1.
Un orizzonte da immaginare
Un breve preludio
Potrei iniziare da qualcuno che non c’è. Il racconto di una vita immaginaria in cui
racchiudere tutte le vite possibili delle quali si possa avere traccia o memoria in
questa città. Un triestino assoluto, per così dire, un’identità fittizia in grado
però di restituire con il suo vissuto, il suo carattere e personalità, la sua storia,
le mille sfaccettate identità di Trieste. Penso a una biografia multiforme, cangiante
nei colori e nelle combinazioni, come la figura di un caleidoscopio in continuo mutamento,
schegge luminose che inseguono un disegno all’apparenza ordinato, ma sempre imprevedibile
e sfuggente.
Secondo E.B. dovrei smetterla con queste fissazioni. Lei è convinta che in fondo ogni
luogo non sia poi così diverso da un altro. Credi davvero che Trieste sia tanto speciale?,
mi ha chiesto due giorni fa accarezzando uno dei mappamondi di cui ama circondarsi.
Con una piccola spinta della mano ha lasciato girare la sfera geografica, fino a bloccarla
con l’indice in un punto a caso. Se fossimo qui, ha detto, saremmo altro da ciò che
siamo?
Le ho risposto di sì, che diamine, siamo il frutto della terra in cui viviamo, abitiamo
il mondo condizionati dal clima, dal paesaggio, dagli odori, dalla gente. Lei invece
pensa di no. Siamo una specie migrante, ha detto E.B., strappiamo le nostre radici
e le piantiamo altrove, per quanta fatica e sofferenza possa costare, seminiamo campi
lontani, ogni luogo su questo globo ha il significato che noi gli diamo. Perciò –
ha detto E.B. facendo girare ancora il mappamondo – a ben guardare Trieste, questo
puntino insignificante all’estremità nordorientale del Mediterraneo, questo frammento
di terra che è un po’ Europa e un po’ no, imbrigliato tra mutevoli frontiere, incuneato
nell’ansa di un piccolo golfo che non lo protegge né lo ha mai protetto dalle intemperie
della Storia, ebbene, questo minuscolo agglomerato di gente non ha proprio niente
di speciale rispetto che so, a qui o a qui, ha detto E.B. indicando due punti a casaccio
sul globo di plastica.
E.B. ha le sue ragioni, essendo nata e vissuta a Trieste. Ma questa non è la mia città,
la mia storia non parte da qui, per cui ho tutto il diritto di giudicare a piacere
le specialità dei suoi paesaggi e delle sue anime, nel momento in cui sono chiamato
a stilare un repertorio ragionato della gente di Trieste. Un repertorio in ordine
alfabetico, come si conviene a ogni dizionario biografico. Oppure no. Forse meglio
un formulario cronologico, dal presente al passato. O dal passato al presente?
Potrei cominciare dal tempo degli antichi Romani. Per esempio dal primo insediamento
stabile dei legionari sull’altura del Monte Grociana, a due passi da Trieste, il castrum di cui parla Tito Livio nelle sue cronache Ab Urbe Condita.
Ma c’erano altre genti insediate lì ancora prima, negli oscuri inizi di questa città,
forse un castelliere preistorico sul colle di San Giusto, dove oggi svettano il vecchio
castello e la cattedrale, località nominata per la prima volta dal geografo greco
Artemidoro di Efeso nel primo secolo a.C.
Genti miste, già allora. Cento anni più tardi un altro geografo, Strabone, parlò di kome karnike, un villaggio carnico abitato appunto dai Carni, popolo celtico calato nelle pianure
friulane tra il quinto e il quarto secolo a.C. per dividere i Paleoveneti dagli Istri,
o gli Illiri secondo le fonti classiche. Non ci volle molto perché le popolazioni
celto-carniche si incrociassero con gli istro-illiri già presenti nelle terre affacciate
sul mare in attesa che arrivassero i Romani. Le legioni in marcia alla conquista del
mondo si erano acquartierate prima ad Aquileia, fermandosi alla foce del fiume Timavo,
e poi, con un balzo, erano penetrate nella penisola d’Istria, distruggendo Nesazio,
la capitale degli Istri, dove il re Epulo si uccise per non vedere la sua terra militarmente
e stabilmente occupata.
Era il 177 a.C., e tutti questi miscugli di genti, e queste guerre e occupazioni di
terre, suonano come qualcosa di non così remoto. Essendo la Storia nient’altro se
non una ripetizione variamente combinata di azioni dell’uomo nel tempo e, come nel
disegno animato di una figura osservata nel caleidoscopio, le sue vicende evolvono
secondo una struttura a frattale, che ripete le sue forme all’infinito, mai uguali
e sempre uguali nel tempo.
Penso ai drammi del Novecento, così vicini che li puoi ancora toccare, le cicatrici
dolenti di due guerre mondiali, Trieste occupata tre volte nel giro di pochi anni
– nazisti, jugoslavi, angloamericani –, tutti gli intrecci delle diverse anime – italiana,
tedesca, slava – in una città che fino a ieri era parte e porto dell’Impero asburgico,
poi del Regno d’Italia.
Terra sempre in balìa di un confine mobile, così mobile che oggi non c’è più ma c’è
ancora, assorbito dalla nuova Europa unita eppure ancora lì con le sue tracce fatte
di valichi abbandonati, ruderi di casermette e torrette di guardia, simboli di quella
che è, e rimane, una marca di frontiera.
Se mi sentisse E.B. direbbe che ripeto sempre le stesse cose, incapace come sono di
vivere il presente per quello che è, e quindi interpreto il passato secondo vecchi
schemi. Forse ha ragione, rimugino mentre mi appresto a lasciare il mio scrittoio,
la mia stanza degli spiriti, per uscire a schiarirmi le idee.
Guardo l’orologio e il calendario: è il 7 di maggio, sono le 8.30 di un fresco mattino
primaverile, l’aria qui sull’altopiano è frizzante, piena di promesse, come quando
si è in partenza per un viaggio verso luoghi e genti da conoscere.
Prendo l’auto e dalla mia casa sul Carso scendo verso il centro urbano lungo la via
Commerciale, la strada che collega direttamente la città con l’altopiano, là dove
un tempo le merci salivano faticosamente dalle trafficate banchine del porto fino
a raggiungere la strada per Vienna, per marciare direttamente dal mare al centro dell’Europa.
Sto ancora pensando alla biografia immaginaria di un immaginario personaggio in grado
di aiutarmi a capire meglio la gente di Trieste. In tasca ho un taccuino Moleskine
ancora intonso che mi ha regalato E.B. per prendere appunti. Che sia di buon auspicio
per il tuo nuovo lavoro, mi ha detto. Non l’ho ancora neppure aperto.
Arrivo in città e mentre percorro in auto le Rive, le quattro corsie lato mare che
seguono la costa urbana, in cerca di un difficile parcheggio, noto ormeggiata al Molo
Bersaglieri, accanto all’edificio della Stazione Marittima, una nave rompighiaccio.
Si erge imponente con il suo scafo verniciato di rosso, e sfoggia una certa aria di
sfida, come a dire: sono per un momento tornata a casa, ma ho altro a cui pensare,
il mio posto non è qui ma fra gli immensi ghiacci dei poli artici e antartici che
il riscaldamento globale sta sciogliendo.
La nave si chiama Laura Bassi: è la nuova unità di ricerca dell’Istituto Nazionale
di Geografia e di Geofisica Sperimentale, per tutti il Geofisico, una delle eccellenze
del Sistema Trieste, l’insieme di enti tecnologici e di ricerca che fa della città
uno degli agglomerati scientifici più blasonati del mondo.
Prima di lei c’era la motonave Explora. Anzi c’è ancora, più piccola e ormai troppo
vecchia e quindi degradata da nave da esplorazioni antartiche a unità da ricognizioni
mediterranee. L’Explora ha un posto tutto suo nell’immaginario dei triestini. Solca
i mari per conto del Geofisico, dal 1989, ha compiuto una decina di campagne nell’ambito
del Programma nazionale di ricerca in Antartide, e ogni volta che tornava alla base
a Trieste, stanca e con i segni di ruggine sullo scafo, si portava dietro una ventata
di atmosfera polare. Vederla ormeggiata alle Rive, magari d’inverno in una giornata
di bora chiara, con il mare azzurro ghiaccio e la catena delle Alpi Giulie innevate
sullo sfondo, i gabbiani infreddoliti impegnati a contrastare le raffiche di vento,
dava l’impressione di non essere là dov’era, nell’angolo più settentrionale del tiepido
Mediterraneo, ma all’estremo Sud del pianeta, fra immensi iceberg e saltellanti pinguini.
Adesso a portare i profumi antartici ci penserà la Laura Bassi, ex Ernest Shackleton,
il grande esploratore. Lei, Laura, è stata la prima scienziata al mondo a ottenere,
nel 1732, una cattedra universitaria. Ora il suo nome brilla sullo scafo della rompighiaccio
sotto quello cancellato di Shackleton, in verità decisamente più titolato della Bassi
a bazzicare l’Antartide. Ma non importa, la scienza è scienza, e la nostra Laura è
giusto porti in giro per gli oceani il suo primato.
Finalmente trovo un parcheggio a pagamento proprio davanti alla Stazione Marittima.
A quest’ora la frenesia del mattino si quieta, a Trieste è il momento della prima
pausa caffè, anche chi non partecipa al rito collettivo sente di dover darsi una calmata
per continuare bene la giornata. Scendo dalla macchina, pago una fortuna per il ticket
giornaliero, e resto lì impalato a contemplare la prua della Laura Bassi. Al momento
è l’unica nave da ricerca oceanografica italiana capace di operare nei mari polari
facendosi strada baldanzosa nel ghiaccio fino a mezzo metro di spessore.
Mi guardo intorno chiedendomi se il suo scafo tozzo, così straniero, non stoni con
lo skyline della città. Qui alla Stazione Marittima attraccano solo navi bianche,
gli orribili transatlantici a quindici ponti che infestano i mari, oppure grigie
e longilinee unità militari. O anche lussuosissimi yacht d’altura color canna di fucile.
Ma navi glaciali rosse non se ne vedono.
Eppure Laura Bassi qui ci sta benissimo. Perché Trieste è città di esploratori e viaggiatori,
gente che ama spingersi oltre l’orizzonte del golfo, e con i due poli estremi del
globo è legata da un’antica consuetudine. Mi viene in mente il Museo Nazionale dell’Antartide,
situato nel comprensorio dell’ex Ospedale psichiatrico di San Giovanni, che molti
triestini non sanno nemmeno che esista, e invece c’è e racconta storie di pionieri
quali Robert Falcon Scott, Roald Amundsen, Ernest Shackleton più quelle degli esploratori
italiani dagli inizi del Novecento ad oggi.
A un tratto capisco che non servirà inventarsi biografie inesistenti per eleggere
un degno rappresentante di questa città. Ci sono personaggi che da soli sono capaci
di rappresentare una o più delle sue tante anime, anche se a volte la Storia li ha
messi da parte.
Ecco, dovendo stilare un dizionario delle genti di Trieste, potrei iniziare dai viaggiatori
ed esploratori triestini che hanno speso la vita dietro un orizzonte da immaginare.
Allora è dalla lettera W che dovrei cominciare. Il primo sarebbe senz’altro l’esploratore
polare Carl Weyprecht.
Perduto fra i ghiacci
«Il 20 maggio, dopo la cena, le imbarcazioni si metteranno in viaggio. Per approfittare
del caldo si riposerà nelle ore del giorno, e si viaggerà durante quelle della notte.
Ogni sera prima di mettersi in viaggio ognuno metterà il vestito da dormire in un
fagotto, e lo legherà sotto il rispettivo banco. Non si partirà senza che ognuno abbia
fatta la necessaria pulizia del corpo. Si mangerà due volte al giorno, cioè prima
della partenza e prima del riposo. Durante la marcia si riposerà una volta, e si spartirà
una razione di cioccolata per ciascuno».
È la primavera del 1874, e gli uomini della spedizione polare guidata da Carl Weyprecht
si apprestano a lasciare la nave che li ha portati fin nel cuore dell’Artico, la Admiral
Tegetthoff, da mesi incastonata su un piedistallo di ghiaccio alto otto metri cresciuto
durante l’inverno, senza alcuna possibilità che un giorno torni a navigare.
Molti ancora non lo sanno, o lo hanno dimenticato, ma c’è un triestino all’origine
della moderna cooperazione scientifica internazionale. Carl Weyprecht, tedesco di
nascita ma cittadino triestino d’adozione per sua esplicita richiesta, ufficiale della
Marina militare austroungarica, esploratore polare, geofisico, scienziato, fu il promotore
dell’Anno polare internazionale, che ha oltrepassato il secolo e mezzo di vita all’insegna
di una ricerca senza confini.
Fu Weyprecht, in occasione del secondo congresso di meteorologia del 1879 a Roma,
a presentare il progetto che prevedeva la costituzione di una commissione diplomatica
internazionale per la realizzazione della prima rete di stazioni di ricerca al Polo
Nord e al Polo Sud, l’avvio di una collaborazione scientifica mondiale che oggi ha
proprio nella città di Trieste uno dei suoi principali punti di riferimento.
A Trieste non c’è nemmeno una via intitolata a Carl Weyprecht, che è stato uno dei
più grandi esploratori del diciannovesimo secolo, nemico giurato dei nazionalismi
e scienziato dalle idee moderne e innovative. Non solo: Weyprecht fu uno dei primi
a vedere nella città di Trieste – per la sua storia, la sua posizione, il suo carattere,
le sue istituzioni scientifiche legate al mondo del mare – un luogo ideale per la
promozione e lo sviluppo di una ricerca di respiro internazionale. E fu a Trieste
che Weyprecht ideò la sua impresa più famosa, la drammatica spedizione polare austroungarica
del 1872-74 a bordo della nave Admiral Tegetthoff, che avrebbe portato un pugno di
uomini – quasi tutti triestini, istriani, fiumani e dalmati – per 812 giorni nell’inferno
di ghiaccio del Polo Nord, alle prese con temperature fino a -50 gradi, aggressioni
di orsi polari, tempeste di neve, pericoli di ogni genere. Un’autentica odissea che
costò la vita al macchinista della nave, Otto Krisch, ma che portò alla scoperta del
lembo più settentrionale d’Europa, la Terra di Francesco Giuseppe, e diede un impulso
fondamentale alle ricerche polari.
Quando Weyprecht – comandante della spedizione assieme a Julius Payer – tornò con
i sopravvissuti in Europa dopo una marcia fra i ghiacci al limite dell’umano, fu accolto
da trionfatore, a Vienna come a Trieste.
Cocciuto, intraprendente, legato alla famiglia ma spirito inquieto, Carl Weyprecht
nasce a Darmstadt l’8 settembre 1838. Figlio di un avvocato di corte cresce nell’ambiente
altoborghese nella boscosa regione dell’Odenwald, nel cuore dell’Europa. Qui Weyprecht
matura presto una sfrenata passione per il mare – che non ha mai visto – leggendo
i libri di Carl Heinrich von Görz, membro della Prima Camera del Granducato, facoltoso
politico che nel 1844 si era preso lo sfizio di imbarcarsi e fare il giro del mondo.
Quando von Görz tornò a casa, raccontò le sue avventure in un libro a più tomi, e
di certo frequentò gli ambienti cortigiani dove cresceva il piccolo Weyprecht, che
rimase affascinato da quell’uomo e dai suoi viaggi.
Così, nonostante il parere contrario dei genitori, il giovanissimo Weyprecht punta
i piedi fino a diventare cadetto della Marina militare asburgica. Preparati armi e
bagagli il ragazzo lascia i suoi boschi, in treno e in carrozza attraversa il Centroeuropa.
Arrivato a Trieste, si affaccia dal ciglione carsico e, come succedeva a tutti i viaggiatori
di allora in arrivo dalle regioni più interne dell’Impero, davanti ai suoi occhi si
spalanca improvvisa la veduta del golfo, il mare piatto e calmo popolato di navi,
con il suo promettente orizzonte.
A Trieste il primo impatto del giovane Carl con la vita sulle navi militari è però
devastante. Disciplina durissima, condizioni igieniche precarie, mal di mare, fatiche
senza fine. Ma sei anni di apprendistato e di viaggi su e giù per l’Adriatico alla
fine faranno del ragazzo tedesco cresciuto fra i boschi un marinaio temprato che non
può stare lontano dalle onde e dalle avventure. «Ogni istante trascorso moderatamente
– scriverà in una lettera ai genitori quando ormai la sua carriera è avviata – lo
considero come un delitto, come un furto alla propria vita».
Più Weyprecht sta in mare, più scalpita. Più viaggia e più il mondo gli sta stretto.
Quando nel 1865 il cartografo e geografo August Petermann propone alla prima Assemblea
generale dei geografi e idrografi tedeschi di organizzare una spedizione al Polo Nord
alla ricerca del Passaggio a Nord-Ovest, Weyprecht scrive una lettera a Petermann
e muove tutte le leve di cui può disporre per essere della partita.
Petermann lo accoglie nel suo entourage, ma tra guerre, imbarchi e altri viaggi (partecipa
fra l’altro a una missione inviata in Messico nell’inutile tentativo di riportare
vivo a Trieste l’arciduca Massimiliano, fucilato dai repubblicani nel 1867) Weyprecht
manca la prima spedizione polare tedesca effettuata dalla baleniera Grönland nel 1868,
cui tanto teneva. Solo tre anni più tardi, nel 1871, Carl riesce a effettuare una
prima ricognizione nell’Artico, stavolta sotto bandiera austriaca. Ed è solo l’inizio.
Il giovane ufficiale con il pallino dell’esplorazione non riesce a togliersi i ghiacci
dalla testa. Si mette a studiare come un forsennato, dalla geografia alla fisica,
dalla matematica al magnetismo terrestre, dedicando allo studio ogni ora del tempo
lasciato libero dal servizio militare, passando anche dieci o dodici ore sui libri.
Si fa conoscere, macina strada, e finalmente nel 1872 si ritrova al comando della
spedizione polare austroungarica che porterà alla scoperta della Terra dell’imperatore
Francesco Giuseppe.
La spedizione viene organizzata in un periodo di piena corsa alle esplorazioni polari.
Allora molte regioni del mondo sono ancora inesplorate, gli orizzonti sono più vasti,
e l’immaginario dei suoi abitanti sguazza con più libertà in spazi mentali dove tutto
è possibile.
La ricerca del mitico Passaggio a Nord-Ovest spinge uomini e nazioni a scommettere
tutto in imprese che spesso finiscono in tragedia, con navi e vite umane stritolate
dai ghiacci. Weyprecht, che tra i suoi incarichi militari ha avuto anche la supervisione
dei cantieri navali facendo scuola con gli Strudthoff e i Tonello, padri della cantieristica
triestina, progetta una nave che può resistere alla gelida prigione del Grande Nord,
un motoveliero dallo scafo rinforzato e munito di potenti motori prodotti nello Stabilimento
Tecnico Triestino.
Il 13 giugno 1872 Weyprecht parte dunque alla volta del Polo Nord. A bordo della Tegetthoff,
andando contro l’usanza del tempo, ha voluto un equipaggio composto non da uomini
dei Paesi del Nord Europa, ma da gente della sua terra, istro-dalmati, persone – dice
– temprate dai rigidi inverni spazzati dalla bora e dalle torride estati mediterranee.
Imboccata la via dell’Artico – dopo la scoperta e l’esplorazione dell’arcipelago della
Terra di Francesco Giuseppe in agosto nel mare di Barents –, come previsto l’Admiral
Tegetthoff, carica di viveri e materiali, con l’avanzare del freddo rimane imprigionata
fra i ghiacci. Il piano prevede di attendere la primavera successiva e il disgelo
per proseguire il viaggio, sempre che la nave non venga stritolata. Lo scafo, ben
costruito, resiste, e anzi supera così bene la prova che l’anno dopo, all’arrivo
dell’estate, la Tegetthoff è sì ancora intatta, senza un graffio, ma solidamente piazzata
su un piedistallo di ghiaccio alto otto metri che nessuno riesce a scalfire. Gli uomini
della spedizione sono costretti a trascorrere un altro anno fra le immensità gelate
dell’Artico.
Weyprecht non perderà mai il controllo della situazione: per tutti quei mesi di forzato
esilio nel deserto bianco organizza la vita a bordo come se invece di essere sperduti
nel nulla glaciale gli uomini fossero a casa loro. Manutenzione ordinaria, puntate
esplorative nei dintorni, lezioni sui temi più svariati come a scuola, feste in occasione
del Natale, balli in maschera per il Carnevale: la normalità a tutti i costi mentre
la nave geme imprigionata nel ghiaccio e la banchisa li porta alla deriva chissà dove.
Alla fine, con il nuovo disgelo, appare chiaro che la Tegetthoff non si potrà mai
liberare dal suo piedistallo gelato.
Il 20 maggio 1874 – due anni dopo la partenza – gli uomini della spedizione abbandonano
la nave e, trascinandosi dietro tre scialuppe zeppe di provviste e attrezzature montate
su slitte, si avviano a piedi in cerca della salvezza. Il piano prevede di impiegare
tre mesi, trascinandosi dietro le scialuppe, per coprire le mille miglia che li dividono
dalla costa settentrionale della Russia. Chiusi i boccaporti della nave, con tre hurrà
l’equipaggio – ventitré uomini in tutto – dà l’ultimo addio alla Admiral Tegetthoff.
«Era questo – ricorderà in seguito Weyprecht – un momento imponente: ognuno di noi
aveva la coscienza, che alla più larga fra quattro mesi la nostra sorte sarebbe stata
decisa; che alla più lunga alla fine di settembre o ritorneremo fra la civilizzazione
o troveremo la morte fra i ghiacci».
In qualche modo andrà bene. Tra fatica, sete, bufere, tensioni fra gli uomini e incontri
ravvicinati con gli orsi bianchi, il viaggio segue i tempi previsti. Il 7 agosto Weyprecht
e i suoi raggiungono il mare aperto, mettono in acqua le scialuppe che si sono trascinati
dietro e a forza di remi continuano la loro odissea.
Finalmente il 24 agosto i naufraghi incappano in due golette russe in battuta di pesca.
Vengono raccolti, rifocillati, e devono pagare per essere portati a terra. Una volta
sbarcati nel porto norvegese di Vardø, Weyprecht invia un primo telegramma a Fiume,
in modo che le famiglie dei suoi marinai siano le prime ad essere informate del loro
ritorno, e solo il giorno successivo provvede ad avvisare il governo e l’imperatore.
Sono tutti sani e salvi, tranne il macchinista Otto Krisch, ucciso dalla tubercolosi
prima dell’abbandono della nave.
Weyprecht, Payer e gli altri componenti della spedizione vengono accolti come eroi.
Rientrato a Trieste, Carl ottiene il permesso dal Comando distrettuale della Marina
di dedicarsi a tempo pieno allo studio e all’elaborazione dei dati scientifici raccolti
nell’Artico, costituendo un piccolo gruppo di lavoro con alcuni dei suoi compagni
d’avventura. È uno dei primi mattoni della Trieste città della scienza internazionale
come la conosciamo oggi.
E a Trieste, dove si stabilisce in pianta stabile, Carl Weyprecht continua a sognare
i ghiacci lontani e a lavorare per loro.
Sarà dunque lui il promotore dell’Anno polare internazionale del 1882-83, il primo
esempio di cooperazione scientifica al di là di ogni frontiera.
Durato dal 1° agosto 1882 al 15 agosto 1883, l’Anno polare vedrà mobilitati quindici
Stati che si impegneranno a realizzare dodici stazioni di ricerca nell’Artico, e due
nelle regioni sub-antartiche. Una rete che assieme ad altri trentaquattro istituti
di ricerca sparsi in tutto il mondo avrebbe consentito di effettuare misurazioni sincronizzate
e concordate nell’arco di dodici mesi riguardanti l’intera fisica terrestre. Sarà
la prima volta che un progetto di ricerca scientifica viene realizzato con accordi
di tipo diplomatico, impegnando tanti Stati nella sua attuazione.
Ma l’idea di Weyprecht non aveva solo un fondamento scientifico, era anche di segno
politico. In un momento in cui i nazionalismi cominciavano a corrodere i vecchi assetti
e gli imperi dominanti, l’esploratore triestino era convinto che l’unione di tutte
le nazioni nel nome della scienza non solo avrebbe permesso la realizzazione di progetti
scientifici altrimenti impossibili, ma soprattutto avrebbe funzionato da antidoto
ai crescenti movimenti irredentisti, dai quali Weyprecht si tenne sempre distante.
Per uno scherzo del destino – quel destino beffardo così ricorrente fra le genti di
Trieste – Weyprecht morirà nel 1881, proprio a un anno dall’apertura dell’Anno polare,
e non potrà vedere la sua creatura muovere i primi passi verso quella cooperazione
internazionale che, in un modo o nell’altro, tra fermenti sociali e nuovi revanscismi,
continua tutt’ora.
Sul mare e sui monti
Smetto di guardare la rossa nave rompighiaccio ormeggiata sulle Rive e mi dirigo verso
la Sacchetta, il bacino dove due società nautiche gestiscono quattrocento posti barca
per altrettanti diportisti. È una foresta galleggiante di alberi e sartie praticamente
nel cuore del centro urbano, un vasto parcheggio di motoscafi e barche a vela su cui
si affacciano blasonate società sportive come lo Yacht Club Adriatico, il club velistico
più antico d’Italia, la Società Triestina della Vela e la Canottieri Trieste. Quante
città vantano una marina così esuberante a ridosso del centro storico? La Sacchetta
mette in vetrina la passione dei triestini per il mare, questo bisogno atavico di
mollare gli ormeggi e filare verso il largo. Trieste è la città della Barcolana, la
regata velica più affollata e democratica del mondo, una competizione cui può partecipare
praticamente chiunque abbia un guscio dotato di vela, con i piccoli diportisti in
corsa accanto ai grandi campioni.
Preceduta e accompagnata da manifestazioni culturali e non solo, la Barcolana – nata
più di mezzo secolo fa per volontà di un gruppetto di amici – si svolge ogni seconda
domenica di ottobre e riversa nello specchio del golfo un’enorme flotta composta da
duemila vele di ogni forma e colore. Durante questa spettacolare festa del mare la
gente di Trieste tira fuori il suo spirito navigante – anche chi non ce l’ha – partecipando
con entusiasmo alla kermesse.
Secondo E.B., e io sono d’accordo con lei, la Barcolana mette insieme alcuni dei caratteri
tipici dei triestini. Il dilettantismo, innanzitutto, l’idea per cui chiunque abbia
un po’ di intraprendenza, un minimo di attitudine, può aspirare a grandi imprese.
È, detta con un ossimoro, un lascito dell’antica modernità della città, che diventò
nella seconda metà dell’Ottocento la New York d’Europa, dando ricetto ad avventurieri
e disperati provenienti da ogni angolo dell’Impero asburgico, persone che solo grazie
al loro ingegno, alla loro inventiva, al loro fiuto ebbero la possibilità di diventare
ricche e influenti. Ne avrei diversi di questi personaggi da infilare nel mio dizionario.
Dunque il dilettantismo.
Poi la Barcolana coltiva l’idea per cui la vita è democratica per statuto: siamo tutti
uguali di fronte a una condizione umana uniforme visto che, come diceva il filosofo
Santayana, tutti abbiamo un’essenza lirica, un’esistenza comica e un destino tragico.
Perciò se io navigo su una barchetta di quattro metri ho tutto il diritto di misurarmi
anche con i campioni della Coppa America, ed è giusto che me ne sia data l’opportunità.
Infine la Barcolana esprime il bisogno di affidare al mare una possibilità di riscatto.
Trieste ha un rapporto un po’ complicato con il suo mare, se ne avvicina e se ne allontana
a seconda delle maree della Storia. Se ne stava lontano, arroccata tra i castellieri
sulle colline, prima dell’arrivo dei Romani. Poi lo fece proprio diventando un importante
scalo del Mediterraneo, fino alle invasioni barbariche. Durante il Medioevo, schiacciata
da Venezia, se ne allontanò di nuovo per evitare pirati e scorrerie. Ancora, e al
contrario, ne fece una risorsa indispensabile dal Settecento in avanti, servendo gli
empori imperiali. Oggi Trieste guarda al mare con crescente simpatia, lo considera
un luogo di salvifica ricreazione e un possibile trampolino di crescita economica
sulla scia dei nuovi traffici transeuropei. Quindi il mare disegna sempre con le sue
correnti un progetto di rilancio, e la Barcolana, che per una settimana mette la città
sotto gli occhi di mezzo mondo, ricorda alla gente di Trieste quanto il mare possa
essere fonte di riscatto.
Ne era certo anche Glauco Gaber, quando venne a trovarmi per farsi intervistare nel
lontano 1988, a quarant’anni dal varo di quel progetto che per lui doveva essere la
grande occasione di riscatto di Trieste e dei triestini di fronte alle conseguenze
del secondo dopoguerra. Allora Glauco Gaber mi regalò la foto incorniciata della barchetta
battezzata Trieste-Italia, ritratta in navigazione nella Baia di Guanabara, davanti
a Rio de Janeiro, al termine dell’impresa che avrebbe dovuto far conoscere al mondo
intero quanto era ingiusto il Trattato di Pace che toglieva a Trieste e all’Italia
le sue terre più preziose per darle alla Jugoslavia del maresciallo Tito.
Ricordo questo signore settantenne, energico, dai modi cortesi, mentre, nel salottino
della redazione del quotidiano «Il Piccolo» dove lavoro, mi raccontava la sua avventura,
la traversata dell’Atlantico su una piccola scialuppa a vela e a motore assieme ad
altri tre compagni. Impresa effettuata nell’arco di due anni, con partenza da Trieste
la notte del 16 dicembre 1948, alle 23.30, dal Molo Audace, e arrivo a Buenos Aires
la mattina del 24 maggio 1950, dopo un viaggio di 8469 miglia e 1752 ore di effettiva
navigazione. Viaggio il cui scopo era mobilitare le diplomazie d’oltreoceano a favore
della defraudata Trieste, città ferita alla quale era stato chiesto di pagare il prezzo
più alto per una guerra persa.
Quando arrivò in redazione per l’intervista con le sue carte, le foto e le fotocopie
del libro ricavato dall’impresa, Glauco Gaber esprimeva, appena sbiadito dal tempo,
il carattere dell’uomo che era stato negli anni in cui – era il 1951 – la sua nota
biografica lo presentava così: «Glauco Gaber è la classica, generosa anima inquieta,
fatta di tutti gli ardimenti, di tutti i rischi, di tutte le avventure. Aviatore.
Volontario in Russia. Dalla Russia torna alla sua Trieste per continuare la lotta
contro gli slavi e contro Tito. A trentaquattro anni, ha al suo attivo dieci anni
di guerra e tre di “fuorilegge anticomunista”, ed è scampato miracolosamente ai più
feroci agguati. Ha fondato a Trieste un circolo operaio forte di tremila uomini, e
gli ha dato il nome del vecchio irredentista Umberto Felluga. Di questo Circolo Glauco
Gaber è il presidente e l’animatore. Come della traversata da Trieste all’America
fu l’ideatore e il promotore primo».
Questo signore adesso mi stava davanti per raccontarmi la sua storia, con quell’aria
un po’ fiera e un po’ perplessa di chi pensa di aver lasciato una traccia forse esile
ma profonda, una solida memoria, e invece nessuno se lo fila più, la Storia cammina
guardando avanti, e ciò che sembrava importante ieri oggi non lo è più né forse tornerà
mai ad esserlo. Ascoltavo il suo racconto con attenzione, con me quel vecchio reduce
manteneva un atteggiamento fermo ma umile, alla mia penna era affidato il momentaneo
risveglio dall’oblio di ciò che era stato e aveva fatto, se lo avessi liquidato con
la tipica, spocchiosa fretta del cronista, avrebbe perso forse l’ultima opportunità
di mandare ancora una volta il suo messaggio, tornando finalmente sotto i riflettori.
Come nei giorni in cui assieme ai suoi compagni veniva osannato dalle folle sudamericane
e considerato un eroe, ricevuto da presidenti e ambasciatori, ospitato negli alberghi
più lussuosi, elegante nelle sue uniformi da argonauta, una per ogni occasione, mentre
giovani e bellissime donne cadevano ai suoi piedi.
L’avventura dimenticata di Glauco Gaber e dei suoi argonauti maturò nel clima effervescente
dell’immediato dopoguerra a Trieste. La città usciva dilaniata da due occupazioni,
quella nazista, dal settembre 1943 alla primavera 1945, con il suo portato di stragi,
violenze inaudite, torture, crimini e orrori nel campo di concentramento di San Sabba,
l’unico in Italia dotato di forno crematorio. E la più breve ma non meno feroce occupazione
da parte delle truppe partigiane jugoslave del maresciallo Tito, che per quaranta
giorni, tra maggio e giugno del 1945, avevano instaurato in città un regime repressivo
con deportazioni, uccisioni, vendette. Tito voleva annettere Trieste alla sua nuova
Repubblica Federativa di Jugoslavia, gli angloamericani non erano per niente d’accordo,
l’Italia nemmeno ma era meglio che stesse zitta, e l’impasse diplomatica aveva portato
a una momentanea spartizione della città e del suo entroterra: Trieste era diventata
Territorio Libero. Era una specie di staterello provvisorio diviso in una Zona A,
che comprendeva la città fino al piccolo comune rivierasco di Duino, amministrata
da un governo militare angloamericano, e una Zona B, più o meno da Muggia a Cittanova,
area amministrata da un governo militare jugoslavo. Come succedeva nella Berlino contesa
e divisa, in questo angolo di pianeta le tensioni politiche internazionali si mantennero
altissime per tutto il tempo in cui durò il Territorio libero, cioè quasi un decennio.
Fino alla restituzione di Trieste all’Italia nel 1954, con la definitiva perdita delle
regioni della Zona B lasciate alla Jugoslavia.
Per tutta la durata di questo garbuglio politico-diplomatico la gente di Trieste non
rimase a guardare. La stragrande maggioranza, compresa buona parte dei comunisti ed
esclusa buona parte della comunità slovena, non vedeva di buon occhio un’eventuale
annessione alla Jugoslavia. Tantopiù che la città si andava riempiendo con decine
di migliaia di profughi italiani in fuga dalle terre dell’Istria e della Dalmazia
già cedute alla neonata Repubblica Federativa, adesso ospitati in affollati campi
profughi sparsi un po’ dovunque fra centro, periferia e l’altopiano carsico.
Le manifestazioni per mantenere vivo il nome dell’Italia erano una costante, e assumevano
le più diverse forme, comprese quelle a carattere clandestino, con la fornitura di
armi e fondi occulti per eventuali insurrezioni. Il governo della neonata Repubblica
italiana aveva istituito a Roma un Ufficio per le Zone di confine che riforniva di
fondi in nero privati, associazioni, enti di Trieste dediti a mantenere alta l’italianità
della città – separata dal resto d’Italia da un confine armato – con ogni forma e
con ogni mezzo.
È in questo clima che maturò l’idea di compiere una clamorosa impresa di carattere
avventuroso-sportivo nel nome del tricolore, la traversata dell’Atlantico su una scialuppa
di salvataggio munita di motorino e un albero per la vela.
Del resto non era la prima volta che i triestini davano prova di avere una concezione
politica dell’avventura. Anzi ogni attività a Trieste, anche di tipo sportivo, dall’Ottocento
in poi, ha sempre avuto una connotazione politica, considerati i numerosi cambi di
bandiera avvenuti in età contemporanea. Non a caso pochi anni prima, in pieno conflitto
mondiale, un altro triestino era assurto agli onori delle cronache internazionali
per aver compiuto un’impresa avventurosa colorata di patriottismo.
E qui apro una parentesi, per inserire un personaggio che nel mio dizionario delle
genti di Trieste dovrebbe comparire alla lettera B, e che dal mare ci porta fra le
alte montagne.
Si chiamava Felice Benuzzi.
Nato a Vienna nel 1910 da madre austriaca e padre italiano ma cresciuto a Trieste,
Felice Benuzzi è un alpinista di vaglia con una serie di buone salite alle spalle
fra Alpi Giulie e Dolomiti, assieme a compagni di cordata del calibro di Emilio Comici.
Destinato in futuro a una brillante carriera diplomatica, allo scoppio della seconda
guerra mondiale Benuzzi lavora come funzionario al Governo generale dell’Africa Orientale
Italiana ad Addis Abeba.
Nel 1941, quando l’Etiopia è occupata dagli inglesi, Felice viene fatto prigioniero
e avviato come tanti altri italiani ai campi di internamento del Kenya, allora sotto
protettorato inglese. Nel 1943 si trova rinchiuso nel campo 354 a Nanyuki, alle pendici
del Monte Kenya.
Sono già due anni che trascina una vita stanca e monotona nei blandi campi di prigionia
nel cuore dell’Africa, campi dai quali è semplicemente inutile cercare di fuggire
perché non c’è dove andare. Ora, nel campo 354, dalla finestrella della sua baracca
Felice guarda spesso la non lontana cima innevata del Monte Kenya. La nostalgia delle
sue montagne gli stringe il cuore, ma soprattutto gli stringe il cuore la nostalgia
della libertà, la possibilità di inseguire orizzonti da immaginare.
Come sarebbe bello, pensa Felice guardando il Monte Kenya, scalare quella montagna
laggiù. E perché no? A un certo punto nella mente del prigioniero scatta quella molla,
comune a tanta gente di Trieste, che lo spinge verso imprese forse un po’ folli ma
tanto simboliche. La stessa molla che aveva portato Weyprecht a sognare una scienza
esplorativa che potesse far tenere per mano tutte le nazioni del mondo. Ma certo,
pensa Felice, scalerò il Monte Kenya nel nome della libertà di ciascuno di noi, per
ribadire di essere una persona e non un numero anonimo fra tanti prigionieri. Il destino
mi ha portato a vivere chiuso in un recinto? Ebbene, scavalcherò questo recinto per
il solo gusto di dimostrare che la libertà, il nome, l’identità personale e nazionale
di una persona non possono essere costretti dietro un filo spinato.
Ma non c’è solo questo. L’anelito di fuga ha un’origine più profonda, fa parte del
carattere inquieto di un uomo abituato a camminare in equilibrio sul filo teso della
vita. «Che forza ci vuole – è uno dei suoi pensieri ricorrenti – per trarre il cuore
dalla deriva dell’abisso, con cui è congenito, per placarlo, scaldarlo, sollevarlo?».
C’è un richiamo oscuro in ognuno di noi, e il rovello di Benuzzi gira intorno alla
domanda se la forza positiva del cuore sia pari alla sua forza gemella, di segno negativo,
dell’abisso. L’alpinista triestino non sa conciliare il terribile squilibrio, ma sa
invece che la montagna è stata ed è lo spazio dove può trovare conforto, guarigione
e forse salvezza.
In breve il piano prende forma. Felice arruola nel campo altri due compagni di prigionia,
Giovanni Balletto e Vincenzo Barsotti e, con l’aiuto tra lo scettico e il divertito
di altri prigionieri, i tre preparano di nascosto le attrezzature per la scalata del
Monte Kenya. Due piccozze sono ricavate da un paio di martelli rubati agli operai
del posto, e modificati da un fabbro compagno di reclusione. I ramponi sono fabbricati
utilizzando lamiere prese dai rottami di un’automobile e tondini di ferro per il cemento
armato. Pantaloni, giacche, berretti da montagna saltano fuori da alcune coperte adattate
e cucite da un sarto, anche lui prigioniero. Come corde i fuggitivi useranno quelle
fornite dall’amministrazione del campo per legare le reti dei letti al telaio. I viveri
sono accantonati sia risparmiando sulle razioni sia acquistandone da altri compagni,
usando come moneta di scambio le sigarette. Parte del materiale, come i calzettoni
di lana, arriverà con i pacchi di sussistenza spediti al campo dai parenti in Italia.
Utilizzando il disegno della montagna sull’etichetta delle scatolette di carne in
scatola Felice e i suoi compagni tracciano il possibile itinerario di salita. Cuciono
un grande tricolore che dovrà essere issato sulla cima della montagna. Il piano prevede
di fuggire dal campo eludendo la sorveglianza con uno stratagemma, attraversare la
foresta, salire fino alla vetta del Monte Kenya e poi tornare nel campo di prigionia.
Dove avranno senza dubbio una punizione esemplare, ma poco importa.
Il 24 gennaio 1943 i tre prigionieri fuggono dal campo di concentramento lasciando
un biglietto all’ufficiale responsabile della sorveglianza, in cui spiegano che saranno
di ritorno entro un paio di settimane. Muovendosi per due giorni solo di notte per
eludere le pattuglie inglesi lanciate al loro inseguimento, Felice e i suoi due compagni
superano la zona abitata, raggiungono il cuore della foresta equatoriale, schivano
leopardi, rinoceronti ed elefanti e risalgono la valle del fiume Nanyuki fino a raggiungere
i 4200 metri di quota.
A quel punto Vincenzo Barsotti si ammala. Balletto – detto Giuàn –, che è medico,
gli ordina di non proseguire oltre. Il 2 febbraio Felice e Giuàn da soli compiono
una prima ricognizione in quota per valutare la via di salita. Attaccano la parete
della cima più alta, il Batian, 5199 metri, ma una bufera di neve li respinge. Dopo
vari tentativi infruttuosi, i due decidono di tentare l’obiettivo secondario, la Punta
Lenana. Dopo una salita faticosa e non priva di difficoltà tecniche, alle 10 del mattino
del 6 febbraio 1943 Felice e Giuàn sono in vetta, a 4985 metri di quota. Lì piantano
il tricolore e lasciano una bottiglia con un messaggio. Da lontanissimo i prigionieri
italiani del campo vedono con il binocolo il tricolore che sventola sulla cima della
montagna ed esultano.
Sfiniti e denutriti, Felice e i suoi due compagni tornano di nascosto al campo di
concentramento, si riposano, si rifocillano con calma e si danno una ripulita. Poi,
dopo un paio di giorni, di buon mattino, sbarbati e in uniforme lavata e stirata si
presentano dal comandante inglese e lo salutano sull’attenti: «Good morning, sir».
Vengono sbattuti in cella di rigore per ventotto giorni.
Nel frattempo una comitiva di alpinisti inglesi sale alla Punta Lenana e trova la
bandiera e il messaggio in bottiglia. La notizia finisce sui giornali e in breve fa
il giro del mondo, Italia compresa: tre prigionieri italiani beffano le guardie inglesi
per il gusto di una scalata. Agli inglesi piace molto lo spirito sportivo, e il comandante
del campo 354 riceve l’ordine di togliere subito dalla cella di rigore quei tre eroi
mattacchioni.
Intanto Felice Benuzzi ne ha approfittato per buttare giù direttamente in inglese
gli appunti di un libro che, pubblicato in Gran Bretagna nel 1946 con il titolo No Picnic on Mount Kenya, diventerà un best seller mondiale. La prima edizione italiana uscirà invece in sordina
nel 1948 con il titolo Fuga sul Kenya, libro che tutt’ora viene ristampato, a tanti anni dalla morte di Benuzzi, avvenuta
serenamente a Roma nel 1988 dopo una vita spesa in giro per il mondo come diplomatico.
Gli argonauti patrioti
E adesso torniamo al mare, con Glauco Gaber e i suoi argonauti. Quando ho raccontato
a E.B. di quell’intervista del 1988, la volta che conobbi Glauco Gaber e lui mi sciorinò
il ricordo della sua traversata atlantica di quarant’anni prima, lei non ha nascosto
un guizzo di perplessità. È poi così importante, mi ha chiesto E.B., inserire un personaggio
simile in un dizionario della gente di Trieste? Alla fin fine fu solo propaganda.
Secondo me sì, le ho risposto, giocherellando con il caleidoscopio tascabile che mi
aveva regalato, una specie di piccolo cannocchiale in ottone la cui ottica restituisce
minuscoli fantastici universi dove tutto si mischia in una frammentazione e ricomposizione
continua di coloratissime forme. Dietro la propaganda, ho detto a E.B., ci vedo quella
stessa voglia di inseguire un’idea di libertà oltre l’orizzonte che ha animato Weyprecht
e Benuzzi. Non lo ripeti sempre anche tu che avere questo mare ogni giorno davanti
agli occhi fa venir voglia di mollare tutto e partire? E.B. mi ha scrutato pensierosa
con i suoi begli occhi da baiadera, lei che deriva da stirpi partite dalle lontane
steppe calmucche per approdare nelle terre istriane e poi a Trieste, portandosi dietro
un interessante e decisamente sexy miscuglio genetico. Va bene, fai come credi, mi
ha detto con un sospiro, forse hai ragione, se non i xe mati no li volemo, diciamo noi a Trieste, per cui nel tuo dizionario Glauco Gaber con i suoi amici
ci può anche stare.
L’idea di attraversare l’Atlantico su una scialuppa a motore e a vela per richiamare
l’attenzione del mondo sulla Trieste divisa e ostaggio delle diplomazie internazionali
fu dunque di Glauco Gaber. Ma il comando dell’impresa venne affidato a un marinaio
di professione, Rodolfo De Gasperi, capitano di lungo corso della marina mercantile
originario di Gradisca d’Isonzo e figlio di genitori triestini. Scampato durante la
guerra a vari naufragi, fra cui quelli devastanti dei mercantili Perla e Neptunia,
dal 1943 De Gasperi era stato messo a riposo per le conseguenze delle ferite riportate
durante gli affondamenti. Per il suo comportamento nella tragedia della nave Neptunia
gli era stata proposta anche la medaglia d’oro, onorificenza che però non vedrà mai.
Gli altri due argonauti coinvolti nell’impresa dopo una severa selezione sono Giovanni
Valcich, nato a Lussino, una delle isole poi cedute alla Jugoslavia, combattente durante
la guerra sul mare con le squadriglie dei Mas, e Giuseppe Reggio, nativo di Smirne
ma di famiglia genovese, ex carrista. Reggio conosce parecchie lingue e a lui sarà
affidata la radio di bordo. L’ex carrista avrà un ruolo determinante durante la crociera:
in un’epoca senza Internet e senza smartphone, terrà i contatti costanti con un’autentica
folla di radioamatori da una costa all’altra dell’oceano, i quali a loro volta terranno
informati giornali e radio, creando una copertura mediatica al di là delle aspettative
degli stessi argonauti.
In realtà alla partenza le scialuppe sono due, battezzate Italia e Trieste, con un
equipaggio totale di dieci uomini: il comandante della missione è Rodolfo De Gasperi,
poi ci sono Ferdinando Duse, Glauco Gaber, Antonio Jelich, Donato Palombieri, Giuseppe
Reggio, Angelo Susani, Giovanni Valcich, Angelo Virgilio e Cosimo Zito. Ma presto
si scoprirà che due barche in mare costano troppo, e una volta arrivati a Gibilterra
l’equipaggio della Trieste – il cui motorino faceva comunque le bizze – tornerà a
casa con il piroscafo Firenze. La scialuppa superstite continuerà la traversata con
il nuovo nome di Italia-Trieste.
Nella città governata dagli angloamericani gli argonauti sono quasi tutti lavoratori
dipendenti: De Gasperi è impiegato alle Assicurazioni Generali, Gaber al Lloyd Triestino,
Valcich lavora al Comune di Trieste, Reggio è l’unico libero professionista. La spedizione
è autofinanziata, gli equipaggi ottengono i permessi dai datori di lavoro per partire,
e bussano a varie porte per trovare altri fondi. Le due barche sono scelte fra le
scialuppe del tipo lancia da salvataggio per transatlantici nei Cantieri Riuniti
di Monfalcone. Si tratta di due canotti ancora in costruzione lunghi sette metri e
larghi due con una profondità di scafo di appena novantadue centimetri. Verranno appositamente
attrezzati e modificati durante il viaggio, nei vari porti dove faranno scalo.
Alle 23.30 del 16 dicembre 1948 è tutto pronto. Le piccole scialuppe Italia e Trieste
partono dal Molo Audace alla volta delle Americhe con la benedizione del sindaco,
Michele Miani, e di altre autorità che consegnano agli equipaggi medaglie commemorative
con sigillo trecentesco cittadino e messaggi da portare al presidente del Brasile,
il generale Eurico Gaspar Dutra, grande ammiratore degli sconfitti regimi totalitari
europei, al presidente dell’Argentina, Juan Perón, e a quello degli Stati Uniti, Harry
Truman. C’è una discreta folla sul molo a salutare l’impresa patriottica nonostante
l’ora e il freddo, e due motoscafi della Polizia civile – lo speciale corpo di polizia
alle dipendenze del Governo militare alleato – scortano le due scialuppe fino al limite
delle acque territoriali del Territorio Libero di Trieste.
Il viaggio inizia nel migliore dei modi. Già a Venezia l’accoglienza è calorosa. I
due equipaggi sono ricevuti dal console generale dell’Argentina, Carlos Ramiro Gonzáles,
che consegna a ognuna delle due barche la bandiera del suo Paese. È una visita breve
se già alle 8.40 della stessa mattina, attraverso i canali interni della laguna, le
due barche si dirigono verso Chioggia. Ma appena fuori dai canali soffia la bora,
che costringe le due barchette a trovare riparo sottovento nei pressi di Pellestrina.
È la prima di una lunga serie di soste impreviste. Le scialuppe Trieste e Italia impiegheranno
più di un mese per scendere lungo la costa adriatica. A ogni scalo verrà effettuata
una modifica, una riparazione, un miglioramento. «Mangiare e dormire, nel saltellio
continuo dei due gusci sulle onde – racconteranno in seguito gli argonauti –, diventa
un problema di movimenti che è un’acrobazia continua, spessissimo pericolosa. Dormire,
poi, è una specie di miraggio, tanto più che si dorme sul duro pagliolato, con una
vela per tutto materasso e per cuscino un salvagente».
Il 7 febbraio le due barche lasciano Brindisi alla volta della Sicilia, e il 14 marzo
salpano da Marsala dirette verso la costa africana.
Reggio, la cui sigla da radioamatore è “I 1 Joe”, è in contatto continuo, notte e
giorno, tramite la radio militare di bordo, con i radioamatori italiani, francesi,
spagnoli. Il viaggio procede a rilento, ogni volta che il mare si fa mosso le due
barche cercano rifugio in un porto qualsiasi. Il 30 marzo le due piccole motoscialuppe
entrano ad Algeri, dove sono accolte dai rappresentanti dell’Unione democratica italiana
d’Algeria, dal console italiano, dall’ammiraglio comandante la piazza marittima e
dal governatore generale d’Algeria, in un ricevimento nel lussuoso albergo Aletti.
Il giorno dopo la crociera continua da Algeri a Casablanca, poi verso la Spagna e
le Canarie.
I due equipaggi cominciano a prenderci gusto. Ovunque gettino l’ancora sono sempre
accolti con calore, visitano posti bellissimi, insomma se la spassano.
Ma i costi sono alti, il motorino di una delle barche dà molta noia, e a Gibilterra
si decide la separazione: l’equipaggio del Trieste abbandona l’impresa e torna a casa.
Rimane il ribattezzato Italia-Trieste con i quattro argonauti – De Gasperi, Gaber,
Reggio e Valcich – che porteranno a termine la traversata a nome di tutti.
A Mogador, in Marocco, durante una delle tante soste, Gaber e i suoi tre compagni
finiscono sul set del film Otello diretto da Orson Welles. Nella troupe e nel cast ci sono diversi italiani, tra cui
l’attore Antonio Centa, che offre ospitalità agli argonauti nel suo albergo dell’«incantevole
cittadina araba».
La crociera è un’avventura continua. Ad Agadir i quattro si accodano al motopeschereccio
spagnolo Capo Spartel, già conosciuto a Casablanca, e nei due giorni e mezzo di sosta
in quel porto partecipano a una battuta di pesca in alto mare.
A Las Palmas, dopo un incidente con il mare mosso, De Gasperi arriva con un polso
fratturato. Qui gli argonauti triestini, con la scusa della guarigione del comandante,
si fermano per ben quaranta giorni, approfittando per apportare ulteriori modifiche
e migliorie alla barca.
Intanto sono passati sei mesi dalla partenza. I datori di lavoro da Trieste fanno
sapere che i permessi dell’aspettativa stanno per scadere, o i prodi e patriottici
argonauti tornano indietro o saranno licenziati. Niente da fare, la volontà di servire
la patria è più forte, e i quattro decidono di proseguire.
D’altro canto, verrà scritto in seguito, «nella meravigliosa isola di Las Palmas non
avrebbero potuto desiderare accoglienze migliori e la più sollecita assistenza», e
per tutta la permanenza sull’isola i quattro «saranno ospiti graditi ovunque», a spese
del Real Club nautico di Las Palmas. Il diario di bordo dell’Italia-Trieste si soffermerà
a lungo sul soggiorno nell’isola spagnola – allora sotto il dominio del dittatore
Francisco Franco –, «soggiorno reso poi piacevole anche da visioni naturali di eccezione
e da incantevoli figure di donne, dalle magnifiche dentature sfavillanti al sole.
Ognuna di esse sembra creata per uno scalpello o un pennello da Maestro». No, di tornare
a Trieste non se ne parla proprio.
Il viaggio prosegue e, fra uno scalo e l’altro, la scialuppa affronta finalmente l’oceano
aperto, lo attraversa e arriva in vista della costa del Brasile il 9 settembre 1949.
Nell’ultimo tratto di traversata, i quattro moschettieri del mare, come amano definirsi,
se la sono effettivamente vista brutta incappando in un paio di tempeste. Per alleggerire
la scialuppa Italia-Trieste e non affondare tra i flutti tempestosi, hanno dovuto
buttare in acqua un mucchio di cose, comprese le bobine con le riprese effettuate
fino a quel momento. I radioamatori brasiliani e quelli italiani non hanno smesso
di fare ponti radio e di rilanciare messaggi da una parte all’altra dell’oceano, tenendo
informati i giornali.
Gli ultimi due giorni prima dell’approdo, con l’apparecchio radio di bordo guasto,
i quattro hanno dovuto giocoforza tenere il silenzio radio. Il giornale brasiliano
«Diário de Natal» titola, presto seguito dagli altri quotidiani locali: «Continua
la mancanza di notizie del piccolo veliero Italia-Trieste. Viva apprensione per la
sorte dell’equipaggio».
Alla fine va tutto bene, e l’arrivo in Brasile è trionfale. I quattro triestini sbarcano
smagriti, con le barbe lunghe, la pelle bruciata dal sole e dalla salsedine. E sono
accolti come eroi. Nel Sudamerica in mano ai dittatori che hanno già dato ricetto
ai criminali nazisti, i quattro triestini patrioti fanno comodo. La Trieste in bilico
occupata dagli Alleati per volontà delle potenze vincitrici, sulla costa occidentale
dell’Atlantico è vista come una piccola principessa da salvare dalle grinfie dei comunisti
pronti a ghermirla. La macchina della propaganda pompa alla grande: la traversata
dell’oceano, verrà osservato, questa «particolarissima conquista» che «è preghiera
ed appello di giustizia, ma anche mònito ai traditori della Patria e ai negatori del
diritto, non può non scuotere l’indifferenza del mondo». E almeno in quella parte
di mondo ci riesce, nessuno resta indifferente.
Dal settembre 1949 e fino alla primavera del 1950, il tour dei quattro argonauti attraverso
Brasile, Uruguay e Argentina è tutto un susseguirsi di ricevimenti, feste, interviste,
doni, ospitalità, escursioni turistiche nelle più belle località di Fortaleza, Salvador,
Rio de Janeiro. Una festa continua. Le foto di quei giorni li mostrano sbarbati, ingrassati,
rilassati, pasciuti nelle loro belle e impeccabili uniformi che portano lo stemma
della Marina italiana sul berretto e l’alabarda di Trieste sulle maniche. Hanno una
divisa per ogni occasione, da quella per la navigazione a quella per i ricevimenti
ufficiali fino all’uniforme di gala. Ancora, le immagini ce li mostrano attorniati
da donne affascinanti, da consoli e ambasciatori, sorridenti alle cene offerte dai
connazionali espatriati, impettiti quando sono ricevuti dagli stessi capi di Stato.
Fra sottoscrizioni, donazioni di enti, associazioni e privati, i quattro argonauti
triestini raccolgono una marea di soldi. Al punto che, durante il soggiorno a San
Paolo, Glauco Gaber ha l’idea di portare un dono prezioso alla moglie del presidente
dell’Argentina, donna Evita Perón. Gaber vuole riprodurre la «barca del miracolo»
in un blocco di due chilogrammi d’argento «e qualche po’ d’oro», regalato all’equipaggio
dell’Italia-Trieste da uno dei loro benefattori, il commendator Alfonso Pepe. Gaber
si mette all’opera nella bottega dell’orafo paulistano Donato Pacicco, e realizza
una barca che procede a vela spiegata cavalcando i marosi. Il risultato non è nemmeno
malaccio a giudicare dalla foto della consegna dell’opera nelle mani del presidente
Perón, a Buenos Aires. Ma Evita, impegnata in altre faccende, non la riceverà.
L’ultima tappa del viaggio, in Argentina, sarà se possibile la più lussuosa. Il generale
Perón in persona dispone che «l’equipaggio dell’Italia-Trieste visiti l’Argentina
almeno nelle sue parti più caratteristiche, ed ordina che siano messi a disposizione
dei quattro giovani tutti i mezzi di locomozione che essi vorranno: dall’aereo, al
treno, alla navigazione». I quattro non si fanno pregare e partono accompagnati dal
console addetto al cerimoniale del palazzo del governo, Juan Carlos Duardo, per una
vacanza turistica che li porterà a Bahía Blanca, Nequén, San Carlos de Bariloche,
al lago Nahuel Huapi, fino alle piste da sci del Cerro Catedral dove fanno amicizia
con un gruppo di giovani «sciatrici magnifiche».
Al ritorno a Buenos Aires gli argonauti scoprono di aver ricevuto altri inviti da
parte di Perù, Cile e Venezuela per visitare anche quelle terre «dove tanti connazionali
li aspetterebbero». Ma sono passati ventun mesi dalla partenza da Trieste, quasi due
anni, ed è tempo di tornare a casa. Gaber, De Gasperi, Reggio e Valcich rinunciano
all’idea di arrivare fino al presidente Truman, negli Stati Uniti. Pazienza, il nome
di Trieste ha girato abbastanza, le diplomazie sono avvertite, la missione può considerarsi
compiuta. Sempre per ordine di Perón la scialuppa Italia-Trieste finisce al Museo
della Marina argentina, mentre gli argonauti triestini prendono l’aereo con biglietto
gentilmente offerto dall’Alitalia.
«Il 5 settembre 1950 – si legge nelle memorie dell’impresa – una folla ammirata e
commossa saluta la partenza di questi giovani d’Italia che le sono entrati tanto profondamente
nel cuore». Ancora: sulla via del ritorno «nella breve sosta a San Paolo del Brasile
gli ammiratori Paulistani, innumerevoli, sono ad attenderli, ed è la buona occasione
per consegnar loro una medaglia d’oro ciascuno». A Rio de Janeiro si rinnovano le
feste, a Natal «è un delirio».
Alla fine a Trieste torneranno in tre. Il quarto, Giuseppe Reggio, l’ex carrista,
l’operatore addetto alla radio sulla scialuppa, si ferma a San Paolo dove non ha proprio
potuto rifiutare «un’ottima sistemazione».
Dopo una tappa in Portogallo, finalmente l’arrivo degli argonauti superstiti nell’amata
patria Italia e lo sbarco a Roma, all’aeroporto di Ciampino. Ad attenderli, però,
ci sono solo quattro gatti: un gruppetto di radioamatori con cui sono stati in contatto,
un invalido sulla sedia a rotelle, tre mutilati di guerra, qualche parente venuto
da Trieste, un rappresentante del Comune di Roma. Sì e no trenta persone in tutto.
La foto che ritrae i tre navigatori reduci dall’impresa, in divisa mentre scendono
dalla scaletta dell’aereo, è spietata: gli si legge lo sgomento negli occhi, quasi
un senso di panico. Dopo aver riempito tre volumi con i ritagli degli articoli dei
giornali sudamericani, dopo i bagni di folla, i riconoscimenti, i ricevimenti, le
belle donne, le ricche donazioni, i superstiti della traversata atlantica si aspettavano
altrettante manifestazioni di giubilo in patria. Hanno o non hanno tenuto alto il
tricolore e l’alabarda di Trieste sfidando l’oceano? A Roma vengono ricevuti brevemente
in Campidoglio, dove il sindaco Rebecchini consegna loro tre medagliette di bronzo
e li liquida in fretta.
Il ritorno a Trieste è ancora più triste. La città, tuttora amministrata da un governo
militare angloamericano, li ignora del tutto. Il nuovo sindaco, Gianni Bartoli, non
li riceve. Trieste ha altro a cui pensare. L’impasse diplomatica sulla sua sorte non
si sblocca, la città vive un’economia drogata dagli aiuti del Piano Marshall, le tensioni
politiche sono sempre fortissime. La missione degli argonauti per tenere alta la bandiera
di Trieste, a quanto pare qui non è servita a niente. Non ne è arrivata nemmeno l’eco.
Sulla traversata atlantica, che ormai gli stessi argonauti chiamano semplicemente
«Crociera», anche se con la C maiuscola, è calato l’oblio. «Qualcuno degli interessati
mostra di accorgersi di loro solo per meravigliarsi che siano tornati. Ormai non ci
pensavano neanche più».
L’anno dopo, nel 1951, un’ammiratrice dell’impresa, Rina Cioni, pubblica a Roma a
proprie spese il libro Italiani sul mare: da Trieste all’America del Sud su una barca di sette metri in cui raccoglie le memorie degli argonauti e racconta tutta la storia.
Ricordo che quando Glauco Gaber, durante l’intervista nel 1988, in occasione dei quarant’anni
dalla crociera, accennò al libro, lo fece con una certa condiscendenza. Allora la
mia chiacchierata con l’anziano argonauta si tramutò in un articolo di cui ho vaga
memoria e che devo aver conservato in qualche recesso del mio disordinato archivio.
A quanto mi risulta, quella è stata l’ultima volta che i patrioti navigatori triestini
hanno avuto un barlume di pubblicità. Gaber è morto nel 2001, senza lasciare ulteriori
tracce. Degli altri non ho saputo più nulla.
Viaggi al centro della terra
E.B. dice che non dovrei essere così pigro, farei bene a continuare l’indagine. Dovrei
seguire altre piste, andare a curiosare nelle pieghe del tempo, fino ai nostri giorni,
per capire cosa e chi è rimasto di quella che fu la patriottica traversata atlantica.
Ribatto, nervoso, che non sono più affari miei. Quello che dovevo fare, e cioè dare
conto di come la gente di Trieste sappia correre dietro ai propri orizzonti, e di
come questa voglia di esplorare sia sempre mischiata al destino politico di una città
sballottata dalla Storia, ebbene questo credo di averlo fatto. Tutto qui? Chiede sorniona
E.B.
No, certo. Gli orizzonti da immaginare da queste parti abbracciano più dimensioni,
non hanno a che fare solo con la montagna e il mare, ma anche con cosa c’è sottoterra.
Trieste poggia su un altopiano carsico che nasconde sotto la superficie un mondo vasto
e in parte ancora sconosciuto fatto di abissi, meandri, pozzi, laghi e il fiume nascosto
che attraversa questo mondo buio e silenzioso, il Timavo.
Le tremila grotte di Trieste, nel cuore del suo altopiano, costringono a fare i conti
con una curiosa consapevolezza: quella per cui si può entrare e uscire da dimensioni
parallele con estrema facilità. Mondi conosciuti e mondi sconosciuti convivono e si
compenetrano: non c’è niente di più ignoto di ciò che pensiamo di conoscere, e ciò
che pensiamo di non conoscere si può svelare all’improvviso cambiando le prospettive
di quanto ci circonda.
La gente di Trieste ha una certa consapevolezza di questo assioma, quando scruta i
suoi orizzonti.
Le esplorazioni sistematiche del sottomondo carsico alle spalle di Trieste iniziarono
intorno alla prima metà dell’Ottocento, per far fronte a un’emergenza sociale e politica.
Grazie alla proclamazione del Porto Franco, la città emporiale dell’Impero asburgico
si stava espandendo a velocità vertiginosa. Le poche migliaia di abitanti erano diventate
in una manciata di anni decine di migliaia, mentre fabbriche, impianti portuali, imprese
commerciali, negozi e botteghe spuntavano come funghi. Per mandare avanti tutto ciò
c’era bisogno d’acqua. Tanta acqua. Trieste era sempre assetata, i vecchi acquedotti
non bastavano più, durante l’estate le fontane rimanevano asciutte, e sempre più spesso
scoppiavano rivolte e tumulti popolari. Trovare l’acqua divenne la priorità assoluta.
Tra il 1828 e il 1834 la situazione si fa insostenibile. Fra i vari esperti messi
in campo dalle autorità municipali per risolvere il problema dell’acqua c’è un giovane
intraprendente e sognatore, l’ingegnere minerario Anton Friedrich Lindner. L’idea
condivisa fra esperti e autorità è acchiappare le acque del fiume sotterraneo Reka/Timavo
prima che spariscano inghiottite dalle voragini di San Canziano – oggi in Slovenia
–, e da lì portarle con un nuovo acquedotto in città.
Ma Trieste e le grotte di San Canziano sono troppo lontane l’una dalle altre. L’unica
certezza è che, una volta inghiottito dalle voragini, il fiume scorre da qualche parte
sottoterra proprio alle spalle di Trieste. Per cui la soluzione migliore sarebbe intercettarlo
lì, negli abissi della terra, e poi convogliare le sue acque in città realizzando
nuove condotte.
Lindner in particolare ne è assolutamente convinto, soprattutto dopo aver raccolto
numerose testimonianze degli abitanti del Carso che parlano di forti sibili e correnti
d’aria soffianti sul fondo di alcune doline, gli avvallamenti caratteristici dei territori
carsici. Un fenomeno, capisce Lindner, senza dubbio provocato dalla rimonta di acque
nascoste nelle profondità: laggiù nel sottosuolo le piene del fiume Timavo creano
una fortissima pressione verso l’alto e l’aria esce come lo sfiato di un’immensa balena
ovunque trovi un foro o un’apertura in superficie.
Per dare prova alle sue teorie, Lindner avvia una ricerca e una mappatura sistematica
dei buchi soffianti sulle alture carsiche sopra Trieste. Nel corso delle ricognizioni
trova diverse cavità – sarà lui a scoprire la Grotta Gigante, oggi la caverna turistica
più grande del mondo – e altre doline dove, dopo abbondanti piogge, escono correnti
d’aria dal suolo.
Nell’aprile del 1839 Lindner presenta al governo del Litorale una mappa che prefigura
il possibile tracciato del fiume sotterraneo, con la proposta di intercettarlo tramite
appositi scavi per poi convogliare le acque in una serie di gallerie fino a portarla
nei rubinetti giù in città. Le autorità però sono scettiche. Di chi è quell’acqua
misteriosa? E poi, c’è davvero? Vale la pena spendere tanti soldi per un’idea tutta
da dimostrare?
All’inizio del dicembre 1840, una serie di improvvisi acquazzoni rinnova il fenomeno
delle poderose correnti d’aria in uscita dal sottosuolo. In particolare l’aria che
soffia dalle fessure di una dolina situata fra Orlek e Trebiciano dimostra senza più
dubbi l’esistenza di un fiume sotterraneo in piena laggiù da qualche parte nel buio.
Lindner smania, e non aspetta il via libera delle autorità. Assolda, pagandoli di
tasca sua, alcuni minatori per allargare le fessure da cui esce la corrente d’aria
più forte. Vuole andare finalmente a vedere cosa c’è là sotto. Una volta allargato,
il buco svela l’esistenza di un profondo pozzo. I minatori scendono con le corde,
si trovano davanti un altro passaggio verticale, e poi un altro ancora.
L’aria soffia ancora gagliarda dalle profondità, e Lindner con i suoi minatori continua,
giorno dopo giorno, con lavoro febbrile, a scavare per allargare i passaggi a colpi
di mazza, piccone e brillamento di mine. Man mano che, utilizzando corde e scale,
tra mille difficoltà e fatiche gli esploratori scendono metro dopo metro verso il
basso, individuano tracce del passaggio dell’acqua. Si imbattono persino nella pala
di un mulino incastrata fra le rocce, arrivata fin lì senza dubbio dalla lontana Valle
dei Mulini.
Superati i duecentoventi metri di profondità, allargate le ultime strettoie, dopo
mesi di scavi e sforzi massacranti, il 6 aprile del 1841 gli esploratori scendono
un ultimo pozzo e sbucano in una grandiosa caverna, talmente ampia che la luce delle
fiaccole non riesce a illuminarla nella sua interezza. E lì, in quella specie di vuota
cattedrale, scorre un’immensa massa d’acqua: è il Timavo. Lindner aveva ragione, il
fiume inghiottito dalle voragini di San Canziano continua il viaggio sottoterra con
tutta la sua portata proprio alle spalle di Trieste.
La notizia fa il giro della città, adesso tutti vogliono vedere il fiume di Trieste
che c’è ma nessuno ha mai visto. L’abisso viene attrezzato con scale di legno fisse
e chi può scende a contemplare quella meraviglia, un ampio nastro d’acqua che scorre
– ora placido ora irruento – nell’oscurità del tempo profondo.
Ma l’entusiasmo dura poco. A causa della morfologia del sottosuolo e delle pendenze,
diventa presto chiaro che non sarà possibile portare l’acqua del fiume da quella caverna
agli acquedotti urbani. L’abisso misura una profondità complessiva di 322,18 metri,
con il livello medio dell’acqua a diciannove metri sul livello del mare. Un dislivello
che renderebbe costosissimi eventuali allacciamenti idrici.
Alla fine tutti gli sforzi sono stati inutili. Il lavoro di Lindner non sarà nemmeno
pubblicamente riconosciuto, le autorità municipali lo abbandonano al suo destino.
Il prezioso e misterioso fiume continuerà a scorrere indisturbato nel buio dell’abisso
come fa da millenni, e l’ingegnere che lo ha inseguito con tanta passione muore poco
dopo, il 19 settembre 1841, a soli quarant’anni, divorato dai debiti e dalla tubercolosi
per gli sforzi sostenuti nell’esplorazione sotterranea, lasciando una giovane vedova
affranta e in povertà.
Succede, mi ha detto E.B. quando le ho ricordato questa storia. Inseguire nuovi orizzonti,
sopra e sotto la terra, può avere un costo. Sì, ho ribattuto giocherellando ancora
con il mio piccolo caleidoscopio, però in pochi posti al mondo la politica gioca un
ruolo così determinante per chi insegue orizzonti da immaginare. E le ho raccontato,
come esempio, di Vladimir Dougan, l’alpinista dimenticato solo perché visse negli
anni in cui a Trieste il fascismo perseguitava gli sloveni.
Cime non redente
«Sacro dei monti ogni ricordo! Quando il mio caro Dougan ripassa questi fogli, lo
faccia sempre con un sorriso sulle labbra, con la pace della montagna nel cuore, con
un buon augurio e ricordo per me». È la più sentita e commovente fra le dediche scritte
da Julius Kugy al suo amico, pupillo e compagno di tante avventure Vladimir/Vladimiro
Dougan, detto Miro, uno degli alpinisti triestini più forti degli anni a cavallo tra
le due guerre mondiali, morto povero e dimenticato dopo essere stato ostracizzato
ed emarginato dal regime fascista negli anni antecedenti lo scoppio della seconda
guerra mondiale.
La dedica di Kugy – alpinista simbolo della Trieste cosmopolita, per la sua attività
esplorativa e letteraria che abbracciò senza distinzioni le culture austriaca, slovena
e italiana – al suo grande amico Dougan, si legge in uno dei quattro album di fotografie
conservati nell’archivio privato dello stesso Dougan. Si tratta di cinque diari autografi
più quattro grandi album fotografici e un paio di libri di Kugy autografati. Un fondo
importante, perché di Vladimir Dougan si sa pochissimo, la sua figura tramontò senza
quasi lasciare tracce biografiche.
L’archivio di Dougan, solo in tempi recenti ritrovato e acquistato dalla Società Alpina
delle Giulie, ha ridato memoria all’alpinista morto nel 1955 nell’oblio generale.
Eppure era stato uno dei più grandi alpinisti del suo tempo, e il suo nome avrebbe
dovuto essere affiancato a buon diritto a quelli di Emilio Comici e Julius Kugy.
Vladimir/Vladimiro Dougan nasce il 16 marzo 1891 a Roiano, quartiere semiperiferico
di Trieste, da Antonio Dougan e Luigia Debelak. È di famiglia slovena, circostanza
che avrà pesanti conseguenze con l’avvento del fascismo: il regime non lo vedrà di
buon occhio anche per i suoi trascorsi in guerra con la divisa dell’esercito austroungarico.
Non si sa con certezza quando Dougan conosce Kugy, il più celebre esploratore delle
Alpi Giulie. Di certo già prima dello scoppio della Grande Guerra il giovane alpinista
viene accolto tra i pochi eletti che accompagnano Kugy nella sistematica esplorazione
delle montagne giuliane, calcarei bastioni selvaggi non lontani da Trieste ancora
tutti da conquistare. Sono anni proficui per i pionieri delle cime, ogni nuova scalata
dà prestigio agli esploratori del mondo verticale, e Kugy e Dougan sono guardati con
ammirazione. Nel 1911 i due raggiungono la cima del Ciuc di Vallisetta assieme alla
guida Osvaldo Pesamosca, una salita lunga e pericolosa che li consacra cordata di
punta. Fra le imprese leggendarie rimane l’ideazione della Cengia degli Dei, una via
ad anello sul versante Nord del Gruppo del Jôf Fuart, impercorribile per le varie
interruzioni con i mezzi di allora (fu in seguito portata a termine da Comici). Nel
1914 Dougan effettua una ricognizione, che si conclude nella Gola Nord-Est per le
insormontabili difficoltà del tratto successivo, oggi del tutto franato, e Kugy esalta
comunque l’impresa scrivendo: «Non sono molti quelli che hanno messo il piede su quelle
cenge... giovani fortunati, anzitutto il mio fedele Dougan, che, quasi parte di me
stesso, vi passò per primo».
Quando all’inizio della Grande Guerra quelle montagne diventano un caposaldo della
prima linea austroungarica, Kugy, che a 57 anni si è arruolato volontario nell’esercito
imperiale per combattere contro l’Italia, viene inviato là per aiutare e addestrare
le truppe. E anche in quella occasione vuole con sé il fido Dougan.
Miro riprende l’attività alpinistica dopo la guerra, nella Trieste diventata italiana,
ma senza più il suo maestro, finito in miseria e debilitato dalle malattie a soli
sessant’anni. Nel 1923 Dougan si iscrive alla Società Alpina delle Giulie, accolto
e considerato come un fuoriclasse. Nei dieci anni successivi effettua numerose prime
salite – anche invernali – sulle Giulie e nelle Alpi centrali e occidentali, dove
l’alpinista triestino esprime al meglio l’attitudine alla progressione su ghiaccio.
Ma il campo d’azione prediletto di Dougan restano le montagne di casa, le cime di
frontiera, le rugose Alpi Giulie, in particolare il Gruppo del Montasio, dove traccia
molte vie, tutte in arrampicata libera su pareti caratterizzate da rocce friabili
e scivolose. Ignorando gli attrezzi e le tecniche da poco introdotte da Comici, Dougan
realizza le sue imprese con i mezzi e lo stile dei pionieri: piramide umana o lancio
di un arpione per superare gli strapiombi, scarpe chiodate, scarpèz friulani e piedi nudi per le placche lisce, sicurezza attorno agli spuntoni. Con
questi metodi di progressione estremi, Dougan supera passaggi oggi classificati di
quinto grado, quasi sempre in cordata con la moglie Tea e con l’amico Alberto Hesse.
Grazie alle sue imprese nel 1929 l’alpinista triestino-sloveno viene accolto nell’empireo
del Caai, il Club alpino accademico italiano, e nello stesso anno prende parte alla
spedizione nel Caucaso, organizzata dall’industriale, fotografo e alpinista accademico
Andrea Pollitzer. È la prima volta che alpinisti giuliani si spingono fuori dall’Europa.
Dougan raggiungerà in piena tempesta la vetta dell’Elbrus, a 5642 metri, e nei giorni
successivi conquisterà tre cime ancora vergini di oltre 4000 metri. Nel 1932 partecipa
a una spedizione sui monti dell’Alto Atlante, dopodiché il suo nome scompare definitivamente
dalle cronache della montagna.
L’ipotesi avanzata da più parti è che l’alpinista silenzioso – come è stato definito
– dopo essere stato accolto nel mondo alpinistico triestino, buona parte del quale
era sempre più vicino al regime fascista, è stato poco alla volta emarginato e messo
da parte. Dougan dava fastidio: prima di tutto era sloveno e frequentava alpinisti
sloveni come lui. E poi aveva servito l’esercito austroungarico, era insomma un ex
nemico dell’Italia. Nel ventennio fra le due guerre mondiali Trieste subirà una vera
e propria epurazione culturale e sociale nei confronti non solo dell’etnia slava,
bersaglio di una persecuzione continua, ma anche di quanti avevano ricoperto un ruolo
culturale e sociale sotto l’Impero. Dougan era uno stato di questi, e certo non l’unico.
Isolato, in seguito Vladimir Dougan sarà colpito da una malattia invalidante fino
alla morte avvenuta nella più completa indifferenza. Oggi la Società Alpina delle
Giulie si è fatta carico di diffondere, rivalutare e commemorare la figura di quel
socio che Julius Kugy considerava «il principe delle Alpi Giulie».
Passeggio lungo le Rive pensando ancora agli esploratori e viaggiatori triestini.
Questa città è così magnetica che attira e respinge le anime più inquiete come le
palline di un flipper. Approdo e punto di partenza. Mi viene in mente un altro personaggio
che nel mio dizionario dovrei mettere alla lettera B: Sir Richard Francis Burton,
vissuto tra il 1821 e il 1890. Esploratore, traduttore, orientalista, Burton era un
britannico vagabondo e selvaggio con la faccia da pirata che viaggiò per mezzo mondo
e fu anche console a Trieste, dove venne inviato in punizione dal Foreign Office a
causa delle sue intemperanze. Disperato, all’inizio, per essere stato spedito in questo
angolo di mondo, Burton scoprì presto le meraviglie della regione, e ci rimase per
diciotto anni, dal 1872 al 1890, assieme alla moglie Isabel. Era uno scrittore infaticabile,
e sull’altopiano carsico, nel borgo di Opicina, sopra Trieste, dove viveva d’estate,
si dedicò alla traduzione in sedici volumi de Le Mille e una notte nonché del Kmastra. Sono considerate le più estese traduzioni del corpus delle novelle orientali e dei licenziosi precetti, e le più esplicite e dettagliate
sugli aspetti erotici e sensuali.
C’è un richiamo sensuale nell’altrove? La spinta all’esotico è legata a una visione
romantica e sorpassata dell’esistenza, oppure è parte del nostro patrimonio genetico
di specie migrante? Cosa ci spinge ad andare via? Fisso un appunto mentale: sottoporre
la questione a E.B., vorrei sapere che ne pensa.
A un tratto, dall’altro lato della strada intravedo la massiccia figura del mio amico
Roberto Ive. Classe 1951, nel 1988 Roberto ebbe per la prima volta l’occasione di
visitare la Mongolia, ancora genericamente chiusa agli occidentali. Da allora la Mongolia
è diventata per Ive la sua seconda patria. Ha dedicato a quella terra lontana libri
e guide, la visita spesso, organizza viaggi turistici nei suoi deserti, è diventato
lettore di lingua italiana alla Mongolian Arts and Culture University di Ulaanbaatar.
Ha finito per assomigliare a un mongolo. So che vive tra Ulaanbaatar, Berlino e Trieste,
e che ha un rifugio dalle parti di Duino, una specie di capanna sui pastini affacciati
sul golfo dove ama ritirarsi in meditazione. Vorrei salutarlo ma è troppo lontano,
e presto gira l’angolo e sparisce alla vista.