Capitolo XV
Capitale moderna, fatiche contemporanee
Da via Cristoforo Colombo entro all’EUR, il quartiere che Mussolini fondò per realizzarvi
l’Esposizione universale del 1942. Qui la mia famiglia si è trasferita nel 1960.
Durante le pause digestive, seduto nel mio bagno, osservavo il backstage del cuore politico del paese. Ero un bambino di 8 anni, e mi fu spiegato che quelle
signore che distrattamente limavano le unghie, conversavano tra loro, compilavano
la «Settimana enigmistica» e parlavano al telefono nel palazzo dirimpetto erano assistenti
del segretario della Democrazia cristiana. Chiesi un giorno a mio padre: «Ma, allora,
in che consiste la politica?». A distanza di molti anni, una delegazione della città
di Roma riscontrò l’interesse per quello stesso edificio, la sede della DC di piazza
Luigi Sturzo progettata negli anni Cinquanta dall’architetto Muratori, da parte di
un importante imprenditore newyorkese; all’epoca, una persona distante dall’impegno
politico. L’avevamo incontrato, nel palazzo di Manhattan con il suo nome a grandi
lettere, la Trump Tower, su suggerimento dell’allora sindaco Rudy Giuliani.
Effettivamente, i rappresentanti di Risorse per Roma, latori di alcune opportunità
di investimento nella nostra capitale, avevano attirato l’attenzione di Donald Trump
sulla possibilità di trasformare quell’edificio – che aveva perduto la sua vecchia
funzione di sede della DC – in un albergo. Alla fine non se ne fece nulla, come dell’ipotesi
che Trump mi lanciò, in modo veramente spiritoso, di realizzare un’edizione di ‘Miss
Universo’, di cui è titolare, dentro il Colosseo. Nella frenetica polarizzazione politica
di cui è stato promotore e protagonista, ovviamente anche il presidente Usa non è
stato risparmiato da acrimoniosi riferimenti alla storia di Roma. Bernie Sanders,
alla convention democratica dell’agosto 2020 a Milwaukee, lo ha paragonato a Nerone:
«Lui suonava mentre Roma bruciava. Trump gioca a golf». Secondo sua nipote Mary Trump,
«Qualcuno ha paragonato i Trump ai Borgia. Ma almeno i Borgia hanno promosso le arti».
Potrebbe apparire difficile trovare, in un quartiere così recente, nato dove c’era
campagna fino agli anni Trenta del secolo scorso, tracce di quelle trasformazioni
e reinvenzioni che ci accompagnano nel viaggio per le strade di Roma. L’EUR è come
una ‘città di fondazione’, tracciata su terreni legati solo a tradizioni agricole.
Dunque, si direbbe, senza stratificazioni storiche. Invece, molte se ne possono trovare.
Visitando con occhi diversi il quartiere, con le sue architetture fasciste rielaborate
nel dopoguerra, tra celebrazione del regime, razionalismo e successive sedi ministeriali,
sareste sorpresi di poter entrare in una villa romana, da cui un ricco signore voleva
affacciarsi direttamente sul mare. Una domus che fu rimossa dopo essere stata scoperta dall’archeologo Giovanni Becatti, a Porta
Marina (Ostia antica), e successivamente scavata per molti anni. Si apprese che crollò
prima di essere abitata. Un evento sfortunato per il proprietario, ma felice per noi
che, 1600 anni dopo, abbiamo potuto ‘rimontarla’ nel piccolo, delizioso Museo dell’Alto
Medioevo dell’EUR, preziosa testimonianza del tardo antico, con le sue clamorose tarsie
marmoree colorate (l’opus sectile dei Romani). Le scene del leone e della tigre che azzannano altri animali sono emozionanti,
non meno della sofisticazione dell’intero complesso.
Attraversiamo due strade e, giusto di fronte a un capolinea di autobus, fuori della
sede dell’EUR Spa, c’è una scultura moderna, uno strano monumento, a voler leggere,
dedicato al Genio dello sport. Il bronzo dello scultore Griselli raffigura un atleta,
e parrebbe un ricordo delle molte realizzazioni per le Olimpiadi del 1960, come il
Palazzo dello Sport di Nervi e Piacentini e diversi altri impianti sportivi. Invece
no. È un ribattezzamento, abile e singolare, di una statua celebrativa (Il genio del fascismo), in cui si ritrae un giovane che compie il saluto fascista. Anziché venire distrutta,
nel dopoguerra venne travestita, grazie a una semplice corona d’alloro e ai guanti
sportivi. Ben più drammatici, dall’altro lato di via Colombo, il concepimento e poi
la trasformazione edilizia che hanno portato alla costruzione del vasto ospedale Sant’Eugenio.
Nel disegno di Mussolini, la struttura – a forma di castello, con le sue torri, a
mo’ di protezione della nostra civiltà – doveva ospitare l’Istituto centrale di bonifica
umana, ovvero la sede concepita per le scellerate sperimentazioni a difesa della razza.
Evento ignorato da chi vi lavora e chi vi accede, e però indimenticabile.
Guardo all’architettura ambiziosa della Nuvola di Massimiliano Fuksas – cui assegnammo la vittoria del concorso per il nuovo Centro
congressi, nell’ormai lontano 2001 – e provo a chiudere gli occhi. Cosa c’era prima?
Nulla. Un prato, l’ultimo lotto vuoto del quartiere EUR. A seguire, le mutazioni locali
videro un parcheggio abusivo e un po’ di banchi di un disordinato mercato all’aperto.
Risalendo agli anni Sessanta, però, quello spazio senza funzioni ospitò e animò un
capolavoro del cinema italiano, l’episodio di Boccaccio ’70 firmato da Federico Fellini e scritto anche da Ennio Flaiano. Il dottor Antonio –
Peppino De Filippo – è il perbenista moralista che delira proprio su quel prato davanti
al cartellone pubblicitario in cui Anita Ekberg mostra i seni, lo seduce, lo attira,
lo fa impazzire.
* * *
Le strade dritte e ben disegnate dell’EUR fanno riflettere sulla rarità di arterie
lineari nella storia di Roma. Molte volte mi sono sentito dire, in ogni parte del
mondo: «Sì, Roma non fu fatta in un giorno, come dice l’antico proverbio. Sappiamo
che, quando si scava, si trovano antiche meraviglie. Ma può spiegarmi, poiché Roma
è spesso paralizzata dal traffico, il motivo per cui non siete riusciti a fare, poniamo,
il Ring che ha risolto la mobilità a Vienna o i grandi viali parigini? O le centinaia
di stazioni del Tube di Londra?».
La congestione, certo, è un fenomeno antichissimo. Chi abbia letto Marziale o Giovenale
ha colto – per quanto temperati dalle loro espressioni satiriche – gli aspetti di
esasperazione, talvolta di angoscia, che affliggevano la caotica vita quotidiana dei
Romani antichi. Tra i grandi pontefici del Rinascimento, sappiamo che ve ne fu uno,
il ‘papa tosto’, Sisto V, che puntò spregiudicatamente a dotare la città di grandi
assi stradali anche come sviluppo di alcune sistemazioni volute dai suoi predecessori
che, certo, comportarono lo smantellamento di ampi tratti di tessuto urbano.
Dopo la creazione dello Stato unitario, molte vie sono state tracciate con linee rette,
associate a una nuova edilizia generalmente modesta, se non a propositi speculativi.
Emblemi delle nuove urbanizzazioni: via Nazionale, per collegare il centro città con
la moderna Stazione Termini, dall’esedra delle Terme di Diocleziano abbellita dalla
Fontana delle Najadi sino ai Mercati di Traiano, o i reticoli dei nuovi quartieri
residenziali dell’Esquilino e di Prati. Fu Ernesto Nathan l’unico sindaco che cercò
di dare un’anima moderna a Roma, per cui alcune strade diritte accoglievano anche
il servizio pubblico delle prime tramvie, e l’edilizia non avrebbe dovuto solo obbedire
a esigenze speculative. Determinante fu il contributo razionale del Piano regolatore
firmato da Edmondo Sanjust di Teulada; nella pagina conclusiva della sua Relazione al Piano (1908) si legge:
Raramente si vedono, in città veramente progredite, i tentennamenti e le oziose e
talvolta acri discussioni che accompagnano a Roma l’esecuzione di qualsivoglia lavoro
importante. Dicesi da molti che le discussioni più vive sorgano per l’amore dell’arte,
anzi per la suprema ragione della sua difesa. Non lo credo, e non lo credo perché
la conseguenza di tale deplorevole sistema non è stata la difesa dell’arte, ma talora
la sua completa disfatta.
Nathan è stato punito per quasi un secolo, per le sue radici, le sue ragioni, le sue
scelte. Nato a Londra, ebreo laico, Gran Maestro della massoneria, anticlericale,
democratico radicale. Riformatore, attento alle sfide sociali, in particolare all’istruzione
e all’alfabetizzazione nelle aree rurali, all’istituzione dei servizi pubblici. È
lui la fonte del celebre motto popolare ‘non c’è trippa per gatti’, legato alla cancellazione
con un tratto di penna di una voce del bilancio comunale. Quella per la fornitura
di trippa nel Foro Romano, per alimentare i gatti e contrastare così la proliferazione
dei topi. Hanno voluto dimenticare Nathan dapprima i clericali, poi i fascisti. Nel
dopoguerra, i democristiani lo hanno liquidato; le sinistre lo hanno considerato troppo
intransigente e scomodo. La mia amministrazione gli ha voluto restituire l’intitolazione
della scuola di via dell’Olmata, che era stata eliminata; gli ha tributato la targa-riconoscimento
nella casa di via Torino dove aveva vissuto; e ha organizzato convegni storici per
restituire luce alla sua figura. Ho avuto un privilegio, in cambio: il dono da sua
nipote Virginia Nathan della raccolta degli scrittidi Giuseppe Mazzini (1861) proveniente dalla loro casa, che Mazzini aveva a lungo,
e familiarmente, frequentato. Noi facemmo alla sua memoria un regalo prezioso, trasformando
il monumento dismesso, testimone dell’elettrificazione della città e della nascita
di quel servizio pubblico, la Centrale Montemartini di via Ostiense (realizzata dal
brillante suo assessore Giovanni Montemartini), in uno dei musei più innovativi in
Italia, dove l’archeologia – con importanti collezioni capitoline – incontra l’archeologia
industriale. Un suo suggestivo utilizzo/divulgazione per il grande pubblico si trova
in uno dei grandi film di Ferzan Özpetek, Le fate ignoranti.
Il successivo ‘diradamento edilizio’ – teorizzato da Gustavo Giovannoni –, che cercò
di sistemare la viabilità rimuovendo elementi sia storici che di degrado abitativo
(in particolare, portando alla creazione del corso Rinascimento, che costeggia piazza
Navona e il Senato e collega Sant’Andrea della Valle al Lungotevere), lasciò presto
spazio all’impaziente piccone demolitore di Mussolini, il cui proposito urbanistico
fu assolutamente politico, legato ad una interpretazione retorica della grandezza
di Roma che doveva riflettersi nelle sue realizzazioni nella capitale. Anche grazie
al lavoro di Giuseppe Bottai (che fu governatore di Roma e, come ministro dell’Educazione
nazionale, l’autore delle prime leggi per la tutela del patrimonio artistico, archeologico
e del paesaggio), non si produssero solo scempi, come sappiamo: quartieri di edilizia
razionale, la Città universitaria, il progetto dell’EUR, il Foro Mussolini (oggi Foro
Italico), la nascita di Cinecittà o dell’Istituto centrale del restauro. Il tutto,
però, all’interno di un disegno che ha molto nuociuto a Roma, con l’intento di ‘far
giganteggiare’ i monumenti antichi cancellando preziosi contesti nell’area centrale,
e con l’espulsione nelle periferie (le nuove ‘borgate’) di migliaia di famiglie dei
ceti popolari.
* * *
Uno degli aspetti più negativi della nuova Roma nella nuova Italia è stata la retorica
sull’antica grandezza. In parte giustificata dalla poca esperienza dei nuovi governanti
e dalla cesura indispensabile rispetto al governo del papa-re. Al vertice di questa
retorica furono la narrazione e i cerimoniali del ventennio di Mussolini, secondo
il quale «Il saluto romano; tutti i canti e le formule, le date e le commemorazioni,
sono indispensabili per conservare il pathos ad un movimento. Così è già stato nell’antica
Roma». Scelta ‘militante’ e priva di fondamento storico, ispirata piuttosto, con la
consulenza di Gabriele D’Annunzio, ai saluti cinematografici del film Cabiria (1914). Il solenne gesto della statua di Marco Aurelio – tendere la mano era prerogativa
del principe – indicava esattamente l’opposto di un gesto militaresco: era piuttosto
un segno di pacatio orbis o restitutio pacis, con l’imperatore in abiti civili quale garante della pacificazione universale. Il
Duce, peraltro, ha avuto (almeno) una doppia vita: quella socialista massimalista
nel 1910 lo aveva spinto a denunciare Roma come «città parassitaria, di affittacamere,
di lustrascarpe, di prostitute, di preti, di burocrati». «Basta, dunque, con lo stupido
pregiudizio unitario per cui tutto, tutto, dev’essere concentrato a Roma, in questa
enorme città vampiro che succhia il miglior sangue della nazione.» Come ha giustamente
notato Vittorio Emiliani, Roma è stata assai danneggiata dall’identificazione con
il Mussolini del processo di accentramento autoritario e demagogico che è venuto crescendo
con lo sviluppo del potere della dittatura. «Il mussolinismo è diventato, agli occhi
benevoli e malevoli degli italiani, Roma stessa», scrive Emiliani in Roma capitale malamata (2018), «Una identificazione fra Roma e Mussolini rafforzata a livello popolare con
l’effetto dei cinegiornali Luce e con Cinecittà, e soprattutto con due grandi opere
[il Foro Mussolini e la Città universitaria]».
In altri processi storici troviamo traccia della ricerca di legittimazione nel richiamo
alle istituzioni, alla forza militare, al dominio organizzativo di Roma antica: una
lunga serie di abusi, dal Medioevo all’età moderna, gravi soprattutto quando sono
serviti a legittimare falsamente un ‘uomo forte’. Lo si veda per l’utilizzo delle
aquile delle legioni romane, da Napoleone a Hitler, o in diversi segni magniloquenti
dell’urbanistica nazista; sino all’estremo ordine di propaganda che il Führer impartì
a Goebbels dal bunker berlinese, poche settimane prima della fine, per associare i
rovesci della sua guerra a quelli dei Romani davanti ai Cartaginesi, nell’ansia che
anch’essi potessero tradursi nella vittoria finale.
* * *
È stata grande la fatica contemporanea della città nel misurarsi con le necessarie
trasformazioni dell’eredità materiale della storia. Nel secondo dopoguerra, ci si
è dedicati a una massiccia ondata di costruzioni, che in diversi casi hanno fatto
rimpiangere la cattiva qualità delle precedenti ‘febbri edilizie’. Roma, passata da
mezzo milione di abitanti a inizio Novecento a un milione tra fine del fascismo e
secondo dopoguerra, diviene una città di quasi tre milioni di abitanti. Il Piano regolatore
del 1962 aveva legittimato una dimensione di 5 milioni di abitanti, assolutamente
spropositata, e tale da consentire di cambiare destinazioni urbanistiche, da agricole
a edificabili, con varie funzioni – residenziali, direzionali, commerciali, servizi,
viabilità, ecc. La tipologia edilizia più deprecata, la ‘palazzina’, dà origine a
una definizione che accompagnerà per decenni la denuncia delle speculazioni edilizie:
i ‘palazzinari’. Ma verranno realizzate anche costruzioni di qualità secondo questo
formato edilizio (da Moretti a Luccichenti, da Piccinato a Gio Ponti, solo per citare
alcuni nomi di architetti). Le massicce edificazioni consentirono a buona parte dei
ceti popolari di avere abitazioni decenti; anche se furono le drammatiche mancanze
di servizi e infrastrutture in molte aree periferiche a determinare disfunzioni che
tuttora pesano sulla vivibilità della capitale. L’eliminazione delle peggiori realtà
di degrado – come le ‘baraccopoli’ – resta uno dei principali meriti delle giunte
di sinistra dalla fine degli anni Settanta, il cui emblema fu l’impegno appassionato
del sindaco Luigi Petroselli.
Solo dalla metà degli anni Novanta si marcherà, con il ‘Piano delle Certezze’ e la
Variante urbanistica di salvaguardia varati dalla nostra amministrazione, una definitiva
inversione di tendenza e, oltre a preservare circa i due terzi del territorio comunale
dalle edificazioni, si indicherà la necessità di collegare con il trasporto su ferro
i grandi quartieri popolari: oltre 280 chilometri di ferrovie urbane e regionali entreranno
in funzione prima del 2000 (molto più rapide da mettere in esercizio, con la nuova
politica della ‘cura del ferro’ in collaborazione con FS, rispetto alla complessa
costruzione di metrò sotterranei), integrate con la rete del trasporto pubblico. Anche
se non si è purtroppo concretizzata un’adeguata regia pubblica nelle aree designate
per le indispensabili ‘nuove centralità’ urbane e metropolitane. Il punto strategico
di crisi oggi non risiede infatti nel consumo dei suoli (il 25% del territorio comunale
a Roma; il 66% a Torino, il 63% a Napoli, il 57% a Milano), ma nella dispersione del
costruito che priva molti agglomerati di un effetto-città, in termini di accessibilità,
servizi, qualità e vivibilità comunitaria. Con questo dovrà misurarsi una diffusa
ed efficace politica di rigenerazione urbana. Ha scritto Walter Tocci: «Oggi viaggiando
sulla Tiburtina si vedono edifici industriali trasformati nei contenitori psichedelici
dei giochi a scommessa». «Le insegne pubblicitarie annunciano che Las Vegas è qui
a Roma, come una mesta e inconsapevole omologazione delle due città.» Robert Venturi
è morto due anni fa, e non ha fatto in tempo ad accorgersene.
Il dibattito sulle scelte urbanistiche è stato a lungo dominato dalla sproporzione
tra le nuove edificazioni e il corpus antico esistente, essendo infrequenti le realizzazioni di buona qualità architettonica
(solo per accenni, il quartiere Coppedè, la Città Giardino, la Garbatella, progetti
di Libera, Ridolfi, Aschieri, De Renzi) in contesti bene attrezzati con servizi moderni.
I frequenti disastri compiuti nelle periferie hanno dunque spinto a pretendere di
scongiurare ogni manomissione nell’area centrale. Un caso emblematico: il fallimento
di progetti e concorsi per realizzare un’addizione ai palazzi in piazza del Parlamento,
nel sito di uno squallido parcheggio e di edifici diroccati. Il trauma delle demolizioni
e degli sventramenti del ventennio si è riflesso in una doverosa cautela; ma, alla
fine, si è tradotto in una paralisi assoluta delle trasformazioni urbanistiche di
qualità.
Solo negli ultimi anni del secolo fu possibile riportare alcuni segni architettonici
importanti nel centro storico. Tre casi approdarono al risultato. Il primo è stato
quello della nuova ala dei Musei Capitolini, di cui già abbiamo parlato. Il secondo,
quello relativo al processo – pochissimo conosciuto – che ha consentito di installare
una moderna biblioteca in uno dei contesti più delicati e complessi, partendo dal
palazzo disegnato da Federico Zuccari in via Gregoriana, con le finestre-mascheroni
in mirabile stile manieristico. Un caso veramente speciale, seguito da Mimmo Cecchini
con la dedizione propria dell’architetto, per far selezionare attraverso un concorso
alla Biblioteca Hertziana e alle istituzioni tedesche – sotto la guida del grande
storico dell’architettura Luitpold Frommel – il progetto che consentisse di demolire
il precedente e inadeguato edificio interno e realizzare un’infrastruttura moderna.
Il concorso fu vinto dall’architetto Juan Navarro Baldeweg ma, attenzione: gli scavi
per le fondazioni incontrarono subito resti impressionanti degli antichi Orti di Lucullo.
Come integrare l’architettura contemporanea (e il peso massiccio di centinaia di migliaia
di volumi d’arte) con la tutela archeologica, in un palazzo tardo rinascimentale?
Si è potuto farlo integrando qualità del progetto e tecnologie italiane: le micro-palificazioni
che sorreggono la nuova biblioteca, infatti, mettono in luce e proteggono i resti
degli antichi giardini romani, consentono la vita di questa istituzione e l’accesso
di studenti e studiosi all’interno di un innovativo complesso.
Molto più complicata la costruzione della nuova teca dell’Ara Pacis, in sostituzione
della precedente struttura. Si trattava di una garbata, ma assolutamente inadeguata
custodia in cemento realizzata dall’architetto Ballio Morpurgo nel contesto della
(fallimentare) sistemazione dell’area dell’Augusteo per volontà di Mussolini. Il Duce,
novello Augusto, volle inaugurare la ricostituzione dell’Ara Pacis in occasione del
bimillenario della nascita del primo imperatore. Augusto aveva realizzato un dominio
pacificatore sul mondo conosciuto portando i suoi eserciti sino in Etiopia (dove il
Duce avrebbe fondato il proprio effimero impero) e in Arabia Felix. Il monumento è di competenza del Comune; il soprintendente La Rocca mi aveva segnalato
a più riprese l’allarme di tecnici e studiosi: l’Ara Pacis era ‘cotta’. Le vibrazioni
del traffico del Lungotevere e la disastrosa climatizzazione stavano arrecando danni
molto gravi. Come fare a realizzare una nuova struttura protettiva? «Non ci riuscirai
mai», mi disse un grande uomo, il critico d’arte Federico Zeri. Altri suoi colleghi,
meno costruttivamente, si sarebbero ingegnati ad organizzare campagne para-terroristiche
sullo ‘scempio dell’Ara Pacis’.
Lo sblocco della decisione avvenne su strade non proprio romane: il marciapiede ghiacciato
della Promenade, via centrale di Davos, in Svizzera, in occasione di un World Economic
Forum; poi la 10a Avenue, tra 36a e 37a Street West, a New York, per la firma del
contratto in uno studio di architettura. Riuscii a convincere Richard Meier, dopo
aver puntato sull’affidamento diretto dell’incarico progettuale del nuovo contenitore
dell’Ara Pacis ‘per chiara fama’, anziché con una delle decine di concorsi che avevamo
stabilito come metodo privilegiato per le trasformazioni di Roma. Per tre ragioni:
Meier era uno dei migliori architetti di musei al mondo (da Francoforte a Los Angeles,
a Barcellona); il suo stile razionalista, essenziale era in grado di dialogare in
modo adeguato con le costruzioni di piazza Augusto Imperatore; soprattutto, se avessimo
lanciato un concorso, si sarebbe arenato al pari di tutte le precedenti esperienze,
esattamente come i progetti per piazza del Parlamento – davvero non ce l’avremmo fatta.
Invece, ce l’abbiamo fatta. Nonostante minacce di rimuovere o demolire il nuovo contenitore
dell’Ara Pacis (e malgrado non sia stata tuttora messa in funzione la prevista terrazza-ristorante-belvedere
che guarda sul Lungotevere), esso è divenuto il secondo museo civico più frequentato
di Roma, preceduto solo dai Musei Capitolini, ospitando l’illustre Altare della Pace
e il piccolo museo dedicato ad Augusto, accogliendo mostre importanti.
* * *
In viaggio in una grande città del mondo cerchiamo le trasformazioni e i segni nuovi
delle architetture. Prima, apprezziamo la qualità dei servizi per tutti. Ci piace
vedere se funzionano meglio dei nostri: come si registra un contratto d’affitto, come
si paga il biglietto del tram, come arrivano le informazioni in caso di emergenza
maltempo, e così via. Anche in questo le città possono progredire o regredire (se
penso che con l’assessore Piero Sandulli, venticinque anni fa, avevamo automatizzato
la consegna a vista delle carte d’identità a Roma; o sperimentato il voto digitale
in 10 seggi per le elezioni europee del 1994...). Però ci piace soprattutto leggere
i cambiamenti fisici: il profilo di New York, capitale mondiale del XX secolo, o i
nuovi edifici di Berlino, le incessanti trasformazioni di Shanghai e di altre città
asiatiche, o la frenesia di Dubai. Qual è un pezzo di Roma che ci può far dialogare
con l’architettura contemporanea? Certamente abbiamo potuto realizzare opere importanti
nel tessuto cittadino diffuso; per citare solo alcuni esempi, la nuova Stazione Tiburtina
di Paolo Desideri, la chiesa Dio Padre Misericordioso dello stesso Meier a Tor Tre
Teste (come diverse altre chiese per il Giubileo 2000), o i vari interventi del progetto
urbano Ostiense-Marconi, specialmente per la nuova Università Roma Tre.
Per cercare di capire meglio realtà e contraddizioni, proviamo a seguire la via Flaminia,
dopo Porta del Popolo. Senza bisogno di rintracciare nel sottosuolo l’infilata di
sepolcri affiancati alla strada – il carattere funerario era esclusivo sino al raggiungimento
del Tevere, a ponte Milvio. E senza bisogno di attraversare il fiume, per iniziare
il magnifico itinerario che ci porta verso il Nord-Est, verso l’Adriatico, attraversando
paesaggi mirabili umbri e marchigiani, sino a Fano, Pesaro, Rimini (con l’arco dedicato
ad Augusto). Ci fermiamo nel quartiere Flaminio, esperienza illuminante delle potenzialità
e dei ritardi, delle novità e degli abbandoni della Roma di oggi.
Il Flaminio è il quartiere che riunisce la più significativa successione di segni
architettonici del nostro tempo. Per i Giochi del 1960, furono costruiti gli edifici
che ospitavano il Villaggio Olimpico, disegnati da grandi architetti (Moretti, Cafiero,
Libera, Monaco), il Palazzetto dello Sport e lo Stadio Flaminio progettati da Nervi.
Già qui dobbiamo fermarci. In quale città del mondo si considera uno stadio come fosse
una scultura, un’opera d’arte? Da decenni, nel passaggio tra amministrazioni, il Flaminio
è divenuto più intoccabile di una vacca sacra. Ma non esiste al mondo uno stadio realizzato
settant’anni fa che sia rimasto intatto, vincolato perché asseritamente intangibile,
e dunque in rovina. Si tratta di un’architettura concepita per una funzione. Se la
funzione cambia – per esigenze di sicurezza, di accessibilità per le persone disabili,
per le nuove regole della fruizione –, l’architettura deve potersi adattare oppure
essere radicalmente trasformata, come è avvenuto per tutti gli stadi realizzati a
metà del secolo scorso. Dunque, per risolvere il degrado del quartiere Flaminio, lungo
la via Flaminia, non si può che trasformare il vecchio stadio; chiedendo magari al
nuovo progettista di incorporare simbolicamente un segno del grande Nervi, ma di dar
corso a nuove risposte alle nuove esigenze (sportive e di concerti; con una struttura
coperta, anche al fine di abbattere i decibel).
Il panorama urbano merita un progetto d’area (del genere di quello messo in atto con
successo all’Ostiense), in cui unire con infrastrutture verdi e servizi il Flaminio
con l’altro lato del Tevere e Monte Mario tramite il ponte della Musica dedicato ad
Armando Trovajoli; non solo le architetture degli anni Sessanta – di cui fanno parte
le strutture, disegnate da Morandi, del viadotto di corso Francia – e due tra i maggiori
nuovi interventi architettonici urbani dell’Italia contemporanea: l’Auditorium Parco
della Musica, e il MAXXI, Museo delle arti del XXI secolo. Di queste realizzazioni,
cui ho dedicato il mio impegno per oltre dieci anni, non voglio ricordare l’indiscutibile
successo, ma l’immane fatica. Quando abbiamo posato la ‘prima pietra’ dell’Auditorium,
abbiamo deciso che dovesse essere un albero. Perché crescesse, abbiamo dovuto compiere
tre salti mortali, quasi da primato: rescindere il contratto con l’impresa che aveva
vinto la gara, ma non onorava il contratto (nonostante il rischio elevato, un’altra
grande azienda è subentrata, assumendo gli stessi obblighi del vincitore); convincere
il Consiglio superiore dei lavori pubblici, che aveva bocciato il progetto di Renzo
Piano asserendo che le coperture in legno lamellare sarebbero potute crollare (perché
sconosciute nei disciplinari tecnici in vigore), che ciò non era vero; infine, modificare
in corso d’opera il progetto assieme a Piano e con il cantiere aperto, dopo il rinvenimento
di una villa e insediamenti rurali romani, i cui resti non risultavano da nessuna
fonte, né si erano manifestati durante i sondaggi archeologici preliminari.
Niente di più formativo, nella mia vita. Nessuna migliore prova di un gioco di squadra
che ha visto, nel tratto decisivo, l’impegno straordinario di un politico di livello
ed esperienza come Goffredo Bettini. Dopo l’inaugurazione della cavea all’aperto,
nel 1997, la prosecuzione con la massima determinazione dei lavori e il mantenimento
dell’impegno di inaugurare l’Auditorium per il 21 aprile del 2002, un anno dopo la
fine del nostro mandato (grazie a Walter Veltroni, che si sarebbe dedicato anche alla
brillante partenza della gestione di questa cittadella delle culture). Anche la vicenda
del MAXXI è eloquente, a proposito delle fatiche del realizzare. Decidemmo la localizzazione
con l’individuazione del progettista, Zaha Hadid, assieme a Giovanna Melandri, ministro
della Cultura. Quando mi sono trovato in quella stessa posizione, però, il cantiere
era bloccato perché senza fondi. Con il capo di Gabinetto del MIBAC – oggi, la prima
donna avvocato generale dello Stato – Gabriella Palmieri e con Guido Improta e Vincenzo
Spadafora lanciammo la caccia grossa a tutte le risorse per investimenti incagliate
e inutilizzate dal ministero; le riorientammo, tra mille tormenti, per completare
il MAXXI, secondo il nuovo cronoprogramma che fu finalmente rispettato.
Se si vorrà dunque presentare ai visitatori di Roma un quartiere ricco di architetture
contemporanee e urbanisticamente vivo (anche attraverso nuove sfide, come la trasformazione
delle ex caserme di via Guido Reni e dello Stadio Flaminio), ecco l’opportunità giusta.
* * *
Non sono mancate, nei secoli, radicali accuse e anche denigrazioni nei confronti di
Roma. Da Denis Diderot, nell’Encyclopédie, a un patriota come Francesco Saverio Nitti, a Mussolini, come abbiamo visto. Ma
mi piace ricordare le valutazioni depresse e sconsolate di Carlo Emilio Gadda contro
Roma, da lui paragonata criticamente al dinamismo di Milano. Noi riportammo le spoglie
del grande scrittore a Roma, nel cimitero acattolico dell’Ostiense, adempiendo a un
suo estremo desiderio. Acconsentì a questa scelta, con grande correttezza, il sindaco
di Milano Gabriele Albertini: l’autore del Pasticciaccio era uno dei tanti artisti che avevano talvolta odiato, ma alla fine perdutamente
amato, la Città Eterna – l’odi et amo di Catullo. Lo stesso Albertini ha ricordato pubblicamente il nostro scambio dal
balconcino che si affaccia dalla stanza del sindaco sul Foro Romano. Lui: «Ti invidio,
per questa veduta eccezionale». Io: «Ti invidio per i milanesi, con la vostra capacità
di lavorare facendo squadra».
Le ragioni contemporanee di Roma capitale possono tuttora essere riassunte nelle parole
pronunciate da Cavour a Torino, davanti al Parlamento del Regno il 25 marzo 1861:
«Senza Roma, capitale d’Italia, l’Italia non si può costituire». Pur dichiarando autoironicamente
un’«indole ‘poco artistica’» e la personale certezza di rimpiangere «le severe e poco
poetiche vie della mia terra natale», una volta «in mezzo ai più splendidi monumenti
di Roma antica e di Roma moderna», Camillo Benso di Cavour dichiarò con energia davanti
agli oppositori, tra cui Massimo d’Azeglio:
In Roma concorrono tutte le circostanze storiche, intellettuali, morali che devono
determinare le condizioni della capitale di un grande Stato. Roma è la sola città
d’Italia che non abbia memorie esclusivamente municipali; tutta la storia di Roma
dal tempo dei Cesari al giorno d’oggi è la storia di una città la cui importanza si
estende infinitamente al di là del suo territorio.
Cavour sarebbe morto appena dieci settimane dopo quel discorso, e non avrebbe visto
gli effetti della sua consapevolezza politica. Se non ci dimostrassimo all’altezza
della volontà sua e di molti altri fautori del progresso del nostro paese, Roma meriterebbe
di sprofondare in uno dei suoi periodi ripiegati e depressivi.
Le ragioni contemporanee di Roma non possono infatti emergere solo dalle esperienze
trimillenarie che declinano quello stesso avverbio, «infinitamente». Essere capitale
in tempi difficili significa meritarlo. Celebrare il centocinquantenario di Porta
Pia e quello del trasferimento a Roma del Governo e del Parlamento unitario significa
saper dimostrare le potenzialità strategiche, il fascino, l’inclusività, oltre che
la necessità, di questo mandato di rappresentanza dell’intero popolo italiano.