12.
Rosso Carso
Da Prosecco segui il sentiero 1, resta sul lato mare, attraversa il Bosco Fornace,
il San Primo, passa accanto all’ex vedetta per la pesca dei tonni, che si è conclusa
negli anni ’50, sei a Santa Croce, prosegui per il Bosco Babiza, svolta a destra per
Aurisina, passa sotto l’autostrada, c’è la segnalazione per un cimitero austro-ungarico,
vacci, è seminascosto, raccolto in una dolina, fa impressione, no? Pensa alla pomposità
del Sacrario di Redipuglia. Prima, all’obelisco, non ti ho detto di un altro cimitero
a pochi passi da te, quello militare tedesco, smantellato nel 1956, in cui erano stati
sepolti i soldati morti a cavallo tra il 1944 e il 1945 nel Litorale Adriatico.
Lì era sepolto Christian Wirth, detto Christian il barbaro, uno che si mormora interrasse
bambini vivi e girasse con un barattolo pieno di denti d’oro, SS che era stato comandante
del lager di Beec, in cui erano state sperimentate le prime camere a gas, membro del programma Aktion
T4 finalizzato all’eliminazione dei “malati inguaribili” nonché, prima di essere ucciso
dai partigiani jugoslavi a Erpelle (una ventina di chilometri da dove ti trovi), a
comando dei reparti speciali “Einsatzkommando” che avevano preso possesso della Risiera
di San Sabba. Spostata nel cimitero veronese di Costermano, la sua salma è stata al
centro di un caso di cronaca nel 1988, allorché il console generale tedesco di Milano
si rifiutò di presenziare alle commemorazioni avendo scoperto che tra i nomi dei caduti
figurava il suo. Scandalo, rimozione del console, cancellazione del nome nella cappella
cimiteriale. Tutto risolto, no?
Non si pensi che le stragi siano avvenute solo da una parte. Molti dei tedeschi impegnati
nella Battaglia di Opicina, una volta arresisi e, di fatto, consegnati ai partigiani
jugoslavi dai neozelandesi, finirono nella vicina Foiba di Monrupino. Pure dall’altra
parte del golfo, a Muggia, fecero una fine infausta i croati dell’Accademia di Marina
fedeli all’ustaša Ante Paveli, che costituivano una piccola guarnigione a difesa della costa. Pier Antonio Quarantotti
Gambini, scrittore istriano di Pisino, amato da Saba, racconta in Primavera a Trieste che erano circa quattrocento «splendidi ragazzi, e anche educati», non avevano preso
le armi contro i titini, anzi, al loro arrivo avevano fraternizzato. Molti erano dalmati,
parlavano italiano, pensavano di essersela cavata, invece furono fucilati tutti come
traditori alle Noghere, in un luogo, aggiungo io, dove c’erano state paludi, poi saline,
vie di pellegrini, un aeroporto, un campo profughi per gli istriani dei Monti di Muggia
che erano stati beffati all’ultimo secondo da una modifica (l’“Operazione Giardinaggio”)
del Memorandum di Londra del 1954 e infine, oggi, un biotopo minacciato da una zona
industriale. Quarantotti Gambini afferma nell’incipit del suo volume che «gli italiani,
come troppe altre volte, scambiano per storico l’effimero. Gli italiani ammazzano
Claretta, e non si accorgono che l’ala della storia batte sulle Alpi Giulie».
Questo non solo non è un saggio storico, non è nemmeno un’arma. Ce ne sono state troppe
tra questi sassi, non ultime quelle nascoste nelle grotte nel secondo dopoguerra,
vedi la Vedetta Weiss, proprio vicino ad Aurisina. L’organizzazione Gladio, ricordi?
La difesa dall’eventuale invasione da est. Non ci siamo fatti mancare niente. Forse
ti gira la testa, me ne rendo conto, è normale, ti assicuro che sono più confuso di
te. Perciò è necessario essere onesti: se decidi di farti viandante a Trieste devi
essere curioso di tutto, ingaggiare un violento corpo a corpo con la Storia, studiare
e dubitare molto, attingere a fonti diverse e allo stesso tempo sollevare le braccia
in segno di resa. Ci sarà sempre qualcuno che a un massacro ne opporrà un altro, o
che metterà in dubbio i tuoi dati. L’unica bandiera che puoi issare sullo zaino è
quella bianca. Certo, la frase di Quarantotti Gambini può risultare altisonante, ma
è scritta il 29 aprile 1945, mentre in Italia la guerra è finita e qui no. L’attenzione
va posta su quell’ala che batte le Alpi Giulie, un’ala tambureggiante che non ci lascia
in pace. Sangue e terra uniti generano solo il tetano, scrisse Karl Kraus. E molto
tetano deve esserci stato sul terribile fronte dell’Isonzo, dove sei diretto.
Prendi commiato dal cimitero austro-ungarico, passa sotto la ferrovia, lasciati sulla
sinistra la grotta Pocala, in cui tra fine Ottocento e inizio Novecento Carlo Marchesetti
scoprì i resti di circa trecento orsi delle caverne, sulla sinistra dei torrioni,
i geologi li chiamano anche hum, piramidi di calcare, nient’altro che sopravvissuti all’azione di dissoluzione dell’acqua,
prigionieri a cui è stata fatta salva la vita. Tira avanti costeggiando una zona di
ex cave, la grotta del Monte Napoleone, paradiso delle felci, il secondo castelliere
di Slivno e poco dopo sei al paese omonimo. Se hai ancora il cuore integro entra nel
cimitero della chiesa di Santa Maria Maddalena, leggi a voce alta i nomi sulle lapidi,
cerca di stabilire le parentele, fissati sui luoghi e le date di morte, poi avanti
verso gli stagni, un tempo indispensabili, oggi recuperati come microambienti ricchi
di diversità biologica, e da lì prendi il sentiero che in mezz’ora ti conduce a Malchina
esibendo in alcuni suoi tratti lastre di pietra della Gemina, via romana che collegava
Aquileia a Lubiana, al tempo detta Emona. Malchina è stata ricostruita dopo essere
stata quasi interamente distrutta nell’ultima guerra. Ci sono diverse osmize, se ne
trovi una aperta ti consiglio di rifocillarti, bevi molto, non lesinare, vino, grappa,
come bevevano molto i fanti al ferale assalto. La prima linea è là dietro, già si
possono sentire le voci dei morti.
Quanti? Un rapido sunto. Prima battaglia dell’Isonzo tra giugno e luglio del 1915,
seconda battaglia tra luglio e agosto, terza battaglia tra ottobre e novembre, quarta
battaglia tra novembre e dicembre, pausa invernale, quinta battaglia nel marzo del
1916, entrano in campo i gas asfissianti, sesta battaglia in agosto, presa di Gorizia,
settima battaglia in settembre, ottava battaglia in ottobre, nona battaglia in novembre,
pausa invernale, inizia il 1917, l’anno delle offensive più cruente e degli ammutinamenti:
decima battaglia in maggio, undicesima battaglia tra agosto e settembre, dodicesima
battaglia tra ottobre e novembre, ovvero la disfatta di Caporetto. Conto totale sul
fronte carsico: in due anni e mezzo per l’Italia 300 mila morti + 2 milioni tra feriti,
invalidi e prigionieri, per l’Impero austro-ungarico 250 mila morti + 1 milione tra
feriti, invalidi e prigionieri.
Nicolò Giraldi, un giovane scrittore appassionato di storia che ha camminato lungo
la linea del fronte da Londra a Trieste e ne ha tratto un libro, quando viene a trovare
me e i miei viandanti mette sempre in scena con efficacia il macabro bilancio: «segnate
su una mappa il punto A, Monte Hermada, e il punto B, Monte Krn, in italiano Monte
Nero. Sono circa 90 chilometri in linea d’aria, fate 100. La storiografia ufficiale
per questo tratto indica in circa 270 mila i morti, feriti, dispersi. Fate 300 mila.
Io con un passo faccio circa 70 cm, fate 1 metro. Ora farò 10 passi e camminerò sopra
30 cadaveri, 3 al metro».
La decima e l’undicesima battaglia si svolsero nei pressi del monte che stai per scalare.
L’Hermada maledetto, o maledetta, come la chiama il soldato austriaco Fritz Weber
nel suo Tappe della disfatta, il crudo racconto visto dall’altra parte della barricata. Con Giraldi e i viandanti
leggiamo alcuni passi, al buio, dentro una grotta a cui arriverai tra poco. Questo
paesaggio si distingue da ogni altro, scrive, è indescrivibilmente orrendo, disperato,
misero, come un gigantesco sepolcro in cui non ci sarebbe nulla di strano a vedere
la morte seduta sul ciglio della strada. Talmente terribile da essere impronunciabile,
innominabile da chi stava per esservi spedito: «ci guardiamo bene dal parlarne», sussurra
Weber. 323: i brividi. No, non mi sono sbagliato, sono “soltanto” 323 metri sul livello
de mare.
Gli italiani tentarono in tutti i modi di sfondare e dirigersi a Trieste, ma non ce
la fecero, al punto che Carlo I d’Asburgo attribuì alla sua V armata il titolo di
“Isonzo Armee”, ne sarebbe stato tratto anche un film di propaganda, Die 10. Isonzoschlacht. Bravissimi nella propaganda gli austriaci si erano d’altronde dimostrati dall’inizio
delle ostilità, cominciando a parlare di I, II, III battaglia dell’Isonzo e così via,
invece di chiamare ogni battaglia con il nome della località in cui aveva avuto luogo.
Sempre fermi all’Isonzo gli italiani, questa era l’impressione da fuori. Fermi a sputare
sangue, in una prima linea, racconta bene Lucio Fabi in Gente di trincea, costellata di «corpi di uomini in decomposizione, che spesso era impossibile togliere;
allora, i resti dei caduti erano coperti con getti di calce o bruciati con la benzina.
Amici o nemici, i cadaveri abbandonati sul campo di battaglia implicavano un notevole
inquinamento dell’aria che i soldati erano costretti a respirare».
È una trincea in cui, scrive Giani Stuparich, si conduce una penosa vita da talpe,
in cui non si vede nulla se non i compagni più vicini e sfugge il senso complessivo
degli eventi, dove appaiono ben lontani i giorni in cui, assieme al fratello Carlo
e a Slataper, andò ad arruolarsi volontario a Roma, la prima sera in camerata a dormire
sulla paglia come fanciulli, l’idea di avventure e vagabondaggi. Macché: non c’è nulla
di avventuroso, sono finiti i giorni della fede in una umanità migliore, il fronte
è un carnaio senza eguali. Nemmeno gli animali si sottraggono: migliaia di muli, cavalli,
asini, buoi, cani, uccelli (solo un paio di dati per darti un’idea: nel 1914 la Gran
Bretagna “arruola” 200 mila cavalli, nel 1918 sul fronte italiano i colombi viaggiatori
sono 9 mila).
In trincea si sta in mezzo ai cadaveri, ai pidocchi, a quantità allucinanti di topi
che sbucano da ovunque, che risalgono le scalette, divorano tutto ciò che può essere
divorato. C’è una fotografia che non riesco a togliermi dalla testa: Carso, Oslavje,
due soldati posano accanto a un albero spoglio: ci hanno appeso decine di topi. L’unico
albero di Natale che potevano permettersi. Una macabra carneficina che possiamo per
fortuna solo immaginare. L’altra fortuna è che qua, a parte la rigogliosa vegetazione
in cui ti imbatterai e i materiali portati via dai collezionisti, molto è rimasto
come all’epoca, sia perché l’esercito austriaco partì per sferrare l’offensiva di
Caporetto lasciando tutto com’era, sia grazie ai volontari che hanno sistemato la
zona.
Chi non smette di studiare e battere a piedi questa “montagna” è lo storico locale
Roberto Todero, autore di Fortezza Hermada, grazie al quale ho scoperto che Max Fabiani, nativo di Štanjel, oggi in Slovenia
ma prima Impero austro-ungarico e poi Italia, aveva progettato un proiettile fatto
di pietra carsica capace di esplodere in mille schegge al momento dell’impatto. Se
sei forestiero forse il suo nome non ti dice nulla, ma sappi che egli è l’ennesimo
figlio spurio di queste terre: in casa parla italiano, in paese sloveno, a scuola
tedesco, studia a Lubiana e a Vienna, diviene architetto di grido dell’Impero all’inizio
del Novecento (tra i suoi progetti triestini meritano di essere ricordati il Narodni
Dom e l’edificio liberty di piazza della Borsa, Casa Bartoli, dove campeggia da anni
uno striscione del movimento indipendentista che auspica il ritorno del TLT, il Territorio
Libero di Trieste), è consulente artistico dell’erede al trono Francesco Ferdinando,
ma dopo la guerra abbandona la docenza al Politecnico di Vienna per partecipare alla
ricostruzione dei borghi distrutti sul fronte dell’Isonzo.
Inizia quello che potrebbe essere avvertito come un declino professionale, non però
spirituale. Sotto le bombe inizia infatti ad annotare le profonde riflessioni, che
rivedrà nel corso della Seconda guerra mondiale, di Acmà, un’originale opera-mondo, un torrente in piena in cui morale, filosofia, fisica
si fondono per partorire un uomo evoluto che tra millenni avrà esplorato i sistemi
solari, continuerà ad evolversi fino al punto di sdoppiarsi, a divenire un semispirito
sulla via della perfezione. Architetto, filosofo, designer, ingegnere, poeta, Leonardo mitteleuropeo che progetta una via d’acqua per collegare l’Adriatico di Trieste al Danubio di Vienna
(idea che sarà inserita anche nell’accordo di cooperazione economica stipulato tra
Italia e Jugoslavia – il Trattato di Osimo!) e inventore di congegni bizzarri: una
bicicletta senza catena e manubrio, un apparecchio che permette di volare – versione
moderna delle ali di Icaro – e un “dispositivo per facilitare la salita in montagna”.
Tu però non hai aiuti, ci sono solo le tue gambe, per cui inizia ad avviarti prima
che tramonti: imbocca nel paese di Malchina il sentiero bianco e blu, la Vertikala,
e dirigiti verso il sentiero 3, o sali per la strada asfaltata che passa per Cerovlje.
Salendo potrai fermarti a visitare due grotte con una torcia, quella del Motore, dove
si custodivano dei gruppi elettrogeni che fornivano la corrente alle linee del fronte,
e quella che fungeva da ospedale, proprio sotto la cima, dove potrai vedere sulle
pareti annerite dal fumo delle staffe metalliche con isolatori di porcellana e dei
sacchi di juta pietrificati. Lì spegniamo sempre le nostre torce e leggiamo le parole
di Fritz Weber. Certo che non potrai capire quell’inferno, nessuno di noi può.
Non lo capì all’epoca nemmeno il filosofo spagnolo Miguel de Unamuno, che nel settembre
1917 fu invitato assieme ad altri intellettuali a far visita al fronte italiano. Avvicinandosi
a Gorizia gli si figurò, disse, «il serpente argenteo dell’Isonzo» e «su quello splendido
panorama, i boati dei cannoni che laceravano le viscere del cielo», in un ospedale
registrò lo stupore del soldato a cui era stato appena tolto un metro di intestino,
mentre il massiccio del Monte Nero gli sembrava «un baluardo della città celeste.
I suoi strapiombi, solcati da vaste crepe verticali, da canali, da valanghe, paiono
difendere il trono di Dio. Tutto quello parla dell’infinito e dell’eterno», e ancora:
«quando saranno respinti i barbari definitivamente sino alle loro frontiere naturali,
ai boschi da cui secoli fa sono usciti per invadere le terre costiere latine? Quando
queste popolazioni del vino e dell’olio d’oliva riusciranno a contenere nei loro confini
le popolazioni della birra e del grasso?».
Il teorico del sentimento tragico della vita, colui il quale metteva l’uomo prima
del filosofo, l’uomo fine e non mezzo, animale sentimentale prima che razionale, e
che avversava alle persone che pensano solo col cervello quelle che pensano con il
corpo, l’anima, il sangue, i polmoni, col midollo delle ossa... era lo stesso che
inspiegabilmente non impazziva di fronte al sangue che scorreva a fiumi, a oceani
di fronte a sé. A tale mancanza di empatia si aggiungeva la sua inabilità a decifrare
storicamente ed etnicamente la terra in cui camminava: per lui tutti gli slavi del
Carso sono serbi, jugoslavi, pastori «dalla vita libera e selvaggia», «poeti delle
montagne». Come se non bastasse, quando nel golfo scorge da lontano Trieste, i primi
versi che gli sovvengono (e che traduce in spagnolo) sono tra i peggiori di Carducci,
quelli incisi ancora oggi in una lastra di pietra di fronte alla cattedrale di San
Giusto: «O Miramare, a le tue bianche torri / attediate per lo ciel piovorno / fosche
con volo di sinistri augelli / vengon le nubi».
Potremmo con superficialità stilare l’elenco dei buoni e dei cattivi. Prendercela
con gli interventisti e i guerrafondai, con i futuristi che auspicavano la guerra
come un farmaco e igiene del mondo, stigmatizzare i suoni esplosivi di Marinetti,
o Corrado Govoni quando scrive «Bella è la guerra! / È bello seminare coi fucili /
questa vecchia carcassa della terra» o «Nessuno ti metterà in prigione. / Puoi sfondare
se ti aggrada / una porta con una spallata, / salir le scale coi tappeti / senza pulirti
dal fango le scarpe, / scannare i servitori pieni di bottoni / più dei soldati, /
impiccare il proprietario / e prenderti la sua bella figlia / e godertela a sazietà»,
o Massimo Bontempelli che celebra la gioia di andare nel camminamento «per arrivare
a vedere / la carne tedesca cadere / afflosciati a testa in giù / porci insaccati
/ nel budellame dei cappotti blu». Sarebbe semplice opporre ad essi i versi umanissimi
del Porto Sepolto di Ungaretti, soldato sul Carso dei monti San Michele e San Martino, il suo cuore
in cui nessuna croce manca, il suo cuore il paese più straziato, il miracolo che vede
la mattina del 10 agosto 1916 dalla cima del San Michele conquistato, la vista che
arriva finalmente al mare da cui scaturirà il suo celebre «M’illumino / d’immenso».
O fare nostra l’invocazione di Andrea Zanzotto: «Rivolgersi agli ossari. Non occorre
biglietto. / Rivolgersi ai cippi. Con il più disperato rispetto».
Sarebbe facile oggi giudicare, farci tronfi del nostro manicheismo da poltrona. Ma
come spiegare la scelta di coloro i quali, animati da idee socialiste, parteggiarono
per l’entrata in guerra dell’Italia contro il suo alleato? Come spiegare la scelta
di chi, come Scipio Slataper, che ne Il mio Carso aveva incitato lo slavo a rompere le catene e farsi padrone, partì volontario lasciandoci
delle ultime pagine feroci proprio contro il fratello slavo? E come non mettere nel
gran calderone le storie di tutti quegli italiani che da Trieste e dintorni partirono
per servire l’imperatore e morirono nella lontana Galizia, o vagarono per anni nei
campi russi, e quando tornarono furono visti come dei traditori? Come non pensare
alla cifra stratosferica di 160 mila processi militari per diserzione celebrati durante
la guerra a carico dei soldati italiani? Ai più di 100 mila tra disertori e renitenti
alla leva, imboscati e espatriati, alla vigilia di Caporetto? Veniva fucilato, si
racconta, il soldato che fosse stato colto a intonare le strofe di una delle canzoni
di guerra più struggenti: “O Gorizia tu sei maledetta”.
Ricordo bene il giorno in cui, assieme a un gruppo di viandanti, su una delle terrazze
del Sentiero Rilke che si affacciano sull’Adriatico, ascoltammo la versione cantata
dal coro dell’Associazione Nazionale Alpini di Milano. A quel grido di disperazione
rivolto ai vigliacchi sui letti di lana e agli ufficiali scannatori di carne venduta
e rovina della gioventù, tutti avemmo la pelle d’oca. Poi, dal silenzio uscì la voce
vibrante di Giuseppe Nava, giovane poeta adottato da Trieste: «sedici militari ammutinati
/ presi con l’arma ancora scottante / furono senz’altro fucilati / logicamente e immediatamente
/ si sarebbe dovuto fucilare / tutti gli indiziati (centoventi) / del reparto tutti
i militari / veri e propri rei di rivolta armata / verso i propri diretti superiori
/ il comandante della brigata / impose che venisse sorteggiata / la decima parte del
battaglione / e questi furono immediatamente / fucilati senza esitazione / non si
ebbe alcun inconveniente / durante l’esecuzione». L’adattamento in versi delle sentenze
di morte comminate ai soldati italiani, un lavoro esemplare.
Ora che sei in cima all’Ermada (eh, si scrive anche così), prima ancora di consegnarti
al panorama, riascolta quella canzone, trema. La presa di Gorizia costò la vita, tra
italiani e austriaci, a quasi 100 mila ragazzi. Quando entrarono, i soldati italiani
trovarono 3 mila abitanti tra le macerie. 30 mila erano stati prima della guerra.
Ascolta la canzone seduto su un sasso, fai tue le parole dense di Renato Serra, scrittore
e critico di Cesena spedito al fronte nell’aprile del 1915 e poco dopo, il 20 luglio,
ucciso sul monte che ha ingoiato corpi a non finire, il Podgora. Prima di partire
redige il suo testamento morale, uno dei testi più forti del Novecento, l’Esame di coscienza di un letterato. «La guerra non mi riguarda», scrive, è solo un fatto, come tanti altri, enorme, ma
non aggiunge né toglie nulla, tutto tornerà come prima, amplifica la retorica, serve
a far guadagnare gente come D’Annunzio, ma in fondo «la guerra non cambia niente.
Non migliora, non redime, non cancella», né fa miracoli o lava i peccati, non cambia
i valori artistici, non cambia nulla nell’universo morale, «né il sacrificio né la
morte aggiungono nulla a una vita, a un’opera, a un’eredità. Il lavoro che uno ha
compiuto resta quello che era». La terra berrà il sangue degli uomini ed essi «dormiranno
insieme sotto le zolle».
E si chiede, inducendoci ad interrogarci: «che cosa diventano i risultati, le rivendicazioni
di territori o di confini, le indennità e i patti e la liquidazione ultima, sia pur
piena e compiuta, di fronte a ciò?». A che pro questa strage? «Ho rinunciato a vendicare
le vittime». Andare insieme, scrive Serra, per i sentieri, come formiche, marciare
e fermarsi, riposare e sorgere, faticare e tacere insieme. Quello stesso affratellarsi
predicato da un altro poeta al fronte, Piero Jahier, che a chi si immola per la storia
d’Italia, per le medaglie e per le ovazioni, per le aquile e le bandiere, preferisce
chi muore per il popolo illetterato e rassegnato che muore senza sapere il perché
– «tutti per uno / mano alla mano / dove si muore, discendiamo».
Dimmi, caro lettore, ora che vaghi spaesato nel Dosso delle Trincee, con il sangue
sotto le suole e il doppio cartello che annuncia in maiuscolo il CONFINE DI STATO
/ DRAVNA MEJA a pochi passi da te, che cosa provi? Tutto il dolore che ti invade
lo avresti percepito restando in città, indossando i panni del turista? Nel punto
in cui ti trovi non ci sono tabelle a spiegarti, né bar nelle vicinanze in cui prendere
un aperitivo. Resta dove sei, cammina, accovacciati, rialzati, fai la strada dei morti
come la ripercorse Ungaretti tornando in Carso mezzo secolo dopo. È il 20 maggio 1966,
il poeta, dopo avere solcato i trinceramenti che lo videro soldato, tiene un discorso
nel castello di Gorizia. Inizia fulmineo: il nome di questa città non è un nome di
vittoria, ma il nome di una comune sofferenza, «il Carso non è più un inferno, è il
verde della speranza».
Ungaretti non dice io, ma noi: nell’anima ci nacque una forza molto più importante
della guerra e della morte, «il sentimento che ogni uomo è, senza limitazioni né distinzioni,
quando non tradisce se stesso, il fratello di qualsiasi altro uomo». Le sue parole
dedicate a Stelio Crise, bibliotecario curioso, amico di tanti letterati triestini,
vengono di lì a poco pubblicate dal grande Vanni Scheiwiller, che in una nota confessa
di avere un debito con Fulvio Tomizza, il quale per primo gliene parlò facendogli
ascoltare una registrazione radiofonica. E così tutto torna: la landa pietrosa è stata
ricoperta dalla vegetazione, è tornato il verde, i morti su fronti avversi riposano
insieme, i sopravvissuti trovano la pace dove vi era la lotta, gli amici dei sopravvissuti
divulgano le loro parole di fratellanza.
Tutto torna se siamo disposti a farlo tornare. Se mentre camminiamo su questa linea
di confine ci mettiamo dalla parte della fragilità e non della forza, se mettiamo
i piedi nelle tracce di chi ci ha preceduto, se ci fermiamo al tavolino in legno che
vigila sulle fortificazioni del Monte Cocco, tiriamo fuori dallo zaino il cibo e lo
dividiamo con i nostri compagni, anche fossero solo fantasmi, se facciamo che quella
prima linea si illumini dei nostri sguardi amichevoli e non dei lampi dei bombardamenti.
Ti chiedo un ultimo sforzo. Vai alla fattoria Coisce, saluta le vacche che pascolano,
scendi lungo il sentiero 3a che circumnaviga la Dolina del Principe e da lì il 33
che porta allo Stagno del Pungitopo, meno di 500 metri parallelo alla ferrovia, ci
passi sotto e sei al Mitreo, uno dei templi dedicati al dio Mitra ricavati in cavità
naturale meglio conservati d’Europa, luogo misterioso che ci rimanda al tempo in cui
questo culto misterico gareggiò con il cristianesimo. Non è un caso che si trovi a
500 metri in linea d’aria dalle risorgive del Timavo, fiume mitico cantato nell’antichità
già da Virgilio, re indiscusso dei fiumi sotterranei che attraversano l’inferno, la
cui esplorazione ancora coinvolge appassionati di speleologia subacquea.
Lo trovi chiuso il Mitreo, a meno che tu non abbia la buona stella di arrivarci nelle
poche ore di apertura settimanale. Ma c’è anche un pertugio ricavato nella recinzione,
se osservi bene. Vuoi entrare? Fai come credi. A me ciò che preme è che tu diriga
lo sguardo al sottile lembo di terra che ti divide dal mare. Alla tua sinistra il
castello di Duino, di fronte a te il Bosco Cernizza, il Villaggio del Pescatore, il
promontorio Bratina, alla tua destra le risorgive del Timavo, la chiesa di San Giovanni
Battista, la cartiera, Monfalcone con i suoi cantieri. Prossima a te l’autostrada,
poco più in là la strada statale, dietro di te la ferrovia. Un rumore impressionante.
Fumi in lontananza. Prova a concentrarti.
Qui finisce la (ex) provincia di Trieste. Qui arrivano gli ultimi tentacoli della
grande Aquileia, si rendeva onore al dio Mitra, i pellegrini cristiani trovavano accoglienza
in un ospitale, passarono le armi di Alarico, Ricimiero, Attila, Odoacre, si impiccò
il fisico Ludwig Boltzmann, passeggiò Rilke, qui un tempo il paesaggio era bucolico
e immersi nella meraviglia si poteva sentire il boato delle bocche del Timavo. Cerca
di immaginare i poveri nostri soldati esitanti, alla tua destra. Il piano di D’Annunzio
è il seguente: dovranno lanciare delle passerelle sopra i rami del fiume, lasciarsi
alle spalle la zona impaludata, prendere la piccola altura di fronte a te, Quota 28
(il promontorio Bratina) e da lì, sempre di corsa, dirigersi verso il castello alla
tua sinistra, per issare il tricolore sulle sue rovine. Lo dicevamo all’inizio del
libro, ricordi? Gli italiani di Trieste, galvanizzati dalla bandiera, sarebbero dovuti
insorgere. Prima ovviamente sarebbero dovuti essere in grado di vederla, la bandiera.
Minaccia pioggia, i soldati sono esausti. Il maggiore Randaccio, che guida i “lupi”
della Brigata Toscana, è scoraggiato, l’impresa sembra improba, gli austriaci hanno
ampia visuale, sarebbero dei bersagli facili. D’Annunzio allora si precipita dal duca
D’Aosta e ottiene l’autorizzazione. È mezzanotte, si va, in fila indiana. Alcuni riescono
a raggiungere Quota 28, però subito iniziano le mitragliate nemiche. Quaranta soldati
si ammutinano, legano le camicie bianche alle baionette, gridano agli ufficiali di
non voler essere mandati al macello, qualcuno grida che in Austria si sta bene. Randaccio
ordina la ritirata. D’Annunzio li ha seguiti o è rimasto al sicuro? Il bollettino
ufficiale dice di sì, ma possiamo dubitare. I colpi nemici continuano. Randaccio è
ferito, D’Annunzio lo avvolge nel tricolore e lo tiene in un abbraccio. Nel frattempo
ordina di sparare sui soldati italiani fatti prigionieri al di là del fiume. Randaccio
sa che D’Annunzio porta con sé una capsula di veleno, gliela chiede tre volte, e per
tre volte il Vate rifiuta. Nell’orazione funebre che egli stesso pronuncerà, la risposta:
«Era necessario che soffrisse affinché la sua vita potesse diventare sublime nell’immortalità
della morte». Sei indignato abbastanza? Aspetta.
Laggiù, sulla strada, da qui non puoi vedere, c’è uno sperone di roccia coronato da
due lupi. Te ne sei accorto sicuramente arrivando a Trieste in automobile. No, non
è una scultura che celebra il nostro animo selvatico. Come puoi intuire è dedicata
ai ragazzi che in quel luogo caddero per soddisfare la megalomania di un poeta. Anche
quelle bestie metalliche hanno avuto una vita travagliata: il primo monumento, inaugurato
nel 1938, viene distrutto durante la Seconda guerra mondiale. Dai nazisti? Dai titini?
Non si sa. Ne viene inaugurato un altro, nel 1951 (non un giorno a caso: il 3 novembre),
che a più riprese viene preso di mira negli anni successivi.
Senza pace, anche i lupi. La pace che speriamo abbia raggiunto Randaccio, sepolto
nel Cimitero degli Eroi di Aquileia assieme a dieci soldati senza nome scelti nei
cimiteri militari e sui campi di battaglia del fronte. L’undicesimo riposa altrove.
A pochi passi da lì infatti, nella basilica di Aquileia, Maria Bergamas di Gradisca
d’Isonzo, madre di un ragazzo disperso, in un giorno di fine ottobre del 1921 scelse
la bara contenente i resti di quello che sarebbe diventato il Milite Ignoto (espressione
coniata da D’Annunzio). La cassa, sul cui coperchio oltre a una medaglia fu posta
l’alabarda di Trieste, partì su un treno che, vagone aperto per potere essere omaggiato,
impiegò quasi una settimana per arrivare a Roma.
Avrei potuto non indugiare su tanti particolari. L’ho fatto per ricordarci che siamo
debitori verso il sangue versato dai nostri avi. Per ricordare che molto probabilmente
la gran parte di noi ha avuto un parente morto tra questi sassi. È vivo e forte in
me il ricordo di una giornata di cammino sul Monte Hermada di qualche anno fa: un
anziano signore del mio gruppo, italiano ma da decenni trasferitosi in Scandinavia,
dopo giorni in cui era stato per lo più in silenzio prende la parola. Qui, dice, hanno
combattuto e hanno perso la vita i miei zii. Quelle morti divennero nella mia famiglia
un tabù. Sono finalmente venuto a fare una cosa che desideravo da lungo tempo. Non
disse molto altro, o non lo ricordo. So che mi fece impressione. Prendere un aereo,
mettersi uno zaino in spalla, camminare per giorni con il vento e la pioggia, avendo
più di ottant’anni, non per rivendicare, solo per rendere omaggio, per sanare una
ferita.