XII.
«Io vado avanti»
Roma è addobbata per il Natale. È il 21 dicembre. Su viale Trastevere due ragazzi
si avventano su un’edicola, strappano un manifesto con l’immagine del papa, lo appallottolano
e lo prendono furiosamente a calci. Passa una donna, chiede perché. «Questo Francesco
non ci piace», è la risposta aggressiva. Nessun papa dell’era contemporanea è stato
così odiato come Francesco. Non è questione di numeri, è il modo sprezzante con cui
una parte di società, benché minoritaria, lo attacca. Nei decenni passati le manifestazioni
contro Wojtya o contro Ratzinger, fossero in Olanda, in Germania, in Inghilterra
o accompagnassero i cortei referendari in Italia, avevano un carattere politico e
l’asprezza degli slogan si inseriva in un conflitto su temi alti: divorzio, aborto,
abusi, riforma della Chiesa.
Ora si fanno strada un odio e un disprezzo viscerali, molecolari. Francesco non deve
fronteggiare soltanto i lupi della gerarchia ecclesiastica a lui contrari, ma anche
l’onda scura di un ribollire sociale che ama il linguaggio plebeo e si presenta in
maniera istericamente identitaria, inalberando un orgoglio nazional-clericale, intollerante
del confronto di idee. In rete l’aggressività nei suoi confronti prosegue in un’escalation
senza limiti. «Vorrei che il Signore ci liberasse da questo traditore e dittatore
della nostra Chiesa... Papa Ratzinger dovrebbe riprendere in mano la situazione o
la Chiesa cattolica romana andrà in frantumi», è solo un frammento della massa di
insulti quotidiani. Può anche accadere che un giornale d’informazione contrario alla
linea Bergoglio, in un giorno qualsiasi, accompagni un normale articolo di cronaca
con una brutale caricatura del papa, sbattuta in prima pagina: un Francesco dal viso
ingrugnato, con la pappagorgia e il labbro animalesco. Puro sfregio. «Questo non è un pontificato nice, carino, è un pontificato drammatico in cui ci sono cardinali che attaccano il papa
e atei che lo sostengono», ammette il gesuita padre Spadaro, fedele compagno di avventura.
«Conservo sempre la pace interiore che mi è venuta al tempo del conclave, è un dono
dello Spirito che mi è arrivato sin dall’inizio del pontificato e che sento fino a
oggi», ha confidato il papa ad un amico latinoamericano. Bisogna stare ben saldi «contro
qualsiasi tentazione di confusione e di disfattismo», è la sua convinzione in questa
fase travagliata del pontificato e del pianeta. Non cadere nella trappola del vittimismo
o dello spirito di vendetta. È pregando che Bergoglio arriva alle decisioni più importanti. «Ha come un’intuizione
– confida un prelato che lo conosce da vicino – e allora decide di andare avanti».
Lo accompagna l’immagine della Madonna bavarese che scioglie i nodi. Bruno Forte,
vescovo di Chieti e segretario speciale dei due sinodi sulla famiglia, fa notare che
i documenti principali del suo pontificato sono ispirati a una concezione gioiosa
e libera della vita di fede: “Gioia del Vangelo”, “Letizia dell’amore”, “Gioite ed
esultate”. Ma c’è anche un altro elemento che sostiene la tenacia del pontefice argentino.
La sua formazione di gesuita. «Militia est vita hominis super terram...», diceva sant’Ignazio.
“Vivere è combattere” e Bergoglio combatte.
Francesco è un uomo profondamente libero, che ammette senza timore di essere andato
in psicanalisi per fare i conti con grovigli interiori. Si mostra inginocchiato davanti
al confessionale e racconta in udienza generale di confessarsi ogni quindici giorni.
Perché «anche il papa è un peccatore» e ha bisogno di aprirsi con un confessore. «[Lui]
sente le cose che gli dico, mi consiglia e mi dà il perdono, e ho bisogno di questo
perdono». Nell’estate 2017 ha affisso sulla porta del suo appartamento a Santa Marta
il cartello «Vietato lamentarsi», regalatogli in piazza San Pietro da uno psicoterapeuta
siciliano. «Francesco ha riscattato l’immagine di Chiesa», rimarca il cardinale Raffaele
Farina. «L’ha fatta uscire dall’angolo», dice un vescovo italiano. Ha aperto un grande
orizzonte alla Chiesa spingendola a osare, afferma dall’osservatorio vaticano monsignor
Vincenzo Paglia. Ed è importante che abbia dato anche spazio agli oppositori.
In questo secondo tempo del pontificato Francesco continua a muoversi con energia,
spingendo avanti le frontiere della Chiesa. Alcuni dei suoi più lucidi avversari sanno
che l’azione di Bergoglio ha creato situazioni irreversibili. «Non si tornerà più
ai principi non negoziabili», ammette in privato l’autore di un blog tenacemente anti-bergogliano,
«Rosso Porpora». Papa Francesco ha sepolto una volta per tutte l’ossessione del cattolicesimo
tradizionale in materia sessuale. Relazioni prematrimoniali, anticoncezionali, divorzio
e secondo matrimonio, rapporti omosessuali sono usciti dalla sfera di una demonizzazione
perenne. Durante il pontificato di Bergoglio sono state approvate in Italia nel 2016
e nel 2017 le leggi sulle unioni civili (anche tra partner dello stesso sesso) e sul
testamento biologico senza che un’alleanza tra Vaticano, Cei e destra parlamentare
si presentasse in opposizione frontale come ai tempi di Benedetto XVI e del cardinale
Ruini. La svolta ha disorientato non pochi vescovi italiani, rimasti orfani delle
contrapposizioni in auge nei pontificati precedenti. Anche negli Stati Uniti una parte
dell’episcopato non digerisce la fine delle “guerre culturali” a cui era abituata.
Dice il cardinale Parolin, segretario di Stato e uno dei possibili nomi del futuro
conclave, che le «parole di Francesco sono accompagnate da gesti potenti». E infatti
molta parte del pontificato è alimentata da gesti. Il papa non ha cambiato il catechismo,
ma l’accoglienza cordiale riservata a Washington in nunziatura, nel 2015, a un ex
allievo gesuita gay con il suo partner vale più di tanti codicilli. Egualmente chiaro
è stato il segnale, quando ha definito sbagliato credere che i cristiani debbano figliare
«come i conigli». Una sola parola, l’invito alla paternità responsabile senza entrare in dettagli
tecnici, e tutte le estenuanti discussioni sulla pillola sono state spazzate via.
Francesco ha sempre considerato l’aborto un male, benché abbia predicato la misericordia
per le donne in difficoltà. Negli ultimi tempi, di fronte alle accuse dell’opposizione
interna di “tradimento” dei principi dottrinali, ha sentito il bisogno di pronunciare
discorsi aspri e duri. Ha equiparato l’aborto all’ingaggio di un killer per far fuori
una vita umana e ha bollato l’aborto selettivo come pratica di genocidio nazista «in
guanti bianchi». Suscitando reazioni in quell’area laica solitamente molto in ascolto
dei suoi interventi. «Caro Papa – si è rivolta a lui la scrittrice Dacia Maraini –,
non posso fare a meno di chiederle perché abbia usato termini così duri e punitivi.
Vorrei solo ricordarle che nessuna donna ha piacere di abortire. Se lo fa è perché
costretta da tante ragioni dolorose che lei dovrebbe conoscere... Crede davvero che
si possa combattere un male antico con le minacce e la demonizzazione?». L’unica alternativa,
sostiene la Maraini che ribadisce la sua stima per Bergoglio, è la costruzione paziente
di una cultura della maternità responsabile.
I gesti sono carne e sangue del pontificato bergogliano, il modo con cui suggerisce
di vivere il cristianesimo nel mondo contemporaneo. Appuntarsi sulla tonaca il nastro
giallo delle comfort girls coreane, le schiave sessuali delle truppe giapponesi durante la seconda guerra mondiale,
è la maniera di mettersi a fianco di tutti gli schiavi odierni. Aprire il Giubileo
della misericordia a Bangui, nel cuore dell’Africa nera, significa il superamento
del trionfalismo romano e la consapevolezza che il cammino futuro del cristianesimo
passa per le periferie del pianeta.
Gesti che incidono nel tempo e che contrassegnano l’ecumenismo di Francesco. Quando
nell’ottobre 2016 si è recato in Svezia per partecipare alle celebrazioni dei cinquecento
anni della Riforma protestante, non ha elogiato solo la sete di Dio di Lutero come
aveva fatto Benedetto XVI durante il suo viaggio in Germania nel 2011. Per la prima
volta ha trattato l’evento della Riforma come parte di una storia cristiana condivisa.
Durante la preghiera ecumenica nella cattedrale di Lund – indossando la stessa sobria
tunica bianca dei maggiorenti luterani – ha abbracciato la vescova luterana Antje
Jackelén, prima donna primate della Chiesa di Svezia, e ha riconosciuto «con gratitudine
che la Riforma ha contribuito a dare maggiore centralità alla Sacra Scrittura nella
vita della Chiesa». Nella dichiarazione congiunta, firmata con il presidente della
Federazione luterana mondiale, vescovo Munib Younan, è andato ancora più in là, sottolineando
la comunanza di destino. Cattolici e luterani, è scritto, sono «profondamente grati
per i doni spirituali e teologici» portati dalla Riforma. Parole che sono pietre miliari
e spiegano l’alta stima e simpatia riservata a Francesco negli ambienti protestanti.
Con gli ortodossi ha moltiplicato i gesti di unione spirituale. Ha inserito citazioni
del patriarca ecumenico ortodosso Bartolomeo nell’enciclica Laudato si’, a evidenziare che anche la teologia ortodossa può rappresentare “magistero” per
la Chiesa cattolica. E quando è stato a Costantinopoli nella sede del patriarcato
ecumenico ha chiesto a Bartolomeo di benedirlo: un gesto di umiltà nel segno della
fratellanza, una rinuncia simbolica a qualsiasi forma di supremazia, mantenendo unicamente
la missione del vescovo di Roma di “presiedere nella carità”, come disse Francesco
nel primo incontro con la folla dopo l’elezione. Quel giorno di novembre del 2014
Bartolomeo, con delicatezza, posò un bacio sul capo chino di Francesco. Il viaggio
in Romania nel maggio 2019 è un segno ulteriore di attenzione verso il mondo ortodosso,
oggi lacerato dal conflitto tra Costantinopoli e Mosca a causa del riconoscimento
da parte di Bartolomeo del patriarcato ortodosso indipendente di Ucraina, svincolato
dal patriarcato di tutte le Russie. Il conflitto è un duro colpo alle prospettive
ecumeniche (dopo che già il patriarcato russo aveva sabotato il concilio panortodosso
di Creta nel 2016). Il papa ha scritto una lettera di suo pugno a entrambi i patriarchi
Bartolomeo e Kirill per mostrare loro la sua vicinanza nel momento più difficile.
L’ecumenismo di Francesco non dimentica le colpe storiche della Chiesa cattolica ai
danni delle confessioni cristiane minoritarie in Italia. Nel tempio valdese di Torino
ha chiesto perdono per i «comportamenti non cristiani, persino non umani, che nella
storia abbiamo avuto contro di voi». Recandosi a Caserta in visita alla comunità pentecostale guidata dal pastore Giovanni
Traettino, suo amico dai tempi di Buenos Aires, ha chiesto perdono per le persecuzioni
inflitte da cattolici in nome delle leggi razziali del fascismo.
Soprattutto, nel dialogo interreligioso, il papa argentino ha fatto argine in questi
anni a quanti aizzavano contro l’islam, addossando alla religione musulmana la responsabilità
degli atti di terrorismo che hanno insanguinato l’Europa nonché degli eccidi dell’Isis
in Medio Oriente. Francesco ha sempre respinto l’equazione tra islam e terrorismo,
definendola una menzogna, ha ricordato che la maggior parte delle vittime è di religione
musulmana, ha esortato i leader islamici a condannare con chiarezza gli atti di terrorismo
fondamentalista e nell’incontro con gli esponenti religiosi musulmani al Cairo nel 2017 ha perorato,
citando Giovanni Paolo II, l’alleanza tra fratelli e sorelle che vivono «sotto il
sole di un unico Dio misericordioso». Nella capitale egiziana, dove ha sede l’antica
moschea di al-Azhar (considerata centro spirituale dell’islam sunnita), papa Bergoglio
ha esortato all’impegno comune nel denunciare ogni aggressione alla dignità e ai diritti
umani. Smascherando la «violenza che si traveste di presunta sacralità». Condannando
ogni forma di odio in nome della religione come falsificazione idolatrica di Dio.
Perché il nome di Dio è pace.
Quando nel luglio 2016 due giovani “soldati dell’Isis” di nazionalità francese hanno
sgozzato in chiesa il parroco Jacques Hamel nella cittadina di Saint-Étienne-du-Rouvray,
vicino a Rouen, papa Francesco ha reso omaggio ai martiri cristiani assassinati per
non rinnegare Cristo. Ma non ha alimentato l’isteria anti-islamica. La morte di un
uomo mite come padre Hamel, ha detto celebrando messa per lui a Santa Marta, è il
segno di una satanica persecuzione. Aggiungendo: «Quanto piacerebbe che tutte le confessioni
religiose dicessero: uccidere in nome di Dio è satanico».
L’intenso e tenace dialogo, praticato con l’islam sin dall’inizio del pontificato,
ha avuto un suo momento culminante nella firma congiunta con l’imam di al-Azhar, Ahmad
al-Tayyib, di un documento su Fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune. L’evento si è svolto ad Abu Dhabi il 4 febbraio 2019 in occasione di una conferenza
interreligiosa promossa negli Emirati Arabi Uniti. Per la prima volta dall’avvento
di Maometto, quattordici secoli fa, i massimi capi religiosi del cattolicesimo e del
mondo sunnita hanno stretto un patto comune. Frutto di un anno di lavoro teologico
preparatorio, il testo ha il timbro di una sorta di enciclica cristiano-islamica:
«La fede porta il credente a vedere nell’altro un fratello da sostenere e da amare».
È la stessa volontà di Dio – è scritto riecheggiando il Corano – a volere la diversità
di religioni. Per questo «si condanna il fatto di costringere la gente ad aderire
ad una certa religione o a una certa cultura, come pure di imporre uno stile di civiltà
che gli altri non accettano».
La condanna del terrorismo e di ogni violenza e persecuzione, causate dalla strumentalizzazione
della religione e del nome di Dio, nel documento di Francesco e al-Tayyib non è una
dichiarazione d’emergenza ma il tassello di una visione più ampia. Perché le religioni,
riecheggiando il documento conciliare Gaudium et spes, hanno la missione di condividere «gioie, tristezze e problemi del mondo contemporaneo».
Nel testo si sente, per la parte islamica, l’esperienza di vita del filosofo e teologo
al-Tayyib, formatosi alla Sorbona di Parigi e all’università di Friburgo in Svizzera.
È un documento religioso e geopolitico insieme, che parla di pace, ingiustizia socio-economica,
equa distribuzione delle risorse naturali, ma anche della realizzazione in ogni società
della “piena cittadinanza” per tutti. Non manca l’affermazione dei diritti delle donne:
all’istruzione, al lavoro, all’esercizio dei diritti politici, alla libertà da pressioni
storiche e sociali contrarie alla loro dignità.
Matteo Zuppi, vescovo di Bologna, una delle nomine bergogliane nell’episcopato italiano,
evidenzia un tratto teologico dell’azione pastorale del papa: «Per Francesco non c’è
un mondo da conquistare, ma dobbiamo sapere cogliere i semi di Dio che già sono in
questo mondo». È il principio che guida il pontefice anche nella dimensione geopolitica. Il 22
settembre 2018 – dopo un intenso periodo di trattative e lunghi anni di contatti e
colloqui bilaterali segreti, già avvenuti durante i pontificati di Giovanni Paolo
II e Benedetto XVI – il Vaticano ha potuto annunciare la firma di un accordo ufficiale
con la Cina per la nomina dei vescovi. È un evento storico.
Per la prima volta dalla creazione della Repubblica popolare un documento internazionale
registra le firme di alti rappresentanti della Cina e del Vaticano: monsignor Antoine
Camilleri, sottosegretario agli Affari esteri della Santa Sede, e Wang Chao, viceministro
degli Esteri cinese. Per raggiungere questo traguardo il papa ha pagato anche qualche
prezzo diplomatico, come la rinuncia a ricevere in Vaticano il Dalai Lama.
«Per la prima volta, dopo tanti anni, oggi tutti i vescovi della Cina sono in comunione
con il vescovo di Roma», ha commentato soddisfatto il segretario di Stato Parolin,
regista della trattativa. Così dovrebbe concludersi la lunga scissione tra una Chiesa
cattolica ufficiale, controllata dal governo, e una Chiesa cattolica clandestina.
Agostino Giovagnoli, docente di storia contemporanea all’Università Cattolica di Milano,
ha scritto che «dove c’era un muro impenetrabile, si è aperta una breccia che può
allargarsi in molte direzioni».
L’accordo è un patto leonino. Pechino ha imposto la sua visione di una Chiesa cattolica
“nazionale” che prende autonomamente le decisioni fondamentali. Nel gergo politico
cinese: una Chiesa basata sul “principio di indipendenza e di sinicizzazione della
religione”. Pechino ha respinto il metodo della terna dei candidati vescovi, scelti
dal pontefice e indicati dalla Santa Sede al governo. Era il metodo in uso nei rapporti
tra Vaticano e Stati appartenenti al blocco sovietico: spettava al pontefice operare
la selezione dei candidati. Nel patto con Pechino la procedura è rovesciata. Il “consiglio
dei vescovi cattolici” cinesi presenta il nominativo del candidato al pontefice, cui
spetta ufficialmente la nomina. Qualora il papa non dovesse essere d’accordo, il consiglio
dei vescovi “valuterà” aprendo una fase nebulosa.
L’accordo è provvisorio, dunque modificabile nel tempo. Soprattutto è secretato (pare
di capire su richiesta vaticana). L’«Avvenire» ha offerto qualche indizio ulteriore
che conferma la posizione svantaggiata in cui è venuta a collocarsi la parte vaticana.
«La Santa Sede – ha scritto il giornale dell’episcopato italiano – accetta che il
processo di designazione dei candidati all’episcopato avvenga dal basso, dai rappresentanti
della diocesi anche con il coinvolgimento dell’Associazione patriottica». Associazione
che è sotto lo stretto controllo del Partito comunista cinese. L’ultima parola, l’“avallo”,
spetterà al pontefice. In occasione della firma dell’accordo, il papa ha accettato di togliere la scomunica
a sette vescovi nominati dal governo senza l’approvazione papale e anche a un vescovo
irregolare nel frattempo defunto. La sorte dei vescovi della Chiesa clandestina, tutti
nominati a suo tempo dai pontefici, è da definire. Su richiesta vaticana qualcuno
ha accettato di essere vescovo ausiliare del titolare ufficiale della diocesi.
«Penso alla resistenza [della Chiesa clandestina], ai cattolici che hanno sofferto:
è vero, loro soffriranno. Sempre in un accordo c’è sofferenza», ha ammesso con sincerità
papa Francesco, parlando con la stampa al ritorno dal viaggio in Estonia. Ma alla
fine, ha spiegato, ciò che conta è che la nomina sia del papa e che ci sarà un dialogo
sugli eventuali candidati. Con realismo ha soggiunto che nei secoli passati anche in Europa e in America Latina
erano i monarchi a decidere la scelta dei vescovi. Lasciando intendere che bisogna
affidarsi all’evoluzione della storia. Il primo effetto dell’accordo è stata la partecipazione
di due presuli cinesi al sinodo dei giovani: il vescovo di Yan’an Giovanni Battista
Yang Xiaoting e il vescovo di Chengde Giuseppe Guo Jincai, segretario del consiglio
dei vescovi cinesi e appena liberato dalla scomunica. Sia Giovanni Paolo II che Benedetto
XVI avevano invano tentato di invitare vescovi cinesi alle assemblee sinodali. Il
governo di Pechino aveva sempre posto il veto.
Pochi giorni dopo l’annuncio dell’accordo, Francesco ha inviato un «Messaggio ai cattolici
cinesi». Un documento sobrio e lucido, religioso e politico insieme. Il papa prende
a cuore la sensazione di abbandono, che può pervadere i cattolici della clandestinità
e specialmente il loro interrogarsi sul «valore delle sofferenze affrontate per vivere
nella fedeltà al successore di Pietro». Sottolinea l’importanza, ai fini dell’annuncio
del Vangelo, che vi sia finalmente piena e visibile unità della Chiesa cattolica in
Cina, invita alla riconciliazione i diversi gruppi cattolici, esorta vescovi, sacerdoti
e fedeli a «cercare buoni candidati» (un passaggio che segna l’accettazione del metodo
di selezione dal basso). La lettera papale auspica un buon dialogo tra comunità ecclesiale
e autorità civili ed esprime la volontà di costruire rapporti di amicizia tra Santa
Sede e Cina, mentre assicura che i cattolici cinesi sono impegnati a promuovere lo
sviluppo della società, «assicurando maggiore rispetto per la persona umana anche
in ambito religioso».
C’è un passo nel messaggio che riflette pienamente la psicologia di papa Bergoglio.
«Se Abramo avesse preteso condizioni sociali e politiche ideali prima di uscire dalla
sua terra, non sarebbe mai partito». Francesco non ha paura di mettersi in cammino
sui sentieri della storia. «Il tempo è superiore allo spazio», ha proclamato sin dall’inizio
del pontificato e ha ribadito continuamente nei suoi principali documenti: l’enciclica
Lumen fidei, firmata insieme a Benedetto, l’esortazione apostolica Evangelii gaudium, l’esortazione postsinodale Amoris laetitia, l’enciclica Laudato si’. Per Bergoglio la cosa più importante è mettere in moto dei processi. Altrettanto
importante è misurarsi con la realtà senza paure. «Il portiere deve prendere la palla
da qualsiasi parte arrivi», esclama il papa argentino nel suo parlare popolare. Pechino
è un protagonista strategico dell’era contemporanea, un partner indispensabile per
la pace. Ma non nella prospettiva di suddividere il pianeta in rinnovate sfere di
influenza, come avvenne a Yalta, sottolinea Bergoglio. «Il mondo occidentale, il mondo
orientale e la Cina sono in grado di mantenere l’equilibrio della pace e hanno la
forza per farlo. Dobbiamo trovare un modo, sempre attraverso il dialogo», spiegava
Francesco all’«Asia Times» di Hong Kong, quando ancora le trattative erano in corso.
L’accordo con la Cina è una scommessa e un investimento. I governanti cinesi hanno
sempre respinto l’idea di avere all’interno del paese un’istituzione (in questo caso
ecclesiale) sottoposta ad un’autorità estera, cioè il papa di Roma. A Pechino sono
decisi a mantenere un controllo ferreo sulle dinamiche sociali. I social media sono
sorvegliatissimi e censurati. «Nuove disposizioni del 2018 regolamentano in maniera
stringente le attività di culto e proibiscono l’istruzione religiosa prima dei diciotto
anni, compreso il divieto di tenere campi scuola e organizzare campeggi», afferma
padre Bernardo Cervellera, missionario del Pontificio istituto missioni estere (Pime)
e direttore dell’agenzia «Asia News». Le riunioni religiose private sono vietate.
«Nelle case è proibita l’attività di preghiera, si può pregare solo in edifici di
culto stabiliti», soggiunge. È in vigore un’estenuante burocrazia di permessi da ottenere: a livello
locale, distrettuale e statale. Distruzioni di edifici di culto o di segni religiosi
avvengono con vari pretesti.
È vero, d’altro canto, che in un paese così vasto la maggiore o minore applicazione
delle regole dipende molto dai funzionari locali. Francesco guarda lontano. Bisogna
«farsi pellegrini sui sentieri della storia», è la sua convinzione manifestata anche
nel «Messaggio ai cattolici cinesi». D’altronde i cattolici nella Repubblica popolare,
valutati sui dieci milioni, sono in calo a causa dell’inurbamento di massa, che ha
distrutto tante comunità locali. Fioriscono invece le comunità autonome evangelicali,
arrivate a cinquanta milioni di aderenti. Per Francesco rimane essenziale essere riuscito
ad agganciare in un accordo internazionale il gigante del XXI secolo, la Cina.
«Francesco è un pastore e un missionario», ripetono le persone in curia a lui più
vicine. La sua capacità di lavoro, per un uomo entrato nell’ottantatreesimo anno di
vita, è notevole. Sveglia al mattino poco prima delle cinque, un’ora di preghiera
in cappella, luce spenta alle dieci di sera. Niente televisione. Solo «L’Osservatore
Romano» fresco di stampa al pomeriggio e «Il Messaggero» al mattino: perché bisogna
avere il polso della cronaca della capitale in cui si vive (a parte gli arrivano le
rassegne stampa interne al Vaticano). Doveva essere un pontificato in cui spostarsi
poco, dato la sciatica che lo tormenta, invece anche Francesco è diventato itinerante,
con molti viaggi all’anno. Ad un ritmo frenetico il papa ha messo in agenda nel 2019
la partecipazione alla Giornata mondiale della gioventù a Panama, le visite negli
Emirati Arabi e in Marocco, i viaggi in Madagascar, Mozambico, Uganda, Bulgaria, Macedonia
del Nord, Romania e Giappone. «I viaggi lo sfiniscono, ma lo coinvolgono molto», spiega
chi lo segue spesso. Un buon prete, sostiene Francesco, «si lascia mangiare» dal suo
gregge. Bergoglio si lascia consumare dal pontificato.
L’appuntamento ecclesiale a cui tiene di più è il sinodo sull’Amazzonia in programma
nell’ottobre 2019. Sono convocati i vescovi di Brasile, Colombia, Perù, Venezuela,
Bolivia, Ecuador, Guyana già britannica e quella francese, Suriname. È un sinodo che
acquisisce una rilevanza universale perché sono sul tavolo due argomenti: il problema
dei viri probati, uomini sposati di provata fede e moralità a cui potrebbe essere affidato il compito
di celebrare l’eucaristia, e il tema di compiti speciali da affidare alle donne. Il
documento preparatorio del sinodo apre la strada alla discussione. Il paragrafo 14
recita: «Occorre individuare quale tipo di ministero ufficiale possa essere conferito
alla donna, tenendo conto del ruolo centrale che le donne rivestono oggi nella Chiesa
amazzonica... bisogna progettare nuovi cammini affinché il popolo di Dio possa avere
un accesso migliore e frequente all’eucaristia, centro della vita cristiana».
Anni fa il vescovo austriaco naturalizzato brasiliano Erwin Kräutler aveva sottoposto
al papa la questione. Nella prelatura molto estesa di Xingu, da lui allora retta,
vivono settecentomila fedeli, distribuiti in ottocento comunità con ventisette sacerdoti.
Risultato: si può celebrare messa unicamente due o tre volte l’anno. La risposta di
Francesco era stata che toccava ai vescovi locali, alle conferenze episcopali nazionali,
elaborare e presentare proposte in Vaticano.
Francesco potrebbe aprire la strada a questa rivoluzione, destinata a creare nuove
situazioni anche in altre parti dell’universo cattolico stante la cronica carenza
di vocazioni. «Dobbiamo riflettere se i viri probati siano una soluzione», ha dichiarato tempo fa. «Vedere quali compiti potrebbero assumere,per esempio in comunità molto isolate». L’ipotesi di lavoro è l’istituzione sperimentale di un “ministero locale”, cioè
questi uomini sposati sarebbero chiamati a celebrare l’eucaristia solo all’interno
della propria comunità. Avvicinandosi la data della riunione del sinodo, Francesco
ha evocato la sottigliezza teologica che potrebbe aprire un varco alla novità. Premesso
che il sacerdote ordinato possiede la facoltà di celebrare i sacramenti, di governare
e di insegnare (munus sanctificandi, munus regendi, munus docendi), il locale «vescovo darebbe soltanto [a un anziano sposato] le facoltà per il munus sanctificandi». Citando lo studio di un teologo, il papa ha fatto l’elenco: «che celebri la messa,
che amministri il sacramento della riconciliazione e dia l’unzione degli infermi». Mai come in questo caso le chiavi sono in mano a Francesco. Quali che siano le istanze
emergenti dal dibattito sinodale, sarà lui a decidere se compiere o no la svolta.
L’ultraottantenne cardinale brasiliano Cláudio Hummes, arcivescovo emerito di San
Paolo e grande amico di Bergoglio, è da sempre favorevole. Già nel 2006, appena nominato
da Benedetto XVI prefetto della congregazione per il Clero, Hummes aveva affermato
pubblicamente che il celibato non era un dogma e che anche alcuni degli apostoli erano
sposati. Allora il cardinale fu immediatamente zittito su ordine di papa Ratzinger.
L’impegno maggiore di Francesco, adesso come agli inizi del pontificato, è la “conversione”
della Chiesa. Non servono vescovi amministratori, ha ricordato all’inizio del 2019
ai vescovi americani, ma pastori che sappiano cogliere il passaggio di Dio nella storia.
Una Chiesa è credibile se i suoi membri si riconoscono peccatori e limitati e comprendono
la necessità della conversione. Senza questa coscienza personale e comunitaria, ammonisce
Francesco, «si può correre il rischio di finire col fare di Dio un “idolo” di un determinato
gruppo esistente».
Nel momento più drammatico del pontificato – il 2018 dei grandi scandali, che hanno
rivelato l’enormità degli abusi sessuali, e della richiesta delle dimissioni papali
– Francesco ha affondato il bisturi nel tumore nascosto che corrode la vita ecclesiale:
il clericalismo. «Il modo anomalo di intendere l’autorità nella Chiesa, molto comune
in numerose comunità nelle quali si sono verificati comportamenti di abuso sessuale,
di potere e di coscienza», ha scritto. Un male oscuro che «non solo annulla la personalità
dei cristiani, ma tende a sminuire la grazia battesimale che lo Spirito Santo ha posto
nel cuore della nostra gente». Parole – al di là del linguaggio religioso – di una
gravità eccezionale. E per di più, fa intendere il papa, non si tratta di un fenomeno
marginale: «Il clericalismo, favorito sia dagli stessi sacerdoti sia dai laici, genera
una scissione nel corpo ecclesiale che fomenta e aiuta a perpetuare molti dei mali
che oggi denunciamo». Sono i pensieri espressi nella Lettera al popolo di Dio dell’agosto 2018. Segnalano il disagio profondo che Francesco prova per una Chiesa
che non gli appare fedele al Vangelo. «È necessario – insiste (e gli abusi sono solo
il punto di partenza del ragionamento) – che ciascun battezzato si senta coinvolto
nella trasformazione ecclesiale e sociale di cui tanto abbiamo bisogno».
Non sarà Francesco a realizzarla. Il papa argentino è un seminatore, altri – se la
sorte vorrà – faranno maturare il raccolto. Il tempo corre velocemente in questa seconda
parte del pontificato. «Non so se ci sarò alla prossima Giornata mondiale della gioventù
[nel 2022]», ha detto con un filo di lucida malinconia accomiatandosi il 27 gennaio
dai giovani volontari della Giornata mondiale della gioventù di Panama. Il ritmo frenetico
con cui si muove lascia intuire che il pontefice argentino intenda sfruttare per la
sua missione ogni attimo della sua esistenza.
Intanto Bergoglio è solo. È impressionante come questa osservazione ricorra nelle
conversazioni private nel mondo ecclesiale romano e non romano. «È una persona molto
sola, si sente, ma questo non lo ha reso cupo», confida la superiora di un ordine
religioso. «Ha la capacità di incassare i colpi senza esserne travolto», osserva un
vescovo amico. Il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Cei, lo ribadisce:
«Francesco non si scoraggia, non si avvilisce per quanti gli vanno contro. Si fida
di Dio. Come Giovanni XXIII non crede nei profeti di sventura». La solitudine del papa è resa più intensa dall’inerzia dei tanti vescovi nel mondo,
che non si affacciano sulla scena pubblica per rilanciare i temi sostenuti da lui.
«Vescovi poco reattivi, poco coraggiosi, che non si mobilitano nemmeno se il papa
li esorta a muoversi», ha commentato tempo fa il presidente di una delle più importanti
conferenze episcopali europee. D’altronde, fanno notare parecchi presuli, è difficile
che si mobilitino a favore di uno slancio riformista parrocchie frequentate soprattutto
da sessantenni.
Mauro Magatti, sociologo e direttore del Centro di antropologia della religione all’Università
Cattolica di Milano, osserva che per un uomo arrivato a settantasei anni al trono
papale, dopo una vita dedicata al Vangelo, è un’esperienza estrema «scoprire un covo
di vipere». D’altra parte, continua Magatti, «questo è un papa ansiogeno per clero
e vescovi, ha capito che la Chiesa va collocata nei punti di contraddizione della
società, lì dove emerge una domanda di senso per sottrarsi all’agenda tecnico-economica
dominante».
Francesco destabilizza. Aprire l’anno nuovo puntando il dito contro quelli che «vanno
in chiesa, stanno lì tutti i giorni e poi vivono odiando gli altri e parlando male
della gente», dire che sono uno scandalo e che è «meglio vivere come un ateo anziché
dare una contro-testimonianza dell’essere cristiani», è uno shock per l’establishment
ecclesiastico.
Bergoglio disorienta, perché esercita il ruolo di papa in modo radicalmente diverso
dai predecessori. «Francesco si mostra problematicamente, demitizza la figura papale,
rivela il travaglio del pastore», afferma una religiosa che lo segue da tempo con
attenzione. «Il caso cileno è stato clamoroso non solo per l’atteggiamento di quell’episcopato,
ma per l’atteggiamento del papa», nota il cardinale Francesco Monterisi: «Ma come,
un pontefice che sbaglia... chiede scusa... si pente? Altri pontefici apparivano come
la “roccia”, la pietra inamovibile. Francesco si mostra molto più umano...». L’effetto
in una parte non piccola dell’ambiente curiale ed ecclesiastico è di sperdimento.
E di un’attesa di un governo futuro più stabile. Veterano del concilio Vaticano II,
il vescovo Bettazzi riflette con la saggezza sorridente dei suoi novantacinque anni:
«Francesco piace alla gente, meno al clero, meno ancora ai vescovi».
La Chiesa cattolica è entrata in una fase di turbolenza non solo per le questioni
dottrinali agitate da una corporazione di cardinali e vescovi, ma per un generale
rimescolamento sociale, politico, religioso. Nell’Europa orientale è emerso un catto-nazionalismo
che ha propaggini politiche anche nella parte occidentale del Vecchio Continente.
Francesco è allarmato per il vento illiberale che spira in Europa e nel mondo. Cattiverie
e brutture, ha detto, contrassegnano il tempo presente. Così come la paura, che favorisce
la schiavitù ed «è anche l’origine della dittatura, perché sulla paura del popolo
cresce la violenza dei dittatori». Nel Sud del mondo grandi nazioni cattoliche come le Filippine e il Brasile sono
in mano a governi che esaltano l’aspetto violento dello Stato in nome della lotta
alla delinquenza. Di fronte alla brutalità del darwinismo politico imperante papa
Bergoglio diventa sempre più netto: «Il bene, se non è comune, non è bene».
Nel pontificato bergogliano l’istituzione ecclesiastica appare fortemente divisa.
«Troppi si arroccano, restano incerti, non capiscono la novità del suo modo di concepire
la presenza della Chiesa nel mondo contemporaneo», confida un prelato di curia. Negli
Stati Uniti la gerarchia è profondamente divisa tra vecchia guardia e fautori della
linea Bergoglio. L’Africa, che nei decenni a venire sarà demograficamente prevalente
nell’universo cattolico, ha una gerarchia ecclesiastica che spesso guarda con estraneità
se non con ostilità ai dibattiti e ai temi delle Chiese dell’Occidente. A loro volta
le giovani generazioni africane sono spesso più vicine all’Europa e all’America che
ai propri maggiorenti. E intanto, come blocchi tettonici, si muovono Usa, Cina e Russia.
Dice Andrea Riccardi, leader storico della comunità di Sant’Egidio, che «sotto la
crosta le tensioni del mondo si riverberano anche all’interno della Chiesa». Papa
Francesco? «Regge e resiste». Poche settimane prima del sesto anniversario dell’elezione
papale il cardinale Kasper ha lanciato un allarme. Parlando alla tv tedesca Ard, il
porporato ha detto che c’è gente a cui il pontificato bergogliano non piace: «Vogliono
terminarlo il più presto possibile e insomma vogliono tenere un nuovo conclave...
e vogliono anche preparare il conclave in modo che abbia un esito secondo le loro
intenzioni».
Non è difficile intravvedere le tappe di queste manovre. Intensificare la campagna
di delegittimazione, raccogliere dossier su quei porporati – papabili o meno – che
potrebbero essere d’intralcio ad una svolta frenante, e infine programmare per il
prossimo conclave la scelta di un candidato-papa “moderato”. Riportare del tutto indietro
l’orologio non si può, lo sanno anche i conservatori, l’importante è che non si arrivi
a un Francesco II. Il sociologo Magatti teme il pericolo che Bergoglio resti una parentesi.
«Coraggio, Santo Padre!», gli ha detto un vescovo latinoamericano dopo la lettera
del nunzio Viganò, che intimava le dimissioni papali: «In ogni comunità c’è un Giuda».
Francesco lo ha guardato un attimo e ha replicato: «Sì, ma il Giuda non è qui in curia,
ma in America».
Le dimissioni di Benedetto XVI, affermava il defunto cardinale Karl Lehmann, per lunghi
anni presidente della conferenza episcopale tedesca, hanno cambiato la fisionomia
del papato. Il ruolo sacrale del pontefice è entrato in crisi. Chi si dimette, si
sottopone al giudizio di tutti e consegna al successore una funzione priva ormai dell’aura
di uno status perenne. L’intangibilità del papato ha vacillato con Benedetto XVI ed
è sottoposta a forti scosse con Francesco. È tramontata la “devozione” mistica e incondizionata,
che un tempo clero, vescovi e fedeli dedicavano al pontefice. Ora ogni ruolo sembra
sottoposto a un “like”. E non basta il carisma per coprire gli scricchiolii della
struttura ecclesiastica. Dal vertice alla base tutto l’universo cattolico è entrato
in una fase di transizione.
Francesco, che rifiuta l’immagine del papa-monarca, è soggetto e oggetto di un inquieto
rimescolamento, che sta rimodellando in forme ancora non prevedibili il cattolicesimo
del nuovo millennio. Per questo si presenta non come un gerarca, ma come un fallibile
discepolo di Cristo sulle strade di Galilea, il mondo contemporaneo.
Francesco va verso il crepuscolo senza tormento. Dopo le esternazioni dell’ex nunzio
Viganò le dimissioni papali sono diventate un argomento tabù, ma la rinuncia – quando
l’età sarà incombente – resta un’opzione. Se dovesse dimettersi, «prenderà la sua
valigia, partirà da Roma senza abito bianco e non dirà più una parola», assicura un
esponente latinoamericano in Vaticano. Intanto va avanti. «Francesco va avanti anche
se non lo capiscono», spiegava un intimo del pontefice nel pieno della ribellione
scatenata dai quattro cardinali contrari all’Amoris laetitia.
Dietro il palcoscenico della popolarità di Francesco forti tensioni percorrono la
Chiesa. Hans Küng, il grande teologo di Tubinga, protagonista e osservatore critico
di quasi sessant’anni di sviluppi e involuzioni, aperture e crisi della Chiesa cattolica,
segue con grande trepidazione la parabola del pontificato bergogliano: «Francesco
ha iniziato in maniera audacissima, adesso bisogna vedere fin dove potrà arrivare».
Si tratta letteralmente di osservare mese per mese, riflette Küng, «fino a che punto
il papa può spingersi senza spaccare la Chiesa cattolica». Il teologo svizzero, che è in contatto con Bergoglio, porta l’esempio della Chiesa
anglicana, paralizzata da anni sulla questione delle donne vescovo e dei sacerdoti
e vescovi omosessuali. Tra le comunità anglicane occidentali e quelle africane il
contrasto è frontale. Anche l’immenso corpo cattolico è sotto stress. L’apparato vaticano,
è evidente, non appoggia lo sforzo di riforma del papa. L’attuale episcopato cattolico
non sarebbe in grado di celebrare un concilio riformatore, sostiene Küng. Anche il
cardinale Martini la pensava così. Prossimo a morire, confidava al suo segretario
Damiano Modena che un Vaticano III adesso non sarebbe un bene: «Si tornerebbe indietro
piuttosto che andare avanti. Non c’è un episcopato capace di riflettere».
Il papa argentino, rimarca Küng, «è circondato da vescovi che non parlano, non prendono
posizione, stanno acquattati... tutti creature di Wojtya e di Ratzinger». Nel suo
studio, tra montagne di libri, Küng conclude a bassa voce: «Bisogna sorreggere Francesco».