
Pagine: 276
Collana: Manuali Laterza [240]
ISBN carta: 9788842082392
ISBN digitale: 9788858114445
Argomenti: Radio e tv, Scienze della comunicazione
I media digitali
Pagine: 276
Collana: Manuali Laterza
ISBN: 9788842082392
Enrico Menduni è professore ordinario di Cinema, fotografia, televisione al Dams dell’Università Roma Tre, dopo una lunga esperienza di organizzazione dello spettacolo e di televisione e sette anni nel Consiglio di amministrazione Rai. È giornalista professionista. Ha curato mostre fotografiche e realizzato programmi radio, tv e documentari. Ha scritto numerosi volumi su televisione, radio, internet.
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CONSTANTER ET NON TREPIDE
La storia di Internet inizia alla fine degli anni Cinquanta e, per i primi vent’anni, è legata a doppio filo all’apparato militare americano. Nel 1957 l’Unione Sovietica manda in orbita il suo primo satellite artificiale, lo Sputnik, seguito subito da un altro che reca a bordo un piccolo cane che ricordiamo con tenerezza, Laika1. L’impressione in tutto il mondo fu enorme e l’Urss apparve come il paese tecnologicamente più avanzato. In realtà gli sforzi dei sovietici si erano concentrati sulle tecnologie di prestigio e di interesse militare (quelle spaziali lo erano), sacrificando il resto; ma questo lo si sarebbe capito molto più tardi. Gli Stati Uniti, che si ritenevano in grande vantaggio nelle tecnologie avanzate, subirono un vero e proprio shock – si era nel bel mezzo della guerra fredda – e si gettarono totalmente nella corsa allo spazio e nel recupero del tempo perduto.
Tra i progetti rivolti a questo scopo vi fu la creazione di Arpa, Advanced Research Projects Agency (1958), un ente governativo per promuovere e finanziare la ricerca nei settori strategici; e lo sviluppo dei computer indubbiamente lo era. Nel 1966 l’Arpa mise in cantiere il progetto di una rete per la comunicazione tra i computer che lavoravano per l’agenzia, che si chiamerà Arpanet. Secondo alcuni lo scopo prevalente della rete era il lavoro comune tra i computer delle università e dei centri di ricerca, secondo altri la sua struttura era particolarmente adatta a un uso in guerra, nell’ipotesi molto temuta allora di un attacco nucleare di sorpresa2. La rete infatti non aveva un centro, che sarebbe stato vulnerabile e facile bersaglio; ogni nodo della rete era collegato almeno ad altri quattro e poteva funzionare e comunicare anche se una parte della rete fosse stata messa fuori uso, senza passare da un centro. Diciamo che la rete assomigliava a quella del telefono e non a quella del broadcasting radiotelevisivo: non un punto emittente da cui viene trasmesso tutto, ma ciascuno parla con chi vuole. Nelle comunicazioni telefoniche, tuttavia, ci può capitare di trovare la linea occupata; Arpanet fu disegnata in modo che le comunicazioni viaggiassero da un nodo all’altro non in un blocco unico, ma «spacchettate», divise in tanti elementi più piccoli che si muovevano separatamente, scegliendo di volta in volta tra i molti itinerari possibili quello che risultava libero, per poi ricomporsi una volta arrivati al destinatario: era la cosiddetta «commutazione a pacchetto» (packet switching). Queste due caratteristiche innovative (mancanza di un centro e commutazione a pacchetto) rendevano la rete affidabile anche in caso di guerra: i militari, di solito così gerarchici, avevano generato una rete anarchica, priva di strutture formali di comando. Dovremo ricordare questa peculiarità fra un po’, quando affronteremo lo straordinario e incontrollato sviluppo della rete.
I primi due nodi della rete (che cominciavano a chiamarsi «host», «padrone di casa») furono collegati nel 1969. Erano quelli del centro di ricerche di Stanford e dell’University of California, poi crebbero rapidamente. Fondamentali per il funzionamento della rete erano i «protocolli», le specifiche per i collegamenti tra i vari host. Una soluzione durevole fu trovata da due ricercatori dell’Arpa, Vinton Cerf e Bob Kahn, nel 1973. I due realizzarono il protocollo ancora in uso per la comunicazione in rete, il tcp/ip (Transmission Control Protocol/Internet Protocol). Il carattere innovativo del tcp/ip era la possibilità di connettere altre reti costruite fuori di Arpanet, realizzando così una «rete delle reti», quello che sarà poi Internet.
Accanto ad Arpanet nacquero così reti civili di tipo consortile, per il collegamento di università e centri di ricerca, varcando presto i confini degli Stati Uniti; siamo all’inizio degli anni Ottanta. Ricordiamo alcuni loro nomi, ormai dimenticati: Csnet, BitNet, Usenet... Il protocollo tcp/ip – che era disponibile per tutti – permetteva di connetterle tutte fra loro. La rete stava diventando troppo pubblica e troppo nota e i militari la abbandonarono, creandone una loro (Milnet); la National Science Foundation (Nsf), un equivalente americano del nostro Cnr, promosse nel 1985 la costruzione di una rete di telecomunicazione veloce, che cominciava a chiamarsi backbone («spina dorsale») e la sua Nsfnet sostituì gradualmente Arpanet, che fu chiusa dopo vent’anni di glorioso servizio nel 1989. È questo il periodo in cui i gestori di reti di telecomunicazione cominciarono a interessarsi alla rete, vendendo accessi e collegamenti veloci e acquistando anche la rete messa in vendita dalla Nsf. Nel 1988 la società di telecomunicazioni Mci ottenne di poter interconnettere il proprio sistema di posta elettronica, MciMail, con Internet. Per la prima volta un consistente numero di utenti che non erano né militari né ricercatori universitari affluirono alla rete.
Questo episodio è indicativo dell’importanza delle società di telecomunicazione nello sviluppo di Internet. Quando si parla di «virtualità» e di comunicazione «immateriale» o si usano espressioni del genere bisogna sempre ricordare che Internet ha necessità di reti di comunicazioni che sono quasi sempre fisiche, materiali, composte di cavi (delicati, costosi, difficili da sistemare nelle città) che corrono sottoterra o su linee aeree, con fili appesi a pali. Fanno eccezione i collegamenti satellitari, che pure hanno bisogno di un particolare e costoso hardware (il satellite, il razzo che lo manda in orbita, il centro di controllo che lo segue in ogni momento e lo riporta in orbita quando è necessario), oltre alle tecnologie senza fili (wireless), come i raggi infrarossi, Bluetooth, Wi-Fi ecc. che sono state inventate molto più tardi. L’efficienza e la capacità della rete fisica, dunque, sono presupposti necessari per la qualità della comunicazione in rete.
Nello stesso periodo il collegamento con le reti interconnesse arriva in Italia. Nel 1986 il Cnuce di Pisa è connesso via satellite con Arpanet; l’anno successivo allo stesso Cnuce viene affidato l’incarico di assegnare gli indirizzi ip per l’Italia; questo centro diventerà poi il punto di riferimento nazionale per Internet3. Nel 1988 cade il veto del Dipartimento della Difesa americano all’esportazione di tecnologie fondamentali per l’interconnessione delle reti, come i router4. Le reti già esistenti in Europa, all’interno della comunità accademica, si interconnettono con gli Stati Uniti.
Siamo alla vigilia di Internet: nel 1991, ai laboratori di fisica nucleare Cern di Ginevra, Tim Berners-Lee mette a punto il World Wide Web, un sistema che permette di pubblicare sui nodi della rete documenti ipertestuali (compresi immagini, suoni e ogni altro dato digitale, compatibilmente con le sue dimensioni: documenti troppo grandi intasano le reti di telecomunicazione), che sono accessibili in qualsiasi parte del mondo a chiunque ne conosca l’indirizzo o ci arrivi per caso. Il www è un insieme di protocolli che permettono la circolazione e lo scambio, attraverso la rete, di informazioni ipertestuali, cioè che contengono al loro interno collegamenti (link) ad altre informazioni. I più importanti sono due:
a) il linguaggio html, che costituisce un formato semplice per rappresentare e rendere disponibili informazioni connesse in forma di link e che potremmo definire come un «un generatore di ipertestualità»; con html da una pagina (cioè da una schermata del computer) si passa rapidamente a un’altra, cliccando su un testo o su un oggetto;
b) il protocollo per il trasferimento delle rappresentazioni così formattate, e cioè l’http (HyperText Transfer Protocol).
Una caratteristica importante del sistema messo a punto da Berners-Lee è una speciale codifica dei messaggi trasferiti attraverso la rete, in gergo informatico mime (Multipurpose Internet Mail Extension), che permette due prestazioni che saranno determinanti per lo sviluppo di Internet: la possibilità di non inviare solo testi scritti, ma anche immagini, suoni, programmi, e la facoltà di scrivere i testi in lingue e alfabeti diversi dall’inglese: in russo e in caratteri cirillici, in cinese mandarino, ma anche in italiano o in spagnolo con la sicurezza di scambiarsi correttamente tutti i simboli e i segni alfabetici necessari. Ci sembra significativo che la caratteristica di Internet più aperta alla multiculturalità sia nata in un centro di ricerca non statunitense ma internazionale, e situato nel cuore stesso dell’Europa. Naturalmente, provenendo da un istituto pubblico di ricerca, html e http sono di libero uso per tutti.
Quattro anni dopo, nel 1993, due studenti dell’Università dell’Illinois, Marc Andressen ed Eric Bina, realizzano il software Mosaic, il primo programma di navigazione sul web accessibile a non esperti. Secondo le tradizioni universitarie, Mosaic è diffuso gratuitamente, ma la sua circolazione rimane all’interno di una cerchia ristretta di accademici e ricercatori. L’anno successivo Marc Andressen forma una sua società e lancia Netscape5, il primo browser commerciale. La logica stessa della distribuzione su larga scala di questo software, della sua promozione e commercializzazione fa uscire Internet dalla cerchia degli addetti ai lavori. Il browser di Andressen sarà di gran lunga il più diffuso prima dell’arrivo di Explorer insieme a Windows 95, che spodesterà Netscape6. Windows è da sempre un software mainstream: attento soprattutto alla sua diffusione di massa, in tutti i paesi del mondo, superando con la standardizzazione dei suoi comandi barriere culturali e linguistiche. Il fatto che Microsoft aggiungesse un browser tra i programmi forniti all’origine nel suo sistema operativo è stato interpretato, a livello di massa, anche tra gli utilizzatori meno colti, come una legittimazione popolare di Internet, come il riconoscimento che la rete non riguardava soltanto nicchie di appassionati o di colti, ma poteva interessare tutti. Questa considerazione, che ha anche un corollario politico (ossia che Internet non riguardava solo minoranze intellettuali, liberal o radical), ha favorito la diffusione di Internet fra i milioni di utilizzatori di Windows in tutto il mondo.
Fino ad ora abbiamo esaminato la storia di Internet e ne abbiamo visto il percorso da dispositivo riservato a un gruppo di ricercatori collegati ai militari, poi alla comunità scientifica, a un’élite di appassionati del computer e successivamente, con una progressione sempre più rapida, a quasi tutti gli utilizzatori del personal computer. Diciamo subito che è la storia di un mezzo di comunicazione, cosa che non possiamo dire per il computer in quanto tale. Il computer (non collegato a Internet) serve a tante cose, ma i dati dobbiamo immetterli noi. Se un dato manca, non possiamo chiedere al computer di cercarlo perché la sua memoria è capiente ma finita. Internet invece ci interpella anche se non siamo noi a prendere l’iniziativa, ci manda messaggi, suggerimenti e materiali continuamente aggiornati, e ci invita a interagire con essi. In Internet possiamo andare a cercare una cosa o una persona che non conosciamo, come una volta facevamo sul vocabolario o sull’elenco del telefono. Nel computer (non collegato) non c’è nulla che non vi sia stato messo da noi o dai fornitori del sistema operativo e dei software: su Internet ci sono soprattutto cose che noi non immaginiamo nemmeno che esistano, e questa è la sua bellezza. Internet insomma è un vero e proprio medium, che chiamiamo qualche volta «metamedium» per la sua proprietà di assumere su di sé le funzioni di quasi tutti gli altri media.
Il tragitto di Internet, dal punto di vista del suo uso diffuso, può suddividersi in tre fasi. La prima fase inizia nel 1969 (primi collegamenti ad Arpanet) e dura fino al 1995 circa (lancio del browser «di massa» Explorer inserito in Windows 95); la seconda, di impetuoso sviluppo, tra 1995 e il 2001, fermato prima dallo scoppio della bolla speculativa attorno alla net economy, poi dagli attentati dell’11 settembre 2001. Nella prima fase è un medium «di nicchia», nella seconda non lo è più anche se non lo possiamo definire «di massa» nello stesso senso con cui parliamo della tv o dei giornali. Nella terza fase è un ambiente convergente e maturo, composto da una serie infinita di nicchie, in parte sovrapposte.
All’inizio, come abbiamo visto, si cercava un metodo rapido, efficiente e riservato di scambiarsi informazioni tra università e centri di ricerca degli Stati Uniti dedicati essenzialmente alla ricerca strategica collegata con l’apparato militare, con un occhio particolare alle possibili utilizzazioni della rete in caso di attacco nucleare e di guerra. La soluzione trovata era così brillante che la sua utilizzazione si allargò a tutta la comunità scientifica, superando i confini degli Stati Uniti e creando volumi di traffico che cominciavano a diventare interessanti per gli operatori di telecomunicazione fornitori di connessione. Nella comunità scientifica ci si scambiano dati e risultati e si partecipa a progetti comuni, ma si svolgono anche conversazioni informali e magari si usano i computer per qualche svago colto, come giocare a scacchi. La rete diventò così un canale molto economico e veloce anche per chiacchierare e svagarsi, con utilizzazioni già abbastanza simili alla posta elettronica e ai giochi di ruolo in rete.
È in questa fase che i protocolli tcp/ip consentono a tutte le reti grandi o piccole di connettersi fra loro senza alcuna formalità nel modo più pratico: basta condividere gli stessi protocolli perché chi partecipa a una rete possa comunicare con tutti gli utenti delle altre reti. Siamo ancora in un ambito di comunicazione p2p: scambio di informazioni e dati fra due soggetti o con un insieme di destinatari multipli più o meno largo. Chi partecipa a una ricerca universitaria, ad esempio, può facilmente mandare una copia a tutti gli altri membri del gruppo di ogni messaggio che invia, per accentuare il clima cooperativo del progetto. Ciò che prima richiedeva fotocopie, francobolli, telefonate si fa ora molto facilmente con la posta elettronica e questo ha aumentato di molto il volume delle comunicazioni (anche inutili).
Tuttavia se Internet fosse rimasto solo un efficiente canale p2p per lo scambio di messaggi digitali multimediali, eventualmente con allegati, difficilmente la sua importanza sociale sarebbe stata quella che oggi tutti le riconosciamo. La necessità di disporre di un computer e di una connessione e il fatto che il messaggio deve essere digitato, lasciando così una traccia permanente, ne avrebbe avvicinato probabilmente l’uso alla comunicazione pubblica e formale, lasciando al telefono – che proprio negli stessi anni diventava cellulare – il grande territorio della comunicazione informale, personale e privata.
La realizzazione del www cambia tutto, perché fa nascere un oggetto mediale del tutto nuovo. Un sito Internet è pubblico, mentre un messaggio di posta elettronica compare soltanto sui computer dei destinatari, e una telefonata raggiunge solo il numero che abbiamo chiamato. Come la diffusione di un giornale o un graffito su un muro, come una dichiarazione in televisione o la pubblicità di un’auto, la pubblicazione di un sito è un atto politico, pubblico, esposto alle reazioni degli altri che vanno dall’entusiasmo e dall’approvazione fino alla critica, al rifiuto o (peggio) all’indifferenza.
La grande forza di Internet è unire insieme, in modo molto accessibile, una forma di comunicazione in pubblico (i siti web) e una di comunicazione privata (la posta elettronica), che nell’esperienza precedente del genere umano tendevano a manifestarsi separatamente e a usare media diversi (uno spot televisivo va benissimo per la comunicazione in pubblico, ma per parlare con la fidanzata è molto meglio il telefono). In Internet le due forme si rafforzano a vicenda: ad esempio, esplorando i siti di istituzioni o persone, si possono trovare gli elementi che fanno decidere se entrare o no in contatto con loro, e gli argomenti più adatti per intavolare una relazione. A quel punto, la posta elettronica diventa il tramite più naturale per inviare il proprio messaggio in forma più riservata e spesso il sito prevede un link che automaticamente attiva un messaggio di posta, diretto al sito. I rapporti fra dimensione pubblica e privata, che già erano stati alterati dall’ingresso dei mass media nella dimensione domestica, privata e intima (il televisore in salotto), ne risultano ulteriormente modificati all’insegna di una circolarità fra i due momenti, di un pendolarismo continuo e spesso di un continuo intreccio fra le due dimensioni.
A ciò va aggiunto che, nell’esperienza umana precedente a Internet, la comunicazione privata era molto più abbondante della comunicazione in pubblico, che rimaneva una risorsa costosa (riunioni e convegni, manifesti, giornali, trasmissioni televisive ecc.) e richiedeva una speciale elaborazione creativa, molto diversa dal carattere informale e approssimato della comunicazione in privato. Questi motivi sociali di costo e complessità la rendevano accessibile solo alle istituzioni che avessero consistenti mezzi, organizzazione e, in definitiva, potere. Tale soglia di accesso alla comunicazione in pubblico, da sempre così alta da escludere la gente comune, con Internet si abbassa drasticamente: certo pubblicare un sito è più complicato che scrivere un’email, ma infinitamente più semplice di tutte le altre forme di comunicazione in pubblico attraverso media come la stampa, la radio e la tv, l’affissione di manifesti.
Le applicazioni principali della prima Internet sono quindi due: i siti web (navigare e pubblicare nuovi siti) e la posta elettronica. Per realizzare le altre (giocare in rete o acquistare libri, consultare un motore di ricerca o scaricare musica, e qualunque altra) occorre prima arrivare a un sito e aprirlo, e/o lanciare il nostro programma di posta elettronica. Tutte le altre funzioni sono derivate o specializzazioni di queste due originarie caratteristiche della rete che riguardano rispettivamente la dimensione pubblica e quella privata.
Nella seconda metà degli anni Novanta Internet si diffuse in Europa, sia pure in maniera ineguale, fuori della ristretta cerchia degli addetti ai lavori, con qualche anno di ritardo sugli Stati Uniti. Ma questo non significa che la rete fosse già di uso generalizzato: Internet rimaneva prerogativa di coloro che per motivi di lavoro avevano in ufficio un computer e una connessione o di appassionati che lo utilizzavano a casa nel tempo libero. Si crearono così dei gruppi di persone che discutevano tra loro e condividevano interessi comuni. Le Bbs (Bulletin Board System) erano comunità cresciute, all’inizio degli anni Ottanta, scambiando al loro interno messaggi via computer e portando così avanti discussioni sugli argomenti di loro interesse. I temi erano i più diversi ma non mancavano quelli fortemente caratterizzati in senso politico o culturale. I messaggi erano prevalentemente scritti; le discussioni avvenivano particolarmente di notte, sia per le abitudini dei loro membri sia per i minori costi delle linee telefoniche. Le Bbs richiedevano abilità informatiche e attrezzature da appassionati, e furono quindi sostituite dai più semplici programmi di posta elettronica e dalle connessioni commerciali a Internet.
Se le Bbs erano prevalentemente asincrone, le chat (Irc, Internet Relay Chat) erano invece istantanee (sincrone), traffico sulla rete permettendo, e quindi particolarmente adatte alla comunicazione privata a due, non solo in gruppi. La comunicazione è sempre scritta e fa largo uso di acronimi al posto di frasi di uso comune, spesso in inglese. Ad esempio: «al più presto» è asap, «as soon as possibile». Ne risulta una specie di stenografia di cui facevano parte anche gli «emoticon», le faccine più o meno sorridenti che permettono di descrivere in breve il proprio stato d’animo.
La rete all’inizio ha avuto le sue comunità e i suoi guru. Internet sembrava allora sinonimo di impegno e di un certo progressismo culturale; l’esempio più celebre è il californiano Howard Rheingold che ha descritto le «comunità virtuali»7 in termini esoterici e mitici, quasi fossero sette religiose. La rete individuava una dimensione parallela ed esclusiva, che si definiva allora ciberspazio8. Poi progressivamente questa identità si è attenuata ed è caduta. Internet oggi la usano tutti, di destra e di sinistra, idealisti e commercianti, uomini e donne, giovani e vecchi. È diventata una commodity, cioè qualcosa che si usa generalmente e quotidianamente senza porsi tante domande e senza che il suo uso definisca più di tanto il nostro profilo sociale. Sono commodity la luce elettrica o l’acqua potabile. Il telefonino è diventato una commodity, mentre sino a qualche anno fa il suo possesso era proprio di determinati ceti sociali.
Le comunità in rete in parte hanno resistito, in parte si sono convertite ad altri strumenti, ma il loro impatto sociale, la loro rilevanza è minore perché sono sommerse da un uso generalizzato e relativamente neutrale di Internet.
In rete si era noti con il proprio «nickname», il nominativo della posta elettronica e delle chat che, come indica letteralmente il termine, è un soprannome. Nessuno impediva di scegliere nickname lontani da quello che si era veramente ma vicini alle proiezioni e ai desideri più riposti. Internet diventava una variante virtuale della tendenza a dissimulare la propria identità e a rivolgersi agli altri con una personalità fittizia, senza correre i rischi sociali e fisici di un signore distinto che vada in giro vestito da donna nel weekend. Uno psichiatra aveva anche condotto l’esperimento di partecipare, sotto falso nome femminile, a una chat di signore che condividevano i loro problemi, raggiungendo livelli di attendibilità adeguati prima di gettare la maschera9. L’adozione delle webcam, minuscole telecamere collegate al computer, ha mandato in archivio queste interazioni alla cieca. Oggi esistono le videochat, ed è possibile accedere dal computer, in tempo reale, a moltissime webcam sistemate in aree urbane, località turistiche, parchi naturali, negozi, case e camere private, o raccordate a telescopi puntati sugli astri.
Il World Wide Web, come abbiamo visto, è un sistema che permette di pubblicare sui nodi della rete raccolte di documenti testuali (e ovviamente immagini, suoni, grafica, e ogni altro dato digitale) in modo da renderli pubblici per chi ne conosca l’indirizzo o vi sia stato condotto da un collegamento ipertestuale. Il linguaggio html consente di presentare una «pagina» iniziale (home page), in pratica una schermata del computer, dalla quale si è condotti ad altre pagine cliccando su un testo (di solito sottolineato), o su un oggetto (una foto, un pulsante, un disegno) «sensibile», ossia contenente in sé un collegamento ipertestuale (detto tag, cioè tagliando, contrassegno). L’oggetto sensibile quando è evidenziato viene marcato, generalmente cambiando colore. In questo senso abbiamo definito il linguaggio html, nel primo paragrafo di questo capitolo, un «generatore di ipertestualità».
La forma con cui queste raccolte di dati in linguaggio html sono presentate in Internet è quella del «sito web», che è organizzato in pagine. Un sito può avere una pagina sola, o centinaia. Chiunque voglia creare un sito web (tecnicamente definito anche «dominio») deve innanzitutto trovare un nome attraente, semplice da ricordare, descrittivo del contenuto, che sarà collegato all’indirizzo ip assegnato al sito. L’uso del nome (dns, Domain Name System) sembra un’ovvietà, ma ha semplificato molto la navigazione in Internet perché non è necessario indicare gli indirizzi ip che sono composti da molti numeri difficili da ricordare, facili da sbagliare.
Bisogna poi trovare un «web host», una società commerciale che a pagamento (per un sito semplice, poche decine di euro all’anno) ospiti il contenuto del nostro sito sui suoi server, e poi procedere alla registrazione. Prima di tutto bisogna verificare che il nome da noi scelto non sia già stato registrato10. Registrare un sito è come brevettare un marchio di fabbrica. Ad esempio, se vogliamo realizzare il sito di un caseificio, può darsi che adottiamo il nome «www.provolone.it» per essere più facilmente reperibili da chi è interessato a questo formaggio, per poi scoprire che qualcuno più previdente di noi lo ha già registrato e ne dispone come vuole, anche se magari non ha realizzato il sito. Dovremo allora ripiegare su un altro nome, come «www.ilveroprovolone.it», oppure acquistare il dominio (nome e indirizzo ip) a caro prezzo da chi ha avuto una buona idea prima di noi.
Il suffisso finale «.it» indica «Italia», il paese dov’è registrato il sito, ma è semplice registrarlo anche in altri paesi. Non ci sono poi soltanto i suffissi «geografici» ma ci sono molte altre possibilità «generiche»: «.com», «.org», «.biz», «.info», «.edu» e altre. Ogni suffisso11 ha un’autorità ufficiale per la registrazione e un database di tutti i siti già registrati. L’autorità italiana ha sede presso l’Istituto di Informatica e Telematica del Cnr a Pisa.
La registrazione non è un’autorizzazione o una concessione, che non è dovuta. L’autorità di certificazione si limita a verificare che siano rispettati nella scelta del nome determinati standard tecnici e che non sia troppo scurrile o scorretto (in casi estremi, potete ripiegare su qualche isola del Pacifico e farvi registrare là). Quindi, complessivamente si tratta di procedure molto più semplici del rinnovo della patente di guida, nelle quali saremo aiutati (ma non gratis) dal nostro web host.
Possiamo ora dedicarci alla costruzione del sito. Come ormai sappiamo, esso è fatto di varie pagine concatenate fra loro. C’è una pagina iniziale (home page) che in un sito molto semplice può anche essere l’unica, ma da cui, nella stragrande maggioranza dei casi, si dipartono, attraverso collegamenti ipertestuali, tutte le pagine nelle quali è presentato il materiale e che possono essere assai numerose.
Il sito va programmato nel linguaggio html messo a punto da Tim Berners-Lee (come abbiamo visto nel paragrafo 1), che serve a rendere disponibili informazioni connesse in forma di link in un ipertesto. È possibile programmare direttamente in codice html o utilizzare uno dei molti software che semplificano la programmazione.
Quando abbiamo programmato il sito, bisogna metterlo on line. Per questo è necessario un altro programma software di tipo ftp (File Transfer Protocol) che lo mandi in rete (uplink). Ogni volta che dovremo modificarlo o aggiornarlo utilizzeremo lo stesso programma.
Ci sono moltissimi tipi di siti, secondo le specializzazioni, i gusti, le mode e anche il software con cui vengono realizzati: basta un breve giro in rete per rendersene conto. Ormai la progettazione e gestione dei siti (web design, web administration) sono diventate discipline complesse, studiate nelle università; sono vere e proprie professioni, che possono essere molto interessanti e ben pagate se si è bravi. Ogni web designer ha il suo stile, ma le principali variabili prese in esame sono l’«usabilità», ossia la facilità con cui un utente anche inesperto o disabile può esplorare il sito, e la «leggerezza». Un sito leggero non ingombra le linee di comunicazione con un eccessivo numero di bit e dunque è accessibile anche a chi abbia un collegamento lento e antiquato alla rete. Poiché tali tipi di connessione sono più diffusi nei paesi meno sviluppati e tra le fasce sociali più deboli, più il sito è leggero più è «democratico», capace cioè di rivolgersi agli utilizzatori più svantaggiati.
Possiamo costruire un «sito vetrina», per illustrare l’attività di un’organizzazione, prevalentemente «statico» (cioè poco interattivo: offre, dichiara, dimostra ma non chiede la collaborazione dell’utente); o un sito dedicato a una particolare nicchia di appassionati, che si ritrovano nella grafica e nei termini usati (vere e proprie marche comunicative) e li sentono come identificativi della loro comunità, partecipando alla vita del sito come a un club. Possiamo fare un sito «di servizio» mettendo a disposizione molti dati e documenti di difficile reperibilità, magari permettendo agli utenti di aggiungere a loro volta del materiale, o un sito commerciale per mostrare e vendere qualcosa a una nicchia di appassionati (ad esempio, collezionisti di francobolli) o alla generalità del pubblico.
Il sito risponde generalmente a una «logica dell’esposizione»: ha qualcosa in comune con lo scrivere il proprio curriculum, organizzare la mostra di un pittore, mettere un banchetto all’uscita della metropolitana e raccogliere firme per una nobile causa, allestire uno stand in una fiera, pubblicare il catalogo dei prodotti di una azienda. Si tratta di azioni molto diverse fra loro – in parte di carattere creativo, in parte organizzativo – ma tutte sono proprie della sfera pubblica e mettono a disposizione della società qualcosa che riteniamo importante.
Quando allestiamo uno stand o una mostra, svolgiamo contemporaneamente due compiti: selezioniamo una serie di cose che ci sembrano importanti da far vedere, ma nello stesso tempo pensiamo a coloro che visiteranno la sagra, e cerchiamo di adattare questi contenuti a quelle che riteniamo essere le loro esigenze, anche se non li abbiamo mai visti. La vera discriminante è nel cocktail di questi due elementi. Vi sono forme di comunicazione che cercano di attirare un pubblico indiscriminato, che magari non sa nulla di ciò che viene comunicato: ad esempio, un volantino pubblicitario. In altri casi, ci rivolgiamo prevalentemente a persone che condividono la nostra identità. Se il banchetto allestito per raccogliere le firme sventola le bandiere di un partito ed è decorato con i suoi simboli avrà come risultato (evidentemente voluto) quello di attirare i simpatizzanti di quella forza politica, incuriosire qualche incerto e respingere chi la pensa in altro modo. Il primo messaggio è generalista, il secondo identitario. Il sito web è una proiezione digitale e immateriale di tutte queste forme di comunicazione, e dunque in parte è enunciazione, in parte banca dati, e anche una forma di presentazione di noi stessi, in quanto editori.
Un sito ben fatto non deve essere troppo pesante, per essere accessibile anche a chi ha un computer vecchio e una traballante linea telefonica; deve aprirsi rapidamente e non lasciarci per minuti interi davanti alla scritta lampeggiante «loading» (cioè «sto caricando»), magari solo per mostrarci qualche stupida animazione. Deve essere «user friendly», vicino ai suoi utilizzatori magari deboli di vista, poco esperti di informatica, o con qualche handicap sensoriale. Deve essere rapido e chiaro, di grande facilità d’uso, in grado di dare informazioni considerate utili dai visitatori del sito, piacevole da guardare, gradevole nei colori e nella grafica. La cosiddetta «usabilità» (usability) dei siti diventa sempre più importante da quando si è capito che l’utente, di fronte a un sito complicato o che si apre con lentezza, non aspetta e si sposta su un altro sito.
L’usabilità però non basta. L’armoniosa distribuzione in pagine, l’efficienza degli indici e dei rimandi, la quantità e qualità delle informazioni che sono contenute in un sito sono le doti che noi apprezziamo quando navighiamo sul web. In sé la pubblicazione di banche dati non è una novità. Abbiamo gli esempi del dizionario e dell’enciclopedia, dell’elenco telefonico e di quello ferroviario, in testi cartacei o in cd-rom. Tutte sono risorse «off line», che non sono collegate a niente, ma tengono dentro di sé tutti i dati che possono offrire. Un esempio di banca dati on line è il Teletext (in Italia chiamato Televideo dalla Rai, Mediavideo da Mediaset) sul televisore di casa; le informazioni viaggiano sfruttando righe non utilizzate dal segnale tv. Vi sono state altre banche dati, generalmente collegate via cavo, con varie tecnologie12.
Sul Televideo Rai posso cercare gli orari dei treni Roma-Torino, ma non quelli del vagone letto che unisce Londra a Edimburgo, perché sul Televideo non ci sono e non c’è un sistema di rimandi che mi guidi fino a trovare la soluzione. Non è collegato ad altre fonti di informazione, ma autosufficiente e quindi molto parziale.
Internet non è solo una banca dati dedicata a un particolare tema (i film in programmazione o gli orari degli uffici comunali), ma permette di esplorare moltissime tipologie di dati diversi saltando, grazie al sistema a finestre, dall’una all’altra. Trovare l’orario dei treni Roma-Torino è altrettanto semplice che trovare gli orari dei battelli della baia di Sidney in Australia. Inoltre è interattiva: posso consultare l’orario ma anche acquistare il biglietto. Confrontandola con altre banche dati, non solo in Internet, si trovano molte più informazioni, ma la facoltà di inserire nuovi dati tende ad essere largamente distribuita e a comprendere gli utenti.
Internet infatti è un sistema aperto, in cui è facile collaborare, esprimersi, aprire un proprio sito. Un dizionario è un sistema chiuso, in cui un gruppo di importanti professori, che lo dirige, decide se includere o no una nuova parola nella prossima edizione. I sistemi aperti hanno capacità di mobilitare energie esterne mentre i sistemi chiusi valorizzano équipe professionali competenti e ristrette. I primi hanno capacità di rilevazione delle novità molto più ampie, anche perché nella loro varietà le opinioni, i pregiudizi, le disattenzioni dei singoli tendono a compensarsi a vicenda, mentre un gruppo omogeneo (come la redazione di un dizionario) spesso ha criteri di valore comuni e orientati, che tendono a rimanere costanti nel tempo e sono progressivamente esposti al rischio di distorsioni, accentuati ancor più se il gruppo è gerarchico e costruito attorno a una forte personalità.
I sistemi aperti hanno un grosso difetto: la qualità dei dati, poco controllata, ha un livello di competenza e di attendibilità molto inferiore. Tuttavia la capacità di aggiornamento dei dati di un sistema aperto è elevatissima, anche perché ciascuno può continuamente modificare i dati immessi da un altro. Esistono enciclopedie in rete, come Wikipedia, in cui può capitare di cercare una voce, non trovarla ed essere invitati a scriverla. Con lo stesso sistema è possibile aggiungere elementi a una voce scritta da altri, o correggerne gli errori. In un sistema chiuso invece ogni variazione deve essere accettata dal gruppo redazionale.
È sempre necessario un lavoro di verifica, confrontando fonti diverse e selezionando quelle più autorevoli. Quasi tutto ciò che vediamo in un sito Internet è facilmente copiabile, riproducibile e modificabile. Ciò ha cambiato profondamente il lavoro di chi deve scrivere un libro o un articolo di giornale. Ma non sempre in bene: prelevare con il copia-e-incolla da Internet non è la stessa cosa che fare una ricerca in biblioteca, cioè su testi certificati, anche se è più facile: non dobbiamo fare nemmeno la fatica di trascrivere. Spesso il materiale che preleviamo è di cattiva qualità, nasconde fini promozionali, o è distorto per motivi politici o di altra natura. Internet è sicuramente un territorio di libertà ma il suo uso inappropriato può abbassare la soglia del pensiero critico.
La commercializzazione di Internet ha accompagnato la sua crescita continua nella seconda metà degli anni Novanta. Se un villaggio sperduto diventa una città, giungeranno spontaneamente da ogni parte venditori, affaristi, banchieri, predicatori per offrire la più ampia gamma di servizi, sempre meno precari man mano che la città si consolida. È un paragone un po’ da Far West, ma funziona.
Un numero crescente di grandi organizzazioni (specie provenienti dal mondo delle telecomunicazioni e dello spettacolo) si è avvicinato a Internet in questo periodo non solo per offrire i propri servizi, ma anche alla ricerca di popolarità, cercando in particolare che l’immagine giovane, attiva e tecnologica di Internet si proiettasse su di loro. Così facendo, si sono messi sulla strada della cattura di un pubblico più largo, con qualche analogia con quello che da sempre fanno la televisione e la pubblicità. I loro siti si sono presto allontanati da una riduttiva concezione di «sito vetrina» delle rispettive organizzazioni, avvicinandosi al modello dei portali.
I portali sono siti web particolarmente complessi, nei quali viene fornito un vero mosaico di informazioni, non strettamente attinenti all’organizzazione che ha lanciato il sito: ultime notizie, repertori vari di curiosità e hobby, oroscopi, lunghi menu di link per aiutarci nelle situazioni più varie (dall’organizzazione di un viaggio al commercio elettronico, agli spettacoli), consigli su argomenti più o meno futili, contenuti da scaricare quali musica, programmi o suonerie per cellulari. Inoltre si offre la possibilità di avere un proprio indirizzo di posta elettronica, consultando preferibilmente la corrispondenza dal portale stesso. Il portale più diffuso è ancora oggi Yahoo, fondato nel 1994 da Jerry Yang e David Filo, studenti dell’Università di Stanford.
Il trasparente motivo di tutta quest’abbondanza gratuita è convincere gli utenti a fare di questi siti la pagina iniziale, cioè quella che appare non appena si lancia il proprio browser. Come suggerisce la parola «portale», si tratta di una porta di ingresso a Internet che suggerisce più o meno pesantemente itinerari ulteriori, abbondantemente sponsorizzati.
Il tentativo è sostanzialmente quello di ritagliare all’interno degli utenti di Internet, diventati massa, un’ampia nicchia unita da interessi omogenei e da un profilo interessante per la pubblicità, offrendo loro alcuni servizi e sperando di essere molto visitati. Nella seconda metà degli anni Novanta sono infatti apparsi dei contatori software che permettono di calcolare tutti gli accessi a un sito (alcuni contatori fanno bella mostra di sé in siti che mostrano orgogliosamente il numero delle pagine visitate), di elaborare tutte le statistiche del caso e soprattutto di capire chi sono i visitatori. Spesso per ottenere i servizi più banali è necessario registrarsi nel sito; l’utente ottiene un «username» e una «password» per accedere a pagine dedicate e così facendo fornisce consensualmente informazioni su di sé.
Sfugge ad alcuni di noi che i nostri privati vagabondaggi su Internet sono tracciabili anche dai gestori dei singoli siti, non solo da grandi organizzazioni più o meno spionistiche. Anche se non compriamo nulla e non usiamo la carta di credito, il percorso dei nostri itinerari, la scelta di pagine e siti che abbiamo compiuto dice abbondantemente chi siamo e riferisce sui nostri gusti e le nostre propensioni. Non ci riferiamo tanto a ipotesi di controllo politico, ma più prosaicamente a un’utilizzazione pubblicitaria, esplicita o implicita. Spesso qualcuno traccia il nostro profilo di possibile cliente, incrociando i dati delle nostre frequentazioni e dei nostri acquisti. Sono utilizzazioni dei dati illecite, a meno che non abbiamo dato esplicitamente il nostro consenso a usarli: la legge italiana sulla privacy13 è particolarmente severa nel colpire l’uso indebito delle informazioni che noi forniamo, per usi diversi da quelli per cui le abbiamo date, ma la natura transnazionale di Internet e la sua volatilità (un sito oggi c’è, domani non c’è più) non aiuta a reprimere questi abusi, mentre gli uffici legali delle grandi società commerciali studiano utilizzazioni dei dati (e dichiarazioni da far sottoscrivere ai loro clienti) che rientrino nella legalità. Il profilo dei clienti è per il marketing un capitale troppo prezioso per arrestarsi di fronte a un divieto.
Allo stesso tempo ha fatto la sua comparsa in Internet, sempre più abbondantemente, la comunicazione d’impresa. Il «banner» (letteralmente «striscione») che reclamizza una determinata merce come fa un cartellone stradale, ma differentemente da esso può essere cliccato conducendoci nel sito di chi produce o vende quella merce, è una forma pubblicitaria esplicita. L’ipertesto dagli originari utilizzi nella letteratura e nella ricerca si è rapidamente adattato alle necessità dei pubblicitari. Altrettanto espliciti sono i «pop up», riquadri non richiesti che si aprono suggerendoci comportamenti di consumo e che sono anch’essi cliccabili. Sono più fastidiosi perché ostruiscono la vista della pagina che ci interessa e dobbiamo chiuderli e rifiutarli per arrivare a quello che cercavamo.
Come nei giornali, tuttavia, vi sono forme implicite (e per questo insidiose e meno corrette) di pubblicità redazionale, cioè travestita da informazione neutra, mentre in realtà reclamizza un prodotto o una marca. Un’altra pratica diffusa riguarda i link, che talvolta sono sponsorizzati e questo non viene detto quasi mai. Un collegamento sponsorizzato è in pratica un «consiglio per gli acquisti»; di fronte a un link dobbiamo sempre mettere in conto che comprenda un’attività promozionale più o meno pronunziata e pagata. La registrazione dei passaggi su un sito non soltanto dà elementi utili per profilare i possibili clienti ma anche per valutare l’efficacia della pubblicità e, di conseguenza, determinarne le tariffe.
Gli originari dubbi sulla redditività della pubblicità in Internet si sono largamente dissolti, ma i portali non ne sono stati i maggiori beneficiari. Sono troppi, e inoltre urtano contro un certo bricolage individualista della rete: mentre per comprare un detersivo al supermercato posso lasciarmi suggerire la marca dalla pubblicità televisiva, se devo organizzare un viaggio in Puglia su Internet preferisco guardare i siti dei singoli Bed & Breakfast, piuttosto che consultare un portale turistico che vuole darmi la sua verità (e i suoi pacchetti di viaggio confezionati). Dalla rete, insomma, mi aspetto qualcosa di più interattivo e meno unidirezionale (e la pubblicità quasi sempre lo è). Rispetto al portale, un motore di ricerca appare una risorsa molto più fornita e flessibile, anche se dà spazio a contenuti sponsorizzati. Con la crescente egemonia di Google e la sua grande versatilità i motori di ricerca hanno preso il posto che i portali speravano di tenere per sé. Intanto non si annotano più gli indirizzi dei siti che ci servono (ciò che pomposamente si era cominciato a chiamare “webgrafia”, anche nelle tesi di laurea): conviene di più (è più aggiornato e più rapido) cercare direttamente su un motore di ricerca ciò che interessa.
Se i siti web rappresentano prevalentemente la fase pubblica di Internet, la posta elettronica può definirsi la sua fase privata. Ciò vale in linea generale, con molti distinguo: posso realizzare un sito Internet la cui home page richiede perentoriamente, per proseguire, una password complicatissima che tengo solo per me, e utilizzare questo sito come archivio di documenti riservati. Un sito del genere si inquadra difficilmente nella fase pubblica di Internet. Posso anche fare incetta di indirizzi di posta elettronica e mandare a centinaia di sconosciuti messaggi pubblicitari di orologi finto-Rolex o farmaci miracolosi: una pratica ritenuta scorretta e contraria alla buona educazione in rete («netiquette»14) e ormai anche alla legge15, ma ciò nonostante diffusissima. Difficile proprio per questo non definirla pubblica.
Inviando un messaggio di posta elettronica a un interlocutore, tramite un programma di posta elettronica (Outlook Express, Eudora, Thunderbird), esso viene recapitato al server del destinatario che lo conserva finché il destinatario non lo scarica sul proprio computer. È quindi un tipo di comunicazione asincrona, che permette una risposta in tempo differito. Con la stessa fatica con cui si manda un messaggio a una persona, si può mandarlo a cento; il programma di posta contiene una rubrica di indirizzi di corrispondenti abituali e permette anche di creare gruppi di destinatari. Digitando il nome del gruppo si invia automaticamente l’email a tutti i suoi membri: è quindi facilissimo rispetto a scrivere, stampare, piegare, imbustare e affrancare centinaia di lettere. Inoltre, si può mandare messaggi per conoscenza (cc, carbon copy), oppure in forma nascosta agli altri destinatari (bcc, blind carbon copy).
L’estrema facilità con cui è possibile inviare un messaggio, in qualunque momento, a un numero elevato di destinatari a costi vicini allo zero produce una grande ridondanza comunicativa. L’abitudine di inviare tutto a tutti, da lodevole intento di trasparenza, può diventare eccessiva. Inoltre, tenendo conto che ogni messaggio riproduce quello a cui risponde, che magari a sua volta replicava a un altro, e così via, si rischia sempre che il messaggio raggiunga persone non desiderate o riveli qualche dettaglio che era meglio non divulgare. Bisogna pensarci prima, perché basta un clic e l’email, inesorabile, non richiamabile, raggiunge subito i suoi destinatari più o meno graditi.
La posta elettronica rappresenta dunque un canale meno formale della posta via terra; ad esempio, se nel messaggio ci sono delle abbreviazioni o anche degli errori di ortografia nessuno si scandalizza. Qualcuno – ma è usanza da non seguire – addirittura non si firma, perché si ritiene identificato dal suo indirizzo di mittente. Le pubbliche amministrazioni cercano di sostituire la corrispondenza cartacea con quella elettronica e hanno introdotto anche la «firma digitale» per certificare comunicazioni che facilmente potrebbero essere falsificate16. Nell’uso corrente la posta elettronica rappresenta una comunicazione scritta, ma informale e non del tutto impegnativa. È molto più veloce della posta via terra, che è sempre più limitata alle lettere, in cui un livello di ostentata formalità e di materialità cartacea è ritenuto necessario (una fattura, una domanda, un sollecito, una protesta, ma anche una partecipazione di nozze). L’email è anche assai meglio gestibile del telefono, in cui il carattere sincrono della comunicazione determina un’immediata risposta, di cui magari non abbiamo ancora gli argomenti necessari. Forse non desideriamo una risposta, ma soltanto unilateralmente esprimere i nostri argomenti. Qualcuno che non vuol partecipare a una riunione, e non vuole affrontare una discussione per telefono, troverà molto conveniente inviare una email giustificando la propria assenza per vaghi motivi personali o di lavoro.
Figlia delle Bbs e delle chat, l’email ha quasi sempre un tono informale, ammette acronimi, abbreviazioni, emoticon e icone ed è quanto mai tollerante rispetto a errori di ortografia e sintassi che farebbero alzare le sopracciglia in una lettera cartacea. Tutto suggerisce che l’email comunichi un impegno limitato, una partecipazione condizionata: meno cogente di un messaggio scritto, più capace di occultare le intenzioni del destinatario rispetto a una conversazione telefonica. In fondo, non si è nemmeno sicuri che l’email sia stata letta proprio dal destinatario, e non da qualche segretario, collaboratore, marito geloso. Infatti, come poi avverrà con i cellulari, moltissimi utenti Internet si dotano di molteplici indirizzi. Essi in parte rispondono a una necessità di risparmiare con l’uno o l’altro gestore di connessione; ma servono anche a distinguere la posta lavorativa da quella di casa, quella personale e intima da quella con amici e conoscenti.
Anche questa moltiplicazione di se stessi, assegnando a ciascun indirizzo una parte limitata della propria personalità, suggerisce un tipo di collegamento con il mondo che è parziale e necessario (essendo noi esseri sociali), ma non illimitato e coercitivo. Viene ribadita così la netta collocazione della posta elettronica nella sfera privata, come può illustrare questa contrapposizione: se ho un sito web, il mio desiderio è che lo vedano più persone possibile. Se mando una email, ho il problema opposto, cioè che la sua privatezza possa essere violata. Ad esempio si può far circolare in posta elettronica presso un gruppo di referenti abituali un messaggio chiedendo loro di aderire a un appello per qualche nobile causa, o di protestare contro qualche scempio o ingiustizia. Ricevere per email due righe stereotipate con l’adesione di qualcuno ci autorizza a considerarlo tra i firmatari, ma che garanzia abbiamo di un suo effettivo impegno, di una sua convinta partecipazione? Nessuna. Mai nella storia le persone sono state così facilmente raggiungibili, e mai così inafferrabili.
La posta elettronica è diventata così la più diffusa tra gli usi della rete, la vera «killer application» di Internet. Per i suoi vantaggi pratici sicuramente, ma anche perché particolarmente adatta, come la telefonia cellulare, alle caratteristiche plurime e sfuggenti del genere umano contemporaneo: rapida ed efficiente, capace di lasciare una traccia scritta, ma anche meno impegnativa di una comunicazione faccia a faccia o almeno sincrona. Tollerante con abbreviazioni ed errori in nome della sua natura privata, si affaccia però ripetutamente sulla scena pubblica.
Internet rappresenta dunque una grande espansione della libertà e della sfera privata e, contemporaneamente, un nuovo territorio in cui possono compiersi abusi e reati. Ottenere un indirizzo di posta elettronica o realizzare un sito è impresa accessibile a quasi tutti, le formalità e i costi sono ridotti al minimo e non c’è bisogno di concessioni o autorizzazioni. La pubblicazione di un giornale, ad esempio, in Italia è libera ma richiede l’iscrizione al Registro della stampa presso il Tribunale: una pratica che può essere onerosa e richiedere la direzione del periodico da parte di un giornalista iscritto all’Albo. Se gli stessi contenuti sono inseriti in un sito Internet, di fatto tale registrazione non è necessaria: la rapidità di diffusione di Internet ha precorso ogni legislazione in proposito e ogni eventuale intento repressivo, creando un insieme di fatti compiuti da cui non era più possibile recedere.
Il diritto alla comunicazione e la libertà di esprimere il proprio pensiero si sono così rafforzati, ma è cresciuto anche il diritto di associarsi liberamente, perché non è difficile aprire un sito in un paese diverso dal proprio, quando ci sono tentazioni autoritarie. Vi sono tuttavia abusi, prevaricazioni e reati. Si divulgano contenuti non proprio raccomandabili; la pornografia è fin dall’inizio una componente primaria di Internet17, sia come diffusione (gratuita o a pagamento) di foto e video, sia come modo per realizzare l’incontro fra domanda e offerta. La pedofilia continua a fare un triste uso di questa possibilità.
Il fanatismo politico estremista e il terrorismo si avvalgono di Internet con siti propagandistici, per la loro comunicazione interna (criptata) e per le rivendicazioni di attentati. Nell’Italia degli anni Settanta le Brigate rosse scrivevano i comunicati con una macchina da scrivere Ibm e li facevano trovare nelle cabine telefoniche18; oggi la forma più efficace di rivendicazione è la pubblicazione di un video su un sito Internet con accorgimenti che impediscono di riconoscere chi ha messo in rete il materiale. La ritrasmissione del video sulle televisioni del mondo è sicura e ottenuta gratuitamente e senza sforzo.
Vi è poi tutta una serie di frodi e di truffe che in gran parte discendono dal fatto che su Internet si fa largo uso di denaro. La modalità per il pagamento, che ormai tutti conoscono e che fu sperimentata per la prima volta dal Minitel francese negli anni Ottanta, è quella di fornire gli estremi di una carta di credito. Essa si colloca in un processo sempre più rapido di virtualizzazione del denaro. Le carte di credito nascono nel 1950 in America19 e si diffondono rapidamente: allontanando il momento del pagamento fisico, rendono il cliente meno timido negli acquisti. Nel 1969 viene inventata la banda magnetica in cui sono raccolti i dati della carta, che dovrebbe aumentare la sicurezza delle transazioni e le difficoltà di contraffarla. Il Bancomat (Atm, Automatic Teller Machine) nasce nel 1973, un classico esempio di rete informatica che collega tutte gli sportelli automatici di una banca e poi quelli di tutte le banche, come avviene in Italia dal 1983. Dal 1989 abbiamo anche il Pos (Point Of Sale Terminal), che ci permette di acquistare in un negozio digitando il codice segreto (pin, Personal Identification Number) del Bancomat.
In Internet la possibilità di pagare con la carta di credito permette lo sviluppo dell’e-commerce, cioè l’acquisto per corrispondenza in rete, ma ha permesso anche una variopinta tipologia di frodi che si fondano tutte sull’acquisizione illegale dei dati di una carta per poi usarla in transazioni truffaldine, o sull’addebito sul conto di somme molto superiori a quelle richieste. L’acquisizione dei dati può avvenire anche attraverso la posta elettronica, con una falsa email che sembra provenire dal sito di una banca o della società che emette la nostra carta di credito, e che richiede numeri di carta di credito, password, pin e altre informazioni personali. Questa tecnica, detta «phishing»20, può comprendere il collegamento a un sito web falso, apparentemente uguale al sito ufficiale di una banca o altra istituzione riconosciuta21, nel quale gli ingenui, rassicurati dalla confidenza con il sito, immettono informazioni ancora più riservate. Altri tipi di truffe sono probabilmente in corso di elaborazione, grazie a una vivace fantasia criminale.
Il commercio elettronico ha conosciuto un grande sviluppo dal 1997 al 2000, insieme alla crescita vertiginosa delle società operanti in Internet (dot-com) e quotate in borsa. Così si è formata la «bolla speculativa» di Internet (dot-com bubble), con un’accentuata speculazione sulle azioni di ciò che sembrava un nuovo Far West. In realtà molte società offrivano servizi in perdita pur di conquistare una quota del mercato on line, convinti che i profitti sarebbero venuti poi. Il listino telematico della borsa di New York (Nasdaq) raggiunse il suo massimo nel marzo 2000, poi cominciò a precipitare, in significativa coincidenza con la condanna di Microsoft per violazione della legislazione antitrust, il 3 aprile 200022. Un ulteriore colpo fu l’11 settembre 2001. Molte società morirono e quelle rimaste divennero più caute. Gradualmente, verso il 2004, la crisi fu riassorbita.
Internet, inoltre, non arriva dappertutto e a tutti. L’insieme delle disuguaglianze che frenano l’accesso a Internet e più in generale alle nuove tecnologie dell’informazione, e ne limitano e condizionano le utilizzazioni, è chiamato divario digitale (digital divide).
Nella prima fase di Internet, mentre cresce in modo rapido la «net economy», gli osservatori erano generalmente ottimisti: Internet, per il solo fatto di diffondersi nel mondo, avrebbe sicuramente ridotto le disuguaglianze culturali, sociali ed economiche. Verso il 1999 si comincia a pensare che Internet non solo non abbatte le disuguaglianze, ma potrebbe aggravarle, dato che proprio coloro che si trovano in condizioni sociali migliori hanno, con Internet, la possibilità di crescere ancora23.
Non si tratta soltanto di accedere a Internet, ma di molte altre attività che qui esemplifichiamo: disporre di una connessione sufficientemente veloce ed economica e del denaro necessario ad attivarla; non essere sottoposti a censure per quanto riguarda l’accesso, l’uso, la possibilità di realizzare propri siti o di accedere a determinati contenuti. Inoltre la lingua franca di Internet è l’inglese e quindi la conoscenza di questa lingua è una discriminante molto forte.
A livello internazionale, la cittadinanza di un paese del primo mondo appare la prima condizione che favorisce l’accesso e l’uso di Internet. A livello sociale, le variabili che sembrano più incidenti sono il genere, l’età, l’istruzione, la regione geografica di appartenenza, la residenza in zone urbane piuttosto che in zone rurali o montane, isolate, insulari. E ancora il reddito, l’etnia, la struttura familiare (che consente tempo, spazi e autonomia per Internet), la condizione di lavoro (gli impiegati sono molto più vicini a Internet degli agricoltori, degli operai, degli artigiani).
A parità di reddito e di condizioni, alcuni paesi si muovono meglio di altri e questo suggerisce che il digital divide è determinato da molti i fattori, fra cui le politiche dei vari Stati su questo tema, che possiamo chiamare con termine inglese la governance di Internet.
Le tariffe delle telecomunicazioni sono un prerequisito per la diffusione di Internet. I paesi che hanno ammesso la concorrenza fra vari operatori telefonici (con conseguente caduta delle tariffe) hanno tassi di penetrazione di Internet più elevati, al pari di quelli, come l’India, che sviluppano l’istruzione tecnica.
A prima vista sembrerebbe che la diffusione di Internet fosse correlata positivamente con la democrazia politica, ma alcuni regimi autoritari in forte sviluppo economico sono interessati alla diffusione di Internet per rafforzare la loro presenza sui mercati. Sintomatico il caso della Cina, che per la propria crescita economica ha bisogno di una grande diffusione di Internet ma contemporaneamente teme gli effetti politici dell’esposizione della sua popolazione a contenuti democratici e antigovernativi che circolano sulla rete. La vertenza tra Google e il governo cinese, che si è conclusa con l’accettazione di un filtro governativo sul motore di ricerca, ha evidenziato questa contraddizione. Google ha preferito subire questa forte limitazione che precludersi il promettente mercato cinese.