, come aspirazione a vivere, e cioè a promuovere in sé – ma davvero solo in sé? – la vita. Proprio in questo scarto, infatti, sono contenute con ogni evidenza tutte le attese e le speranze (il celebre “che cosa ho il diritto di sperare?” kantiano, ma liberato dalla sua impostazione metafisica). Il primo significato è quello restrittivo di vitale, il secondo quello esteso di vivente. Tale distinzione si ritrova per la prima volta in Giovanni (psyché, ψυχή; zoé, ζωή) e non bisogna stupirsene, visto che – fino ad ora – il vivere è stato affrontato dal discorso religioso. Il primo significato, quello di “essere in vita”, ha come suo opposto, si sa, quello di “morte”. Ma quale sarebbe l’opposto del “vivente”? All’opposto del vivente, che da quel momento sarà inteso solo nel senso di “sovrabbondante” di vita (afferma Giovanni), daremo il nome di “non-vita”. Mentre la morte succede alla vita del vitale portandola a compimento, la non-vita rappresenta la morte intrinseca al vivente, di modo che, benché siamo ancora in vita, non viviamo “veramente”, ovvero esistiamo in una vita apparente. Vi è tuttavia una differenza tra la “vita” e il “vivere”. La vita (in quanto sostantivo) si fa mettere a distanza dal pensiero; si lascia astrarre e trasporre, si presta ad assumere un senso figurato: vita letteraria, vita delle idee, vita delle stelle… Per quanto riguarda il vivere (in quanto verbo), invece, nessuna forma di esteriorità è possibile, il suo uso è assoluto. Ora, nella “vera vita”, la distanza tra la vita e il vivere è colmata: la “vera vita” consiste proprio nel toglierla. In altre parole, la “vera vita” equivale a “vivere”: la vita corrisponde al vivere quando si tratta della “vera vita”. E come la morte, per opposizione, fa emergere la vita, nel senso elementare di essere in vita, come si è già detto (Orazio: in umbra mortis…), così la non-vita della vita apparente, per contrasto, mette in risalto ciò in cui consiste la “vera vita”. Per questo motivo, il concetto di vera vita risulta decisivo per pensare, non una qualsiasi morale, ma un’etica dell’esistenza. Poiché la vera vita, in quanto tale, non ha un’essenza, non possiede in sé un contenuto di verità (su quale criterio di adeguatezza potrebbe fare affidamento, o anche quale rivelazione potrebbe autorizzarla?), la “vera vita” si definisce solo negativamente, attraverso la sua resistenza alla non-vita, alla pseudo-vita in cui la vita cede alla rassegnazione, sprofonda, si aliena o si reifica. A tale riguardo, il concetto di vera vita mi sembra più opportuno rispetto a quello di vita “degna dell’uomo” o “degna di essere vissuta”, meschen- o lebens- würdig, cui persino Adorno e Derrida fanno ancora ricorso, forse per il loro valore indicativo. La formula “degno di” si basa infatti sempre su una valutazione, di cui non è possibile individuare né il criterio né il fondamento; al contrario, il concetto di “vera vita” – nel rigore intrinseco con cui è negazione, o meglio negazione della negazione: la vera vita è negazione della non-vita – è in se stesso dotato di una consistenza e di una giustificazione sufficienti, da cui trae la sua legittimità di principio.

Pertanto, non è possibile imparare positivamente a vivere perché vivere è anzitutto questo: continuare a resistere alla non-vita che si infiltra e si intromette perennemente e persino originariamente nella vita, bloccandola e opprimendola; perché, per intendere l’in-audito della vera vita, bisogna dapprima distruggere i punti di riferimento codificati, assimilati, per i quali tutto è già “udito”, o dell’ordine del “c’est la vie…”. Imparare a vivere significa rientrare da subito all’interno di categorie stabilite, puntare su attese orientate verso ciò che già conosciamo. “Tentare” di vivere, invece, è più corretto. Tentare, in effetti, significa forzare; provare, non appena si scorge una difficoltà, a trovare una possibile via d’uscita. Questo sfasamento è importante. Ogni tentativo infatti riconosce da principio che la difficoltà da affrontare non è né secondaria né derivata – allo stesso modo in cui imparare a vivere non significa altro che imparare come vivere. In questo caso, la difficoltà è riconosciuta nel suo essere intrinseca alla vita stessa, giacché il vivere, contraddittorio com’è, tende a smentirsi da solo e a sprofondare nella non-vita, in una vita apparente o pseudo-vita. Perciò “tentare” ha un valore strategico – è una strategia etica – e non morale: occorre “tentare” di eliminare la non-vita che falsifica la vita, allo stesso modo in cui si elimina un avversario.

 

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