Marta e Simone Fana, Basta salari da fame!

Basta salari da fame!
Una dura, documentata denuncia
del sistema capitalistico

Oggi in Italia si guadagna meno di trent’anni fa, a parità di professione, a parità di livello di istruzione, a parità di carriera. Vale per tutti, tranne per quella minoranza che sta in alto.
Non è una casualità, né un fatto nuovo. Perché la questione salariale nel nostro paese, ma non solo, è un pezzo di storia politica che può essere raccontata con le retoriche di chi continua a comandare o dalla viva voce di quanti quel comando lo subiscono sulla propria carne viva. Abbiamo quindi deciso di ripercorrerla, connettendo il filo che lega il passato con il presente, dove il futuro appare una proiezione di un tempo lontano, ma il cui volgere non è affatto scontato.

Il nostro punto di partenza è il dopoguerra, quando la frantumazione del lavoro e le condizioni di sfruttamento intensivo, dentro e fuori i settori privilegiati della nuova industrializzazione, erano la norma. Per due decenni uomini e donne, dalle campagne alle città, tornarono a unirsi in organizzazioni politiche e sindacali, a fare inchieste, a denunciare, a lottare per un salario minimo dignitoso. La crisi internazionale di metà anni Settanta fu colta come momento propizio per sferrare un duro colpo a quella maggioranza che pareva indomita, accerchiandola con una retorica che attribuiva agli aumenti salariali la causa della galoppante inflazione e la perdita di competitività e, di fatto, decretando la sconfitta di quel movimento. Su queste basi ideologiche furono portate avanti le politiche di austerità sia monetaria che fiscale, permettendo alle imprese di procedere alle proprie ristrutturazioni fatte di esternalizzazione e frantumazione dei processi produttivi.

Un meccanismo che nel tempo, dai primi del Novecento fino ai giorni nostri, caratterizza la strategia aziendale di protezione dei profitti e gestione del ciclo economico, facendo del costo del lavoro un fattore variabile su cui scaricare il rischio aziendale e le fluttuazioni della domanda interna ed esterna.

Ma è grazie all’ingente apparato retorico e ideologico, a corredo di tale offensiva, che i salari tornarono ad essere l’agnello da sacrificare in nome dell’interesse aziendale, eretto ad unico interesse nazionale. Se ne convinsero persino i sindacati, accettando non soltanto di congelare i salari ma anche di assestarsi lungo una dinamica di compatibilismo con le richieste del mercato. Non più agente politico che morde e attacca, ma soggetto che smussa gli angoli e cura le ferite più laceranti di un processo trentennale di riforma del lavoro che si è spinto talmente oltre da aver istituzionalizzato anche il lavoro gratuito, considerandolo pratica del tutto normale.

Nonostante tutto questo, le aziende continuano tenacemente a esigere sconti fiscali, sgravi e ovviamente salari più bassi.

In un paese che conta il 14% di forza lavoro in condizioni di povertà lavorativa, dove il 30% dei giovani occupati non guadagna più di 800 euro al mese – come ha dichiarato l’Inps

– e dove ex ministri dello Sviluppo economico sbandierano tra le virtù del Made in Italy quanto poco vengono pagati i laureati italiani rispetto ai colleghi europei.

Milioni di persone sono già vittime di queste politiche che rischiano di coinvolgere strati sempre più ampi della società, perché l’avidità dei profitti non guarda in faccia nessuno e sfrutta tutti i meccanismi di oppressione di cui dispone per costringere a una condizione di vulnerabilità sempre più individui e famiglie, di qualsiasi genere, età ed etnia. Ma per farlo ha bisogno che la possibile unità di questa parte della società venga quotidianamente celata e la frantumazione sfruttata

a proprio vantaggio, facendo credere che le identità dei singoli lavoratori siano irriducibilmente distinte e non possano coalizzarsi. Quando la frammentazione interna al mondo del lavoro non è sufficiente a contenere il conflitto sociale, bisogna trovare comunque argomenti che spostino il centro dell’attenzione dalle sue vere cause, da chi sfrutta e decide di sfruttare. Da qui il mito della tecnologia che separa i bravi, meritevoli di salari elevati, da quelli poco produttivi, che invece non hanno diritto che a salari da fame. Ma, anche questa volta, la teoria a monte di una retorica sempre più diffusa si rivela, quando non del tutto inefficace, parziale e incompleta a spiegare i divari salariali esistenti. E allora è giusto andare a guardare oltre, scoprire e riscoprire quali teorie riescono a dare spiegazioni soddisfacenti dei fatti che accadono nella società, in che modo è possibile e doveroso aggiornarle e/o contestualizzarle meglio. Ad esempio, a qualcuno potrà sembrare sorprendente, ma ad altri no, che il problema non sia la tecnologia in sé ma il suo governo: chi ha il potere di comandare quali macchine e in che modo queste devono entrare nei processi produttivi, affiancarsi e/o sostituire i lavoratori, e quali? È una scelta politica, non tecnica.

Le pagine che seguono non hanno alcuna pretesa di esaustività sulla storia anche attuale della questione salariale.

Hanno però come obiettivo la ricostruzione, seppure parziale, di un pezzo della nostra storia attraverso le immagini del passato e i numeri del presente, analizzati con gli occhi di chi crede che una battaglia non combattuta è una battaglia persa in partenza. Ma per lottare bisogna sapersi riappropriare di strumenti teorici e retorici che permettano di avanzare e di costituire un fronte più vasto possibile, sapendo che le condizioni attuali non sono sicuramente favorevoli.

Siamo partiti qualche anno fa con l’idea che l’Italia aveva bisogno di una campagna a tutto spiano contro il lavoro povero in tutte le sue forme, dagli appalti al lavoro gratuito, dai tirocini al demansionamento. Crediamo sia necessario dire senza mezzi termini che nessun lavoratore, neppure part time, può essere povero, può cioè guadagnare meno di mille euro al mese. Niente di rivoluzionario, ma si tratta di un primo obiettivo – per quanto moderato – che sfida l’aumento delle disuguaglianze che dai luoghi di lavoro e non lavoro si estendono a tutta la società. Nell’ultimo anno, per una forma più o meno ossessiva rispetto alle urgenze ma anche alle carenze politiche, abbiamo iniziato a pensare che la questione del salario minimo anche in Italia avrebbe potuto rappresentare un passo importante per quella battaglia. Consapevoli però che il salario minimo non è positivo di per sé, ma lo diventa quando riesce a incidere e migliorare le condizioni di tutti i lavoratori, partendo dai tanti, troppi, che oggi vivono in stato di povertà pur lavorando regolarmente nel rispetto dei contratti collettivi vigenti. È uno strumento capace di mettere il bastone tra le ruote a chi pensa di poter rimanere a galla a colpi di esternalizzazioni e lavoro in affitto. Un risultato non scontato, ma che dipende da quanto siamo pronti a strappare ancora una volta al fronte padronale, ad attaccare su quel che ci spetta non accontentandoci di quello che sono disposti a regalarci, senza timore di indebolire alcuna struttura intermedia.

Così abbiamo scelto di entrare anche nel dibattito contingente che contrappone il salario minimo alla contrattazione collettiva, mostrando come questa paura appare fondata solo in un contesto in cui si avalla la frantumazione del mondo del lavoro, permettendo alle aziende di individualizzare i rapporti lavorativi. Un dibattito importante, ma che abbiamo scelto di affrontare con autonomia, confrontandoci con quanto avviene nel resto del mondo, nei paesi a noi più vicini, ma anche in quelli apparentemente più lontani, dove vigono sistemi diversi di fissazione dei salari, studiando il modo in cui questi riescono a reagire alle crisi e al governo delle crisi.

Siamo fermamente convinti che lo strumento salariale è un meccanismo e non può in nessun caso risolvere da solo molte altre questioni dirimenti, a partire dalla democrazia nei luoghi di lavoro, nell’organizzazione del lavoro, nelle scelte strategiche dell’azienda. Allo stesso tempo, esso non può essere barattato con maggiori livelli di sfruttamento, allungamento dei tempi di lavoro, detassazioni di alcun genere a favore delle imprese. Rimane appunto un pezzo utile da accompagnare ad altre rivendicazioni, come la sicurezza nei luoghi di lavoro la cui assenza provoca oggi circa tre morti al giorno, il rispetto dei contratti vigenti, i controlli contro l’evasione contributiva.

Ma, insomma, in qualche modo bisogna pure iniziare, e crediamo sia importante partire da qualcosa che possa unire la classe lavoratrice nell’obiettivo di stare tutti un po’ meglio, di recuperare una boccata di ossigeno senza il quale la resistenza viene a mancare. I capitoli che compongono questo libro vanno usati come pezzi di un attrezzo, un marchingegno fatto di parti più o meno indipendenti tra di loro che se messe assieme provano a restituire le ragioni di una storia ancora tutta da scrivere, in cui la classe lavoratrice può e deve assumersi la responsabilità di svolgere un ruolo da protagonista e non da comparsa.

Marta e Simone Fana, Basta salari da fame!


Marta Fana ha conseguito un dottorato di ricerca in Economia presso l’Institut d’Études Politiques di SciencesPo a Parigi.
Simone Fana è laureato in Scienze politiche all’Università di Perugia. Si occupa di servizi per il lavoro e formazione professionale.