Capitolo IV.
Il Novecento
1. La prassi romana: questioni mediche e procedure segrete
Il 22 marzo 1915, poche settimane prima che l’Italia entrasse in guerra, fu condotto
nel manicomio di Pergine, diocesi di Trento, allora parte dell’Impero austro-ungarico,
un sacerdote di nome Riccardo Ranzi. Aveva quarantotto anni e la cartella clinica
che ne riassume la storia lo descrive come un uomo di struttura ossea solida, sebbene
tozzo, tarchiato e «floscio». Nato e cresciuto a Cloz, un paesino di poche anime,
si era formato fra Torino, Parma e Piacenza, e diventato parroco a Rumo si era segnalato
presto per l’inclinazione sessuale nei confronti dei maschi. Confinato dalla Curia
diocesana «nella casa di cura per sacerdoti deficienti» di Bressanone, neppure da
«degente» aveva cessato di approcciare i propri oggetti di desiderio, sicché i superiori
gli avevano permesso di partire per gli Stati Uniti sperando con ogni evidenza di
liberarsi di una figura che suscitava scandalo tra i fedeli. Vissuto un anno a Chicago,
Ranzi tuttavia si era fatto cacciare anche dal vescovo americano a causa delle sue
manifeste propensioni, e tornato in Italia aveva cominciato a vagabondare, facendosi
imprigionare a Treviso per atti di oscenità. Dichiarato «irresponsabile da perizia
medica» e rispedito in Trentino, il vescovo non aveva voluto riaccoglierlo, e mentre
preparava un nuovo viaggio per gli Stati Uniti era stato di nuovo arrestato per essere
poi internato in manicomio. «Parla di assalti, agitazioni che lo colpiscono per telepatia
– si legge nella cartella –, perde la memoria e la padronanza di sé stesso e cerca
solo di soddisfare il suo desiderio che lo porta sempre ed esclusivamente verso uomini;
soli toccamenti, mai atti sodomitici». Non sappiamo se nell’elenco dei suoi «partner»
vi fossero adolescenti o bambini, ma un appunto a margine ci avverte che nel 1916
Ranzi venne trasferito a Praga, da dove alla fine del conflitto avrebbe fatto ritorno
in Trentino per poi darsi alla fuga il 16 ottobre del 1919. Questa storia pare piuttosto
esemplare per indicare come le gerarchie ecclesiastiche si muovessero a inizio del
Novecento, trasferendo i preti scandalosi di luogo in luogo, coprendo gli scandali
con il silenzio e rimettendosi alle cure psichiatriche.
Come si è visto nel precedente capitolo, nella seconda metà del XIX secolo la psichiatria
e la medicina legale occuparono massicciamente il campo degli studi sul crimine, senza
trascurare le diagnosi e il giudizio circa i chierici accusati di atti di oscenità
o abusi sessuali, mentre le imbarazzate autorità ecclesiastiche si limitavano a trasferire
di diocesi in diocesi o a relegare i peccatori scandalosi in apposite case di cura
di cui non sappiamo molto (erano in qualche modo le eredi delle carceri per il clero
delinquente inaugurate a Corneto, nello Stato pontificio, sin dal 1627). Non stupisce
perciò che la Chiesa abbia dovuto fare i conti con l’avanzamento del sapere medico,
anche sul piano morale e disciplinare, adattando una prassi pastorale vecchia di secoli
al linguaggio della scienza positivistica e, più tardi, della stessa psicoanalisi.
Frutto dell’inevitabile confronto con i recenti discorsi sui corpi, sulla psiche e
sui crimini furono le pagine dedicate alla sessualità nei nuovi manuali destinati
al clero e ai tribunali dei vescovi e della Curia romana. Nel 1905, per esempio, il
teologo e biologo don Giuseppe Antonelli licenziò in latino una Medicina pastoralis, corredata di tavole anatomiche, che non era affatto il primo tentativo di filtrare
e di incorporare le moderne indagini mediche nel solco della tradizione teologico-morale
e normativa cattolica. Come si legge nel frontespizio, l’opera era rivolta ai confessori
alle prese con i peccati della carne e con i dubbi di coscienza sulla sessualità,
le pratiche mediche, la contraccezione e l’aborto; ma Antonelli destinava il trattato
anche ai consultori in servizio presso i tribunali ecclesiastici e ai fedeli che ricoprissero
funzioni nel campo della cura. Trattando di violenza carnale, Antonelli impiegò un
termine carico di significato, «vittime», e sottolineò che gli episodi erano in aumento,
producevano effetti duraturi sulla psiche e talvolta inducevano al suicidio o al crimine
di aborto quando la donna abusata fosse rimasta incinta. Frequente, inoltre, era il
caso di padri che abusano delle figlie intorno ai dodici anni. Ma nessun particolare
interesse era dedicato ai delitti sessuali del clero. Piuttosto, Antonelli pareva
ossessionato dalla sessualità femminile, dai rapporti tra ginecologi e donne, e specificava
che spesso i giovanissimi maschi erano presi d’assalto non dai pederasti ma da donne
appena adulte o adulte in cerca di piacere. Insomma, non si trattava di un peccato
commesso solo dagli uomini.
Pochi anni dopo fu la volta di un uomo che avrebbe segnato la storia della Chiesa
nel XX secolo. Si trattava del milanese Agostino Gemelli, già medico di tendenze socialiste
convertitosi alla fede cattolica dopo avere prestato servizio in un ospedale militare.
Fattosi frate francescano nel 1903, egli avrebbe continuato a interessarsi alle più
aggiornate ricerche nel campo della biologia e della psicologia, orientandosi verso
la medicina sociale e la militanza per lo sviluppo di una moderna teologia pratica
attenta ai risultati della ricerca scientifica e alla loro compatibilità con la dottrina
e la tradizione morale della Chiesa, nel quadro di un organico disegno di restaurazione
dell’egemonia cattolica sulla società di massa. Prima di studiare le patologie dei
presunti santi e la psicologia dei soldati mandati al fronte, e più tardi, nel primo
dopoguerra, fondare l’Università Cattolica di Milano e diventare il primo presidente
della neonata Pontificia Accademia delle Scienze (1937), accostandosi alla politica
culturale del fascismo in modo piuttosto autonomo, nel 1910 Gemelli aveva pubblicato
un volume di teologia e di psicologia dal titolo eloquente: Non moechaberis, ovvero «non fornicare». Era il primo di una serie di libri che avrebbero dovuto
formare una collana di testi sulle questioni medico-pastorali utile ai confessori
e ai teologi morali. In quelle pagine Gemelli si confrontò con Antonelli e con i trattati
di sessuologia di Krafft-Ebing e di Moll, senza contare i manuali di igiene di Mantegazza
e le ricerche di Lombroso, e riassunse in modo puntuale le recentissime teorie freudiane
sulla sessualità attribuendo le forme ossessive di devozione e le manifestazioni di
fanatismo all’isteria e alle patologie della libido. Per altro verso, tuttavia, Gemelli
difese la castità e il celibato del clero dall’accusa di favorire le turbe psichiche
con la repressione degli impulsi e attaccò le teorie diffuse nel Nord Europa (cioè
nel mondo protestante) secondo cui si poteva arginare la psicopatologia degli adulti
favorendo un precoce accostamento tra i maschi e le femmine, i flirts e il piacere matrimoniale, o fornendo un’educazione sessuale che evitasse ai ragazzini
di soccombere a vizi più o meno gravi e nocivi, a cominciare dall’onanismo. Agli occhi
di Gemelli l’educazione sessuale doveva consistere nella mera istruzione utile a schivare
la colpa (come danno morale e insieme psico-fisico) e non doveva turbare precocemente
l’adolescente né essere affidata ai soli genitori ma anche agli istitutori della Chiesa.
Per questo il confessore doveva essere edotto circa la materia sessuale e sapere che
esistevano terapie medicinali, psicologiche e morali per frenare gli impulsi e per
arginare con la continenza ogni specie di peccati della carne: quelli normali e quelli
«aberranti» come il feticismo, l’omosessualità e la pedofilia.
Come Krafft-Ebing, Gemelli dedicò molte pagine all’«inversione» (che qualificò anche
con il termine più neutro di omosessualità), sostenendo che non si trattava sempre
di una patologia originata da anomalie fisiche: cosa che sul piano morale avrebbe
impedito di imputare i comportamenti devianti a chi li commetteva. Semmai, l’inversione
era spesso l’effetto di squilibri psicologici indotti da una sessualità precoce e
compulsiva che poteva portare a desiderare persino i bambini. Gemelli distinse la
pratica sessuale occasionale tra individui dello stesso sesso, compiuta per sfogo
o per necessità (la «pederastia», diffusa fra i militari, i marinai, gli efebi), dalla
vera e propria omosessualità: una condizione esclusiva che non comportava necessariamente
la penetrazione né uno stabile ruolo attivo o passivo tra i partner, e che pareva
accendere i membri delle élites tarati dalla perversione di un desiderio prevalente
verso i maschi di ceto più basso. Inoltre Gemelli fu tra i primi in Italia a impiegare
il termine pedofilia, dedicando poche pagine all’istinto sessuale verso i bambini
che qualificò come feticismo, tanto più grave quante più lesioni provocava sul minore.
Si trattava – precisò – di una patologia molto comune e riscontrata non solo nei dementi
e nei vecchi prossimi all’impotenza, ma anche in persone che ne erano affette dalla
nascita e non potevano provare desiderio per gli adulti. In quel caso non vi era da
dubitare che il pedofilo fosse incolpevole in quanto malato.
In questo testo assai significativo Gemelli evitò di parlare della sessualità dei
religiosi, contribuendo a lasciare in ombra il fatto che anche un chierico potesse
essere affetto da forme di concupiscenza di tipo patologico. E, per quanto sensibile
ai risultati della scienza e acuto nell’interpretazione delle teorie psicoanalitiche
(lo sarà sempre meno nel corso della sua carriera), sovrappose malattia e peccato,
nell’alveo di una tradizione plurisecolare che faticava a confrontarsi tanto con le
patologie quanto con i crimini del clero. Un fatto è certo: nel 1936, presso la Facoltà
teologica della Pontificia Università Gregoriana di Roma sarebbe stato inaugurato
un insegnamento di Psicopatologia sessuale affidato al gesuita tedesco Franz-Xavier
Hürth (1880-1963), un teologo morale che prestò servizio come consultore del Sant’Uffizio.
Nel frattempo, nel corso della Prima guerra mondiale – un’«inutile strage», come la
definì il pontefice Benedetto XV –, la Curia romana licenziava un testo destinato
a riformare il diritto canonico codificandolo sul modello delle legislazioni secolari.
Nel primo Codex Iuris Canonici, diviso in cinque libri (1917), il IV e il V dettavano la procedura che dovevano
adottare i magistrati ecclesiastici deputati a dirimere i conflitti, a canonizzare
i santi e a giudicare e castigare i comportamenti delittuosi, secondo la gerarchia
e la funzione dei tribunali della Chiesa: da quelli di prima istanza (vescovili) fino
a quelli della Curia romana. Chi indagava (l’inquisitore) non poteva più essere allo
stesso tempo il giudice della causa, e l’inchiesta doveva essere condotta con cautela
e in segreto affinché la notizia del delitto non si spargesse intaccando anzitempo
il buon nome di qualcuno (can. 1943). Quanto ai delitti, essi potevano essere pubblici,
notori oppure occulti; e quando ledevano la legge della Chiesa dovevano essere giudicati
dal solo tribunale ecclesiastico, che per castigare poteva richiedere, se opportuno,
l’ausilio del «braccio secolare», non comminando castighi eclatanti quando non fosse
scoppiato uno scandalo. Vi erano però delitti che infrangevano le leggi civili e insieme
quelle della Chiesa e che dovevano essere giudicati dal magistrato, secolare ed ecclesiastico,
ciascuno nel proprio ambito di giurisdizione, senza tuttavia prevedere passaggi di
informazioni (can. 2198). Le pene canoniche, oltre che vendicative (per esempio una
multa, la privazione della sepoltura religiosa e quelle riservate al clero, dalla
sospensione alla degradazione), potevano essere di carattere medicinale e/o penitenziale,
si trattasse di atti di carità o di contrizione, della scomunica (la censura più consueta)
o della sospensione dal clero modulata secondo la gravità della colpa (cann. 2278-2285).
Tuttavia il codice, ispirato al tradizionale carattere penitenziale del diritto canonico,
suggeriva ai superiori di correggere fraternamente e senza conseguenze pubbliche il
colpevole che avesse spontaneamente confessato quanto aveva commesso, elencando i
«rimedi» penali e penitenziali per sanare il delitto senza clamore: l’ammonizione
e la correzione, in privato o alla presenza di testimoni. La vigilanza era riservata
a coloro che avessero dato segno di recidiva. In sostanza, più che in passato il diritto
della Chiesa, privo oramai della capacità di sentenziare castighi corporali, puntava
alla reintegrazione del peccatore, si trattasse di laici o di chierici; di delitti
di eresia, di odio verso la religione o compiuti contro persone e beni della Chiesa.
Quanto poi ai delitti «contro la vita, la libertà, la proprietà, la buona fama e i
buoni costumi» (l’aborto, il duello, il sequestro, la bigamia, il concubinaggio),
essi annoveravano anche quelli sessuali commessi dai laici verso minori di sedici
anni, con o senza deflorazione, sodomia, incesto o uso della prostituzione. Si trattava
tuttavia non di danni inflitti alla persona, ma di gravi violazioni del sesto comandamento,
rubricate come tali, da punire con l’infamia del reo e con altre pene ad arbitrio
del giudice ecclesiastico (can. 2357). Lo stesso accadeva nel caso in cui a compiere
quel delitto di impurità fosse stato un chierico, che poteva essere sospeso o degradato
secondo la gravità della colpa commessa con i minori (can. 2359, § 2). Merita di essere
sottolineato il fatto che, pur fissando il limite per l’età di matrimonio a sedici
anni per i maschi e a quattordici per le femmine, il canone non distinguesse la minorità
secondo il genere. Quanto alla sollecitazione, chi avesse accusato ingiustamente un
confessore doveva essere punito (can. 2363); ma se la colpa fosse stata accertata
il prete doveva essere sospeso o degradato, secondo la gravità del comportamento,
e il fedele che entro un mese dal fatto non lo avesse denunciato al vescovo o al Sant’Uffizio
doveva incorrere nella scomunica (can. 2368, legato al can. 904, dove si richiamavano
le antiche disposizioni di Benedetto XIV di cui si è parlato prima).
Dunque i peccati-delitti di lussuria contro i minori, non definiti come attentati
o abusi, entravano nel diritto canonico, sia che a commetterli fossero laici sia chierici;
e i secondi, se avessero sfruttato il sacramento della confessione per soddisfare
alle proprie pulsioni, secondo una tradizione vecchia di tre secoli, potevano essere
puniti non solo dal vescovo, ma anche dal Sant’Uffizio: la Congregazione universale
dei cardinali che da tempo presidiavano l’ortodossia e l’ortoprassi cattoliche; riformata
da Pio X nel 1908 nel momento in cui la Chiesa aveva ingaggiato la lotta contro il
cosiddetto «modernismo», cioè la corrente teologica che tentava di aggiornare l’esegesi,
la pastorale e il magistero, accusata di essere un’eresia e perseguitata per tutta
la prima metà del Novecento. Nel 1917 il Sant’Uffizio avrebbe assorbito le funzioni
della defunta Congregazione dell’Indice in materia di censura libraria, continuando
a operare nel campo vasto dei delitti di eresia, compresa la sollicitatio ad turpia.
Quanti fascicoli si trovò ad affrontare il Sant’Uffizio in materia di adescamento
tra Otto e Novecento? E quanti di questi implicarono delitti sessuali sui minori?
Quante informazioni giunsero alla Curia papale dai tribunali diocesani, o prima dell’apertura
di processi secolari contro membri del clero che avessero attentato al pubblico pudore?
In quanti casi le vittime furono di genere maschile, e in quanti di genere femminile?
Non lo sappiamo: perché allo scoppio della guerra la suprema Congregazione si sbarazzò
delle carte fino a quel tempo accumulate sulla materia – temendo di non poterle controllare
in caso di scombussolamenti nella città di Roma –, e perché le ricerche sugli anni
successivi sono poche e scontano la riservatezza che ancora oggi il tribunale della
fede oppone a chi voglia studiare nei suoi archivi la serie speciale sull’indisciplina
del clero, coperta da un sigillo di segretezza come se si trattasse di meri peccati
e non di delitti, secondo quanto recita lo stesso diritto canonico. In ogni modo,
grazie alle serie indagini di Benedetto Fassanelli, sappiamo che tra la fine dell’Ottocento
e i primi anni del Novecento i cardinali discussero più volte di come affrontare i
delitti di sollecitazione, mentre in Francia e in Italia – come abbiamo visto – montava
la polemica politico-giudiziaria contro gli abusi del clero a danno di minori. Il
pontefice, oramai, non poteva valersi di tribunali capaci di impartire castighi fisici
né per sollecitazione né per sodomia (ancora nel 1843 don Domenico Abbo fu ghigliottinato
a Roma per avere stuprato e ucciso un nipote di meno di dieci anni); e dunque come
arginare la piaga del clero incontinente? Dopo un richiamo di Pio IX affinché i pastori
diocesani sorvegliassero i sacerdoti poco casti impedendo che insozzassero il sacramento
(Quae Supremus Pontifex, 20 febbraio 1867), brevi istruzioni per revisionare le antiche regole erano state
emanate dal Sant’Uffizio pure il 20 luglio 1890 e il 6 agosto 1897. Ma il secondo
documento preoccupava alcuni membri della Congregazione, che biasimavano l’inasprimento
dello «stile» adottato fino a quel momento per aprire le cause. Prima di procedere
all’inchiesta poteva bastare una sola denuncia al foro vescovile locale, o bisognava
attenderne almeno tre, come era accaduto in passato? In che modo difendere il clero
da eventuali calunnie se si abbreviava il rito processuale? E come preservare il segreto
che la prassi canonica continuava a opporre alla moderna pubblicità della giustizia
secolare, che tutto metteva in piazza? Infine, in quali casi gli incartamenti diocesani
dovevano essere trasmessi a Roma? Furono questi i nodi del contendere, e nel 1899
monsignor Luigi Franci, l’anziano fiscale del tribunale (il promotore delle cause),
rivolgendosi per lettera ai membri del Sant’Uffizio, fu assai esplicito:
Cura specialissima di questo Sacro Tribunale – scrisse in un documento riservato –
è stata sempre l’osservanza del più scrupoloso segreto, ed ha messo uno studio speciale
in far credere che un delitto così detestabile sia quasi impossibile, e almeno rarissimo.
Ciò si otteneva coll’antico metodo, mentre dei cento sacerdoti accusati, novanta restavano
sepolti nel silenzio.
La linea adottata dal Sant’Uffizio all’inizio del Novecento fu comunque quella di
inasprire le procedure e di cercare di imporre il controllo preventivo e repressivo
sui confessori e i predicatori che, grazie alle assoluzioni elargite in segreto dalla
Penitenzieria apostolica, alle forti complicità locali, alla moderna mobilità e alla
sparizione degli incartamenti riuscivano spesso a farla franca. Inoltre un decreto
del Sant’Uffizio dell’11 agosto 1904 dispose che sin dalla prima denuncia un sacerdote
sospetto di sollecitazione dovesse essere ammonito, e non solo sorvegliato. Si tentò
persino di ragionare dell’istituzione sistematica di case di detenzione per sacerdoti
indisciplinati. Tuttavia dai documenti che conosciamo non è possibile rilevare una
sensibilità della Congregazione né nei confronti delle vittime di adescamento né dell’esplodere
della polemica sugli abusi di minori. I casi rubricati come delitti di sollecitazione
continuavano a interessare soprattutto le donne; e come in passato, quando non perdonavano
il colpevole pentito, le autorità della Chiesa miravano a preservare il segreto, l’onore
del clero e soprattutto la sacralità della confessione.
Mentre Roma si affannava a suggerire a vescovi e superiori degli ordini religiosi
un maggiore controllo preventivo sul reclutamento dei sacerdoti e dei confessori sin
dall’arruolamento nei seminari e nei chiostri, durante la guerra e negli anni immediatamente
successivi l’allarme per l’aumento degli episodi di sollecitazione provenne soprattutto
dalla neutrale e cattolica Spagna, dove il fronte repubblicano, dalla fine del XIX
secolo, conduceva una campagna anticlericale che, sul modello francese, insisteva
sulla «propensione» dei ministri di Dio ad adescare minori di sesso maschile e femminile.
E se non è facile stabilire il peso giocato dalla pedofilia, vera o presunta, nell’esacerbare
la violenza contro i religiosi durante la Guerra civile che avrebbe insanguinato la
Spagna dal 1936 al 1939 (la Chiesa avrebbe replicato accusando i repubblicani di stupri
su chierici, suore e minori), un fatto appare rilevante. Prima che la cappa dei regimi
clerico-reazionari e del fascismo si stendesse su gran parte dell’Europa cattolica
(con l’appoggio più o meno convinto di Roma, che dopo il 1917 temeva l’avanzata del
bolscevismo), il Sant’Uffizio, a pochi anni dal nuovo Codice canonico, emanò un documento
aggiornato circa i delitti di sollecitazione (1922). L’istruzione non fu divulgata
tramite gli Acta Apostolicae Sedis (l’organo ufficiale della Curia papale), ma circolò a stampa a uso interno dei magistrati
della Chiesa con il titolo De modo procedendi in causis sollicitationis. Il testo recepiva i recenti articoli del Codice di diritto canonico e precisava
in quali casi il processo per adescamento dovesse essere trasferito a Roma, insistendo
sulla segretezza e invitando alla cautela nell’interrogatorio di eventuali minori
coinvolti (art. 38). La pena della degradazione doveva essere inflitta solo nel caso
in cui la condotta del sacerdote avesse suscitato pubblico scandalo (art. 63). Inoltre,
una breve sezione finale (il titolo V) era riservata ai casi di «crimine pessimo»,
ovvero ai rapporti omosessuali, equiparati allo stupro di minori e alla bestialità
con un esplicito richiamo al can. 2359 § 2 del recente Codice. Insomma, l’antico pregiudizio
della Chiesa verso gli indicibili peccati «contro natura» aveva spinto il Sant’Uffizio
a trattare delle colpe più gravi di lussuria confondendo omosessualità e attentati
compiuti contro i minori, entrambi ricondotti alla sollecitazione al di là del fatto
che il delitto fosse stato compiuto dal sacerdote nell’amministrazione della penitenza.
Fassanelli ha calcolato che tra il 1915 e il 1925 la sollecitazione compare ben 1533
volte tra i punti all’ordine del giorno della Congregazione particolare istituita
all’interno del Sant’Uffizio per affrontare la materia. Ma si tratta di un calcolo
sottostimato perché in altri casi non è chiaro se i provvedimenti disciplinari abbiano
riguardato casi di adescamento. Insomma, quasi la metà degli incartamenti trattati
dal supremo tribunale della fede riguardò materie di disciplina sessuale del clero:
come dire che il dicastero, più che in passato, svolgeva le funzioni di un organo
atto a sorvegliare il corpo ecclesiastico, più che i fedeli comuni. E tuttavia gli
effetti concreti della rafforzata sorveglianza sui sollecitanti furono piuttosto scarsi.
La Curia pontificia fu ben consapevole che molti sacerdoti sospetti continuavano ad
amministrare la confessione nelle loro diocesi e, a sua volta, mostrò indulgenza nei
riguardi dei colpevoli che domandavano perdono. Certo, nel 1922 fu bloccata dal Sant’Uffizio
la possibilità che si aprisse il processo di beatificazione per un prete che in Terra
Santa si era reso sospetto di adescamento nei confronti di ragazzine e ragazzini;
e non mancarono i casi in cui la promozione di un chierico fu affossata in nome del
«crimine pessimo». Ma la disciplina non sembrava avere effetti e i tribunali secolari
continuavano ad aprire fascicoli per sodomia o per attentati sui minori in tutta l’Europa,
Italia compresa, come avvenne a Capua nel 1925. Il Sant’Uffizio, così come i vescovi,
si guardò bene dal trasmettere informazioni alle magistrature degli Stati e, pur rendendosi
conto che gli adescatori venivano spostati di luogo in luogo dai vescovi o dai superiori
restando di solito impuniti, non seppe adottare una strategia più decisa né affrontare
il nodo della vita dei religiosi costretti alla castità dai voti. Agli occhi degli
inquisitori, chi infangava il sacramento dell’ordine era un «mostro», o forse uno
psicopatico tarato per via ereditaria, come fu scritto di un sacerdote che nel 1938
venne accusato di aver abusato di tre ragazzini. E non stupisce che nel 1930 a Bologna
iniziasse le sue pubblicazioni la «Rivista medica per il clero», che contribuì a connettere
le patologie fisiche e quelle morali.
2. L’infanzia tra sesso, natura, abuso e santità
Nel 1929 – anno del Concordato tra lo Stato italiano fascista e la Sede apostolica
– l’enciclica di Pio XI Divini illius Magistri ribadiva l’importanza di un’educazione cattolica in materia di corpi fondata sull’esaltazione
della castità. Si sbarrava così la porta a quanti, dall’interno della Chiesa, premevano
per istruire i più giovani a una sana formazione sessuale: un dibattito piuttosto
vivo in Francia ma non del tutto estraneo anche al mondo accademico cattolico italiano,
se è vero che nel 1931 il medico Luigi Scremin si vide censurare un libro in cui aveva
proposto cautamente un’apertura in tal senso. Ciò che la Chiesa finì per difendere
con sempre maggiore insistenza fu l’idea di una sorta di innocenza naturale del bambino, modello di vera purezza cristiana, rimuovendo di fatto quanto numerosi
studi psicoanalitici avevano prospettato nei decenni precedenti sul nodo della sessualità
infantile. Del resto, l’appello alla «natura» come paradigma incorrotto del lecito
e dell’illecito e come manifestazione della legge di Dio divenne un punto centrale
del magistero cattolico proprio nella prima metà del Novecento. Certo, come abbiamo
visto, già dai tempi di sant’Agostino, in nome della natura, si condannavano le pratiche
sessuali non conformi o «sodomitiche»; e durante gli anni Trenta del XX secolo si
sprecarono i testi di teologi e moralisti cattolici che stigmatizzavano il vizio dell’omosessualità
con toni identici a quelli del passato, anche se con un lessico più aggiornato. In
Italia poi fu forte la consonanza della Chiesa con l’appello alla virilità promosso
dal fascismo, che inasprì la sorveglianza di polizia per colpire i «pederasti» e gli
stessi maschi celibi, poco adatti a una nazione guerriera (sappiamo poco delle cause
per abusi del clero sui minori, specie dopo il Concordato).
Tuttavia l’emanazione dell’enciclica Casti connubii (1930) costituì il momento in cui divenne chiaro che la Chiesa intendeva dare battaglia
agitando l’opposizione tra la natura e l’operato umano in campo scientifico; una lotta
che avrebbe avuto implicazioni in materia di sessualità, eleggendo la famiglia nucleare
cristiana – in cui la donna doveva restare subordinata – quale cellula naturale da
opporre alla depravazione del secolo. La lettera papale trattava in realtà dei metodi
naturali di contraccezione (i soli leciti); ma nel ribadire che il fondamento del
matrimonio, rimedio alla concupiscenza, era l’unione degli sposi a scopo riproduttivo,
ergeva una poderosa barriera contro il riconoscimento del piacere sia nella sfera
coniugale ed extraconiugale sia – a maggior ragione – per il ceto ecclesiastico votatosi
al celibato. Come e più che in passato, la sessualità del clero doveva essere rimossa
e le manifestazioni del desiderio dei religiosi dovevano essere punite come mere trasgressioni
disciplinari che in alcuni casi comportavano una maggiore gravità (la sodomia, i rapporti
con i minori) o il sapore di eresia (la sollecitazione da parte dei confessori). In
tale contesto, l’abuso dell’infanzia non poteva né doveva essere messo a fuoco come
un problema a sé stante e la sessualità dei bambini doveva essere sublimata alla stregua
del desiderio verso i minori, specie se accompagnato da violenza. È questo il significato
implicito che si può attribuire ai nuovi modelli di santità infantile che la Chiesa
canonizzò durante il Novecento. In modi diversi le figure assai celebri di Maria Goretti
e di Giovanni Bosco, insieme ad altre minori, possono esemplicare gli usi a cui in
qualche modo venne piegata la fabbricazione di nuovi santi, che nella Chiesa del XX
secolo, più che in passato, ha rivestito un’importanza pari all’elaborazione dottrinale
e alla prassi disciplinare.
Nata nel 1890 da una povera famiglia di contadini marchigiani trasferitasi nelle malariche
paludi pontine in cerca di lavoro, Maria Goretti, presto orfana di padre, trascorse
un’infanzia di stenti e di piccole gioie insieme alla madre e ai numerosi fratelli,
in un casolare condiviso con la famiglia anconetana dei Serenelli. Prese la prima
comunione nella chiesa gestita dai padri passionisti a Nettuno, dove ricevette i rudimenti
del catechismo, ma non una vera istruzione; e la prima inchiesta ecclesiastica avviata
dopo la morte accertò che si era accostata all’eucarestia poche volte, anche se aveva
promesso di morire piuttosto che cedere al peccato. Né brutta né bella, era piccola
e sottopeso, ma il suo aspetto piuttosto ordinario non la salvò dalle attenzioni del
giovane Alessandro Serenelli, rimasto orfano, che la sera del 5 luglio 1902, quando
Maria non aveva compiuto neppure dodici anni, tentò per la terza volta e brutalmente
di possederla, e non riuscendoci (per le resistenze della bambina, e forse per la
propria impotenza) la colpì ripetutamente con un punteruolo lasciandola in fin di
vita. Morì il giorno dopo nell’ospedale di Nettuno, mentre per il suo attentatore
si aprivano le porte del carcere. Sarebbe rimasto in prigione ben ventisette anni,
durante i quali avrebbe maturato il pentimento e la conversione, e dopo avere scontato
la pena avrebbe domandato e ottenuto il perdono della madre di Maria. Sarebbe morto
a Macerata nel 1970, nel convento dei cappuccini, dopo avere fatto appello alla pietà
del mondo «per l’oltraggio fatto alla Martire Maria Goretti e alla purezza», esortando
tutti «a tenersi lontani dagli spettacoli immorali, dai pericoli, dalle occasioni
che possono portare al peccato».
Il titolo di martire, tuttavia, non era un’invenzione dell’omicida pentito perché
nel frattempo – dopo anni in cui l’episodio fu quasi dimenticato – era stata avviata
la macchina che avrebbe condotto al riconoscimento canonico della santità di Maria
per interessamento dei padri passionisti, dell’Azione Cattolica, della stampa romana
e del duce, che voleva offrire un’icona religiosa agli abitanti delle paludi di cui
il fascismo intraprese la bonifica. Fu durante il processo informativo, aperto nel
1935, dopo il Concordato, che la figura di Maria cominciò a essere trasfigurata e
«riscritta» nelle agiografie e negli atti delle inchieste di santità. La bambina,
in sostanza, avrebbe evocato al suo carnefice le pene dell’inferno; avrebbe resistito
con animo sereno (e non con paura) al tentato stupro; avrebbe perdonato Alessandro
in punto di morte (senza ripugnanza); sarebbe morta pronunciando parole degne di una
figlia del cielo. Nell’immaginario, costruito dai promotori della santità, Maria divenne
più bella e un po’ meno piccola; si moltiplicarono anche a livello popolare le immagini
e le rappresentazioni del suo «martirio»; e per iniziativa di Armida Barelli, legata
a Gemelli e coordinatrice del ramo femminile dell’Azione Cattolica, si diffusero le
«crociate della purezza» che impugnarono il vessillo della Goretti come modello di
verginità, castità e resistenza alla lussuria; mentre ancora nel 1935 dopo un tentato
stupro veniva uccisa una ragazza dell’Azione Cattolica, Antonia Mesina (1919-1935).
Nonostante l’impegno profuso da molti esponenti di spicco della Chiesa, Maria sarebbe
stata proclamata beata solo nel 1945 e santa nel 1950, per volontà di Pio XII: una
martire della purezza che servì immediatamente a fissare il modello femminile e infantile
di reazione agli abusi sessuali, sublimati dal culto della bambina. In anni recenti
l’uso della storia di Maria per la promozione della lotta contro la lussuria ha suscitato
la reazione dei movimenti femminili, al punto che prima Benedetto XVI e poi papa Francesco
hanno proposto di proclamare la Goretti non più santa della purezza ma protettrice
delle donne vittime di violenza.
In ogni modo, senza contare le storie di martirio femminile della Chiesa delle origini,
quello di Maria non è stato e non è rimasto un caso unico di sublimazione per via
di santità, se è vero che lo stesso Bergoglio ancora nel 2018 ha proclamato beata
e «modello di castità» la slovacca Anna Kolesárová, uccisa a sedici anni dopo un tentativo
di stupro compiuto da un soldato dell’Armata Rossa a pochi mesi dalla fine del Secondo
conflitto mondiale, nel 1944. Anche in questo caso, stando agli atti, l’abuso non
si era compiuto e la verginità della ragazza era stata preservata. Quanto alla beata
cilena Laura Vicuña (1891-1904), ora venerata come patrona delle vittime di incesto
e di abuso sessuale in America Latina, si trattava della figlia di un politico, fuggita
in Argentina con la madre vedova che si era legata senza matrimonio a un uomo di nome
Manuel Mora, il quale più volte avrebbe tentato di possedere la ragazza morta prima
dei suoi tredici anni. Poiché Laura era stata allieva delle Figlie di Maria Ausiliatrice,
pronunciando in segreto i voti, il riconoscimento del culto si deve al ramo femminile
della congregazione dei salesiani ed è avvenuto nel 1988, in occasione del centenario
della morte del fondatore, Giovanni Bosco.
Contro il sacerdote piemontese, che nella seconda metà dell’Ottocento dedicò la sua
vita ai fanciulli e ai giovani di misera condizione che riuniva negli oratori – istituzioni
di gioco, di lavoro e di formazione religiosa in funzione conservatrice e anti-materialista
–, le insinuazioni della stampa anticlericale furono molte già prima della sua morte,
specie nella città industriale di Torino; e il suo carisma spirituale, orientato all’amore
verso i piccoli e gli adolescenti, vagliato nel corso del processo di canonizzazione
che si sarebbe concluso nel 1934, non ha mai smesso di intrigare chi se ne è interessato.
Ancora nel 1985-1986 prima lo scrittore omofobo Guido Ceronetti (1927-2018) e poi
il teologo eterodosso ed ex allievo dei salesiani Sergio Quinzio (1927-1996) hanno
pubblicato due libri in cui hanno insinuato (il secondo senza malanimo) che l’insistenza
di don Bosco per i pericoli derivati dalla lussuria di cui potevano cadere vittime
gli adolescenti avesse qualcosa di morboso. Non meno morbosi – hanno ricordato – apparivano
il legame del santo con il giovane sacerdote Giovanni Boggero, morto a ventisei anni
(don Bosco non gli perdonò di lasciare l’oratorio per assistere le sorelle), e l’affetto
speciale che il santo nutrì per l’adolescente Domenico Savio (1842-1857), consumato
dalla tubercolosi prima di compiere quindici anni e persuaso a farsi santo in nome
del motto: «La morte, ma non il peccato». Alcuni psicologi cattolici sono scesi subito
in difesa della figura di don Bosco (uno per tutti: Giacomo Dacquino, che ha riportato
gli ammonimenti del santo contro i legami troppo stretti tra maschi, ma non ha però
negato del tutto la probabile sublimazione di un impulso pedofilo) e la polemica non
è mai cessata. Qui conta solo rilevare che Savio è stato canonizzato nel 1954, vent’anni
dopo il suo direttore spirituale. Così dalla metà del Novecento il rapporto tra i
due santi (l’uno adulto, l’altro adolescente) ha contribuito a fissare l’immagine
della guida religiosa buona contro quella cattiva che emergeva dalle storie di abusi.
3. Dall’aggressione nazista al secondo dopoguerra
Il 28 maggio 1937 Joseph Goebbels, ministro della Propaganda del Terzo Reich, pronunciava
un tetro discorso in cui puntava il dito contro il clero cattolico che abusava ripetutamente
dei bambini affidati alle cure della Chiesa configurandosi come una viziosa congrega
di pederasti che agiva con la complicità delle gerarchie. Lo dimostravano – disse
– i tanti processi che vedevano protagonisti rei confessi e smascheravano la corruzione
sessuale diffusa nelle istituzioni religiose e scolastiche di fede romana, che andavano
distrutte. La congiuntura era sinistra: se in Italia la Santa Sede aveva trovato un
compromesso abbastanza stabile con «l’uomo della Provvidenza», quel Mussolini che
agli occhi di Pio XI aveva salvato la Penisola dai bolscevichi, in Germania le relazioni
con il regime nazionalsocialista furono più complicate e pericolose. Non solo una
robusta corrente del movimento di Hitler proclamava di voler cancellare il cristianesimo
come morale dei deboli, in nome del ritorno al paganesimo, ma il regime avversava
la concorrenza delle scuole e delle organizzazioni religiose nell’educazione giovanile
che il partito nazionalsocialista avrebbe voluto monopolizzare in vista dell’assalto
militare all’Europa.
I rapporti si erano fatti ancora più difficili dopo il 1935, quando le prime campagne
eugenetiche e il sempre più pronunciato razzismo biologico che caratterizzavano la
politica e la propaganda nazista suscitarono un crescente allarme nel clero tedesco
e presso la Curia pontificia. Fu allora che il Sant’Uffizio esitò a proibire la lettura
del manifesto ideologico di Hitler, il Mein Kampf (ma nel 1934 era stato messo all’Indice Il mito del XX secolo di Alfred Rosenberg), mentre Pio XI si convinse che occorreva stilare una lettera
rivolta ai fedeli atta a esprimere l’apprensione per i risvolti del nazismo più lontani
dalla dottrina cristiana: il neopaganesimo, l’antisemitismo a sfondo razziale, la
statolatria, l’eugenetica. Tuttavia l’enciclica Mit brennender Sorge del 10 marzo 1937 fu osteggiata da settori della diplomazia vaticana e dell’episcopato
della Germania anzitutto perché si temeva che una lettera di condanna mettesse a rischio
la stessa sopravvivenza della Chiesa tedesca, minacciata già nei due anni precedenti
in una temperie che ai più evocava la battaglia contro i cattolici voluta molto tempo
prima dal cancelliere prussiano Otto von Bismarck (il Kulturkampf, 1871-1887).
Fu in quel contesto che, ancora una volta, la pedofilia divenne materia di scontro
politico, con l’incarcerazione di oltre trecento tra sacerdoti e religiosi (maschi
e femmine) in diverse diocesi della Germania e insinuazioni contro più di un migliaio
di chierici. Alcuni processi si erano aperti prima dell’enciclica papale e avevano
colpito religiosi e laici in una scuola di Bad Reichenhall, nella cattolica Baviera,
e un gruppo di duecento frati minori di Waldbreitbach, in Renania. Si trattava di
abusi di minori quasi certamente reali, tanto che il 2 giugno del 1936 il vescovo
di Münster, Clemens August von Galen, avverso al nazismo, aveva pronunciato un discorso
in cui si disse addolorato per i gravi delitti che infangavano l’onore della Chiesa.
Il 20 agosto di quell’anno era seguita una lettera dei vescovi tedeschi che, se prometteva
severità e collaborazione con la giustizia secolare per smascherare le violenze, ricordava
però che nelle organizzazioni giovanili naziste i casi di abuso non erano affatto
assenti. A far precipitare le cose fu proprio la volontà di Pio XI di pronunciarsi
contro l’ideologia nazionalsocialista. Fu allora che la Gestapo di Heinrich Himmler
e l’SD di Reinhard Heydrich si mobilitarono per reclutare testimoni da far deporre
in decine di cause, compresi molti bambini indotti a formulare accuse infamanti. Un’onda
d’urto fermata dalla morte di Pio XI, il 10 febbraio 1939, e pochi mesi dopo dall’inizio
della guerra con l’attacco alla Polonia cattolica. Già nunzio in Germania e artefice
del Concordato tra la Santa Sede e la Germania (1933), destinato a restare lettera
morta quando Hitler si attribuì pieni poteri, il nuovo pontefice (Pio XII, al secolo
Eugenio Pacelli) fu assai più cauto del predecessore nel prendere posizione contro
il Führer, tanto che ancora oggi la storiografia e l’opinione pubblica gli rimproverano
i silenzi sullo sterminio degli ebrei. In ogni modo, se gli istituti di istruzione
cattolica furono pesantemente colpiti, molti processi contro il clero per pederastia,
induzione alla prostituzione e abuso di minori di entrambi i sessi finirono nel nulla,
con 21 condanne, in alcuni casi non severe. Inoltre nel 1940 la pubblicazione pseudonima
di molti documenti segreti giunti nelle mani di un gesuita tedesco rifugiatosi in
America Latina (Walter Mariaux, The Persecution of the Catholic Church in the Third Reich, apparso a Londra e l’anno dopo anche in spagnolo) svelò le trame orchestrate dal
Terzo Reich per intimidire la Chiesa con una campagna di stampa e giudiziaria che
puntò anche sulla pedofilia del clero e in cui si erano mescolate storie di veri abusi
e false accuse.
Il Secondo conflitto mondiale avrebbe portato all’acme il numero di violenze commesse
contro i minori: nei campi di concentramento e di sterminio così come altrove. Tanto
che può considerarsi come un effetto ritardato del tragico bagno di sangue che aveva
sconvolto il globo, e che aveva portato alla formulazione della controversa categoria
di «crimini contro l’umanità», la timida Dichiarazione sui diritti del bambino approvata
dall’Assemblea generale dell’ONU il 20 novembre 1959 per accordare speciale protezione
ai più piccoli nella tutela della vita, della salute, dell’istruzione e dello svago.
Nel documento non si faceva alcuna menzione esplicita degli abusi sessuali (il testo
recitava solo che «il fanciullo deve essere protetto contro ogni forma di negligenza,
crudeltà e sfruttamento»), ma un passo in avanti era compiuto.
Nel frattempo, con mezzi più tecnologici, con la mobilitazione religiosa e politica,
con le devozioni, i miracoli e le canonizzazioni, la battaglia di Pio XII contro la
modernità e contro il comunismo aveva dispiegato tutta la sua potenza, per una Chiesa
ancorata alla configurazione che si era data al Concilio di Trento e collocata in
uno dei due campi della Guerra Fredda. Inoltre sino al 1958, anno della morte, Pio
XII aveva puntato più che in passato sull’esaltazione della mistica papale, sulla
struttura gerarchica della Chiesa e sui valori tradizionali della famiglia cattolica,
minacciata dall’avanzare dell’urbanesimo e del secolarismo (data anche la suggestione
che i nuovi stili di vita importati dagli Stati Uniti esercitavano sugli uomini e
sulle donne più giovani). Come in passato la «pederastia» (spesso accompagnata dalla violenza) si riteneva tipica dei rapporti omosessuali, che venivano
stigmatizzati nei trattati dei canonisti e dei teologi. E come in passato, la sessualità
del clero rimase una questione da mettere a tacere. Il Sant’Uffizio, che dagli anni
Cinquanta del Novecento fu guidato da un ultraconservatore in sintonia con Pio XII,
il cardinale giurista Alfredo Ottaviani, continuò a preservare il segreto che avvolgeva
le cause di adescamento la cui notizia fosse giunta in Curia. Tuttavia il 16 marzo
1962, aggiornando l’istruzione del 1922 De modo procedendi in causis sollicitationis, il Sacro Tribunale vi aggiunse una serie di formulari a uso dei giudici ecclesiastici
e un articolo finale assai significativo (titolo V sul «crimine pessimo» e sugli abusi
sessuali compiuti a danno di minori, n. 74). Esso recitava che, nel caso in cui gli
atti non fossero stati compiuti nell’esercizio della confessione, per i delitti di
sodomia e di pedofilia il clero regolare esente dalla giurisdizione vescovile poteva
essere giudicato dai superiori degli ordini religiosi, tenuti a comunicare la loro
sentenza al Sant’Uffizio. In sostanza, indebolendo il meccanismo di controllo introdotto
nel 1922, l’istruzione lasciava spazio ad alcune congregazioni antiche e recenti –
come l’Opus Dei e, dal 1965, i Legionari di Cristo – per risolvere al proprio interno
gli episodi di abuso limitandosi a comunicare l’atto finale al Sant’Uffizio.
Quel documento portava la firma di Giovanni XXIII (1958-1963), il papa che convocando
dopo secoli un’assise ecumenica per sanare la frattura tra la Chiesa di Roma e la
modernità mise in allarme Ottaviani e i settori più retrivi della gerarchia. Il Concilio
Vaticano II (1962-1965) in ogni modo non prese in considerazione gli allarmi circa
gli abusi del clero che pure cominciavano a manifestarsi soprattutto negli Stati Uniti.
A chiudere l’assise fu papa Paolo VI (1963-1978), a cui toccò il compito di guidare
la Chiesa secondo i nuovi indirizzi, tentando un difficile equilibrio tra chi (teologi,
pastori e settori del laicato) premeva per un’innovazione più radicale anche nel campo
della sessualità e della disciplina del clero e chi considerava i risultati del concilio
alla stregua di uno strappo, di un cedimento o quanto meno di una forte discontinuità
con la tradizione dottrinale e disciplinare della Chiesa. Tra il dicembre del 1965
e l’agosto del 1967 – nel quadro del riassetto della Curia papale e in sintonia con
la contestata dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis Humanae del concilio (1965) – l’antico Sant’Uffizio fu riformato e prese il nome di Congregazione
per la dottrina della fede; il cardinale segretario del dicastero, Ottaviani, venne
affiancato da un teologo più aperto, il belga Charles Moeller, e si dispose di abbandonare
la prassi di censura risalente al Cinquecento che culminava nell’aggiornamento periodico
dell’Indice dei libri proibiti. Ma chi si attendeva una discontinuità più netta con
la tradizione cattolica in tempi di tumultuoso cambiamento fece presto a maturare
una certa disillusione.
4. La persistenza di una prassi fondata sul peccato
Il 25 luglio 1968 Paolo VI, provocando spaccature nel fronte progressista della Chiesa
post-conciliare, licenziava l’enciclica Humanae vitae dedicata ai temi del matrimonio e della bioetica, con la quale, riprendendo il magistero
di Pio XI, quel papa mite e colto condannava la contraccezione non naturale, la sterilizzazione,
la fecondazione assistita e l’aborto. Ogni intervento umano e tecnico che provasse
a dissociare il piacere dalla riproduzione (scopo finale dell’unione tra uomo e donna,
la sola benedetta dalla Chiesa) veniva stigmatizzato nell’anno in cui i movimenti
giovanili e femministi, in molta parte dell’Occidente e non solo, rivendicavano una
sessualità e un uso del corpo più liberi e la fine del mondo patriarcale, frutto di
una civiltà contadina lontana dagli stili di vita di una matura società dei consumi.
Erano passati diversi anni dalla prima circolazione del cosiddetto Rapporto (1948-1953)
elaborato dal biologo statunitense Alfred Kinsey, che scandagliò il comportamento
sessuale fluttuante di maschi e femmine sulla base di migliaia di interviste. Per
di più nel 1973 a spingere l’American Psychiatric Association verso l’importante decisione
di derubricare l’omosessualità dall’elenco delle malattie mentali riportato nel DSM
(il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, che fa ancora testo in tutto in mondo) sarebbe stata la nascita dei movimenti gay
e lesbici dopo la rivolta di Stonewall nella notte tra il 27 e il 28 giugno del 1969,
quando nel Greenwich Village, il quartiere più eccentrico di Manhattan, gli omosessuali
scesero in strada (e vi rimasero per giorni) contro l’ennesima irruzione della polizia
in un locale gay della zona. Gli «invertiti» adesso rivendicavano i loro diritti a
viso aperto, sul piano politico, rifiutando uno stigma plurisecolare, la criminalizzazione
e il silenzio imposto dalle autorità religiose e civili in difesa della famiglia eterosessuale
e della sessualità «normale». Nell’arco dei due successivi decenni, la «sodomia» tra
adulti sarebbe scomparsa dal novero dei crimini perseguibili in molti paesi dell’Occidente,
mentre sul piano civile persino alcune nazioni cattoliche riconoscevano il diritto
al divorzio (l’Italia lo fece dopo un referendum che nel 1974 vide la sconfitta delle
forze cattoliche mobilitate contro la legge approvata nel 1970 dal Parlamento) e quello
delle donne a ricorrere all’aborto in modo legale entro alcune settimane dal concepimento
(in Italia la battaglia delle forze femministe e laiche fu vinta con un altro referendum
nel 1981). Nazioni cattoliche come il Portogallo e la Spagna si sbarazzavano dei loro
regimi clerico-reazionari e la fine di un’epoca si accompagnava alla rapida esplosione
e rivendicazione pubblica di stili di vita del tutto lontani dal magistero della Chiesa.
In un decennio di forte mobilitazione delle diverse anime della sinistra mondiale
(da quelle più liberal a quelle marxiste, leniniste e maoiste, 1978-1988), la gerarchia ecclesiastica fu
scossa del bisogno di misurarsi con cambiamenti repentini fuori dalla Chiesa e dentro
la Chiesa post-conciliare, con la crisi delle vocazioni religiose, le storie di sacerdoti
che chiedevano la fine del celibato o si sposavano rinunciando ai voti, gli esperimenti
di settori del clero avversi al dominio capitalista (i preti operai, i teologi della
liberazione) e la nascita di movimenti del laicato (non solo giovanili) che contestavano
le chiusure del magistero romano e la clericalizzazione della Chiesa. Dalla minoranza
cattolica dei Paesi Bassi, già prima del 1968, era giunta la proposta di ripensare
la pastorale cattolica sull’omosessualità, mentre negli Stati Uniti dopo il 1969 nacque
un movimento di chierici e di laici, Dignity, che aveva lo scopo di fornire aiuto psicologico e conforto religioso ai credenti
di orientamento gay, lesbico e bisessuale che soffrivano per la tetragona condanna
dei loro desideri rubricati come gravi peccati. Anche figure come quella di don Lorenzo
Milani (1923-1967), dopo la morte, divennero icone dei movimenti studenteschi italiani,
perché l’esperienza di quel sacerdote che aveva aperto una scuola gratuita per i bambini
più disagiati nel borgo toscano di Barbiana, invitandoli a disobbedire e a rifiutare
la cultura dei ceti dominanti, servì a ergere una bandiera politica per contestare
il carattere classista dell’istruzione pubblica e la chiusura delle onerose scuole
cattoliche ai piccoli meno abbienti. Le sue Esperienze pastorali (1958) erano state messe all’Indice; il libro Lettera a una professoressa (1967) divenne un best seller dei movimenti giovanili; ma la sua figura, a molti
anni dalla scomparsa, avrebbe acceso controversie che lambiranno il nodo della presunta
omosessualità pedofila di don Milani, ispiratore di un discusso romanzo di Walter
Siti apparso nel 2017.
Come si è visto nella prima parte, tra gli aspetti più controversi del rivolgimento
seguito al Sessantotto, specie in Europa, vi è la nascita di un movimento che ha rivendicato
il diritto a una sessualità pedofila con maschi e femmine, a partire dai Paesi Bassi
degli anni Cinquanta, dove lo psicologo Frits Bernard aveva promosso la fondazione
dell’associazione Enclave Kring. Il modello pederastico omosessuale greco non aveva
smesso di affascinare scrittori, artisti e dandy, che potevano dare sfogo alle loro
pulsioni verso i minori nei territori coloniali circonfusi di un’aura orientalistica;
e nella prima metà del Novecento era stato esaltato nel Corydon del premio Nobel André Gide (1924) e in La ville dont le prince est un enfant (1951) del misogino, decadente e destrorso Henry de Montherlant: un dramma ambientato
in una scuola cattolica in cui si mescolavano estetismo e suggestioni religiose. Tuttavia
in Francia alcuni articoli di riviste come «Gai pied», la nascita di un Fronte di
Liberazione dei Pedofili (FLIP) e di altri ben più radicali (ne sorsero in quasi tutto
l’Occidente, Stati Uniti compresi), segnarono una frattura ed ebbero il sostegno del
quotidiano «Libération». Negli anni dell’«affaire di Versailles» il dibattito si fece
acceso, con le prese di posizione del leader del Maggio ’68, Daniel Cohn-Bendit, o
di scrittori e filosofi come Tony Duvert o Réné Schérer. Si poteva rivendicare la
libertà sessuale quando in campo vi fosse il rapporto dispari tra un adulto e un minore?
Si poteva parlare di un consenso all’atto erotico da parte di bambini e adolescenti?
Anche il filosofo Michel Foucault tenne una posizione ambigua, specie in un intervento
del 1977 e in un altro, più tardo, del 1982, alla radio e sulla stampa. E ancora più
controverse furono le provocazioni del «nazi-pedofilo» Michel Caignet (condannato
più tardi da un tribunale francese) e dell’ex diplomatico ed ex collaborazionista
Roger Peyrefitte, l’autore di Les Amitiés particulières: un romanzo del 1944 sull’amore di due adolescenti in una scuola cattolica, da cui
sarebbe stato tratto un film. In Les Clés de saint Pierre (1955) Peyrefitte mise in piazza i presunti segreti e scandali sessuali e finanziari
della Curia papale. Inoltre, da ardente esaltatore dei luoghi italiani del turismo
«pederastico» (Capri, Taormina), più tardi avrebbe denunciato la pretesa omosessualità
occulta di Paolo VI – fautore di una Chiesa «rossa» invisa a uno scrittore al tempo
stesso antinomico e reazionario –, costringendo il pontefice a difendersi in pubblico
da quelle insinuazioni in un discorso pronunciato la domenica delle Palme del 1976.
Il pontificato di Montini, come si accennava, fu scosso dall’urto dei cambiamenti
anche in materia di omosessualità. Ma se negli Stati Uniti la Congregazione dei servi
del Paraclito (attiva da tempo) e la National Association for Pastoral Renewal, nella
conferenza tenutasi alla Notre Dame University nel 1967, avevano già lanciato l’allarme
per gli abusi del clero sui minori, il Vaticano trascurò gli avvertimenti mentre invece
veniva irrigidendo la propria linea in materia di omosessualità. Nel 1975 – dopo l’uscita
del libro La question homosexuelle del medico, psicologo e teologo padre Marc Oraison, in dissenso con le posizioni
di Roma – la Congregazione per la dottrina della fede, allora retta dal cardinale
prefetto croato Franjo Šeper, emanava la dichiarazione Persona humana. Prendendo atto delle ricerche scientifiche e psicoanalitiche più recenti, il tribunale
dell’ortodossia stabiliva la necessità di distinguere tra la condotta omosessuale
(erronea) e la natura omosessuale (incolpevole). In sostanza per il magistero gli
atti omosessuali restavano «intrinsecamente disordinati», anche se vissuti nella cornice
di una coppia stabile, ma l’omosessuale casto che sopportasse la sua condizione, rifiutando
«il licenzioso edonismo» che caratterizzava lo spirito dei tempi, doveva essere ammesso
alla vita della Chiesa, i cui pastori dovevano attivarsi per elaborare una cauta e
specifica pastorale per gay e lesbiche improntata alla misericordia.
Il documento faceva riferimento a un «ordine morale oggettivo», ovvero alla legge
di natura come manifestazione della norma di Dio, che dalla seconda metà del Novecento
divenne più che in passato un architrave del magistero ecclesiastico, soprattutto
dopo l’elevazione a pontefice di Karol Wojtya (1978). E se da un lato questa concezione
della natura e la corrente filosofica del personalismo permisero alla Chiesa di trovare
un terreno sul quale convergere lentamente e ambiguamente con il discorso democratico
internazionale sui diritti umani (scolpiti nella Dichiarazione dell’ONU promulgata
dopo gli orrori della guerra nel 1948), dall’altro la progressiva inclusione nell’ambito
dei diritti esigibili di materie come quelle riguardanti il genere sessuale, la parità
femminile, la regolazione delle nascite, l’intervento genetico sui corpi malati o
la possibilità di anticipare con dignità il termine vita finirà per cozzare con la
concezione immobile del piano di Dio sull’umanità espresso appunto dal diritto naturale,
di cui la Chiesa cattolica si faceva principale interprete e difensora; con la pretesa
di esprimere non un punto di vista confessionale, bensì universale, incontrando su
questo terreno il favore del fondamentalismo di altre denominazioni religiose non
tutte cristiane. Per questo le relative aperture dei pontificati di Giovanni XXIII
e di Paolo VI in nome della «dignità della persona umana» si sarebbero rivelate fragili,
soprattutto dopo la promulgazione nel 1968 dell’enciclica Humanae vitae di Montini, dove si afferma che «la legge morale naturale» non può essere valicata
anche sul piano dei rapporti sessuali. Questa linea sarebbe stata ribadita poi con
maggiore forza da Giovanni Paolo II e da Joseph Ratzinger, che nel 1981 il pontefice
polacco avrebbe messo a capo della Congregazione per la dottrina della fede anche
per frenare interpretazioni troppo aperte della svolta conciliare e dare battaglia
per la «vita», minacciata dalla scienza, dalla tecnica e dai movimenti marxisti, ma
anche dal femminismo e dall’elaborazione dei discorsi sul genere.
Complice l’apertura di credito che Wojtya espresse per alcuni gruppi carismatici
di carattere conservatore o reazionario, la Chiesa romana alla fine del Novecento
inasprì l’omofobia dei suoi pronunciamenti, dettò (almeno sulla carta) l’obbligo di
vagliare le tendenze omoerotiche (ma non pedofile) presenti nei candidati alla vita
religiosa e al sacerdozio e accentuò la tendenza a confondere artatamente la pedofilia
e l’omosessualità, che in ogni modo, come si è visto, erano materie sovrapposte da
secoli anche nella tradizione teologica e canonistica. Inoltre il rifiuto del materialismo
edonistico contemporaneo e la paura che l’edificio millenario della Chiesa latina
potesse dissolversi spinse le gerarchie a non mettere in discussione né la separazione
tra un clero (meno folto) e i laici (più attivi) né lo stesso celibato, continuando
a trattare le trasgressioni sessuali e gli stessi abusi commessi sui minori da maschi
adulti in abito ecclesiastico come colpe gravi ma occasionali, da tenere il più possibile
lontane dai riflettori dell’opinione pubblica e da riconciliare con il perdono. Tuttavia,
se la medicina dei peccati non fosse bastata, ci si poteva affidare anche alle terapie
correnti. E infatti, come ricorda Doyle, negli USA è attestato il precoce ricorso
al trattamento psichiatrico per i chierici abusanti, il cui numero non diminuì affatto
nel secondo dopoguerra ma restò in larga parte ignoto fino all’esplosione degli scandali
della fine del XX secolo, che scavarono nel passato attraverso dossier che rubricarono
episodi risalenti persino al 1945, l’anno in cui uno ieratico papa Pio XII, in un
discorso pronunciato il 2 ottobre ai membri del foro curiale della Rota, aveva condensato
secoli di tradizione canonica:
i membri della gerarchia ecclesiastica – disse – hanno ricevuto e ricevono sempre
la loro autorità dall’alto e non debbono rispondere dell’esercizio del loro mandato
che o immediatamente a Dio, a cui soltanto è soggetto il Romano Pontefice, ovvero,
negli altri gradi, ai loro Superiori gerarchici, ma non hanno nessun conto da rendere
né al popolo né al potere civile.
Il nuovo Codice di diritto canonico varato nel 1983 non modificò affatto la prassi
giudiziaria e le pene ecclesiastiche in materia di sollecitazione dei confessori e
di potenziali abusi dei chierici a danno di minori (considerati tali, maschi e femmine,
al di sotto dei sedici anni, cann. 266, 1395). E quando nel 1997 fu redatto il nuovo
Catechismo della Chiesa cattolica, negli artt. 2355-2356 la Santa Sede si limitò a
condannare la prostituzione di bambini e adolescenti («in questi due ultimi casi –
si legge – il peccato è al tempo stesso anche uno scandalo») e lo stupro commesso
su minori e allievi da parenti o «educatori» (la parola clero non compariva affatto).
Si trattava di timide concessioni alla presa di coscienza dell’opinione pubblica e
del diritto internazionale circa la gravità criminale di ogni abuso sui minori, facilitata
dai movimenti femministi e da romanzi che anche in Francia ricordavano ad alcuni disinvolti
maschi dell’élite culturale e politica come gli abusi degli adulti venissero compiuti
soprattutto a danno di bambine e ragazzine. In questo senso, nell’eclissi del movimento
a sostegno della liceità della pedofilia giocò un ruolo importante l’apparizione del
romanzo La porte du fond di Christiane Rochefort (1988). Quanto alle organizzazioni internazionali, nel 1989
l’ONU promulgava una Convenzione sui diritti dell’infanzia che finalmente all’art.
34 trattava degli abusi sessuali sui minori, con l’impegno solenne degli Stati a proteggerli
«contro ogni forma di sfruttamento sessuale e di violenza sessuale» e a impedire sul
piano legale anche con accordi transnazionali che «siano incitati o costretti a dedicarsi
a un’attività sessuale illegale», che «siano sfruttati a fini di prostituzione o di
altre pratiche sessuali illegali» o per la «produzione di spettacoli o di materiale
a carattere pornografico».
Tuttavia, se l’opinione pubblica quasi di pari passo con il diritto civile e quello
penale andava in una direzione non più ambigua che esecrava l’abuso sessuale dell’infanzia,
la Chiesa cattolica scontava un ritardo, che come si è visto era radicato in una lunga
tradizione teologica e canonica in materia di omosessualità, nella difesa corporativa
del clero, nell’irrinunciabile distinzione del celibato, nella sanzione degli abusi
solo quando colpissero la sacralità del sacramento della confessione, in una concezione
negativa del desiderio e del piacere e in una prassi penitenziale che continuava a
trattare come peccati da non propalare ciò che il diritto penale e quello civile definivano
come crimini e lo stesso diritto canonico – ormai privo di efficacia materiale dal
XIX secolo – come delitti che aggravavano le colpe di lussuria.