IV.
I media elettronici. Primo atto
1. Comunicare con le onde
La radio è stata inventata nel 1895. Se la comunicazione su filo (telegrafo, telefono)
era figlia dell’elettricità, la radio è un’applicazione pratica delle onde elettromagnetiche
di cui James Clerk Maxwell dimostrò l’esistenza nell’atmosfera (1873) e che Heinrich
Hertz, allora trentenne, produsse sperimentalmente nel 1886. Guglielmo Marconi ingegnerizza
questo principio, riuscendo a generare artificialmente onde di varia frequenza, dimostrandone
l’utilità pratica per la comunicazione e creando attorno ad esse una profittevole
attività commerciale. È molto più facile, sicuro ed efficiente innalzare antenne trasmittenti
che stendere migliaia di chilometri di cavo.
La radio è il primo strumento di comunicazione di massa che non richiede alcun tipo
di supporto materiale (come la carta per il giornale e il libro, o la pellicola su
cui viene stampato e proiettato il film, suo coetaneo). Essa si fonda esclusivamente
su una trasmissione di natura immateriale, cioè sulla generazione di onde elettromagnetiche
che arrivano a un apparecchio ricevente (un terminale remoto) e vengono decodificate.
L’invenzione di Guglielmo Marconi non è, in realtà, la radio che conosciamo oggi.
Marconi aveva chiamato il suo ritrovato «telegrafo senza fili» («wireless» in inglese
significa appunto questo); la sua intenzione era quella di superare le difficoltà
di applicazione del telegrafo in particolari contesti. Il telegrafo elettrico, infatti,
poteva comunicare solo con luoghi già collegati con il «filo» (cioè il cavo telegrafico),
escludendo quindi le zone più remote e impervie e, soprattutto, le navi in mare aperto.
Marconi aveva quindi pensato a uno strumento di telegrafia senza filo; in Italia la
Marina e il ministero delle Poste non presero in considerazione il suo progetto, che
fu invece accettato in Inghilterra. Fra tutti i paesi europei, infatti, l’Inghilterra
era quello che aveva più contatti con gli Stati Uniti d’America ed era la destinazione
del più importante collegamento transatlantico con New York.
In seguito all’accettazione del suo dispositivo, Marconi fondò in Gran Bretagna la
Compagnia Marconi, che esiste tuttora. Le applicazioni navali della nuova invenzione
furono immediate e vastissime, tanto che ancora oggi il radiotelegrafista di una nave
si chiama marconista. La prima dimostrazione dell’utilità della radio nota al grande
pubblico si ebbe al momento dell’affondamento del Titanic (1912), quando l’SOS venne
intercettato – secondo una storia che diventò leggenda, con tutte le inesattezze del
caso – da un giovane marconista dell’American Marconi di nome David Sarnoff, che poi
sarebbe diventato il presidente della Radio Corporation of America. La radio fu anche
utilizzata massicciamente durante la prima guerra mondiale da parte degli eserciti
per le comunicazioni fra i reparti.
Questa radio comunque non ha quasi nulla a che vedere con il mezzo di comunicazione
che conosciamo oggi. Le differenze sono evidenti: il telegrafo senza fili è un mezzo
di comunicazione punto a punto, da un mittente a un destinatario che sono intercambiabili
(ciascuno di loro può essere indifferentemente il ricevente e l’emittente), mentre
la radio moderna è una forma di comunicazione di massa tra una stazione emittente
e un pubblico che può solo ascoltare, o cambiare stazione.
La radiotelegrafia mantiene tutta la sua attualità. Quello che noi chiamiamo smartphone e che fino a qualche anno fa era un telefono cellulare è in effetti una radio ricevente
e trasmittente; il Pos (Point of Sale) portatile, il dispositivo con cui il cameriere del ristorante preleva dalla nostra
carta di credito il costo della cena, è una radio; e anche il wi-fi è una comunicazione
radio. Tendenzialmente, la comunicazione via filo si riduce sempre più.
2. Broadcasting
Abbiamo già incontrato l’americano Lee De Forest. La valvola elettronica da lui realizzata,
il triodo (che egli chiamò Audion), permetteva di trasmettere la voce umana e il suono
invece dell’alfabeto telegrafico Morse utilizzato da Marconi. Durante la prima guerra
mondiale si trovò il modo di produrre industrialmente il triodo, come una comune lampadina,
abbattendo i relativi costi. Dopo la guerra le industrie avevano sviluppato tecnologie
e linee di produzione, ma non avevano più le commesse militari. Negli Stati Uniti
si ritenne allora conveniente lanciarsi nella produzione seriale di semplici apparecchi
radio esclusivamente riceventi, per uso domestico. La complessità dell’apparato radiotelegrafico,
con la sua originaria simmetria (ogni ricevente era anche trasmittente e viceversa),
si scindeva in due corpi asimmetrici: un apparato trasmittente molto complesso (la
stazione radio) e uno ricevente molto semplice (l’apparecchio radio in casa). Era
nata la radio come mezzo di comunicazione di massa.
Che cosa si poteva ascoltare con la radio? Un contenuto era necessario, perché la
gente sentisse il bisogno di acquistarla. Si pensò di rifornire questi apparecchi
con musica e parole, trasmesse da una potente stazione e ricevute da tutti gli apparecchi
sparsi nell’area di ricezione, senza bisogno di alcun collegamento materiale (nelle
prime radio, semplicissime, anche senza bisogno dell’elettricità). La rete immateriale
che così si forma è una rete piramidale solo discendente, con un vertice che è la
stazione emittente e una base costituita da apparecchi solo riceventi che non possono
comunicare né con l’emittente, né fra di loro.
La trasmissione via etere in questa forma viene definita «broadcasting», un termine
inglese che significa propriamente «semina larga», e che sarà usato prima per le emissioni
radiofoniche, poi per quelle televisive e infine per tutti i media diffusivi, unidirezionali
(quindi anche per la stampa e l’editoria).
Come il telefono, il broadcasting radiofonico e poi televisivo è una forma di delivery, di consegna a domicilio di un contenuto: come un fattorino che ci consegna un pacco
con la camicia comprata su Amazon. Se il telefono è una comunicazione punto a punto
«vuota», la radio è «piena», pienissima, poiché trasmette continuamente parole e musica.
Mentre il cinema si assesta saldamente nello spazio pubblico e costruisce le sue sale
sempre più grandi e imponenti, la radio tesse una rete immateriale che arriva gradualmente
in tutte le case, inserendosi nella vita privata e aggiungendosi alle altre reti a
cui è collegata l’abitazione (elettricità, gas, acqua, fognatura, trasporti pubblici,
telefono), che la potenziano e rendono gradevole soggiornarvi.
La radio diventa un servizio «a flusso»: è disponibile in casa quando lo si desidera
e viene erogato finché non si chiude il collegamento. Accendere la radio è un po’
come aprire il rubinetto dell’acqua; per proseguire nell’esempio, andare al cinema
è invece come acquistare una bottiglia di acqua minerale (più pregiata e costosa dell’acqua
del rubinetto, ma fornita in quantità limitate). Per avere l’acqua minerale (come
per andare al cinema) devo compiere un esplicito atto d’acquisto; invece aprendo il
rubinetto o accendendo la radio, di fatto non pago niente. Se ascolto una stazione
radio commerciale, è la pubblicità a pagare per me; se ascolto una radio pubblica
sostenuta da un canone o una tassa, il suo pagamento è un atto remoto, e comunque
non proporzionale a quello che prelevo. L’unico effettivo atto di acquisto, ormai
dimenticato, è quello iniziale di quando ho comprato l’apparecchio radio. Si tratta
dunque di una comunicazione di massa quotidiana, abbondante e sentita come gratuita.
La fruizione è domestica, e quindi ciascuno ne usufruisce come e quando crede, anche
in contemporanea con altre attività.
I concetti di pubblico e privato, che già abbiamo sottoposto a un riesame critico,
ne escono stravolti. Precedentemente lo spettacolo era sempre stato associato allo
spazio pubblico. Parliamo di «pubblico della radio» anche se i membri che lo compongono
non sono fisicamente compresenti e si trovano tutti nel loro privato. Parliamo di
«comunicazione di massa», ma in realtà la massa (nel senso tradizionale di «folla»,
di simultanea presenza fisica di persone plaudenti) non c’è più, a differenza di quello
che avviene con altri media, come il cinema. Una massa che ascolta c’è, ma non è riunita
nello stesso posto: ciascuno è a casa sua.
Inizialmente della radio (come della televisione) è stato fatto un uso collettivo.
Con qualche eccesso di zelo, qualche osservatore vi aveva visto una dimensione democratica
del mezzo, ma si trattava di un collettivismo per necessità: gli apparecchi radiofonici
(e poi i televisori) costavano ancora molto e per questo ci si recava nei pochi luoghi
in cui essi erano presenti – un circolo culturale, un bar –, o anche da un vicino
di casa più benestante. Ciascuna famiglia, appena ha potuto, ha comprato il suo apparecchio,
realizzando un ascolto familiare e poi individualizzato.
Di questa dimensione collettiva per necessità fu fatto negli anni Trenta un uso politico:
il fascismo e il nazismo hanno usato la radio come forma di informazione in tempo
reale del regime, come un altoparlante per i propri comizi, ma il mezzo radiofonico
era piegato a un uso che non era il suo, e che non è sopravvissuto alla coercizione
fisica che era incorporata in quel modo di fruizione. L’uso più congeniale alla radio
è, infatti, quello intimistico e privato, che meglio permette la libertà di ascoltare
come e quanto si vuole; magari collocando l’apparecchio sul comodino accanto al letto.
Al contrario, andando a teatro o al cinema ci sarebbero delle regole sociali da rispettare
(comportamento, vestiario, silenzio, buio, ecc.).
La radio è percepita immediatamente come sinonimo di libertà perché, rispetto al giornale
e ai dischi, consente una fruizione spontanea, sostanzialmente gratuita e non ripetitiva.
In particolare, la radio rappresenta il trionfo dell’uso domestico della comunicazione
e della quotidianità rispetto al giornale, che presuppone alfabetizzazione e «impegno».
Il livello di attenzione e di concentrazione che richiede e che le viene prestato
è minore rispetto a quello di altri mezzi di comunicazione di massa, come avverrà
anche per la televisione. Si tratta di una rivoluzione sociale di notevole portata,
perché è in grado di raggiungere le fasce sociali più basse, perché è gratuita, perché
non richiede il saper leggere e scrivere, perché è compatibile con le attività quotidiane
(lavori artigianali, faccende domestiche, vita familiare) e non comporta uno spostamento
nello spazio pubblico né un atto di acquisto. Anche laddove il giornale gode di larga
diffusione, la radio arriva a strati sociali più bassi e più numerosi, che raggiunge
direttamente a casa loro.
3. La radio in America e in Europa. Libertà e totalitarismo
Negli Stati Uniti, dove la radio è nata, un primo tentativo di farne un monopolio
della Marina militare fallì sul nascere. Da allora essa costituì un’attività commerciale,
svolta da un colosso come la Rca (Radio Corporation of America), costituita nel 1919,
e da tanti piccoli e medi privati. La radio era vista come un affare: si distribuivano
gratuitamente i programmi perché i cittadini-clienti comprassero gli apparecchi radio.
Più tardi, quando il mercato degli apparecchi fu saturo, il ruolo del finanziatore
sarebbe stato preso dalla pubblicità. Per la prima volta, questa rappresentava l’unica
fonte di entrata di un mezzo di comunicazione.
Nel 1927 fu emanata una legge, il Radio Act, che sostanzialmente permetteva a chiunque di effettuare trasmissioni radiofoniche,
purché fosse in possesso di una licenza, in cui erano indicate anche le frequenze
su cui trasmettere. Lo Stato lasciava ai privati l’attività di trasmissione, tenendo
per sé la regolazione e la concessione delle licenze. Poco dopo fu creata per questo
un’autorità federale, la Frc (Federal Radio Commission; dal 1934 Fcc, Federal Communications
Commission).
La radio americana si organizzò in tre grandi network: Nbc, Cbs, Abc, che poi diventarono
anche televisivi. Ciascun network era collegato con un gran numero di stazioni locali
affiliate, che ripetevano il loro segnale. Una parte di tali stazioni era di proprietà
dei network (O&O, owned and operated), altre erano «affiliate». I network fornivano solo una parte della programmazione
giornaliera, comprensiva di pubblicità; nelle altre fasce orarie le emittenti locali
mandavano in onda programmi propri, con pubblicità locale. Potevano anche consorziarsi
con altre stazioni per la produzione di programmi o la ricerca di pubblicità; questi
consorzi erano chiamati syndications. Dopo la crisi del ’29 la radio fu uno degli strumenti per dare coraggio agli americani;
il presidente Franklin Roosevelt ne fece un largo uso con le sue «chiacchierate al
caminetto» (Fireside Chats,1933-44).
In Europa il problema si presentava in modo completamente diverso e la radio si sviluppò
secondo un modello opposto. In quasi tutti i paesi europei essa si consolidò come
un «servizio pubblico», monopolio diretto o indiretto dello Stato, che si sovvenzionava
attraverso una tassa o un canone di abbonamento ed escludeva, o lasciava ai margini,
la pubblicità. Segno, questo, di una visione molto diversa dello Stato e dell’iniziativa
privata; tuttavia in nessuno dei paesi europei, nemmeno nei più sviluppati, l’industria
radioelettrica (e men che mai la pubblicità) avrebbe avuto le dimensioni necessarie
a finanziare, come in America, la nascita dei programmi radiofonici.
L’esempio più tipico fu quello inglese. Nel 1926 venne costituita un’impresa pubblica,
la Bbc (British Broadcasting Corporation), che aveva il monopolio delle trasmissioni
radiofoniche ed era dotata di una precisa missione di servizio: «educare, informare,
intrattenere», secondo le parole del suo primo direttore, John Reith, che diventarono
un modello per tutta l’Europa. La Bbc non ammetteva la pubblicità e si finanziava
soltanto attraverso fondi pubblici. La radio era considerata un servizio culturale
ed educativo che lo Stato erogava potenzialmente a tutti i cittadini; si parla per
questo di una «impostazione pedagogica» del servizio pubblico. La televisione sarà
poi vista come una continuazione della missione della radio.
Il carattere pubblico della radio e poi della tv europea favorirono la costituzione
di grandi apparati culturali legati alla politica, che governava gli enti radiotelevisivi;
in particolare, di un corpo di funzionari che riuscivano a congiungere le necessità
del lavoro creativo e ideativo con le logiche degli apparati politici e le subalternità
che essi richiedevano: un lavoro non facile, punteggiato da incidenti e cancellazioni
di programmi, e da avvicendamenti, rapide carriere o altrettanto veloci cadute in
disgrazia.
I paesi autoritari non si lasciarono sfuggire le opportunità propagandistiche proprie
del nuovo mezzo, sia in patria sia verso l’estero, adattando il concetto di servizio
pubblico. In Italia il governo fascista esercitava un controllo di fatto sull’Eiar
(Ente italiano per le audizioni radiofoniche), che operava in regime di monopolio;
in Russia l’organizzazione radiofonica era parte dell’apparato propagandistico dello
Stato sovietico. L’uso più pervasivo della radio fu operato tuttavia dal nazismo tedesco.
Durante la seconda guerra mondiale la radio consentì di portare programmi di propaganda
dentro le case dei cittadini dei paesi nemici: così avvenne, in italiano come in altre
lingue, con Radio Londra e Radio Mosca. Ma non sempre le radio erano dove dicevano
di stare, perché non era chiaro da dove provenissero le trasmissioni radiofoniche
captate dall’apparecchio. De Gaulle parlava ai francesi, che lo ascoltavano clandestinamente
durante l’occupazione, senza dire che trasmetteva da Londra: quando tornò in Francia,
alla fine della guerra, la sensazione era che ci fosse sempre stato.
Dopo la guerra anche l’Italia e la Germania si ispirarono al modello della Bbc. In
Italia già nel 1944, in una Roma appena liberata dagli Alleati, l’Eiar lasciò il posto
alla Rai (Radio audizioni italiane, poi Radiotelevisione italiana).