I
«Il dissoluto punito, o, il Don Giovanni. Opera buffa in 2 Atti»: così scrive Mozart
sul proprio catalogo delle opere il 28 ottobre 1787. Opera buffa, non «Dramma giocoso» come appare sul libretto. Per quanto molti studiosi
oggi tendano a considerare le due espressioni praticamente equivalenti, l’indicazione
del compositore è chiarissima: il Don Giovanni è un’opera buffa. E qui, naturalmente, cominciano i problemi, perché un’opera buffa
come questa non si era mai vista: come si può definire «buffa» un’opera che comincia
con un tentativo di stupro e un assassinio, e che finisce con la morte del protagonista?
Elementi provenienti dall’opera seria si erano insinuati nell’opera buffa già da molti
anni. E sappiamo bene quanto Mozart fosse interessato alla mescolanza dei generi,
all’idea di sfumare i confini tra le due concezioni teatrali. La vicenda di Don Giovanni,
poi, aveva da quasi due secoli uno status speciale, in un certo senso a metà tra i due generi, nell’ambito del teatro europeo.
Se anche può sembrare poco adatta all’atmosfera espressiva dell’opera (spesso notturna,
caratterizzata dal frequente uso di tonalità minori e di sonorità cupe), la definizione
mozartiana di «opera buffa» è comunque perfettamente giustificata dalle caratteristiche
drammaturgiche e musicali del Don Giovanni: opera «d’azione» da cima a fondo, basata sulla sorpresa, sulla velocità, sul travestimento
– e quindi articolata in gran parte tramite la tecnica del Concertato. Fin dalla memorabile
scena iniziale ci accorgiamo di come Mozart sovverta ogni legge formale, travolga
qualsiasi convenzione teatrale: i personaggi non ci vengono presentati in pezzi chiusi,
Arie, Duetti, Terzetti, ma attraverso un concatenarsi di eventi. Leporello è in scena
da solo, poi entrano a precipizio Donna Anna e Don Giovanni, impegnati in una lotta
disperata; quindi arriva il Commendatore, che si batte in duello con Don Giovanni
e viene ucciso. La tecnica di questa «Introduzione» è evidentemente quella del Finale
d’atto: diverse sezioni collegate che sfociano l’una nell’altra, con l’ingresso di
personaggi sempre nuovi e con la tensione che si accresce gradualmente.
Fu un’idea davvero geniale di Mozart, e una dimostrazione ulteriore del suo straordinario
senso del teatro: il protagonista aveva caratteristiche talmente uniche e sfuggenti che inevitabilmente
l’intera drammaturgia dell’opera dovette essere ripensata. Il Don Giovanni non poteva essere un’opera «razionale», conseguente, un perfetto meccanismo come
lo erano state le Nozze. Doveva contenere un elemento «irrazionale», qualcosa di non risolto (proprio come
la vicenda non può essere risolta dai personaggi convenzionali: c’è bisogno di un
intervento soprannaturale per avere ragione del protagonista).
Per rendercene conto basta soffermarsi sulla figura di Don Giovanni, così come ce
lo consegnano il libretto e soprattutto la musica: è un personaggio in perpetuo movimento,
irrequieto, inafferrabile. Canta tre Arie, ma brevissime; e due di queste nei panni
di un altro (Leporello). Il suo primo intervento, durante la lotta con Donna Anna,
è emblematico: «Donna folle! Indarno gridi! Chi son io tu non saprai». Il tono del
personaggio, insomma, è definito fin dall’inizio. Molti studiosi considerano Don Giovanni
un «camaleonte musicale»: Mozart evita volutamente di dargli una precisa caratterizzazione,
lo fa cantare in molti modi diversi (e in stili diversi, dal drammatico all’eroico, dal comico al lirico). Soprattutto, Don Giovanni
tende a essere lo specchio vocale di ognuno degli altri protagonisti: «ruba» la risposta
ad Anna e poi al Commendatore nella scena iniziale, si appropria del «tono» di Zerlina nel Duetto, poi del suo
tema supplichevole nel Finale primo («Ah, lasciatemi andar via/No, no, resta, gioia
mia»), e ancora del tema di Elvira nel Terzetto del secondo atto; e nel frattempo
costringe Leporello a scambiare i vestiti.... Il suo gioco di furti musicali e scenici ci verrà rivelato esplicitamente dallo
stesso servitore, che per giustificarsi davanti agli altri personaggi nell’Aria del
secondo atto affermerà: «Il padron con prepotenza l’innocenza mi rubò».
«Cosa diviene quindi, dal punto di vista musicale, Don Giovanni? Puro movimento. È
come se per Mozart affrontare il mito di Don Giovanni significasse inscriverlo nello
scorrere del tempo, sottoporlo a una riflessione che pone al centro l’opposizione
stessa tra stabilità e movimento, tra i valori – morali e musicali – e la trasformazione
incessante».
Ecco perché Mozart fu letteralmente costretto, nel tracciare la figura del «giovane
cavaliere estremamente licenzioso» (così il libretto), ad abbandonare le convenzioni
dell’opera seria, il cui punto focale è l’Aria: il personaggio che si ferma a riflettere,
svela i propri sentimenti, le proprie intenzioni, le proprie reazioni rispetto al
corso dell’azione. Don Giovanni è l’esatto contrario: quasi impalpabile dal punto
di vista psicologico, portato ad agire sempre d’impulso, a cogliere al volo ogni occasione.
Non c’è un solo istante nell’intera opera in cui rifletta sulle conseguenze delle
proprie azioni, o in cui abbia considerazione per gli altri al di là dell’attrazione
fisica per qualsiasi donna gli passi accanto.
Nel dar vita al personaggio, quindi, Mozart fu naturalmente spinto verso lo stile
dell’opera buffa, che come sappiamo si fonda sui Concertati, vale a dire sull’azione.
Adottò questa drammaturgia, salvo abbandonarla ogni volta che sulla scena si presentano
i personaggi «alti», nobili: di qui i Recitativi accompagnati di Donna Anna, le Arie
di Ottavio e di Elvira. Il risultato è un’alchimia, una fusione di generi destinata
a rivoluzionare per sempre le regole stesse dello spettacolo operistico. L’inafferrabilità
di Don Giovanni contribuisce per contrasto a rendere vive e presenti le voci femminili.
E proprio la sua evanescenza sottolinea, sempre per contrasto, la gravità, il peso,
la calma del convitato di pietra, che infatti si esprime musicalmente attraverso valori
larghi e statici. Non è certo un caso che il libretto accenni continuamente alla fretta
di Don Giovanni, al suo bisogno di rapidità, immediatezza, alla sua corsa contro il
tempo, all’urgenza con cui vuole «aumentar d’una decina» la lista delle sue conquiste
entro il mattino successivo:
«Orsù, spicciati presto»: a Leporello, dopo la morte del Commendatore;
«Orsù non perdiam tempo»: prima di «Là ci darem la mano», a Zerlina;
«Sbrigati, via»: a Leporello, prima del Terzetto;
«Cogliere io vo’ il momento»: nel Terzetto;
«Orsù va là, o qui t’ammazzo»: a Leporello, subito prima del Duetto «O statua gentilissima»;
«Finiscila, o nel petto ti metto questo acciar»: nel corso dello stesso Duetto;
«Leporello, presto in tavola»: nel Finale secondo.
Intorno a questa figura senza precedenti nella storia dell’opera si situano, come
una costellazione, gli altri personaggi, che – come osservava già Kierkegaard – sono
tutti legati a lui per qualche motivo: Leporello lo serve, Elvira lo ama, Anna lo
odia, Zerlina lo teme, Masetto e Ottavio vogliono vendicarsi di lui. Solo il Commendatore
morto non ha più legami con Don Giovanni, ed è per questo che sarà lui, vero Deus ex machina, a risolvere la vicenda. Senza dubbio è proprio questa condizione di totale dipendenza
che dà al Finale dell’opera la sensazione di incompiutezza e di precarietà di cui
ho già parlato. Sembra quasi che senza Don Giovanni gli altri personaggi (in particolare,
naturalmente, i personaggi «seri») vedano in un certo senso svanire le loro principali
ragioni d’essere: Anna chiederà un anno di tempo a Ottavio prima di sposarlo, Elvira
andrà in convento a finire la propria esistenza. Che differenza con l’energia incandescente,
il perpetuo movimento che Don Giovanni era in grado di trasmettere a tutto ciò che
lo circondava!
Stefan Kunze ha osservato che l’unica vera riconciliazione dell’opera è quella che
avviene tra Zerlina e Masetto, ossia tra i due personaggi «bassi». E tra l’altro non
avviene in un Duetto, in un Concertato, ma in due Arie, una per ogni atto. Anche in
questo senso, quindi, la tradizione operistica viene completamente sovvertita, perfino
nell’atto conclusivo i Concertati esprimono tensione anziché risolverla: lo studioso
conclude che «nella struttura del Concertato si manifestano i fattori di incompatibilità
e di divergenza delle relazioni umane: il paradosso tragico e irrisolvibile del Don Giovanni mozartiano può riassumersi in questa constatazione».
Nulla di strano, quindi, che proprio i principali elementi musicali che davano unità
e continuità drammatica alle Nozze di Figaro – l’uso costante della forma-sonata, il percorso orchestrale, quello tonale – appaiano
meno compiuti e organizzati nel Don Giovanni, visto che l’opera non punta verso la riconciliazione e l’armonia conclusiva.Il simbolo più evidente di tale precarietà è forse la ricorrenza dell’ambigua oscillazione
tonale con cui si apre l’Ouvertura (Andante in re minore, Molto Allegro in Re Maggiore), che tornerà alla fine dell’opera e che in un certo senso ne sostiene
l’intera arcata.
Anche l’orchestra viene usata in modo meno «razionale» – ma forse perfino più immaginifico
– rispetto alle Nozze: come vedremo in dettaglio, basta esaminarne l’uso nei due Finali intermedi delle
due opere (il secondo delle Nozze, il primo del Don Giovanni) per cogliere una profonda differenza. L’orchestra del Don Giovanni è meno equilibrata, in un certo senso meno «classica»; i contrasti la increspano
continuamente, e in alcuni istanti – penso in particolare al grande Recitativo accompagnato
di Donna Anna «Don Ottavio, son morta!» – il suono si torce in modo davvero espressionista
ante litteram. Abert sottolinea giustamente il ruolo completamente diverso, rispetto alla precedente
opera, delle indicazioni dinamiche (che per l’intera partitura «sbattono l’ascoltatore
di qua e di là attraverso i più stridenti contrasti e quasi ignorano l’uso dei trapassi
intermedi»): ce ne accorgiamo fin dalle prime battute dell’ouverture, con gli sforzati improvvisi che lacerano, feriscono letteralmente il tessuto musicale.
Alcune similitudini con le Nozze si possono comunque riconoscere: il Don Giovanni ripropone, ad esempio, il gioco di alternanza tra oboi e clarinetti (senza però sottolineare
il momento in cui i due strumenti suoneranno finalmente insieme); il fatto che il clarinetto accompagni costantemente il personaggio di Donna Elvira
(unica vera eccezione l’Aria «Ah, fuggi il traditor») ricorda da vicino il modo in
cui Mozart aveva caratterizzato la Contessa nella precedente opera. Ma qui il compositore
dà particolare risalto ad alcuni singoli timbri strumentali, che contribuiscono in
maniera decisiva a determinare il «colore» del Don Giovanni: i tromboni nel secondo atto sono solo l’esempio più noto di questa caratteristica.
Fu forse proprio per sfuggire al pericolo che l’opera si rivelasse troppo caotica,
slegata, basata sulla successione di puri contrasti, che Mozart, con un’intuizione
straordinaria, sviluppò una specifica strategia formale in grado di dare continuità
musicale e drammatica all’azione: nel capitolo 3 l’ho definita strategia della gradazione. La mescolanza di stili e di generi non è mai casuale nel Don Giovanni, ma risponde a una logica precisa: il trapasso da una situazione drammatica all’altra
e da uno stile all’altro si realizza in genere per gradi successivi. I due estremi
opposti sono lo stile tragico (legato soprattutto alla figura del Commendatore: la
morte all’inizio del primo atto e l’ingresso della statua alla fine del secondo) e
lo stile «popolare», in pratica riservato a Zerlina e Masetto. Tra questi due estremi
Mozart dà vita a uno stupefacente caleidoscopio di stili e toni intermedi, dall’intensamente
drammatico (i Recitativi di Donna Anna) al patetico, al lirico, al comico. La bellezza
sovrumana del Don Giovanni e la formidabile unità che l’opera, nonostante i dubbi espressi da molti studiosi,
rivela al primo ascolto dipendono senz’altro anche dalla strategia della gradazione
mozartiana, alla quale farò spesso riferimento nella mia analisi.
Visto che abbiamo menzionato i dubbi, vale la pena accennare brevemente ad alcune
delle principali critiche rivolte all’opera nel corso degli anni. Molte sono puramente
aneddotiche, riguardano singoli aspetti del Don Giovanni e lasciano il tempo che trovano: come è possibile che in una sola notte sia già stata
eretta la statua del Commendatore, ad esempio. Oppure, come può l’ascoltatore trovare
credibile l’indicazione del libretto secondo cui la festa di nozze di Zerlina e Masetto
si svolge in un «Paese contiguo al palazzo di Don Giovanni»? Diversi studiosi non resistono alla tentazione di insinuare il sospetto che tra Don
Giovanni e Donna Anna, nella scena iniziale, sia successo qualcosa di più di ciò che
il libretto dice esplicitamente: una questione di scarso interesse, soprattutto perché
di tali sospetti la musica di Mozart non ci dice assolutamente nulla.
Più sostanziali – visto che riguardano la messa in scena – sono invece le critiche
mosse alla struttura drammaturgica dell’opera, alla scarsa coerenza dell’unità di
tempo e di luogo; ad esempio: in quanti giorni e notti si svolge il Don Giovanni? Il libretto dà indicazioni innegabilmente contraddittorie. La costruzione del secondo
atto mostra poi un paio di punti notoriamente problematici, che ogni regista risolve
a modo suo: Da Ponte prescrive infatti ben tre cambiamenti di scena successivi, portando
l’azione prima in un cimitero («Loco chiuso in forma di sepolcreto»), subito dopo
in casa di Donna Anna («Camera tetra») e immediatamente dopo, per il Finale secondo,
nel palazzo di Don Giovanni. Molte critiche sono state rivolte all’Aria di Donna Anna
«Non mi dir, bell’idol mio», sia per il carattere iper-virtuosistico delle colorature
sia per la posizione – tra la scena del cimitero e il Finale, per l’appunto – che
interrompe bruscamente il corso dell’azione drammatica.
Tutte queste obiezioni sono comunque poca cosa in confronto a ciò che da duecento
anni molti studiosi e musicisti dicono a proposito del personaggio di Don Ottavio,
descritto di volta in volta come pusillanime, effeminato, velleitario, imbelle, incapace:
per vendicare Donna Anna, invece di agire in prima persona inoltrerà «un ricorso a
chi si deve»; e perfino quando nel Finale primo si troverà a fronteggiare Don Giovanni
con la pistola in mano non riuscirà nemmeno a spaventarlo, e il cavaliere riprenderà
le sue avventure e i suoi tentativi di conquista all’inizio dell’atto successivo,
come se nulla fosse. Nell’Ottocento, l’epoca dei tenori «eroici» e drammatici, la
figura di Ottavio sembrò assolutamente inadeguata, al punto che molte traduzioni in
tedesco del libretto inventarono di sana pianta frasi e azioni destinate a mostrare
il personaggio sotto una luce un po’ più favorevole! Basterà qui citare la traduzione
di Max Kalbeck, nella quale la frase di Ottavio ad Anna «Calmatevi, idol mio; di quel
ribaldo vedrem puniti in breve i gravi eccessi; vendicati sarem» diventa qualcosa
come «Rallegrati, diletta! Ho sfidato quell’impudente briccone a battersi con me,
domani ci incontriamo!». La verità è che Mozart e Da Ponte costruiscono il personaggio di Don Ottavio come
l’antitesi di Don Giovanni: «una figura gentile capace di squisiti trasporti lirici
ma non certo di sensualità e neppure di risolutive energie; il suo amore per la sposa
non ha nulla di fisicamente ‘realistico’, è esemplato sugli amorosi metastasiani,
viene cioè da una tradizione teatrale [...]. Solo coloro che usano esclusivamente
categorie di giudizio ottocentesche possono trovarlo ridicolo», dice, con molto buonsenso,
Fedele D’Amico. Ma è innegabile che il povero Ottavio, in un’esecuzione del Don Giovanni, attiri scarse simpatie...
C’è un’ultima critica che merita di essere ricordata: quella sull’opportunità di mantenere
o meno il «lieto fine» (le virgolette sono d’obbligo, come si è visto) successivo
allo sprofondamento del protagonista tra le fiamme dell’inferno. Per tutto l’Ottocento
si stabilì, in particolare nei paesi di lingua tedesca, l’uso di terminare l’opera
con la morte di Don Giovanni, eliminando la scena successiva con gli altri protagonisti
che escono alla ribalta per cantare la morale dell’opera. C’è chi sostiene che l’eliminazione della scena ultima risalirebbe agli stessi Mozart
e Da Ponte, che la sperimentarono durante la ripresa viennese dell’opera alla ricerca
del Finale più efficace. In realtà non è chiaro se entrambe le versioni – con e senza
lieto fine – siano state approvate dagli autori. Certo è che l’usanza di terminare
l’opera con il Finale tragico è ben documentata, e tra i suoi sostenitori troviamo
anche musicisti del calibro di Gustav Mahler.
Oggi il dibattito ha perso interesse, nessuno più si azzarderebbe a eliminare la scena
conclusiva in un’esecuzione del Don Giovanni. Del resto la presenza della scena finale appare del tutto logica e conseguente,
visto che, come si è detto, Mozart costruisce la vicenda con la tecnica dell’opera
buffa. Senza contare, poi, che in questo brano il compositore accosta e in un certo
senso concilia le due classiche tipologie di Finale dell’epoca: il «Finale d’azione»,
multi-sezione, e il Vaudeville, Finale statico in cui ogni personaggio si congeda dal pubblico, si tirano le somme
e si annuncia la morale.
II
Se Le nozze di Figaro cominciano con uno squilibrio, un’asimmetria, il Don Giovanni comincia con un cataclisma, uno dei gesti musicali più potenti e tragici che il teatro
d’opera avesse mai visto. Ci basta il primo accordo (re minore, forte e a piena orchestra) per intuire che l’opera sarà basata su contrasti eccezionali,
sia scenici che musicali. Si è soliti dire che l’inizio dell’Ouvertura anticipa già l’ingresso della statua nel Finale secondo, e questa è in effetti l’intenzione
di Mozart; ma l’introduzione orchestrale è stata scritta dopo il Finale, ed è quindi interessante osservare che Mozart costruisce tra i due brani
alcune sottili differenze. In particolare, nel Finale non troveremo il basso cromatico discendente delle battute
iniziali dell’ouverture, una tipica «figura di lamento» presente nel teatro d’opera
fin dal Seicento: probabilmente perché alla fine dell’opera il Commendatore viene
ormai dall’aldilà, si è lasciato alle spalle la sofferenza terrena. Mozart ce lo farà riascoltare, in modo del tutto appropriato, solo con lo sprofondamento
di Don Giovanni.
Esempio 35
Il rapporto tra questa drammaticissima introduzione lenta e il successivo Molto Allegro in forma-sonata non potrebbe essere più contrastante: fin dall’ouverture si confrontano
due diversi volti musicali dell’opera, quello tragico, lento, scandito, inesorabile,
e quello «buffo», rapidissimo e indiavolato; ma è comunque importante osservare che
il dualismo si estende agli stessi materiali musicali del Molto Allegro: il Secondo tema, ad esempio, è basato su due idee fortemente contrastanti tra loro;
e Mozart renderà il contrasto ancora più potente ed esplicito nel corso dello Sviluppo.
Esempio 36
Mozart comincia quindi l’opera con una radicale opposizione, quella tra stile tragico
e stile buffo. La successiva Introduzione ci riporterà allo stile tragico – la morte
del Commendatore – ma lo farà attraverso un sottile dosaggio della tensione: è la
prima gradazione dell’opera. Il comico monologo di Leporello, la lotta tra Donna Anna
e Don Giovanni, il duello tra quest’ultimo e il Commendatore realizzano un progressivo
accrescersi della tensione drammatica, che culmina nell’istante, stupefacente e stupefatto,
della morte. L’effetto sconvolgente di tutta l’Introduzione dipende dall’intreccio
di diversi fattori: l’oscillazione tonale tra Maggiore e minore, l’incalzare dell’azione
attraverso l’ingresso dei diversi personaggi e, soprattutto, il progressivo accorciarsi
di ogni nuova sezione, costruito da Mozart con cura minuziosa. L’«a solo» di Leporello
dura complessivamente 70 battute, compresa l’introduzione strumentale; la lotta tra
Anna e Don Giovanni 64; la scena tra quest’ultimo e il Commendatore, con una brusca
accelerazione, 42; la scena della morte dura solo 19 battute, ma il tempo prescritto
da Mozart è diverso (il Molto Allegro delle tre sezioni precedenti si muta in un Andante), e la nostra percezione risulta quindi come dilatata, sospesa. Per descrivere questo
istante, tra i più alti nell’intera storia della musica, restano ancora oggi insuperate
le parole di Charles Gounod:
La situazione si stabilizza fin dalla prima nota. Niente brancolamenti, né preamboli
inutili. La lugubre gravità del movimento, l’uniformità ritmica delle terzine dei
violini sulle note tenute dei fiati, i bassi in qualche modo sbigottiti di fronte
a questa uccisione, che marcano, con regolarità glaciale, il primo e terzo tempo della
battuta, l’ordinarsi di queste tre voci di basso, che muovono ciascuna col suo carattere,
con agio e libertà prodigiose, tutto ciò spande su questa scena indimenticabile uno
stupore che neanche la penna di Dante e il pennello di Michelangelo riescono a sorpassare.
Il terzetto si chiude con cinque battute d’orchestra che meriterebbero un’analisi
tutta particolare.
L’Introduzione ci presenta già molti dei tratti distintivi dell’opera. La rapidità
ed evanescenza di Don Giovanni, il suo carattere «camaleontico» sono messi in risalto proprio come la gravità del
Commendatore, la buffa pavidità di Leporello («potessi almeno fuggir di qui») e la
disperata determinazione di Donna Anna, che ci annuncia quale sarà il suo ruolo drammatico
nell’opera: «Come furia disperata ti saprò perseguitar».
Resta da sottolineare l’assenza pressoché totale di riferimenti alla tecnica sonatistica
(non ci sono, all’interno delle diverse sezioni, vere e proprie modulazioni alla Dominante,
né effetti di «Ripresa» e di risoluzione), una caratteristica che differenzia da subito,
in modo nettissimo, il Don Giovanni dall’opera precedente.
Raggiunto il culmine drammatico con la morte del Commendatore, Mozart comincia ora
una lenta gradazione discendente che ci porterà all’estremo stilistico opposto, lo
stile popolare del «Giovinette che fate all’amore» di Zerlina e Masetto, passando
attraverso il grande Duetto tra Anna e Ottavio, la patetica Aria di Donna Elvira e
l’Aria del catalogo di Leporello.
Il Duetto «Fuggi, crudele, fuggi» è molto bello, ma ben più impressionante è il Recitativo
accompagnato che lo precede, tra i più drammatici scritti da Mozart. La potenza dei
contrasti, fin dalla nota iniziale in tremolo che ci dà fisicamente la sensazione
dell’orrore provato da Anna alla vista del cadavere del padre, è formidabile, ed è
accentuata da un uso degli strumenti a fiato senza precedenti. La dinamica balza in
continuazione da un estremo all’altro, e particolarmente sorprendente è la trasformazione
dei violenti «sospiri» cromatici iniziali – il «colore» del Don Giovanni – in brevi, flebili lamenti.
Esempio 37
La forza di questo Recitativo è tale che esso travalicherà il tradizionale confine
formale per riaffacciarsi, ben due volte, nel corso del successivo Duetto, negli istanti
in cui Anna impone esplicitamente al fidanzato di vendicare il padre. Come abbiamo
visto, la ragazza si esprime nell’opera più attraverso i Recitativi accompagnati che
nei pezzi chiusi: di fronte alla forza caratterizzante di questi istanti impallidiscono
anche le sue due Arie, per quanto belle.
Nel capitolo 4 ho parlato dettagliatamente dell’Aria d’esordio di Donna Elvira, che
contiene allo stesso tempo la prima chiara esposizione del pensiero sonatistico (forma-sonata
senza Sviluppo) e la prima apparizione dei clarinetti nell’opera. Soffermiamoci ora
brevemente su «Madamina, il catalogo è questo», uno dei brani più celebri del Don Giovanni. L’idea di un «non picciol libro» contenente la lista delle conquiste di Don Giovanni
si era affacciata già nelle versioni musicali di alcuni predecessori, tra cui quella
di Bertati e Gazzaniga; ciò nulla toglie all’efficacia di questa formidabile Aria,
che con l’evidente ritmo di minuetto della sua seconda parte spinge avanti il processo
di identificazione e di emulazione tra servitore e padrone che già avevamo intravisto
nell’Introduzione («Voglio far il gentiluomo»). Il testo, particolarmente raffinato,
ci presenta in successione i dati numerici, la posizione sociale delle «vittime»,
il colore dei capelli, la corporatura, l’età, prima di abbandonarsi all’inevitabile
conclusione: «Purché porti la gonnella, voi sapete quel che fa». Insolita, nell’organizzazione
formale dell’Aria, è l’inversione dei tempi tradizionali: comincia infatti con un
Allegro a cui segue un Andantecon moto. Davvero riuscito è poi il carattere «descrittivo» della seconda parte, in cui Mozart,
attraverso la musica, dipinge ai nostri occhi la gentilezza, la costanza, la dolcezza,
la donna maestosa, quella piccina.
Esempio 38
La cadenza d’inganno sulle parole «pel piacer di porle in lista» è un tocco sensuale
che ci annuncia la «passion predominante» di Don Giovanni, ossia la giovane principiante;
ma allo stesso tempo si tratta di un tocco perfido nei confronti della povera Elvira,
che si vede costretta ad ascoltare l’irriverente enumerazione del servitore condotta
in gran parte nel tipico stile dell’opera buffa, sillabico e tendente all’ostinato
ritmico.
Il successivo Coro «Giovinette che fate all’amore» segna il punto estremo della gradazione
stilistica discendente cominciata con la morte del Commendatore. Il tono popolare
di questo coro è reso attraverso caratteristiche stereotipate: tonalità «rustica»
di Sol Maggiore, metro di 6/8, carattere vivace e spensierato sottolineato dalla prevalenza
dei timbri delle doppie ance; a ben vedere, si tratta di elementi che già abbiamo
sottolineato, pressoché identici, negli istanti popolareggianti delle Nozze.
Il Coro segna allo stesso tempo il punto di partenza di una nuova gradazione ascendente
che culminerà nel secondo grande Recitativo drammatico di Donna Anna, «Don Ottavio,
son morta!»: prima di quest’ultimo brano si succedono infatti l’Aria di Masetto «Ho
capito, sì signor», dall’inequivocabile carattere buffo nonostante la rabbia repressa
e l’accenno polemico verso la nobiltà; il celeberrimo Duettino lirico tra Don Giovanni
e Zerlina «Là ci darem la mano», del quale ho parlato più volte; quindi la seconda
Aria di Elvira e il Quartetto «Non ti fidar, o misera».
L’Aria di Elvira «Ah, fuggi il traditor» ha un tono arcaicizzante e serioso – accentuato
dall’uso dei soli strumenti ad arco – nel quale molti commentatori rilevano l’influenza
dello stile di Händel. Il carattere dell’Aria dipende probabilmente dal fatto che
Elvira comincia qui la propria opera di «guastatrice»: in un precedente Recitativo
ha infatti deciso di seguire Don Giovanni per impedirgli di portare a termine altre
malefatte nei confronti delle donne. Elvira agisce spinta da «vendetta, rabbia e dispetto»
e le sue continue intromissioni (qui in soccorso di Zerlina, e a breve in soccorso
di Donna Anna) ce la fanno apparire, dice Massimo Mila, come «una terribile scocciatrice»,
che «coi suoi urli e i suoi sacrosanti rimbrotti riesce a rendersi insopportabile
come una predicatrice dell’Esercito della Salvezza». Anche perché, va sottolineato, Mozart e il suo librettista ci mostrano la donna
attraverso gli occhi di Don Giovanni, e non dal punto di vista di un osservatore neutrale.
Terminata l’Aria, Elvira «parte conducendo seco Zerlina». Don Giovanni, rimasto solo,
ha appena il tempo di considerare che i suoi «piacevoli progressi vanno mal tutti
quanti»: subito entrano in scena Ottavio e l’affranta Donna Anna, che ignari di tutto
chiedono soccorso al cavaliere in nome dell’amicizia. Don Giovanni si scalda, e «con
molto foco» promette di mettere al servizio di Anna spada, beni, sangue. La sua retorica
esibizione viene però interrotta, per la seconda volta, dall’arrivo di Elvira, che
stavolta intende mettere in guardia Donna Anna.
Il Quartetto che segue è uno dei momenti chiave dell’intera opera, l’istante in cui
la colpevolezza di Don Giovanni diventa manifesta per tutti i personaggi. Già la costruzione
metrica del libretto è particolarmente interessante: la prima parte, ad esempio, presenta
due quartine introduttive (una per Elvira, l’altra per Anna e Ottavio) che alternano
settenari sdruccioli e tronchi. Con l’ingresso di Don Giovanni («La povera ragazza/è
pazza, amici miei») il ritmo cambia improvvisamente in una quartina di settenari piani, con quarto verso
tronco. La quartina successiva, in cui i personaggi cominciano a dialogare, sembra
un po’ la sintesi dei due schemi: settenario sdrucciolo per Elvira («Ah, non credete
al perfido»), settenario piano per Don Giovanni («È pazza, non badate»), a cui risponde
subito Elvira scendendo sullo stesso piano («Restate, o dei, restate»), mentre il
commento di Anna e Ottavio chiude con un settenario tronco («A chi si crederà?»).
Pochi brani nelle tre opere Da Ponte sono altrettanto articolati dal punto di vista
metrico, indizio certo del fatto che siamo di fronte a un momento cruciale dell’opera.
Per quanto riguarda la musica, ciò che colpisce maggiormente nel Quartetto è la centralità
del motivo di sei note che si presenta all’inizio sulle parole rivelatrici «te vuol
tradire ancor», e che ritornerà innumerevoli volte tanto nelle voci quanto nell’orchestra:
non c’è dubbio che lo smascheramento di Don Giovanni passi attraverso l’insistenza
su questo motivo, che si annida nel Quartetto come nella coscienza di Donna Anna,
e che pian piano le rivela la verità. Ogni volta che il motivo si ripresenta, insomma,
sia cantato – anche da altri personaggi e su parole diverse, come «m’empiono di pietà»,
o «forse si calmerà» – sia suonato da uno strumento, la musica sta comunque ripetendo
ad Anna di stare in guardia: «te vuol tradire ancor».
Esempio 39
Come «Quartetto» il brano è piuttosto insolito: due personaggi, Elvira e Don Giovanni,
reggono tutta l’azione, mentre gli altri due la subiscono – e infatti per gran parte
del brano cantano insieme – ma al tempo stesso scoprono pian piano ogni retroscena,
tanto che al termine del Quartetto Donna Anna è ormai convinta che Don Giovanni sia
il carnefice del padre.
Dal punto di vista formale colpiscono, come nella maggior parte dei Concertati mozartiani,
le perfette coincidenze tra articolazione, pensiero sonatistico e struttura del libretto:
la Dominante arriva esattamente nel punto in cui cambia di nuovo la struttura metrica
del libretto («Certo moto d’ignoto tormento»: decasillabi); e tutta l’ampia sezione
centrale, che comincia nel momento in cui Ottavio manifesta i propri dubbi introducendo
per la prima volta il verso ottonario («Io di qua non vado via, se non scopro questo
affar»), si può certamente considerare una sorta di «Sviluppo», in particolare per
le continue modulazioni. La «Ripresa», che arriva in maniera quasi inaspettata, coincide
con la riapparizione del motivo di sei note nella tonalità fondamentale.
Quanto alla strumentazione, abbiamo qui la seconda apparizione dei clarinetti nell’opera,
accompagnati nel registro acuto da un solo flauto: ancora una volta, come nelle Nozze e poi in Così fan tutte, Mozart attende prima di farci sentire insieme oboi e clarinetti.
La scoperta della colpevolezza di Don Giovanni esplode nel Recitativo accompagnato
che precede l’Aria di Anna «Or sai chi l’onore». Si tratta, senza alcun dubbio, del
più grande Recitativo mozartiano, che spinge perfino oltre la drammaticità esasperata
del Recitativo che precedeva il Duetto «Fuggi, crudele, fuggi!». Tutto qui è eccezionale,
dall’inaudita ampiezza delle modulazioni, all’uso di un’orchestra anche più ricca
e varia – ci sono i flauti, e perfino le trombe – rispetto a quella dell’Aria, ai
cambiamenti di tempo: Mozart alterna, nel corso del Recitativo, le indicazioni di
Allegro assai-Andante-Stringendo il tempo-Primo tempo-Andante-Primo tempo! Il contrasto espressivo è altrettanto estremo: sincopi, cromatismi, alternanza di
forte e piano, lento e veloce. Il ritorno, per ben due volte, dell’agitato tessuto
iniziale è forse la cosa più impressionante: chiaramente Mozart mette in relazione
questo elemento rivoluzionario e quasi «espressionista» ante litteram con l’idea del grido, dell’urlo di Anna: esso appare infatti all’inizio, sulle improvvise
esclamazioni «Don Ottavio, son morta!», «Per pietà, soccorretemi!», «Oh, Dei!, Oh,
Dei!». Ritorna improvvisamente, dopo uno stringendo, proprio a commento della parola «Grido», e quindi ancora su «Allora rinforzo i stridi
miei, chiamo soccorso».
Esempio 40
La musica sembra dapprima separare nettamente emozione e racconto (anche tonalmente,
oltre che nel carattere e nella strumentazione), ma finisce poi per far rientrare
l’una nel corso dell’altro, unendo le due diverse facce.
A fronte di questo formidabile Recitativo, l’Aria (che pure è una bella Aria, con
gli orgogliosi scatti di oboe e fagotto e i ritmi puntati) appare un po’ convenzionale,
nonostante l’efficacia del suo inizio improvviso, i salti di Anna, la linea ascendente
della voce e il modo in cui la furia si spegne improvvisamente al pensiero del padre
(«che il padre mi tolse»), per riaccendersi altrettanto repentina sulle parole «Vendetta
ti chiedo».
Per la ripresa viennese dell’opera Mozart aggiunse a questo punto un’Aria di Don Ottavio,
«Dalla sua pace la mia dipende». L’intento era evidentemente quello di dar vita a
una nuova gradazione discendente, che ci porta dal drammaticissimo Recitativo di Anna
fino al tono popolare dell’Aria di Zerlina «Batti, batti, o bel Masetto» passando
appunto attraverso il tono lirico dell’Aria di Ottavio e il ritmo indiavolato dell’Aria
di Don Giovanni «Fin ch’han dal vino» (la versione di Praga, invece, contrapponeva
direttamente le Arie di Anna e di Don Giovanni, puntando più sul contrasto che sulla
gradazione). L’inserimento dell’Aria di Ottavio nella versione viennese dà quindi
maggiore coerenza e unità al disegno complessivo dell’opera, nonostante le critiche
di chi pensa che invece «arresti l’azione». Senza contare che il cambiamento di atmosfera
rispetto alla veemente Aria di Anna risulta di straordinaria efficacia drammatica:
lì tutto era movimento, agitazione, determinazione; qui tutto è statico, contemplativo,
lirico.
Il movimento, addirittura parossistico, ritorna con la «Champagne-Aria» di Don Giovanni.
Tutti i commentatori insistono sulla rapidità del brano, vero emblema dell’evanescenza
e al tempo stesso della sfrenatezza di Don Giovanni: i parametri musicali messi in
evidenza da Mozart sono l’ostinato ritmico e la ripetizione (l’armonia e la melodia
sono poverissime, e perfino la dinamica è elementare: nessun trapasso graduale, solo
contrasti e sforzando). In più, in quest’Aria Mozart unisce per la prima volta in orchestra oboi e clarinetti,
anche se praticamente non ce ne accorgiamo.
L’Aria è preceduta da un importante Recitativo, sul quale vale la pena di soffermarsi
perché si tratta del momento in cui Don Giovanni e Leporello cominciano a scambiarsi
i ruoli, anticipando uno degli intrecci principali del secondo atto. Nella seconda
parte del Recitativo Leporello ripete infatti, parola per parola, ciò che il padrone
gli aveva detto nella prima parte. Al termine Don Giovanni riprende le medesime esclamazioni,
stavolta lievemente modificate («Bravo, bravo, arcibravo!»). Mozart e Da Ponte spingono
più avanti la progressiva identificazione Don Giovanni/Leporello, che il testo rivela
anche in altri dettagli sparsi qua e là (Leporello: «A forza di chiacchiere, di vezzi,
e di bugie, ch’ho imparato sì bene a star con voi»; Don Giovanni: «incominciasti,
io saprò terminar»).
Leporello
Vado a casa come voi m’ordinaste, con tutta quella gente.
Don Giovanni
Bravo!
Leporello
A forza di chiacchiere, di vezzi, e di bugie, ch’ho imparato sì bene a star con voi,
cerco d’intrattenerli...
Don Giovanni
Bravo!
Leporello
Dico mille cose a Masetto, per placarlo, per trargli dal pensier la gelosia.
Don Giovanni
Bravo in coscienza mia!
Leporello
Faccio che bevano e gli uomini e le donne; son già mezzi ubbriachi, altri canta, altri
scherza, altri séguita a ber; in sul più bello chi credete che càpiti?
Don Giovanni
Zerlina!
Leporello
Bravo! e con lei chi venne?
Don Giovanni
Donna Elvira!
Leporello
Bravo! e disse di voi...
Don Giovanni
Tutto quel mal che in bocca le venìa.
Leporello
Bravo in coscienza mia!
Don Giovanni
E tu cosa facesti?
Leporello
Tacqui.
Don Giovanni
Ed ella?
Leporello
Seguì a gridar.
Don Giovanni
E tu?
Leporello
Quando mi parve che già fosse sfogata, dolcemente fuor dell’orto la trassi, e con
bell’arte chiusa la porta a chiave io mi cavai, e sulla via soletta la lasciai.
Don Giovanni
Bravo, bravo, arcibravo; l’affar non può andar meglio: incominciasti, io saprò terminar;
troppo mi premono queste contadinotte: le voglio divertir finché vien notte.
Infine l’Aria di Zerlina, che conclude la nuova gradazione prima del Finale. Secondo
Abert le due Arie del personaggio sono «due incantevoli sprazzi di sole nell’oscuro
mondo di passioni di questo dramma». Interessanti le affinità con «Là ci darem la
mano»: il tempo è simile, ma soprattutto l’Aria, proprio come il Duettino, è bipartita e caratterizzata dalle
stesse indicazioni metriche (2/4, 6/8). Notevole la presenza di ben quattro strumenti
soli, tra cui un violoncello che ha un ruolo importantissimo: circonda la voce, dialoga
con essa, la accompagna.
Il Finale primo del Don Giovanni non ha, e non vuole certo avere, la coerenza meravigliosa del corrispondente Finale
secondo delle Nozze. Visto che, come è stato più volte osservato, Mozart e Da Ponte realizzano qui una
vera e propria «disgregazione dell’ordine sociale», la struttura (metrica, tonale,
strumentale) è meno «logica» e più visionaria, e il Finale procede spesso per accenni,
sospensioni, rotture. Sarebbe quindi controproducente proporre per questo brano uno
schema grafico coerente, sul modello di quello che ho delineato nel capitolo 4 a proposito
del Finale delle Nozze. Qui non abbiamo a che fare con un percorso logico in graduale espansione, ma piuttosto
con una costruzione modulare e discontinua: i personaggi per tutta la prima parte
del Finale agiscono in blocchi nettamente distinti e solo con la scena del ballo si
sovrappongono, restando però sostanzialmente separati, quasi estranei tra loro.
Esemplare è il ruolo delle tre «maschere», Anna, Elvira e Ottavio, che si presentano
da sole in una tonalità estranea (che, guarda caso, è il «tragico» re minore) e qualche
istante più tardi sospendono completamente il percorso drammatico nella sublime preghiera
«Protegga il giusto ciel». Gran parte del Finale, in effetti, si può considerare organizzato
su due piani paralleli: quello dei personaggi «bassi», a cui si unisce Don Giovanni
(proprio perché tiene troppo a «queste contadinotte»), e quello dei personaggi «alti»;
i continui cambiamenti di tono sottolineano proprio questo dualismo. In più, bisogna
osservare come gli ingressi reiterati di Anna, Elvira e Ottavio siano sempre più contrastanti,
nel tempo, nella tonalità e nel carattere, rispetto alla musica che li precede:
– «Bisogna aver coraggio»: da Fa Maggiore a re minore (tonalità vicine), stesso tempo
e stessa orchestrazione ma aumento della temperatura drammatica con l’improvvisa virata
in modo minore;
– «Protegga il giusto cielo»: da Fa Maggiore a Sib Maggiore (tonalità vicine), dal
Menuetto all’Adagio, da 3/4 a 2/2, dalla piccola orchestra fuori scena ai soli fiati «in stile di serenata»;
– «Venite pur avanti»: da Mib Maggiore a Do Maggiore (tonalità lontane), dall’Allegro al Maestoso, dal «rustico» 6/8 al «marziale» 2/4, e da un’orchestra a ranghi ridotti alla piena
sonorità orchestrale con il rientro di oboi, trombe e timpani.
Al contrario di ciò che si potrebbe pensare a un primo sguardo, quindi, le classi
sociali nel Don Giovanni non interagiscono, non si fondono. La famosa scena del ballo dimostra proprio questa
incompatibilità, non raggiunge un’armonia ma piuttosto genera disordine. A proposito
di questa scena, che prevede tre orchestre sul palcoscenico che suonano tre danze
sovrapposte, in ritmi diversi (Minuetto, Contraddanza, Deutscher Tanz), è straordinario dare un’occhiata al manoscritto: Mozart vuole rendere graficamente
la dislocazione spaziale (le tre orchestre, poste in punti diversi del palcoscenico)
e perciò riorganizza completamente la disposizione grafica degli strumenti – ponendoli
proprio al centro della pagina – e riunisce i gruppi di personaggi a seconda dell’orchestra
che li accompagna (Anna, Elvira e Ottavio, ad esempio, cantano su un solo pentagramma!). Invariabilmente, le partiture a stampa «normalizzano» il gesto mozartiano, che
anche nelle edizioni più accurate diventa ordinario dal punto di vista grafico e perde
totalmente la forza visionaria che l’autografo ci comunica.
Esempio 41
Anche il percorso orchestrale del Finale non ha la direzionalità inesorabile delle
Nozze. Come ci si aspetta, l’orchestra suona a pieno organico nella scena conclusiva, «Trema,
trema, o scellerato». Ma a ben vedere l’intera orchestra aveva già suonato due volte
in punti precedenti del Finale: a «Su, svegliatevi, da bravi» e a «Venite pur avanti».
Per inciso, tutti e tre gli episodi sono nella tonalità principale di Do Maggiore,
e questo mostra senza dubbio l’intento di Mozart di costruire delle impalcature solide
in grado di offrire appigli all’ascoltatore all’interno di questo Finale altrimenti
caotico e labirintico. Le due anticipazioni «da lontano», fuori scena, di due delle
tre danze (Contraddanza e Minuetto) hanno probabilmente la stessa funzione, quella
di cadenzare il ritmo drammatico, di creare delle simmetrie e dei ritorni (entrambe
le anticipazioni sono in Fa Maggiore) che si contrappongano al caos.
Caos che comunque esplode letteralmente nel punto culminante dell’azione, con l’urlo
di Zerlina «Gente, aiuto, aiuto, gente»: apparentemente siamo già nella tonalità principale
del Finale, Do Maggiore, ma la musica gira vorticosa da una tonalità all’altra, e nelle didascalie sceniche
leggiamo che al primo urlo di Zerlina si sente «strepito di piedi a destra», in seguito
«si sente il grido e lo strepito dalla parte opposta» e infine Zerlina «esce da un’altra
parte»! Mozart dà così avvio al convenzionale «strepitosissimo» conclusivo, che ad
ogni modo non risulta essere il punto verso il quale converge il processo drammatico:
la situazione resta ambigua e sospesa, all’inizio dell’atto successivo Don Giovanni è libero, pronto a ordire nuove trame
verso la povera Elvira. Sembra proprio che le minacce degli altri personaggi alla
fine di quest’atto non abbiano sortito alcun effetto pratico.
La prima parte del secondo atto è stata spesso criticata: citando ancora Abert, in
questo punto dell’opera si assisterebbe addirittura «al venir meno dell’estro poetico
del librettista», che solo con la scena del cimitero si risolleverà. Ciò che ha dato
fastidio ai commentatori è probabilmente il gran numero di Arie, molte delle quali
sembrano un po’ isolate. In effetti, tra il Terzetto «Ah, taci, ingiusto core» e il
Duetto «O statua gentilissima» troviamo un solo Concertato, il Sestetto, e ben cinque
Arie (sei se comprendiamo anche l’Aria di Elvira). La drammaturgia si fa, innegabilmente,
meno precisa, meno focalizzata, e forse non a caso si attenua anche la «strategia
della gradazione», che in quest’atto si mostra meno evidente, almeno fino al Finale
secondo. Alcuni personaggi perdono di colpo importanza: è il caso di Donna Anna, il
«carabiniere» implacabile del primo atto, che qui appare brevemente nel Sestetto,
poi scompare dalla scena, ritorna solo per cantare un’Aria, la tanto discussa «Non
mi dir, bell’idol mio», e quindi sparisce di nuovo fino all’ultima scena, dove si
limita a scambiare qualche breve frase con Ottavio. Fra gli studiosi che hanno comunque
difeso a spada tratta la struttura del secondo atto figura Kunze, per il quale «dopo
gli avvenimenti del Finale primo, che disgrega letteralmente e musicalmente la comunità,
non sarebbe stato verosimile proseguire con un intreccio che puntasse risolutamente
verso l’esito finale». Di conseguenza, «nel secondo atto domina la farsa, l’andirivieni
carnevalesco, la stravaganza e l’inganno».
Ma se anche l’estro poetico di Da Ponte si mostra leggermente meno raffinato, in compenso
l’ispirazione musicale mozartiana è sublime, e il secondo atto contiene senza dubbio
alcuni dei più grandi Concertati mai composti.
L’atto si apre con un rapido Duetto buffo tra Don Giovanni e Leporello, «Eh via buffone»,
nel quale lo scambio di ruoli vocali tra i due personaggi appare ormai compiuto (e
infatti nel Recitativo seguente i due si scambieranno gli abiti): Don Giovanni canta
e Leporello ripete quasi esattamente la frase musicale appena lasciata dal suo padrone.
Qui insomma Don Giovanni non «ruba» vocalmente, ma si lascia piuttosto rubare. Dal
punto di vista musicale, è notevole il fatto che nell’intero brano non ci sia praticamente
una sola modulazione: Sol Maggiore dall’inizio alla fine, senza azione, senza cambiamenti
sostanziali (anche se, a quanto sembra, in questo punto dell’azione Da Ponte aveva
previsto un Recitativo). In orchestra Mozart si limita a usare oboi e corni, accanto
agli archi: a parte l’Aria di Donna Elvira «Ah, fuggi il traditor», è la prima volta
nell’opera che non udiamo il timbro del fagotto, che pure sembrerebbe fatto apposta
per il tono comico e concitato di questa scenetta.
Il numero successivo è il grande Terzetto, una delle creazioni più straordinarie del
teatro di ogni tempo. Ho parlato nel capitolo 2 della costruzione sonatistica del
brano e della perfetta coincidenza tra la musica, l’azione, i sentimenti dei personaggi;
abbiamo visto inoltre come il gioco di furti musicali caratteristico di Don Giovanni
raggiunga qui un punto culminante: il «Secondo tema» annunciato dal cavaliere non
è altro che il «Primo», ossia il tema di Elvira, trasposto alla Dominante; e in più
il tema cantabile con cui Don Giovanni fa vacillare Elvira all’inizio dello «Sviluppo»
è lo stesso con il quale, di lì a poco, egli tenterà di sedurre la cameriera della
povera donna. Ma altri aspetti del brano sono altrettanto straordinari. Per esempio
la scrittura strumentale, che vede la delicata alternanza di archi e fiati: fino a
metà brano l’intera orchestra suona solo in due battute, tra l’altro speculari tra
loro (la salita cromatica su «pietà» e la discesa, sempre cromatica, che conduce alla
frase di Don Giovanni «Discendi, o gioia bella»). Oppure la resa di ogni parola, ogni
sfumatura, ogni intenzione contenuta nel libretto. Qui basta seguire la linea vocale
di Elvira nelle prime battute: salita e lento ripiegamento, quasi sospirato, a «Ah,
taci, ingiusto core»; brevi incisi staccati e ascendenti («È un empio, è un traditore!»);
quindi un ampio salto ascendente seguito da una fioritura e da un cromatismo a «è
colpa aver pietà». Il contrasto tra queste frasi tanto differenziate e il furtivo
tema introdotto da Leporello («Zitto! Di Donna Elvira») non potrebbe essere più marcato.
Esempio 42
Seguono a questo punto due Arie di Don Giovanni in successione, diversissime tra loro
ma entrambe cantate nei panni di Leporello. La famosa serenata «Deh, vieni alla finestra»
è un pezzo di musica di scena vero e proprio, e forse appunto per questo la tendenza
di tanta critica è di sminuirne il valore. Pure, resta uno dei pezzi più noti del
Don Giovanni. L’impiego del mandolino è particolarmente interessante, soprattutto perché si tratta
di un topos: lo strumento veniva infatti utilizzato frequentemente nelle serenate d’opera, e
anche Paisiello lo aveva inserito pochi anni prima nel Barbiere di Siviglia. Non mi sembra quindi del tutto convincente Mila quando afferma che «il suono del
mandolino è corto, incapace di lunghe vibrazioni, si spegne subito: proprio come il
cuore di Don Giovanni». Viene da chiedersi che cosa avrebbe dovuto portarsi appresso per fare una serenata
a una cameriera: un’orchestra sinfonica?
L’intervento solistico successivo di Don Giovanni, «Metà di voi qua vadano», è invece
una tipica «Aria d’azione», la più efficace dell’opera, mossa e varia, con il tocco
raffinato della magnifica coda strumentale che riprende le battute iniziali ma le
dissolve, accompagnando l’uscita di Don Giovanni e di Masetto.
Segue a questo punto il secondo «sprazzo di sole», l’Aria di Zerlina «Vedrai, carino»,
nella quale, come sappiamo, si realizza definitivamente l’unica vera riconciliazione
dell’intera opera, quella tra Zerlina e Masetto. Anche qui ricorre, stavolta come
sola indicazione di tempo, il termine «Grazioso», sorta di Leitmotiv della civetteria di Zerlina. La strumentazione è identica a quella del Terzetto –
con flauti, clarinetti, fagotti e corni – ma il risultato sonoro, proprio come lo
svolgersi dell’azione, è completamente diverso.
Quasi tutti i commentatori hanno sottolineato che il Sestetto «Sola, sola in buio
loco» ha una struttura da Finale: multi-sezione, con continui cambi di tonalità e
di strumentazione, l’ampliamento progressivo del numero di personaggi in scena e una
Stretta conclusiva che utilizza l’intera orchestra. È certo una caratteristica del
Don Giovanni il fatto che questo brano lasci una sensazione di incertezza: è un pezzo misterioso,
tanto nei contenuti musicali quanto nella funzione drammatica (per esempio, perché
Anna se ne va da sola, subito dopo?). Mila osserva acutamente che «il vero significato
drammatico di questo Sestetto è, se mai, l’assenza di Don Giovanni: è come un mulinello,
un vortice rapidissimo che gira, come tutti i mulinelli, intorno a un buco, nel vuoto.
Quel vuoto che attira a sé tutti gli altri è Don Giovanni».
Dal punto di vista musicale, bisogna sottolineare in particolare il percorso strumentale
e quello tonale. È davvero notevole il modo insolito in cui Mozart ci annuncia «da
lontano» la presenza delle trombe e dei timpani: all’inizio del brano, con i soli
Leporello ed Elvira in scena, l’orchestra comprende, oltre agli archi, tutti i legni
e i corni. Ma durante l’intervento di Ottavio suona letteralmente un’altra orchestra
(flauti, oboi, fagotti, trombe e timpani, piano, senza né clarinetti né corni), che accenna alla tonalità principale dell’opera,
Re Maggiore, in stridente contrasto con la tonalità del Sestetto (Mi bemolle). Appena
comincia a cantare Anna, la tonalità si vela (re minore), e trombe e timpani si congedano,
sempre piano: l’orchestra quindi torna alla sonorità iniziale. Solo con la Stretta sentiremo nuovamente
trombe e timpani, che però suoneranno marcando in modo più tradizionale gli istanti
più energici e sonori.
Qui Mozart abbandona il pensiero sonatistico per sperimentare una struttura tonale
di novità assoluta. La Dominante quasi non appare (Leporello la accenna appena all’inizio,
«Piano, piano, l’ho trovata», ma l’effetto viene subito cancellato dalla sorpresa
del Re Maggiore). La polarità più forte del brano è quella tra Mi bemolle e Re, un
rapporto quasi proibito nel Classicismo: Mozart introduce la modulazione non come
un evento drammatico, ma piuttosto come una trascolorazione, un effetto «straniato».
Entrano trombe e timpani, ma senza alcuna enfasi; l’orchestra per gran parte dell’episodio
in Re fa addirittura a meno dei corni, gli strumenti che hanno come caratteristica
principale quella di assicurare la stabilità, il sostegno.
Questo effetto tonale è stato ammirato e descritto innumerevoli volte; meno studiato
è invece il modo in cui Mozart riuscirà sottilmente a conciliare la durezza estrema
di questa modulazione, a risolverla sia musicalmente che scenicamente, in un momento
successivo. A partire dall’istante in cui Elvira chiede per la seconda volta pietà
per quello che crede essere Don Giovanni, il compositore scrive una successione di
ben cinque «cadenze d’inganno» (risoluzioni «a sorpresa», imprevedibili, del percorso
tonale) che accostano direttamente proprio gli accordi di Re Maggiore e di Mi bemolle.
Esempio 43
L’effetto di sorpresa attraverso una modulazione improvvisa e imprevista è dunque
una delle cifre stilistiche del Sestetto: all’ingresso di Anna e Ottavio, all’ingresso
di Zerlina e Masetto, nel momento in cui Leporello si scopre. Nella Stretta infine,
per due volte, ci troveremo di fronte all’improvvisa apparizione di un accordo in
tonalità lontana (Re bemolle Maggiore, forte) proprio sulle parole «Che impensata novità!».
Segue a questo punto, quasi senza soluzione di continuità, l’Aria di Leporello «Ah,
pietà, signori miei». Straordinaria in questa classica «Aria d’azione» è la raffinatezza
con cui Mozart rende dapprima lo smarrimento di Leporello e poi, pian piano, il modo
in cui nella sua mente si fanno strada la soluzione e la fuga. Ciò viene realizzato
attraverso la ricorrenza di un semplice elemento musicale, un arpeggio ascendente
di tre note, che si trasforma e cambia continuamente aspetto e funzione: appare a
«Dò ragione a voi e lei», e viene immediatamente ripreso dai bassi. Ricompare inaspettatamente
proprio nel momento in cui Leporello è più disorientato, non sa bene che pesci prendere
e vaga per la scena «con confusione»: «Certo accidente.../Di fuori chiaro.../Di dentro
oscuro.../Non c’è riparo.../La porta... il muro.../lo... il... la...». In questo istante
il motivo viene come rimbalzato tra la voce e le diverse sezioni dell’orchestra, senza
un ritmo definito e, letteralmente, senza una meta. A questo punto Leporello comincia
pian piano a dare ordine ai pensieri, il ritmo orchestrale si fa più regolare e smette
il vagare incessante del motivo. Un’ultima esitazione e poi, trovata l’uscita, Leporello
conclude, stavolta dando al motivo un andamento regolare e un senso cadenzale compiuto:
«Ma s’io sapeva fuggìa per qua».
Esempio 44
Oggi tutti i direttori d’orchestra eseguono entrambe le due Arie successive, senz’altro
per la loro grande bellezza; ma in origine l’Aria di Ottavio fu scritta per Praga
ed eliminata nella ripresa viennese, per la quale fu invece composta «Mi tradì quell’alma
ingrata». Nell’Aria di Ottavio – «Il mio tesoro intanto»: Andante grazioso – colpisce in particolare il tenero fraseggio di sette battute annunciato dai violini
con sordino. L’Aria di Elvira, preceduta da un magnifico Recitativo istromentato (del quale ho parlato in dettaglio nel capitolo 4), è un veemente rondò in tipico
stile da opera seria, dominato dal tema iniziale al punto che lo si potrebbe quasi
definire un «rondò monotematico». Come quasi ovunque nell’opera, Elvira si presenta
accompagnata dal clarinetto: Mozart limita la presenza di legni a tre strumenti solisti
(flauto, clarinetto e fagotto) e si spinge verso una scrittura contrappuntistica che
costituisce uno degli aspetti salienti di quest’Aria. Al contrario di ciò che succede abitualmente nell’orchestra mozartiana, qui i legni
non sostengono quasi mai la linea melodica con lunghe note tenute: lo fanno piuttosto
gli archi, con una singolare inversione dei ruoli tradizionali.
Senza preavviso, con un brusco e spettacolare aumento della tensione dopo tre Arie
in successione, Mozart ci fa ora entrare nel vivo del dramma con la scena del cimitero
e il Duetto «O statua gentilissima». Ma per comprendere appieno l’atmosfera di questo
brano, sospeso tra comicità e brividi ultraterreni, bisogna considerare anche il grande
Recitativo precedente in cui Mozart inserisce le famose entrate Adagio della statua del Commendatore, accompagnate da legni e tromboni. Il suono grave e
solenne dei tromboni entra improvvisamente a far parte del colore strumentale dell’opera,
con un effetto di altissima suggestione. Il compositore aveva già usato questi strumenti
per sottolineare un intervento ultraterreno, nella scena della «Voce» dell’Idomeneo; e un paio di precedenti importanti si trovano nelle opere di Gluck, nell’Alceste e nell’Orfeoed Euridice. Ma nessuno di questi istanti aveva raggiunto l’efficacia sonora e il potere evocativo
che Mozart ci offre in questa scena.
Il Duetto ha tutte le caratteristiche di un Concertato «buffo» mozartiano, soprattutto
nella resa espressiva dell’impaccio e della paura di Leporello nel rivolgersi alla
statua, e del «gusto e spassetto» di Don Giovanni che si diverte a provocarlo; ma
l’aldilà e il mistero vi si insinuano gradualmente, raggiungendo il punto più intenso
nel momento del «Sì» del Commendatore. Abbiamo qui a che fare con uno dei risultati
più alti di tutto il teatro mozartiano: l’intrusione del soprannaturale nel tessuto
buffo non dipende, infatti, solo dalla presenza fisica della statua, dal modo in cui
essa decide improvvisamente di partecipare al Duetto di padrone e servitore. È la
musica che ci rivela la compresenza di prosaico e ultraterreno, in particolare attraverso
l’inserimento nel tessuto del brano di accenni a tonalità lontane che si fanno sempre
più chiari e sempre più insistenti, in una sorta di calibratissimo crescendo drammatico. Il compositore ricorre qui a un particolare artificio armonico, l’uso
dei cosiddetti gradi abbassati, quasi degli «scivolamenti» inseriti nel percorso tonale del brano, che hanno una
stupefacente corrispondenza nell’azione.
Si tratta di un procedimento molto complesso, e difficile da illustrare in maniera
semplice e chiara. La tonalità del Duetto è Mi Maggiore, e per ben quattro volte Mozart
tocca tonalità lontane, che danno quindi all’ascolto la sensazione di un progressivo
straniamento, una deviazione dal percorso tonale più logico e prevedibile che rende
via via più viva e più drammatica l’intrusione dell’elemento soprannaturale:
– nel momento in cui Don Giovanni minaccia di uccidere Leporello se non rivolge l’invito
alla statua, e questi cede («No, no, attendete»);
– lo stesso movimento viene poi ravvicinato e dà corpo al terrore, più concentrato
e repentino, di Leporello quando la statua muove la testa («Ah, che scena è questa!»);
– nel momento in cui Don Giovanni si rivolge direttamente alla statua («Parlate, se
potete») Mozart realizza una improvvisa cadenza d’inganno (un do al posto della Tonica,
mi);
– infine l’ultima apparizione dello stesso do, la più soprannaturale, che segue la
risposta della statua («Mover mi posso appena»: anche qui la musica sembra andare
verso la Tonica, e invece vira improvvisamente).
Non c’è lo spazio per approfondire altri aspetti del brano; ma almeno la strumentazione
merita qualche parola, perché il modo in cui Mozart realizza un suono tanto vario,
ricco e articolato con soli flauti, fagotti e corni è davvero stupefacente. I raddoppi
del flauto e del fagotto, i tremoli degli archi che raffigurano la paura di Leporello,
il dialogo tra le varie sezioni orchestrali sottolineano gli snodi drammatici del
Duetto in maniera superba. L’effetto più memorabile è probabilmente la glaciale nota
tenuta dei corni, che si prolunga nell’orchestra «come una campana a morto» (Gounod)
proprio nel momento culminante della scena, al «Sì» della statua.
L’Aria di Donna Anna «Non mi dir, bell’idol mio», che segue a questo punto della partitura, ha sempre provocato aspre critiche, da Berlioz a Kierkegaard, a Luigi Dallapiccola.
I commentatori si sono concentrati in particolare sull’enorme vocalizzo «di nove battute
e di cento note», e Berlioz arriva a dire che Mozart «a commis là contre la passion,
contre le sentiment, contre le bon goût et le bon sens, un des crimes les plus odieux
et les plus insensés que l’on puisse citer dans l’histoire de l’art»! Ma in realtà
è la posizione drammatica dell’Aria che lascia perplessi: dopo il Duetto, infatti, sentiamo l’urgenza, il bisogno
fisico di seguire l’inesorabile procedere del dramma, e lo scontro definitivo tra
Don Giovanni e il Commendatore. L’opera precipita, inarrestabile, verso il grande
Finale secondo, una delle scene più celebri del teatro di ogni tempo.
Stupiscono, nell’esaminare questo grandioso Finale, le evidenti simmetrie con alcuni
istanti cruciali del primo atto. Per cominciare, l’uso funzionale della musica di
scena si richiama in modo chiarissimo al Finale primo: lì avevamo assistito alla ricostruzione
– addirittura iper-realistica, visto che presentava ben tre orchestre contemporaneamente
– di un ballo a palazzo; qui assistiamo a un banchetto con Tafelmusik dal vivo, e con la piccola orchestra sul palco che suona alcuni successi alla moda
(Una cosa rara, I due litiganti, Le nozze di Figaro). In entrambi i casi, quindi, abbiamo un’orchestra sul palcoscenico che esegue tre
diversi brani musicali.
Il richiamo alla grande Introduzione del primo atto è altrettanto forte, ma si riferisce
in questo caso alla costruzione complessiva, nella quale riappare la strategia della
gradazione mozartiana: proprio come nel primo atto, abbiamo dapprima una scena comica
(lì il monologo di Leporello, qui la più articolata scena tra padrone e servitore),
quindi un confronto acceso tra Don Giovanni e una figura femminile (Anna nel primo
atto, qui Elvira) e infine, culmine della gradazione, il drammaticissimo confronto
tra Don Giovanni e il Commendatore, dall’esito assolutamente speculare (alla morte
del Commendatore nel primo atto corrisponde nel Finale secondo la morte di Don Giovanni).
Un altro evidente richiamo tra i due momenti (l’inizio del primo atto e il Finale
del secondo) è anche la «mediazione comica» di Leporello, che commenta sullo sfondo
sia durante la scena con Elvira sia durante il confronto del suo padrone con la statua,
proprio come all’inizio dell’opera commentava durante la lotta tra Anna e Don Giovanni
e durante il duello e la morte del Commendatore. La forza drammatica del Finale viene
amplificata a dismisura proprio dagli interventi di Leporello: con grande intuizione
Mozart e Da Ponte inseriscono nella vicenda il punto di vista del servitore, ci offrono
uno sguardo «dal basso» che rende per contrasto veramente gigantesco, cosmico, lo
scontro fra Don Giovanni e il convitato di pietra.
La gradazione inversa, discendente, si sviluppa invece nel Larghetto della scena conclusiva, dopo che Don Giovanni è precipitato tra le fiamme: abbiamo
dapprima l’espansione lirica da opera seria, con ampio uso delle colorature, nel breve
Duetto Ottavio-Anna («Or che tutti, o mio tesoro»); poi la frase patetica in modo
minore di Elvira («Io men vado in un ritiro»), che viene immediatamente ripresa e resa ottimistica, allegra (in Maggiore), da Zerlina
e Masetto; infine Leporello chiude con un tono più chiaramente popolaresco («Ed io
vado all’osteria»: come la definisce Mila, «una melodia robusta e popolana»). I tre
personaggi «bassi» dell’opera si scambiano di ruolo nelle ultime battute, probabilmente
perché proprio Zerlina e Masetto ci offrono l’unica vera riconciliazione. L’arte della
gradazione, una delle caratteristiche più uniche e tipiche del Don Giovanni, risplende fino alle battute conclusive.
Esempio 45
Dal punto di vista orchestrale, l’aspetto più frequentemente citato del Finale secondo
è l’uso dei tromboni nell’organico, che erano già apparsi nel Recitativo del cimitero.
Notoriamente, nell’autografo non ci sono né i tromboni, né le trombe, né i timpani:
questi strumenti si trovano solo nelle parti singole, e quindi nell’Ottocento si è
spesso sostenuto che essi non siano un’idea originale di Mozart; oggi sappiamo invece
che fu proprio il compositore a volerne l’inserimento. I tromboni creano una differenza
sonora e timbrica essenziale rispetto all’Ouvertura del primo atto, che ancora una volta corrisponde al loro ruolo storico e simbolico:
è l’ingresso dell’aldilà, il simbolo sonoro del viaggio del Commendatore.
Dal punto di vista più strettamente musicale le osservazioni da fare sarebbero innumerevoli,
ma qui posso solo accennare a qualche singola caratteristica. Innanzitutto l’ossessiva persistenza, nella scena tra Don Giovanni e la statua,
del ritmo ostinato «trocaico» (lunga-breve), che ovviamente è il corrispettivo dell’inesorabile
destino di Don Giovanni. Il modo in cui Mozart accresce gradualmente la tensione drammatica
di questa scena è straordinario: dal momento in cui la statua fa il suo ingresso (e
in particolare a partire dal Più stretto) il compositore elimina praticamente ogni transizione graduale, ogni sfumatura: con
qualche minima eccezione, scompaiono del tutto le indicazioni di crescendo e diminuendo. Forte e piano, fortissimo e pianissimo si confrontano direttamente, senza mediazioni, proprio come i due protagonisti. E
le frasi musicali si riducono progressivamente: da «Don Giovanni, a cenar teco m’invitasti,
e son venuto» alla nuda contrapposizione di «Sì» e No», circa cento battute più tardi. La scena è senza precedenti anche per l’uso insistito
delle dissonanze: è come se l’ingresso della statua, che canta in note lunghe e statiche,
usando intervalli spesso singolari e insoliti, disgregasse la logica armonica stessa,
l’uso «razionale» e conseguente della tonalità.
Il Finale contiene inoltre un importante episodio basato sul principio sonatistico.
È la scena tra Don Giovanni e Donna Elvira, l’unico istante nel quale si verifica
un cambiamento interiore in uno dei personaggi. Elvira entra in scena cantando «L’ultima
prova dell’amor mio», ossia offrendo a Don Giovanni un’estrema speranza di salvezza.
Più avanti la donna comincerà la Ripresa cantando lo stesso identico tema, ma sulle
sprezzanti parole «Rèstati barbaro nel lezzo immondo», con una inversione di significato
impressionante e di formidabile efficacia. Ancora una volta, la tecnica musicale sottolinea
e rafforza il processo drammatico, i mutamenti che avvengono nell’animo di un personaggio.
Il punto intermedio del processo, il «Secondo tema» alla Dominante, è sempre affidato
a Elvira: coincide con la frase «Ah, non deridere gli affanni miei».
Esempio 46
Nella struttura tonale e tematica dell’episodio Mozart raffigura intera la parabola
dell’ultimo, inutile tentativo di Elvira di redimere (e riconquistare?) Don Giovanni:
lo slancio disperato e appassionato che si tramuta dapprima in amara delusione, quindi
in uno sfogo rabbioso. Non c’è nulla da fare: né la tecnica musicale né i tradizionali
caratteri operistici possono cambiare l’animo del libertino, del «cavaliere estremamente
licenzioso». C’è bisogno di un intervento ultraterreno, che non a caso sconvolge la
sintassi stessa del linguaggio musicale e drammatico. A partire da questo istante
né la musica né il teatro d’opera saranno più gli stessi.