Insieme a quel lupo che ora non è più

Lorenzo Colantoni | Cartoline dal Pianeta Terra

 

Alla vigilia di Natale del 1968, la missione Apollo 8 portava un equipaggio umano in orbita intorno alla Luna. Sarebbe diventata celebre una foto scattata nel corso di quella missione: rappresenta il globo terrestre che sorge oltre l’orizzonte lunare, una colorata isola di vita – verde la vegetazione, bianche le nuvole, blu l’acqua – in un universo buio.

Quell’isola colorata è la nostra straordinaria casa comune: con Cartoline dal Pianeta Terra proviamo a leggere degli angoli del pianeta che raccontano quanto delicata sia questa maestosa bellezza.

Per tutti coloro che vorranno continuare a riflettere sulla delicatezza del pianeta che chiamiamo casa e sui modi per abitarlo in modo sostenibile, appuntamento a Lucca, dal 6 al 9 ottobre 2022, con Pianeta Terra Festival, un evento ideato e progettato da Editori Laterza e promosso dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca, con la direzione scientifica di Stefano Mancuso. Sarà una manifestazione multidisciplinare: si parlerà di ecosistemi, di clima, di nuovi modelli economici, di energia, di agricoltura, di alimentazione, di sviluppo urbano, ma anche di nuove visioni politiche, sociali, filosofiche, antropologiche, artistiche. Una rivoluzione per la sostenibilità sarà il titolo di questa prima edizione.

 

 

Arriviamo infine al primo ingresso; l’idea di Sachimine di una montagna pensata per essere vissuta sostenibilmente dall’uomo si scontra con la brutale distesa di cemento che si apre davanti al tempio che si trova lì di fronte. A fianco corre un sentiero, popolato da un solitario e anziano viaggiatore che scambia poche parole con Alena; a quanto pare ha vissuto queste zone quando a scuola ancora insegnavano cosa fossero e ha deciso di tornarci adesso che è in pensione. Questo infatti è parte di un loop, un percorso rituale di lunghezza variabile (di solito sulla ventina di chilometri), che gli yamabushi percorrono una volta al giorno per un periodo che va dai ventuno ai cento giorni. Il sentiero è coperto dai cedri secolari e giganteschi dell’altare, nascosti in quella stessa nebbia che avevo visto la mattina e che non accenna ad andarsene, irradiando nella tarda mattinata una luce dorata e quasi tangibile.

Il vento che muove gli alberi e le nuvole trasforma i raggi che filtrano dalle chiome in uno strano teatro d’ombre. S’interrompe bruscamente: al volgere di una curva la foresta sparisce, il fianco delle colline si mostra completamente disboscato. Non un albero è rimasto in piedi, nemmeno quei pochi che vengono solitamente lasciati per favorire la ricrescita del bosco quando viene tagliato per ragioni commerciali. Alena ne sapeva già qualcosa, ma non me ne aveva parlato, forse per favorire l’effetto sorpresa. È un disboscamento che preoccupa, non solo per la brutalità, ma anche per la vicinanza all’Omine Okugake che, in quanto Patrimonio dell’Umanità protetto dall’Unesco, non dovrebbe essere alterato in nessun modo. Davanti a noi invece il verde dei boschi circostanti lascia spazio a una ferita gialla, malsana, a tronchi grigi e sbiaditi, un colpo inflitto senza chiedere permesso, perdono. In mezzo alla desolazione passiamo di fronte a una pietra che marca la posizione di un altare chiuso al tempo del consolidamento; Alena dice che lì è dove i cacciatori in passato chiedevano perdono alla natura per il taglio degli alberi o per l’uccisione degli animali, lasciando un’offerta agli dèi. Tutto questo è sparito: quella che abbiamo intorno è macelleria.

La spiegazione del taglio arriva da quello che si presenta come l’ultimo cacciatore di Yoshino, Ippei Shimonaka. Amico di Alena, ha un ristorante, ma vanta numerose generazioni di cacciatori prima di lui. Prima ancora della foresta ci parla subito del desiderio di tramandare l’arte anche ai suoi figli; non c’è più nessuno che lo fa, ci dice, mentre ci serve un delizioso cinghiale cucinato con un’arte unica e antica – solo sakè, salsa di soia e cipolline verdi.

Si siede nel ristorante completamente vuoto – credo che abbia aperto in questo periodo solo per noi – dicendo che il taglio è stato fatto per far posto agli alberi di ciliegio. Yoshino è in effetti uno dei posti più famosi in tutto il paese per la fioritura dei sakura, un evento da cui i giapponesi sono così ossessionati da avere una parte dei programmi meteo dedicata solo a quello. Aumentare il numero dei ciliegi vuol dire aumentare quello di turisti, che da soli portano in quelle due settimane di fioritura il guadagno che serve agli albergatori per sopravvivere il resto dell’anno. È uno sbaglio però, è uno sbaglio, dice in un inglese appena accennato, criticando la via che è stata intrapresa, nominando spontaneamente quell’abbandono della foresta che inseguo ormai da qualche giorno. Lui dei boschi ne parla come fosse un agricoltore; dice che vanno coltivati, che i posti dove crescono i funghi vanno manutenuti e non sfruttati troppo, che bisogna prendere alcuni tipi di legname e non altri per pulire la foresta e farla respirare. Lui lo sa bene, perché la sua famiglia non è solo di cacciatori ma anche di forestali, e da oltre un secolo. Solo che ormai nella sua, come in altre famiglie, i bambini e i ragazzi vanno a scuola, spesso lontano, i giovani vanno in città o preferiscono fare altri lavori, vivere di turismo, guadagnare di più, ma soprattutto lasciarsi alle spalle uno stigma che le attività agricole sembrano avere addosso ovunque si vada nel mondo, dall’Europa all’Asia.

La manutenzione della foresta deve farla una ditta; per loro è un lavoro, nient’altro. Per noi era la vita, ci dice, sostenendo che chi non vive nei boschi che mantiene non ha interesse ad agire secondo certe regole e certi tempi che garantiscono il benessere degli alberi. Lo fanno solo per soldi; quando il denaro finisce, finisce così l’attenzione verso la foresta. Gli nomino il cambiamento climatico e lui non si tira indietro come il forestry guy: mi parla dell’aumento esponenziale dei cinghiali e dei cervi, che distruggono la foresta, arrivano ai campi, aumentano il conflitto tra l’uomo e la natura. Prosperano secondo lui proprio per il cambiamento climatico, per via dell’aumento delle temperature che ne fa sopravvivere molti di più durante l’inverno, ma anche a causa dell’abbandono delle campagne: gli mostro la foto fatta con il drone in mattinata e mi indica gli spazi dove un tempo arrivavano le case, i campi, e dove ora c’è foresta. Pare come se la città si sia ritirata, o meglio che sia scomparsa quella zona cuscinetto tra i luoghi dove camminano i turisti, gli abitanti di Yoshino, e quelli frequentati da cervi e cinghiali. Lupi che possano ridurne il numero non ce ne sono più, sterminati in epoca Meiji a furia di esche avvelenate alla stricnina ispirate dallo sviluppo agricolo americano di quei tempi. L’ultimo esemplare di tutto il Giappone fu catturato a pochi chilometri da qui, vicino al villaggio di Higashiyoshino; ne rimane una statua e un solitario haiku:

Io cammino
Insieme a quel lupo
Che ora non è più

La scomparsa di quella che era considerata, qui come in Europa, una specie nociva fu celebrata come un successo, perché il diffondersi della rabbia trasmessa dai cani domestici e la deforestazione selvaggia avevano esacerbato il conflitto con l’uomo. L’impatto della sparizione è però evidente, ma ancora adesso in Giappone si fa fatica a comprenderlo. È strano, perché sarebbe bastato guardare al pantheon shintoista per capirlo: l’okami, il lupo messaggero degli dèi della montagna, è anche il protettore delle messi proprio dai cinghiali e dai cervi. Senza di lui, sparisce il satoyama ed è guerra tra gli spiriti montani e l’uomo. Oggi ne abbiamo la prova.

 

Lorenzo Colantoni | Ritorno alle foreste sacre