Roberto Mordacci, Ritorno a Utopia

In copertina: Dodecaedro tagliato vuoto. Da
Il ritorno a Utopia, un viaggio necessario

Questo libro intende riabilitare il concetto di utopia. Quest’ultimo ha subìto nel linguaggio comune una serie di fraintendimenti e torsioni di senso che lo hanno reso sospetto e lo hanno circondato di un’aura negativa. Vi sono tre modificazioni essenziali che hanno investito il concetto di utopia. La prima lo interpreta come l’idea di un oggetto impossibile da ottenere. Ciò che è utopico, si dice, non può essere reale e, per quanto sia oggetto di un’aspirazione potente e magari anche diffusa, deve essere considerato alla stregua di un ircocervo, di una creatura fantastica che non può esistere nella realtà perché vìola le fondamentali leggi della natura. In questo senso, chi si balocca con le utopie è un immaturo, oppure è soltanto un poeta di scarso valore, perché la poesia autentica, all’opposto, è profondamente intrecciata con il reale. L’utopia così intesa è dunque anche opposta alla verità, perché ciò che non è possibile è contraddittorio e appartiene al regno del non essere e delle opinioni fallaci. Tacciare di utopia un’idea, in quest’ottica, equivale a dichiararla falsa e perniciosa, se non altro in quanto perdita di tempo.

La seconda accezione di significato attribuita all’utopia la pensa piuttosto come irrealizzabile. Nell’utopia si auspicano cose, come la giustizia e la felicità, che non sono intrinsecamente impossibili, ma non si daranno mai nella realtà umana per quella che è: l’utopia è possibile, ed è anche buona, ma di fatto non si realizza mai. Si comprende la legittimità del desiderio e la si giustifica come aspirazione, ma si fa appello a un realismo disincantato che esclude tali speranze dalla storia. Quest’ultima è una vicenda assurda, contorta, spesso sanguinosa e sistematicamente deludente, dalla quale non ci si può attendere alcuna utopia realizzata. Chi sogna questo non è necessariamente un irresponsabile ma è quanto meno un ingenuo, un idealista politico che andrà incontro a sonore smentite e che, infine, avrà gettato la sua vita in un’impresa tanto allettante quanto disperata. Contro l’utopia, si invoca qui il «sano realismo» delle lotte di potere, della strategia e della tattica come dinamiche efficaci nella storia, in opposizione alle «idee astratte» di chi prova a immaginare per gli esseri umani un modo differente di stare in relazione fra loro.

Il terzo significato cui si riconduce l’utopia la vede come un inganno. I pensatori utopici, si dice, sono in realtà dei dittatori mascherati, individui che hanno bisogno di ordinare a proprio uso e consumo una realtà nella quale si trovano a disagio. L’utopia è il prodotto di un pensiero che, per ribaltare i torti che rendono la società così ingiusta, finisce per immaginare una realtà ancora peggiore, quasi vendicativa, in cui pochi eletti posti al vertice costringono tutti gli altri ad adattarsi alle loro fantasie. L’utopia è un pericolo e una minaccia, un progetto di sovvertimento dell’ordine sociale allo scopo di instaurare un nuovo e inquietante regime, inevitabilmente totalitario e liberticida. Occorre coltivare una sana diffidenza verso le utopie, perché nascondono sempre il rovescio di ciò che promettono: l’ingiustizia invece dell’equità, la disperazione invece della felicità. Bisogna fermare gli utopisti prima che facciano danno, perché certamente le loro immagini sono seducenti, ma essi getteranno la maschera non appena avranno acquisito il potere.

Ebbene, nessuno di questi significati appartiene al senso originario dell’utopia. Almeno, non per come essa è stata formulata a partire dall’opera che ne ha coniato il nome, l’Utopia di Sir Thomas More. È proprio da questo modello che partiremo ed è a esso che fondamentalmente ci atterremo qui, spesso contrapponendolo ad altre utopie che lo hanno seguito. Non ci addentreremo filologicamente nel testo dell’enigmatico racconto di More, ma cercheremo di rintracciarne lo spirito, il senso profondo e soprattutto il concetto. Il nucleo originario e tuttora pulsante dell’utopia deve essere in qualche modo riportato alla luce proprio contro le sue distorsioni, che sono divenute prevalenti nel senso comune contemporaneo. Questo recupero non è affatto una nostalgia. Di utopia abbiamo urgente bisogno, oggi, e occorre, di fronte alle contorsioni folli dell’attuale assetto del mondo, riscoprire la profondissima ragionevolezza del pensiero utopico, il suo realismo, la sua concretezza. E la sua validità anzitutto politica, non solo letteraria o intellettuale.

Per altro, vi sono tracce significative di un ritorno dell’utopico nella cultura odierna. Per restituirle alla loro genuinità e riconoscerne il valore, distinguendolo dalle mistificazioni, si deve però rintracciare e definire l’essenza dell’utopia, offrirne una definizione chiara e distinta e opporla ai termini e ai significati che vi si sono innestati sopra e intorno.

La modernità è sempre stata segretamente mossa dalle proprie utopie, le ha anticipate e in parte persino realizzate. Ne ha poi scoperto il lato oscuro, che si è manifestato nelle distopie: l’immagine inquietante di un futuro in cui l’organizzazione sociale perfetta si rovescia in un incubo totalitario. L’età contemporanea si è arresa a quell’incubo, lo ha preso per più vero delle utopie stesse e ha così perduto la capacità di pensare in avanti. Se si concede credito alle diagnosi postmoderniste, che dichiarano tramontata ogni modernità e, con essa, ogni utopia, si finisce nella nostalgia di un passato mitizzato, ovvero in ciò che Bauman chiama una «retrotopia», con l’aggravante di arrestarsi in un pensiero così deprimente da bloccare ogni iniziativa. Ciò di cui, invece, il mondo contemporaneo ha un assoluto bisogno è proprio la capacità tipicamente moderna di pensare il futuro come una possibilità buona, ovvero come un’opportunità per il cambiamento. Superata l’illusione che il progresso si produca automaticamente, per un destino o per una necessità storica o tecnologica, resta il compito di immaginare strutture e relazioni sociali che siano meno ingiuste, meno autodistruttive, più vivibili, anche se non perfette.Si tratta di provare a tracciare piuttosto un’anterotopia, ossia l’immagine credibile di un futuro in vista del quale agire con decisione.

Il ritorno a Utopia è un viaggio necessario, per quanto il suo percorso resti difficile da immaginare con precisione. Si hanno indizi, si osserva l’orizzonte e si prova a immaginare come possa essere fatta quella terra in cui sappiamo che giustizia e armonia accadono, sono una realtà semplicemente quotidiana e nemmeno perfetta, ma solida e tenace, affidata a una saggezza conquistata nel silenzio. La navigazione è data all’ingegno di ognuno e di tutti, ma prima di salpare occorre rintracciare e ordinare tutte le informazioni che possiamo raccogliere su che cosa sia la meta che intendiamo raggiungere. E quelle informazioni si trovano precisamente nell’immagine della giustizia e del bene che abbiamo imparato a chiamare ‘utopia’.

Roberto Mordacci, Ritorno a Utopia


Roberto Mordacci insegna Filosofia morale e Filosofia della storia presso la Facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano.