Diritto privato comparato

Indice

5.2. Le prime iniziative del Parlamento europeo mirate a ravvicinare il diritto privato degli Stati membri e a promuovere l’elaborazione di un «codice comune europeo di diritto privato»

5.3. L’intervento della Commissione europea in vista della edificazione di un diritto contrattuale europeo: le Comunicazioni dell’11 luglio e del 2 ottobre 2001

5.4. Verso un ravvicinamento del diritto civile e del diritto commerciale degli Stati membri

5.5. Il progetto di dar vita a un «Common Frame of Reference» («Cfr»): il «Piano d’azione» per l’armonizzazione del diritto contrattuale europeo

5.6. La Comunicazione della Commissione del 2004: le prospettive future del diritto contrattuale europeo e della revisione dell’«acquis»

5.7. Struttura, contenuti e obiettivi del progetto di «Cfr», tra disciplina generale e regole speciali

5.8. Il ridimensionamento del progetto iniziale. Le relazioni della Commissione sullo stato di avanzamento dei lavori del «Cfr» e la dialettica con gli altri Organi comunitari

5.9. La concentrazione degli sforzi sulla revisione dell’«acquis communautaire». Il Libro verde sulla revisione dell’«acquis» in tema di diritto dei consumatori

5.10. Novità, anfibologie e carenze del processo di armonizzazione del diritto contrattuale europeo perseguito per mezzo del «Cfr»

6. Le iniziative di «ricodificazione»

6.1. Dalla «decodificazione» alla «ricodificazione»

6.2. La ricodificazione in Germania

6.3. Il dibattito sulla ricodificazione in Francia

7. Verso un diritto contrattuale europeo

7.1. Il «Draft Common Frame of Reference» (2009)

7.2. Il progetto di regolamento comunitario opzionale

7.3. Il diritto contrattuale comunitario: un cantiere aperto

Note

La responsabilità civile

1. Il modello romanistico-francese

1.1. Il diritto romano

1.2. Il contributo dei giusnaturalisti

1.3. La codificazione francese

2. Il modello tedesco

3. Il modello anglo-americano

3.1. Il diritto inglese

3.2. Il diritto negli Stati Uniti d’America

4. La comparazione degli orientamenti giurisprudenziali

4.1. L’antigiuridicità

4.2. Il nesso causale

4.3. La responsabilità dell’impresa

4.4. L’equivalenza dei rimedi contrattuali ed extracontrattuali: il caso della responsabilità medica

Le successioni nel diritto comparato (note introduttive)

1. Le successioni «mortis causa»: nozione

2. Le successioni a causa di morte nella comparazione dei sistemi giuridici

3. La «crisi» del diritto delle successioni

4. Famiglia e proprietà nel sistema delle successioni. L’evoluzione dei modelli familiari

5. Incidenza della trasformazione della ricchezza sull’istituto successorio

6. L’incidenza della natura dei beni sulla vicenda successoria

Note

Le società per azioni

1. Introduzione

2. Aspetti generali del diritto delle società

2.1. Origini e definizioni

2.2. La tendenza a ridurre le norme imperative

3. Classificazione delle società

3.1. Società civili, società commerciali e fonti del diritto societario

3.2. Società di persone

3.3. Società di capitali

3.4. Società aperte e chiuse, quotate e non quotate

3.5. Società a responsabilità limitata

4. Il diritto societario comunitario

5. Costituzione

5.1. Il «sistema normativo»

5.2. Costituzione simultanea e costituzione per pubblica sottoscrizione

5.3. Il capitale sociale

5.4. Società unipersonali

5.5. Sede legale e sede amministrativa

5.6. Atto costitutivo e statuto

5.7. Oggetto sociale

6. L’assemblea degli azionisti

6.1. Definizioni e competenze

6.2. Convocazione e svolgimento dell’assemblea

6.3. Invalidità delle delibere assembleari

7. Amministrazione e controllo

7.1. «Corporate governance»

7.2. Sistemi monisti e dualisti

7.3. Principali caratteristiche dei sistemi nazionali di amministrazione e controllo

8. Controllo contabile

9. Azioni ed obbligazioni

9.1. Azioni

9.2. Obbligazioni

10. Il bilancio d’esercizio

11. Gruppi di società

12. Trasformazione, fusione e scissione

12.1. Trasformazione

12.2. Fusione e scissione

13. Scioglimento della società

Bibliografia

Comparazione giuridica e unificazione del diritto

di Michael Joachim Bonell

Introduzione

In un mondo caratterizzato da una sempre maggiore mobilità delle persone, oltre che dei beni e dei servizi, è del tutto naturale il particolare interesse che suscitano non soltanto a livello teorico, ma anche tra gli operatori pratici del diritto quelle discipline – quali in primis il diritto comparato e il diritto uniforme – che cercano di dare una risposta ai numerosi problemi che il fenomeno della crescente internazionalizzazione o «globalizzazione» dei rapporti economici e sociali comporta sul piano giuridico.

Quanto al diritto comparato – rectius: alla comparazione giuridica – esso, com’è noto, si propone in primo luogo di individuare e, possibilmente, anche di spiegare sia le concordanze che le divergenze formali e sostanziali riscontrabili tra i vari diritti nazionali; inoltre – e non si tratta certamente di una funzione meno importante – esso, insistendo sulla necessità di focalizzare l’attenzione sui problemi e sulle funzioni anziché sui concetti e sulle istituzioni, crea le premesse per un linguaggio e un sistema di comunicazione autenticamente «transnazionali» tra i giuristi di tutto il mondo.

Il diritto uniforme o – se si preferisce guardare lo stesso fenomeno sotto il profilo dinamico – l’unificazione o armonizzazione del diritto tenta di superare i contrasti esistenti tra le varie esperienze giuridiche nazionali, proponendo – in sostituzione totale o parziale a queste ultime – una normativa comune o comunque più ravvicinata, intesa a risolvere le questioni specifiche che ne formano l’oggetto in modo possibilmente uguale da chiunque e ovunque esse vengano affrontate e risolte.

Ma qual è esattamente il rapporto tra la comparazione giuridica e l’unificazione del diritto?

Se è discutibile la tesi, proclamata con particolare fervore nei primi anni del secolo scorso, secondo cui tra la comparazione giuridica e l’unificazione del diritto esisterebbe un legame indissolubile, nel senso che la seconda costituirebbe il vero obiettivo o la ragion d’essere della prima, ancora meno fondata appare l’affermazione di segno opposto, vale a dire che l’unificazione del diritto sarebbe la negazione stessa della comparazione giuridica, nel senso che la prima renderebbe la seconda inutile o priva di oggetto.

Come sovente accade, la verità sta nel mezzo.

Da un lato, non vi è dubbio che la ricerca di una maggiore uniformità tra i diversi diritti locali o nazionali rappresenti soltanto una delle varie funzioni della comparazione giuridica. Dall’altro lato, tra il diritto uniforme e il diritto comparato non vi è certamente alcuna incompatibilità: al contrario, mentre il primo dipende in larga misura dagli apporti del secondo, quest’ultimo trova in quello una preziosissima occasione per verificare in pratica la validità delle proprie proposizioni teoriche.

1. Cenni storici sul movimento di unificazione internazionale del diritto

Il movimento per una progressiva unificazione internazionale del diritto prende inizio sul finire dell’Ottocento, più o meno nello stesso periodo, cioè, in cui con il completamento delle ultime grandi codificazioni nazionali l’idea del diritto quale emanazione esclusiva della volontà dei singoli Stati sovrani raggiunge, almeno in Europa, il suo apice. L’apparente paradosso si spiega agevolmente, se si pensa come quell’epoca segnasse altresì, quanto meno nei paesi più evoluti, il passaggio definitivo da un’economia agricola e artigianale ad un’economia basata sull’industria, con una produzione di serie e una distribuzione in massa dei beni e dei servizi. A fronte, dunque, di un intensificarsi senza precedenti degli scambi commerciali anche oltre frontiera, agevolati per di più dai progressi tecnici realizzati nel settore delle comunicazioni e dei trasporti, la scomparsa dell’antico ius commune e l’affermazione, al suo posto, dei singoli diritti nazionali tra di loro in conflitto non solo formalmente, ma anche nei contenuti, non poteva non essere avvertito come un serio ostacolo all’ordinato e sicuro svolgimento degli affari.

I primi significativi passi verso il ripristino di una maggiore uniformità normativa a livello internazionale vennero compiuti, com’è noto, nel settore delle creazioni intellettuali (Convenzione di Parigi per la tutela della proprietà industriale del 1883; Convenzione di Berna sulla protezione delle opere letterarie ed artistiche del 1886), dove per evidenti motivi era particolarmente sentita l’esigenza di evitare che a causa delle differenze esistenti tra le singole discipline nazionali il titolare di un diritto di esclusiva venisse discriminato o restasse addirittura senza protezione alcuna fuori dai confini del suo paese d’origine. A queste iniziative seguirono comunque ben presto delle altre riguardanti le più svariate materie, come ad es. il trasporto ferroviario (Convenzione di Berna sul trasporto internazionale di merci per ferrovia del 1890), la navigazione marittima (Convenzione di Bruxelles sull’urto di navi del 1910), il diritto di famiglia (Convenzione dell’Aja sulle regole di conflitto in materia di matrimonio del 1902; Convenzione dell’Aja sulle regole di conflitto in materia di divorzio e di separazione personale del 1902), gli incapaci e la tutela (Convenzione dell’Aja sull’interdizione e analoghe misure di protezione del 1905) o l’assistenza giudiziaria internazionale (Convenzione dell’Aja sul processo civile del 1905). Non solo, ma nel clima di euforia generale e di illimitata fiducia nel progresso dell’umanità, tipico di un periodo che non a caso viene ricordato come la belle époque, vi fu addirittura chi lanciò l’idea di procedere alla elaborazione di un vero e proprio codice universale – una sorta di «Weltprivatrecht» (Zitelmann) o di «droit commun legislatif» (Lambert).

Simili proposte fin troppo utopistiche anche in un mondo ancora in massima parte dominato dalle grandi potenze coloniali europee furono inesorabilmente travolte, insieme alla ideologia illuminista e cosmopolita che le ispirava, dallo scoppio della prima guerra mondiale. Non così invece l’idea dell’unificazione del diritto in quanto tale, la quale, anzi, con il cessare delle ostilità tornò nuovamente in auge, grazie anche alla ripresa dell’attività di alcuni importanti organismi già operanti in questo settore prima della guerra, quali la Conferenza dell’Aja di diritto internazionale privato, il Comité Maritime International o la International Law Association, e alla creazione, sotto gli auspici della Società delle Nazioni, di altre organizzazioni sempre con questi stessi compiti, quali l’Organizzazione internazionale del lavoro (1919) o l’Istituto internazionale per l’unificazione del diritto privato (Unidroit) (1926). Tra i risultati più significativi realizzati negli anni Venti e Trenta si possono qui ricordare la Convenzione di Bruxelles per l’unificazione di alcune regole in materia di polizza di carico del 1924, la Convenzione di Varsavia per l’unificazione di alcune norme relative al trasporto aereo internazionale del 1929 e le Convenzioni ginevrine in materia di cambiale e di assegno del 1930-1931.

Il secondo conflitto mondiale rappresentò anche per il movimento per l’unificazione del diritto una cesura profonda. Quando agli inizi degli anni Cinquanta da più parti si cercò di rilanciarlo, riprendendosi i lavori su progetti rimasti in sospeso oppure promovendosi nuove iniziative, apparve subito chiaro come il contesto internazionale, in cui si trattava ormai di operare, era radicalmente cambiato.

L’Europa aveva perduto definitivamente il suo ruolo dominante, e con lo spostamento del baricentro dell’economia mondiale oltreoceano qualsiasi tentativo di unificazione del diritto a livello universale che si limitasse, com’era avvenuto fin qui, ad un confronto fra i tradizionali diritti continental-europei e la common law inglese, senza tener conto altresì della sempre più ricca e per molti versi originalissima esperienza giuridica degli Stati Uniti era destinato in partenza all’insuccesso. In più, fin dai primi anni del dopoguerra era in atto una rigida contrapposizione, sul piano ideologico e politico, tra Est e Ovest, cui si sarebbe poi aggiunto, a partire dagli anni Sessanta, il contrasto, per ragioni essenzialmente economiche, tra i paesi industrializzati del Nord e quelli di nuova formazione e ancora in via di sviluppo del Sud.

Tutto ciò si rifletteva immancabilmente anche sulla sorte del diritto uniforme. Da un lato, le profonde diversità tra i paesi occidentali e quelli c.d. socialisti in ordine al modo di regolamentare al loro interno i rapporti economici e sociali facevano sì che d’ora innanzi l’oggetto di qualsiasi tentativo di unificazione in questa materia doveva necessariamente essere circoscritto ai rapporti c.d. internazionali o trascendenti l’ambito ristretto dei propri confini nazionali; dall’altro lato, l’acquisizione da parte dei paesi del Terzo mondo di un sempre maggiore potere contrattuale in seno alla comunità internazionale inevitabilmente portava ad un’accresciuta attenzione verso le esigenze e gli interessi affatto peculiari di questi stessi paesi. Ciò non soltanto in occasione dell’elaborazione di nuovi strumenti di diritto uniforme, ma anche allorché si provvedeva, sempre dietro le loro insistenze, alla sostituzione di normative uniformi elaborate in un diverso contesto storico con delle altre che riflettessero più adeguatamente i mutati equilibri economico-politici dell’auspicato «nuovo ordine economico internazionale».

Valga qui per tutti l’esempio del diritto uniforme della vendita.

Quando nel 1929 l’insigne giurista tedesco Ernst Rabel propose al Consiglio di direzione dell’Unidroit di intraprendere i necessari studi preparatori in vista della elaborazione di una legge uniforme riguardante la vendita di beni mobili, le scelte di fondo della progettata normativa uniforme, ivi compresa la delimitazione del suo oggetto alla sola vendita c.d. internazionale, erano dettate essenzialmente da ragioni di carattere tecnico, quali le differenze strutturali esistenti tra le operazioni di importazione o di esportazione di merci da un paese all’altro e le normali compravendite esaurientisi in un ristretto ambito locale, e l’inadeguatezza dei tradizionali diritti nazionali, concepiti essenzialmente in funzione di queste ultime, rispetto alle particolari esigenze e problemi delle prime. Ancora in occasione della Conferenza diplomatica dell’Aja del 1964, che si concluse con l’approvazione da parte di una trentina di Stati, in prevalenza europei, di due leggi uniformi in materia, le discussioni vertevano più che altro su come riuscire a superare le divergenze che in ordine a tutta una serie di aspetti particolari dividevano i paesi di tradizione giuridica continental-europea e quelli anglosassoni.

Il quadro dovette presto cambiare, quando a partire dal 1968, di fronte al limitato successo riportato dalle due leggi uniformi dell’Aja, venne avviata una sostanziale revisione delle stesse ad opera dell’appena istituita Commissione delle Nazioni Unite per il diritto del commercio internazionale (Uncitral), e quindi con la attiva partecipazione anche dei paesi socialisti e di quelli del Terzo Mondo. Ed invero, apparve subito chiaro che, accanto ai soliti contrasti di carattere tecnico tra i sistemi di civil law e quelli di common law, vi sarebbero ormai stati da sciogliere anche una serie di nodi «politici», quali il principio della libertà di forma o la necessità della determinazione del prezzo ai fini della valida conclusione del contratto, per quanto concerne i rapporti Est-Ovest, oppure la rilevanza degli usi, i termini per la denunzia dei vizi della cosa o il diritto di sospendere l’adempimento per l’alterarsi delle condizioni economico-finanziarie della controparte, nei rapporti Nord-Sud. Il fatto che la Convenzione delle Nazioni Unite sui contratti di vendita internazionale di merci, approvata a Vienna nel 1980 a conclusione dei lavori protrattisi per tutti questi anni in seno all’Uncitral (qui di seguito: Convenzione di Vienna), preveda in merito a queste ed altre questioni altamente controverse delle soluzioni non sempre nitide e coerenti può anche essere visto come un passo indietro rispetto al maggior rigore sistematico proprio della normativa precedente; d’altra parte, il solo fatto di averle affrontate, tenendo conto di tutte le loro implicazioni politiche e cercando di trovare delle soluzioni, in cui tutte le parti in causa possono in qualche modo riconoscersi, costituisce indubbiamente un titolo di merito della nuova Convenzione, e lo conferma il fatto che la stessa sia stata nel frattempo adottata da ben 70 Stati di tutto il mondo, tra cui praticamente tutti i principali protagonisti del commercio internazionale (con la sola eccezione del Giappone, del Regno Unito e dell’India).

Quali le prospettive del movimento di unificazione agli inizi del XXI secolo?

Il crollo dei regimi socialisti dell’Est europeo ha portato ad un riavvicinamento tra questi paesi e il resto dell’Europa non soltanto sul piano politico ed economico, ma anche su quello più propriamente giuridico. Ciò vale naturalmente in primis per i tre paesi baltici, per la Bulgaria, la Polonia, la Repubblica ceca, la Romania, la Slovenia, la Slovacchia e l’Ungheria, nel frattempo diventati membri a pieno titolo dell’Unione Europea. Ma anche gli altri paesi in fase di transizione da un’economia c.d. di piano a un’economia c.d. di mercato – a cominciare dalla stessa Federazione russa – hanno avvertito il bisogno di adeguare la propria legislazione interna alle mutate condizioni socio-economiche, e per l’occasione si sono ampiamente ispirati, oltre che a strumenti di diritto uniforme quali la Convenzione di Vienna e i Principi Unidroit dei contratti commerciali internazionali (qui di seguito: Principi Unidroit) (per maggiori dettagli su questi ultimi vedi infra sub 2.4), alle codificazioni di paesi occidentali quali in primo luogo il Bürgerliches Gesetzbuch tedesco (nella sua versione emendata del 2002) e il codice civile olandese o lo stesso Uniform Commercial Code nordamericano. Al riguardo si potrebbe, dunque, parlare di un processo non solo di unificazione in senso stretto o gezielte Rechtsvereinheitlichung, ma anche di unificazione o armonizzazione spontanea o gewachsene Rechtsvereinheitlichung, per molti versi simile a quanto è avvenuto sul finire dell’Ottocento con la circolazione dei modelli – codicistici e non – europei in numerosi paesi dell’Africa e dell’America Latina.

Indubbiamente più complesso e differenziato si presenta il quadro nel resto del mondo e in particolare per quanto concerne i rapporti Nord-Sud. Per un verso c’è da segnalare la nuova realtà dei c.d. paesi emergenti – quali la Cina, l’India e il Brasile, ma anche paesi più piccoli come l’Indonesia, il Messico, la Corea del Sud o la Repubblica di Singapore – che di pari passo con una tumultuosa crescita economica stanno riformando anche i propri ordinamenti giuridici, rifacendosi ampiamente ai più avanzati modelli offerti a livello internazionale. Per altro verso, numerosi paesi soprattutto dell’Africa e dell’America Latina continuano a versare in uno stato di generale arretratezza, e questi paesi c.d. in via di sviluppo tardano anche sul piano più propriamente giuridico a dotarsi di strutture e normative più moderne. A ciò poi si aggiunge, almeno per quanto concerne larga parte del mondo islamico, quale ulteriore ostacolo alla modernizzazione il dilagante fondamentalismo religioso, dichiaratamente contrario a qualsiasi cambiamento in campo giuridico non meno che in altri settori. D’altra parte, un importante impulso verso il decollo non solo economico ma anche giuridico dell’intero emisfero australe potrebbe derivare dal proliferare a livello regionale di zone di libero scambio (vedi infra sub 2.1).

Concludendo, a fronte di una crescente globalizzazione dei rapporti economici e sociali il movimento dell’unificazione del diritto può vantare indubbiamente significativi successi, ma al tempo stesso incontra anche delle resistenze tutt’altro che trascurabili.

Né le critiche e opposizioni al diritto uniforme si manifestano soltanto nei paesi del c.d. Terzo Mondo. Basti pensare alle teorie avanzate in un primo momento – e non sempre in maniera del tutto disinteressata – da una certa dottrina statunitense ma nel frattempo diffusesi anche in Europa, secondo cui al posto dell’unificazione o armonizzazione si dovrebbe piuttosto favorire la c.d. concorrenza tra i diversi ordinamenti, consentendo agli stessi operatori economici di assoggettare i propri rapporti d’affari alle regole di quell’ordinamento nazionale che ritengano più rispondenti alle proprie esigenze. Trattasi di proposizioni che almeno nelle loro formulazioni estreme appaiono piuttosto discutibili in quanto basate su una serie di «finzioni» (Guido Alpa) o assunti tutt’altro che dimostrati, primi fra tutti che la piena concorrenza tra gli ordinamenti porti effettivamente sempre ad una «corsa verso l’eccellenza» («race to the top»), ovverosia verso regimi normativi più efficienti nell’interesse di tutti, e non anche ad una «corsa verso il ribasso» («race to the bottom»), vale a dire verso regole più lassiste e rispondenti soltanto a interessi di parte (il riferimento alla proliferazione dei c.d. paradisi finanziari e fiscali è fin troppo scontato), oppure che gli stessi operatori economici – rectius: i loro legali – in pratica finiscano immancabilmente per scegliere l’ordinamento che offre la soluzione oggettivamente ottimale e non piuttosto l’ordinamento a loro più familiare e pertanto più facile da maneggiare (si pensi alla prassi delle grandi law firms anglosassoni di escludere sistematicamente l’applicazione della Convenzione di Vienna e di scegliere al suo posto il diritto dello Stato di New York o quello inglese, senza neppure porsi il problema se la Convenzione preveda per ipotesi una soluzione più favorevole al proprio mandante). Pertanto, il meno che si possa dire è che non esiste una netta contrapposizione tra uniformazione normativa e concorrenza tra ordinamenti: si tratta, piuttosto, com’è stato giustamente osservato (Andrea Zoppini), «di stabilire per ciascun segmento del mercato le caratteristiche strutturali che possano indurre a preferire la coesistenza tra le regole in competizione tra loro ovvero una regola uniformemente applicata».

2. Le diverse forme o «tecniche» di unificazione

2.1. L’unificazione legislativa

In un primo momento l’unificazione del diritto avveniva quasi esclusivamente sul piano legislativo, sotto forma di convenzioni e di leggi uniformi. La ragione è da ricercare nel giuspositivismo e statualismo che hanno dominato il pensiero giuridico europeo fin dalla seconda metà dell’Ottocento e per buona parte del Novecento. Fintanto si riteneva che in seguito all’affermazione degli Stati moderni e al consolidamento dei rispettivi ordinamenti positivi nazionali tutto il diritto si riducesse alle norme che emanano dagli organi competenti di ciascuno Stato, era giocoforza concludere che anche un’eventuale unificazione o armonizzazione di questi stessi diritti non potesse che attuarsi sul piano legislativo, più precisamente sotto forma di una normativa uniforme, che i singoli Stati concordavano tra di loro a livello internazionale e si impegnavano ad introdurre nel proprio ambito interno.

Ancora oggi quella legislativa è la più diffusa forma o «tecnica» di unificazione, anche se – come si avrà modo di illustrare meglio in seguito – con la progressiva erosione della sovranità e pretesa di esclusività degli ordinamenti statali si affermano sempre di più, quanto meno con riguardo a materie regolate all’interno dei singoli diritti nazionali da norme c.d. dispositive, forme o «tecniche» alternative – il c.d. soft law, ovverosia strumenti privi di un’efficacia normativa diretta ma proprio per questo più agevoli nella preparazione e più flessibili nei contenuti.

Da notare, comunque, che accanto al diritto uniforme c.d. convenzionale assume, quanto meno a livello regionale, un’importanza sempre maggiore il diritto uniforme c.d. sovranazionale: il primo, com’è noto, viene approvato con un vero e proprio trattato di diritto internazionale, per essere successivamente incorporato dagli Stati aderenti, a seconda dei casi, con una legge ordinaria di attuazione oppure con un semplice ordine di esecuzione; per contro, il secondo promana da un’autorità sovranazionale, cui gli Stati hanno trasferito una parte delle proprie prerogative sovrane, ivi compresa la potestà normativa, e in quanto tale è idoneo o ad acquistare addirittura un’efficacia diretta ed automatica all’interno dei singoli ordinamenti nazionali o comunque a vincolare i singoli Stati quanto agli obiettivi fissati, lasciandoli liberi soltanto nella scelta delle forme e dei mezzi più adatti per il raggiungimento degli stessi.

L’esempio più importante di un siffatto diritto uniforme c.d. sovranazionale è il diritto comunitario, nelle sue due fonti principali del regolamento e della direttiva. In effetti, secondo quanto prevede l’art. 288 del Trattato istitutivo della Comunità europea (nel testo modificato dal Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea di Lisbona del 2007) «per esercitare le competenze dell’Unione, le istituzioni adottano regolamenti [e] direttive [...]. Il regolamento ha portata generale. Esso è obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri. La direttiva vincola lo Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi». Con riferimento alle direttive è comunque appena il caso di ricordare come secondo l’insegnamento ormai costante della Corte di Giustizia anch’esse possano trovare un’applicazione diretta ogniqualvolta, come sempre più spesso accade in pratica, siano redatte in maniera talmente dettagliata e precisa da non lasciare più alcuna discrezionalità agli Stati quanto alla loro attuazione.

Ma in tempi più recenti si registra anche in altre parti del mondo un crescente numero di raggruppamenti regionali di Stati basati su accordi di libero scambio e dotati di competenze più o meno ampie di regolamentazione nel settore commerciale. Basti pensare al North American Free Trade Agreement (Nafta) tra il Canada, il Messico e gli Stati Uniti, al Tratado de Asunción para la Constitución de un Mercado Común (Mercosur) tra l’Argentina, il Brasile, il Paraguay e l’Uruguay quali membri e la Bolivia, il Cile, la Colombia, l’Ecuador e il Perú come associati, all’Asia Pacific Economic Cooperation (Apec) tra 21 Stati, tra cui l’Australia, la Birmania, il Brunei, la Cambogia, le Filippine, l’Indonesia, il Laos, la Malaysia, la Repubblica di Singapore, la Tailandia e il Vietnam, oppure alla Southern Africa Development Community (Sadc) tra 15 Stati dell’Africa australe, tra cui l’Angola, il Madagascar, il Mozambico, il Sudafrica e la Tanzania. Ai fini che qui interessano più direttamente l’esempio più importante è comunque l’Organisation pour l’Harmonisation en Afrique du Droit des Affaires (Ohada), che conta ben 16 Stati membri dell’Africa occidentale e centrale francofona e si è già prodigata in una serie di iniziative volte alla modernizzazione del diritto commerciale della regione, tra cui una legge uniforme sui trasporti terrestri ispirata alla Convenzione di Ginevra sul trasporto internazionale di merci per strada del 1956 (Cmr), una disciplina uniforme in materia di vendita ispirata alla Convenzione di Vienna e – progetto tuttora in corso – una Legge uniforme sui contratti largamente basata sui Principi Unidroit.

2.2. L’unificazione giurisprudenziale

Non c’è dubbio che con l’approvazione, ad opera degli Stati contraenti, delle singole convenzioni o leggi uniformi si conclude soltanto una prima, anche se importante fase del processo di unificazione. Per la sua completa realizzazione occorre inoltre che la disciplina uniforme, una volta introdotta debitamente nei singoli ordinamenti nazionali, riceva poi anche nella pratica un’interpretazione ed applicazione possibilmente uniforme ad opera dei giudici o degli arbitri. Il principio viene ormai espressamente sancito nelle stesse normative di diritto uniforme, prima fra tutte dalla Convenzione di Vienna che all’art. 7 stabilisce che «[n]ell’interpretazione della presente Convenzione si deve aver riguardo al suo carattere internazionale e alla necessità di promuovere l’uniformità nella sua applicazione» e che «[l]e questioni concernenti materie disciplinate dalla presente Convenzione che non sono espressamente risolte da essa devono essere risolte in conformità con i principi generali sui quali essa si basa, ovvero, in mancanza di tali principi, in conformità con la legge applicabile in virtù delle norme di diritto internazionale privato».

Il rimedio più radicale per realizzare questi obiettivi consiste nell’attribuire ad una corte internazionale la competenza a decidere in via preliminare le questioni relative all’interpretazione dei singoli prodotti di diritto uniforme, imponendo nello stesso tempo ai giudici nazionali di sospendere la decisione fino alla sua sentenza e poi di conformarvisi.

Nell’ambito dell’Unione Europea spetta alla Corte di Giustizia la competenza a pronunciarsi, su richiesta – che in alcuni casi diventa obbligatoria – delle corti nazionali, in ordine a questioni di interpretazione del diritto comunitario in senso stretto, di cui interessano in questa sede soprattutto il Regolamento (CE) n. 44/2001 del 22 dicembre 2000 concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale («Bruxelles I»), il Regolamento (CE) n. 593/2008 del 17 giugno 2008 sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali («Roma I») ed il Regolamento (CE) n. 864/2007 dell’11 luglio 2007 sulla legge applicabile alle obbligazioni extracontrattuali («Roma II»).

L’importanza di questo sistema per la sorte del diritto comunitario può essere difficilmente sopravvalutata. Anzitutto perché, se è vero che le pronunzie della Corte di Lussemburgo sono formalmente vincolanti soltanto nei confronti del giudice de quo, di fatto gli effetti dell’interpretazione data finiscono per farsi sentire ben oltre il singolo caso concreto, visto che qualsiasi altro giudice nazionale, posto di fronte allo stesso problema interpretativo, dovrà necessariamente seguire la precedente pronuncia della Corte, a meno che non intenda rimettere nuovamente la questione ad essa. Né su questo stato di cose può in qualche modo influire il valore che all’interno dei singoli ordinamenti nazionali viene in generale riconosciuto al precedente giudiziario. In altre parole, anche in quei sistemi giuridici – come quello inglese – dove vige il principio del precedente vincolante un giudice inferiore non è affatto vincolato da una precedente decisione emanata sul punto in questione da parte di un giudice superiore, a meno che quest’ultimo non si sia a sua volta per l’occasione basato su una pronuncia sollecitata sempre sullo stesso punto dalla Corte di Giustizia.

Ma è anche e soprattutto il modo in cui la Corte di Giustizia ha finora saputo esercitare le sue prerogative a rendere il sistema stesso così interessante ai fini che qui più direttamente interessano. Limitandoci all’esempio della ormai ricchissima giurisprudenza formatasi in materia della Convenzione di Bruxelles sulla competenza giurisdizionale e l’esecuzione delle sentenze del 1968 (ora Regolamento 44/2001), c’è da dire che già il metodo seguito dalla Corte nell’interpretazione della normativa uniforme in questione, vale a dire il fatto di non fermarsi al significato letterale e grammaticale del testo, ma di avere riguardo, ogniqualvolta ve ne sia bisogno, agli obiettivi perseguiti dalle singole disposizioni così come dalla disciplina nel suo insieme, ha rappresentato una novità, quanto meno per i paesi di common law, dove peraltro gli stessi giudici nazionali hanno nel frattempo cominciato ad assumere un atteggiamento analogo. Ancora più rilevante è comunque il ruolo che la Corte svolge nel chiarire e integrare il contenuto della normativa uniforme. Nelle sue decisioni la Corte ha sviluppato una serie di importanti principi che dovrebbero presiedere all’interpretazione della normativa in questione, come quello di limitare il più possibile le ipotesi di concorso cumulativo di competenze oppure quello di tutelare al massimo la posizione del convenuto, specie nell’ipotesi che venga citato all’estero. Inoltre, ogniqualvolta si trattava di determinare l’esatto significato da attribuirsi a termini e concetti usati ma non meglio definiti dalla stessa, come ad es. quelli di «materia civile e commerciale», di «fallimento», di «contratto», di «succursale, agenzia o qualsiasi altra filiale», ecc., la Corte ha sempre cercato, nei limiti del possibile, di fornire un’interpretazione autonoma, vale a dire di ricavare il significato dei singoli termini e concetti in questione dalla stessa normativa uniforme oppure dai principi comuni ai sistemi giuridici di tutti gli Stati contraenti, anziché da un singolo ordinamento nazionale di volta in volta individuato in base alle solite regole di conflitto.

In mancanza di un’apposita istanza giurisdizionale sovranazionale spetta in definitiva ai singoli giudici nazionali o agli arbitri di fare in modo che le varie convenzioni o leggi uniformi ricevano in pratica ovunque un’applicazione possibilmente unitaria.

Il metodo più efficace per raggiungere quest’obiettivo consiste nel considerare il modo in cui il rispettivo prodotto di diritto uniforme viene inteso ed applicato negli altri paesi. In altre parole, un giudice o arbitro che sia investito di una questione interpretativa riguardante un determinato testo di diritto uniforme, dovrebbe sempre tener conto delle soluzioni elaborate fino a quel momento in altri Stati contraenti. Se al riguardo dovesse già essersi formato un indirizzo giurisprudenziale uniforme, esso potrebbe addirittura essere accettato come una sorta di precedente vincolante. Altrimenti alle argomentazioni che stanno alla base delle diverse decisioni dovrebbe quantomeno riconoscersi un certo valore persuasivo, nel senso che la preferenza accordata alle une piuttosto che alle altre, come pure la scelta di voler adottare una soluzione nuova, andrebbero adeguatamente motivate.

Non c’è dubbio che in pratica questo approccio incontri notevoli difficoltà a causa della insufficiente diffusione delle decisioni relative alle varie convenzioni e leggi uniformi in vigore. Un giudice o un arbitro che volesse conoscere il modo in cui una determinata norma di diritto uniforme sia stata finora interpretata negli altri Stati contraenti, il più delle volte non dispone di uno strumento di informazione in grado di fornirgli un quadro sufficientemente preciso e completo. Le stesse banche dati on line che nei diversi paesi raccolgono in maniera più o meno sistematica ed esaustiva le decisioni delle rispettive corti nazionali, se indubbiamente agevolano notevolmente il compito degli operatori giuridici locali, non altrettanto può dirsi per quanto concerne giudici e legali di altri paesi che invece – come del resto già avveniva con i tradizionali repertori su carta stampata– di regola si trovano di fronte a insuperabili barriere linguistiche o quanto meno alla difficoltà di comprendere appieno la terminologia tecnica e lo «stile» di decisioni rese in un contesto normativo a loro poco o per nulla familiare.

Ma se il quadro generale continua ad essere poco soddisfacente, in tempi più recenti si segnalano alcune importanti iniziative volte ad ovviare alle insufficienze delle banche dati nazionali raccogliendo, quanto meno con riferimento a determinati strumenti di diritto uniforme, tutte le più importanti decisioni rese a livello internazionale, per di più presentandole in modo tale da poter essere ugualmente comprese dagli operatori giuridici di tutto il mondo.

Tra le prime – in ordine di apparizione – banche dati di questo tipo piace qui ricordare Unilex, creata dal Centro di studi e ricerche di diritto comparato e straniero in Roma agli inizi degli anni Novanta e che anche dopo l’inopinata soppressione del Centro continua ad essere costantemente aggiornata grazie all’apporto volontario di giovani studiosi italiani e stranieri coordinati dallo scrivente con Anna Veneziano prima, e ora con Eleonora Finazzi-Agrò e Roberta Peleggi. Unilex, originariamente limitata alla Convenzione di Vienna ma in seguito estesa anche ai Principi Unidroit, offre all’utente un sistema «intelligente» di ricerca della casistica internazionale e della bibliografia riguardanti i due strumenti di diritto uniforme in questione. Le singole decisioni sono riportate, oltre che nella loro versione integrale in lingua originale (là dove disponibile), sotto forma di un abstract, corredato di key words, in lingua inglese, in modo da indicarne sinteticamente – in una lingua accessibile a tutti gli specialisti della materia – gli argomenti trattati e riassumere i più importanti elementi in fatto e in diritto che stanno alla loro base. Ma vi è di più. Le sentenze raccolte vengono classificate e possono quindi essere ricercate nella banca dati non soltanto in base alla loro data e al paese (o centro arbitrale) d’origine, ma anche per soggetti. A tal fine ogni articolo dei due strumenti è corredato di un lemmario («issues»), ovverosia di una lista di questioni, presentate in ordine sistematico e riguardanti le più importanti questioni interpretative che si pongono in sede di applicazione pratica dell’articolo stesso. Scorrendo le singole voci del lemmario si è così in grado di verificare immediatamente se con riferimento alle rispettive questioni esistano già delle decisioni e, in caso affermativo, quali esse siano. L’utente che (ancora) non abbia familiarità con il contenuto dei due strumenti e che quindi non sappia se una determinata questione è regolata dagli stessi e/o in quale articolo, può invece ricercare le decisioni attraverso un indice analitico. I riferimenti bibliografici riguardanti monografie e saggi pubblicati nelle principali lingue accessibili al grande pubblico (inglese, francese, tedesco, italiano e spagnolo) sono raggiungibili mediante una ricerca non soltanto per autore e per articoli trattati ma anche, analogamente a quanto avviene per la giurisprudenza, per soggetti.

Attualmente (novembre 2011) Unilex contiene ben 891 decisioni e più di 2000 riferimenti bibliografici riguardanti la Convenzione di Vienna, mentre sono 273 le decisioni e più di 1500 i riferimenti bibliografici riguardanti i Principi Unidroit. La banca dati è liberamente accessibile su Internet all’indirizzo www.unilex.info, dove secondo gli ultimi rilevamenti viene visitata da una media di cinquecento utenti al giorno, provenienti da tutte le parti del mondo e composti per metà da studiosi e per l’altra metà da operatori pratici del diritto.

Un’altra banca dati a vocazione autenticamente internazionale è Clout – acronimo inglese per Case Law On Uncitral Texts – istituita anch’essa agli inizi degli anni Novanta su iniziativa dell’Uncitral, che ne cura tuttora l’aggiornamento avvalendosi di una fitta rete di c.d. corrispondenti nazionali sparsi in tutto il mondo. Rispetto ad Unilex, Clout copre un’area più estesa, in quanto si propone di raccogliere le decisioni relative a tutti i principali strumenti normativi del diritto del commercio internazionale prodotti dall’Uncitral (o, prima della creazione di questa, dalle Nazioni Unite), come la Convenzione di Vienna sulla vendita internazionale di merci, la Convenzione di Amburgo sul trasporto marittimo di merci, la legge modello Uncitral sull’arbitrato commerciale internazionale, la legge modello Uncitral sulle procedure d’insolvenza transfrontaliere, la legge modello Uncitral sul commercio elettronico e la Convenzione di New York sul riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni arbitrali straniere). Inoltre Clout, potendo contare sul supporto del servizio di traduzioni delle Nazioni Unite, offre il vantaggio di pubblicare gli abstracts delle decisioni nelle sei lingue ufficiali delle Nazioni Unite (arabo, cinese, francese, inglese, russo e spagnolo). Comunque, a differenza di Unilex, Clout non raccoglie alcun riferimento bibliografico riguardante le singole convenzioni o leggi modello e – cosa indubbiamente più rilevante ancora – le stesse decisioni vengono classificate soltanto in base alla loro data e al paese (o centro arbitrale) d’origine, nonché agli articoli in esse citati, mentre una ricerca per soggetti si deve basare sui pochi key words di cui sono corredate le singole decisioni, mancando la lista di questioni («issues»), presentate in ordine sistematico in calce ad ogni disposizione e riguardanti le più importanti questioni interpretative che si pongono in sede di applicazione pratica della stessa, che, come si è visto, rappresenta il grande pregio di Unilex.

2.3. L’unificazione contrattuale

Un’altra forma di unificazione della disciplina dei rapporti commerciali internazionali – da tempo praticata anche se non sempre sufficientemente apprezzata – è quella che si attua sul piano contrattuale, attraverso l’impiego, in occasione delle singole contrattazioni, di strumenti negoziali uniformi di varia origine ma comunque largamente diffusi a livello internazionale. In un primo momento il fenomeno interessava unicamente settori tradizionali quali la compravendita di prodotti industriali e di derrate agricole o di altre materie prime, le varie forme di trasporto, le assicurazioni, ecc., ma ormai riguarda con connotati sostanzialmente identici anche le operazioni c.d. atipiche quali l’engineering, le nuove forme di distribuzione commerciale, il trasferimento di tecnologia, i nuovi servizi finanziari, ecc.

Fin dalla seconda metà del secolo scorso, di fronte all’inadeguatezza dei tradizionali diritti nazionali rispetto alle nuove esigenze degli scambi commerciali internazionali, gli stessi ambienti economici interessati hanno cominciato a sostituirsi ai singoli legislatori statali, dando vita, sotto forma di una fitta rete di clausole standard, di condizioni generali e contratti-tipo, ad una regolamentazione dettagliata e più soddisfacente dei propri rapporti d’affari. In un primo momento queste «regole oggettive del commercio internazionale» erano quasi esclusivamente il prodotto delle singole imprese o delle loro associazioni di categoria o delle borse di merci operanti sulle principali piazze commerciali e finanziarie dell’Europa e dell’America del Nord. Di conseguenza, anche il loro contenuto, oltre ad essere spesso fortemente unilaterale, era inevitabilmente legato a principi e concetti propri dei rispettivi paesi d’origine. Non solo, ma siccome praticamente tutte le condizioni generali o i contratti-tipo elaborati da associazioni di categoria o borse di merci contenevano una clausola compromissoria, con la quale per qualsiasi controversia che dovesse insorgere tra le parti veniva stabilita la competenza esclusiva degli organismi arbitrali a tal fine istituiti presso le stesse associazioni o borse, ben presto si doveva arrivare ad una sorta di «battaglia dei formulari», dovuta, oltre che per le divergenze nel merito della regolamentazione contrattuale da adottare, al desiderio dei singoli operatori economici di poter contare, in caso di controversia, su un arbitrato da tenersi presso la propria associazione di categoria anziché presso quelle della concorrenza straniera.

Fu per ovviare a questo stato di cose poco favorevole ad un ordinato svolgimento dei traffici commerciali, che alcuni organismi internazionali neutrali hanno preso l’iniziativa di elaborare strumenti contrattuali che fossero, oltre che contenutisticamente più equilibrati, anche nella forma autenticamente «internazionali» o «transnazionali», senza legami, cioè, con istituti e concetti propri di questo o di quest’altro sistema giuridico nazionale, e come tali suscettibili di essere intesi in maniera sostanzialmente uniforme ovunque e da chiunque dovessero essere in concreto adottati. Ha iniziato la International Law Association con le York-Antwerp Rules del 1890 in materia di avarie comuni e le Warsaw-Oxford-Rules del 1932 sulla vendita-cif, ma ben presto seguirono altre organizzazioni, prima fra tutte la Camera di Commercio Internazionale con le «Regole ed usi uniformi relativi ai crediti documentari», pubblicate per la prima volta nel 1933 (l’ultima edizione è del 2007) e che risultano ormai adottate da tutte le principali associazioni bancarie nazionali del mondo, e con gli Incoterms, vale a dire una definizione-modello delle principali clausole di consegna (Exw, Fob, Cif, Fca, ecc.), pubblicati per la prima volta nel 1935 (l’ultima versione è del 2010) e che possono anch’essi contare su un’accettazione pressoché universale. Attualmente non si contano più le clausole e definizioni-modello, le condizioni generali, i contratti-tipo, i contratti-modello e guide legali elaborati a livello internazionale o sovraregionale, e tra gli enti promotori figurano ormai da tempo, accanto ad organismi privati, quali per l’appunto la Camera di Commercio Internazionale oppure il Comité Maritime International, la International Federation of Consulting Engineers, la International Federation of Freight Forwarders Associations, etc., le stesse Nazioni Unite o singole sue agenzie specializzate, quali l’Uncitral, l’Unido, l’Unctad, la Wipo, la Ece, l’Imo, ecc., nonché altre organizzazioni intergovernamentali, come l’Unidroit, il Consiglio d’Europa, l’Asian-African Legal Consultative Committee, ecc.

Difficile stabilire fino a che punto i recenti strumenti contrattuali a vocazione autenticamente internazionale siano in pratica riusciti a sostituirsi ai tipici prodotti del tradizionale Verbandsrecht o droit corporatif predisposti dalle singole imprese o associazioni di imprese nazionali. In linea di massima sembra comunque potersi affermare che i primi hanno tante più chances di essere preferiti dagli operatori economici interessati quanto più il rispettivo settore commerciale è aperto alla concorrenza internazionale; viceversa i secondi continuano a dominare in mercati chiusi o comunque dominati da pochi global players. Ciò peraltro non significa che in questi ultimi settori commerciali l’effetto unificatore a livello contrattuale sia del tutto assente: piaccia o non piaccia, anche tra i modelli contrattuali di singole imprese o associazioni di imprese nazionali ve ne sono di quelli – si pensi ad es. ai formulari inglesi nel settore delle commodities, dei trasporti marittimi o delle assicurazioni, oppure alle contract forms redatte dalle grandi law firms anglo-americane in materia di franchising, di licencing, di project financing, di joint ventures, di M&A, ecc. – che grazie all’influenza e al prestigio di chi li ha predisposti vengono largamente usati anche fuori dalla cerchia ristretta dei rispettivi mercati nazionali, assurgendo così di fatto a strumenti internazionalmente accettati.

Ma qual è il rapporto che intercorre tra queste regole oggettive o – come pure a volte vengono enfaticamente chiamate – questo nuovo diritto autonomo del commercio internazionale o moderna lex mercatoria e il diritto uniforme a carattere legislativo?

Non sembra da condividere l’opinione di chi sostiene che, avendo gli stessi ambienti economici interessati già provveduto a darsi una regolamentazione dettagliata e rispondente alle effettive esigenze, qualsiasi pretesa di interferire dall’esterno, attraverso la elaborazione di una disciplina legislativa uniforme, sarebbe inopportuna e comunque destinata all’insuccesso.

Anzitutto non è esatta la premessa. Basta dare uno sguardo un poco più attento al preteso diritto autonomo del commercio internazionale, per rendersi conto che esso non è né autosufficiente né sempre soddisfacente. Le singole clausole, regole o modelli contrattuali disciplinano il più delle volte soltanto alcuni aspetti o problemi della rispettiva operazione economica. In più, come si è visto, si tratta ancora nella maggior parte di strumenti contrattuali non già sviluppatisi spontaneamente e con il consenso di tutti gli interessati, bensì unilateralmente predisposti ad opera di singole imprese o delle loro associazioni di categoria che nel rispettivo settore del traffico o sulla rispettiva piazza commerciale occupano una posizione dominante.

Stando così le cose, diventa naturalmente priva di fondamento anche la conclusione circa l’inopportunità o quanto meno l’inutilità di un intervento regolatore dall’esterno. Tutt’al più si potrà discutere se in ordine a tipi di operazioni commerciali già largamente disciplinati da regole elaborate dalla stessa pratica, convenga avvalersi del tradizionale mezzo della convenzione internazionale oppure non sia preferibile ricorrere a strumenti analoghi a quelli già adoperati nella pratica, ma, proprio perché provenienti da fonti neutrali, con un contenuto più equilibrato. In altre parole, invece di pretendere di imporre autoritativamente una disciplina legislativa la quale oltretutto rischierebbe per la sua stessa natura di essere poco elastica e necessariamente lacunosa, si potrebbe continuare ad affidarsi a regole o modelli contrattuali autenticamente internazionali, di cui già si è fatto cenno, e che grazie al prestigio dell’istanza predisponente e al loro contenuto più equo prima o poi non dovrebbero faticare a sostituirsi definitivamente agli analoghi strumenti unilaterali, di origine individuale o comunque nazionale.

2.4. L’unificazione dottrinale

Non rimane che accennare all’importante contributo recato al processo di unificazione dalla dottrina.

Già nella scelta delle materie da proporre come oggetto di un’eventuale unificazione, e poi, naturalmente, soprattutto in sede di elaborazione della normativa uniforme stessa non si può assolutamente prescindere da studi comparatistici diretti ad evidenziare le divergenze di approccio e/o di sostanza esistenti tra i singoli diritti nazionali di volta in volta interessati, nonché ad indicare le possibilità di un loro superamento.

Altrettanto evidente è l’importanza dell’apporto dottrinale in sede di interpretazione del diritto uniforme esistente. In proposito, anzi, è appena il caso di ricordare come a volte si tratti di qualcosa di più del normale dialogo tra dottrina e giurisprudenza in vista di una sempre migliore comprensione ed applicazione del dato normativo scritto. Si pensi all’ipotesi che il testo delle singole convenzioni venga corredato di un rapporto esplicativo redatto da uno o più esperti della materia e destinato, anche in mancanza di una sua formale approvazione da parte degli Stati contraenti, a costituire una fonte di consultazione pressoché obbligata per chiunque fosse in seguito chiamato ad interpretare ed applicare la disciplina uniforme. Oppure all’eventualità che – com’è successo di recente con riferimento alla Convenzione di Città del Capo relativa alle garanzie internazionali su beni mobili strumentali del 2001 – che i singoli legislatori nazionali – nel caso di specie il legislatore irlandese – all’atto di recepire lo strumento di diritto uniforme nel proprio ordinamento nazionale indichino un commentario compilato autonomamente da un esperto particolarmente qualificato della materia – nella fattispecie l’Official Commentary on the Convention on International Interests in Mobile Equipment and Protocol thereto on Matters Specific to Aircraft Equipment scritto da Roy Goode – quale fonte esclusiva per l’interpretazione di un determinato strumento di diritto uniforme.

Sempre in tema di apporto della dottrina per una migliore e internazionalmente uniforme interpretazione del diritto uniforme merita una menzione particolare l’Advisory Council of the United Nations Convention on Contracts for the International Sale of Goods (AC-CISG). Trattasi di un’iniziativa privata, promossa nel 2001 dalla Pace University School of Law di New York e avente per obiettivo di contribuire a una interpretazione uniforme, in particolare della Convenzione di Vienna, sulla vendita internazionale di merci. A tal fine è stato costituito un gruppo internazionale di esperti della materia (tra cui l’Autore di queste note), chiamato a fornire opinions, vale a dire una sorta di pareri pro veritate su singole questioni interpretative sorte nell’applicazione della Convenzione di Vienna. Legittimati a richiedere siffatti pareri sono in primo luogo organizzazioni internazionali interessate come la Camera di Commercio Internazionale, associazioni professionali nazionali o internazionali come la International Bar Association e singole corti o tribunali arbitrali, ma nulla toglie che richieste in tal senso pervengano da altre istanze. Tra le opinions finora pubblicate dall’AC-CISG si possono qui ricordare quelle in tema di commercio elettronico nel contesto della Convenzione di Vienna, di onere del compratore di esaminare le merci consegnate e di dare avviso di eventuali difetti riscontrati, di rilevanza (o irrilevanza) della c.d. parol evidence rule, di cause di esonero da responsabilità per inadempimento, di ammontare del danno da risarcire e di effetti della risoluzione del contratto. Pur trattandosi di pareri non vincolanti, essi hanno in genere riscontrato reazioni assai favorevoli in dottrina ed in alcuni casi sono stati addirittura citati da corti e tribunali arbitrali a sostegno delle loro decisioni.

Ma di unificazione o quanto meno armonizzazione del diritto ad opera della dottrina si può parlare anche con riguardo a progetti specifici.

Un primo esempio è costituito dai Restatements of the Law degli Stati Uniti, che fin dagli anni Trenta vengono redatti (e periodicamente aggiornati) a cura dell’élite accademica e forense del paese riunita intorno all’American Law Institute. Ufficialmente l’obiettivo è soltanto quello di esporre in maniera sistematica («re-state») lo stato del diritto nordamericano nelle materie (quali quelle dei contracts, dei torts, dell’agency, dei conflict of laws, della restitution, ecc.) tradizionalmente di competenza della common law dei singoli Stati dell’Unione. Senonché, riassumendo i risultati di questa ricerca comparatistica in vere e proprie proposizioni normative o «black letter rules», i redattori dei singoli Restatements di fatto finiscono spesso con il compiere delle scelte a favore di una tra le varie soluzioni fino allora praticate a livello statale, contribuendo in tal modo non poco ad influenzare per il futuro – uniformandolo – il diritto giurisprudenziale dell’intera nazione.

In tempi più recenti l’esperienza dei Restatements nordamericani è stata ripresa con successo – sia pure con gli opportuni adattamenti del caso – non solo a livello europeo, ma addirittura anche a livello universale, tanto da indurre un insigne esperto di diritto uniforme (Roy Goode) a parlare di questa particolare tecnica dell’unificazione come la più interessante novità dell’ultimo quarto del XX secolo («the most important development of the last quarter of the 20th century»).

A livello europeo, agli inizi degli anni Ottanta su iniziativa dell’insigne giurista danese Ole Lando venne istituita la «Commissione per il diritto europeo dei contratti» – conosciuta anche come «Commissione Lando» in onore del suo fondatore e presidente – composta di uno o due esperti di ciascuno Stato membro dell’allora Comunità europea ed in seguito Unione europea (per l’Italia C.M. Bianca [1982-1992], M.J. Bonell [1982-2001], C. Castronovo [1992-2001]) e incaricata di elaborare «Principi di diritto europeo dei contratti» (qui di seguito: Principi Europei). I Principi Europei sono stati pubblicati in tre successivi volumi: il primo nel 1995, contenente i capitoli sulle disposizioni generali, l’adempimento, l’inadempimento ed i rimedi relativi; il secondo nel 2000, contenente una versione rivista dei capitoli precedenti insieme ai nuovi capitoli sulla rappresentanza, la validità, l’interpretazione, il contenuto e gli effetti; il terzo nel 2003, contenente gli ulteriori capitoli sull’obbligazione con più soggetti, la cessione dei crediti, la sostituzione del debitore e la cessione del contratto, la compensazione, la prescrizione, la contrarietà a norme imperative, la condizione e la capitalizzazione degli interessi. Come si legge nell’Introduzione, i Principi Europei miravano al perseguimento di due obiettivi: nell’immediato, di essere utilizzati da contraenti di paesi diversi nella negoziazione e redazione dei loro contratti, da corti statali e tribunali arbitrali nella decisione di controversie e da legislatori nel predisporre normative in materia contrattuale sia a livello nazionale che europeo; a lungo termine, di contribuire all’armonizzazione del diritto dei contratti in generale nell’Unione Europea.

In vista di quest’ultimo obiettivo nel 2003 la Commissione CE ha avviato i lavori per la elaborazione di un c.d. «Quadro comune di riferimento» («Common Frame of Reference»), affidando ad un network internazionale di studiosi il compito di redigere «principi, definizioni e regole modello» sul diritto europeo dei contratti, senza tuttavia specificare con chiarezza quale fosse il risultato da raggiungere (elaborazione di un vero e proprio «strumento opzionale» o di un mero «contenitore» – tool-box – per facilitare l’interpretazione del diritto vigente e/o orientare la futura legislazione a livello europeo). Il progetto si è concretizzato in un’opera dottrinale, pubblicata nel 2009 in sei volumi ed estesa ad ampi settori del diritto privato patrimoniale, nella quale sono confluiti i Principi di diritto europeo.

È tuttavia nel 2010, con l’istituzione di un «Gruppo di esperti» ad hoc (come esperta per l’Italia è stata nominata Anna Veneziano), che la Commissione ha deciso di compiere il primo passo propriamente politico nella direzione di un diritto comune europeo dei contratti. Nella proposta di Regolamento sul «Diritto comune europeo della vendita» dell’ottobre 2011 la Commissione, riprendendo in parte i risultati dello Studio di Fattibilità elaborato dal gruppo di esperti, ha apertamente imboccato la strada di uno strumento opzionale a disposizione delle parti, utilizzabile nei contratti con i consumatori («B2C»), ma anche in quelli tra professionisti («B2B»). Nel contempo, l’ambito di applicazione dello strumento è stato drasticamente limitato alla vendita nonché ad alcuni servizi strettamente correlati. È ancora presto per sapere quale sarà il destino della proposta della Commissione; quello che è certo è che si tratta di un approccio del tutto nuovo nel panorama delle iniziative di uniformazione del diritto da parte delle istituzioni europee.

Ancora più ambiziosa si presenta l’iniziativa dell’Unidroit per la elaborazione di «Principi dei contratti commerciali internazionali» («Principles of International Commercial Contracts»). A differenza degli strumenti normativi europei appena ricordati, il cui ambito di applicazione è circoscritto ai paesi dell’Unione Europea (nel cui ambito intendono peraltro disciplinare anche i contratti con i consumatori), i Principi Unidroit sono destinati ad applicarsi ai contratti commerciali internazionali in generale ovverosia senza limitazioni geo-politiche (ma con l’esclusione dei contratti tra professionisti e consumatori) e come tali rappresentano una sorta di «codice» o restatement a vocazione universale del diritto dei contratti, inteso a rispecchiare tutti i principali sistemi giuridici del mondo e a soddisfare le esigenze dei rapporti commerciali Est-Ovest non meno che Nord-Sud.

Anche la elaborazione dei Principi Unidroit è avvenuta ad opera di esperti indipendenti, sia pure – differenza di non poco conto rispetto alla Commissione Lando – nominati da un’organizzazione intergovernamentale quale l’Unidroit, cui spettava anche l’approvazione definitiva del loro operato. Dopo i primi studi preparatori effettuati da un ristretto Steering Committee presieduto da René David, nel 1980 l’incarico di redigere il testo dei Principi Unidroit venne affidato ad un apposito Gruppo di lavoro, presieduto dallo scrivente e composto da esperti in materia di diritto contrattuale comparato ed internazionale – in prevalenza accademici e giudici – provenienti dalle più importanti aree giuridico-politiche del mondo (per l’Italia, oltre allo scrivente [dal 1980 ad oggi], A. Di Majo [1980 – 2003] e G. Alpa [dal 2005 ad oggi]). Nel prosieguo dei lavori – altra differenza rispetto alla Commissione Lando – alle riunioni del Gruppo vennero invitate a partecipare in qualità di osservatori anche altre organizzazioni internazionali interessate quali l’Uncitral e la Conferenza dell’Aja, come pure i principali organismi arbitrali o associazioni professionali come la Corte arbitrale internazionale della Camera di Commercio internazionale, la Camera arbitrale nazionale ed internazionale di Milano, l’Associazione arbitrale svizzera, l’American Arbitration Association, l’International Bar Association, Emirates International Law Center, ecc.

Pubblicati la prima volta nel 1994 e successivamente in una seconda, ampliata edizione nel 2004, nella loro attuale versione ulteriormente aggiornata e approvata nel 2010 i Principi Unidroit («Principi Unidroit 2010») si compongono di un Preambolo e di 211 articoli (contro i 185 dell’edizione del 2004 e i 120 della prima) suddivisi in 11 capitoli riguardanti le disposizioni generali, la formazione e la rappresentanza, la validità, l’interpretazione, il contenuto e i contratti a favore di terzi, l’adempimento e l’hardship, l’inadempimento e i rimedi, la compensazione, la cessione dei crediti, il trasferimento delle obbligazioni e la cessione di contratti, la prescrizione, e la pluralità dei debitori e dei creditori. Ogni articolo è corredato di commenti e, ove il caso, di esempi illustrativi aventi lo scopo di spiegare le ragioni su cui si fonda la regola enunciata e le diverse funzioni che la stessa può svolgere in pratica.

Fin dalla loro apparizione i Principi Unidroit hanno ricevuto un’accoglienza quanto mai favorevole. Nonostante la loro natura di strumento di soft law, i Principi Unidroit – salutati come «una codificazione di alta qualità ed omogeneità contenutistica che, per molti aspetti, persino sorpassa la qualità dei tradizionali diritti nazionali» (Frank Vischer) e come «un passo significativo verso la globalizzazione del pensiero giuridico» (Joseph M. Perillo) – riescono a dare un importante contributo allo sviluppo di un diritto autenticamente internazionale o «globale» dei contratti.

Per cominciare, una serie di legislazioni nazionali – primi fra tutti il nuovo codice civile della Federazione Russa e la legge cinese sui contratti del 1999, oppure i codici civili dell’Estonia o della Lituania, ma anche le recenti riforme del BGB tedesco o i progetti di riforma delle disposizioni generali sui contratti commerciali del codice di commercio spagnolo o il progetto di una legge uniforme dei contratti dell’Ohada – si sono ispirate in tutto o in parte ai Principi Unidroit. Né la funzione modello dei Principi Unidroit è limitata a progetti di riforma legislativa di sistemi di civil law. In effetti, anche nei paesi di common law le corti fanno sempre più spesso riferimento ai Principi Unidroit a sostegno di soluzioni più conformi agli orientamenti internazionalmente prevalenti: basti menzionare la rilevanza che con esplicito riferimento ai Principi Unidroit (oltre che alla Convenzione di Vienna) le corti australiane hanno ripetutamente accordato al principio di buona fede sia nel corso delle trattative contrattuali che nell’esecuzione del contratto, oppure il richiamo ai Principi Unidroit (e alla Convenzione di Vienna) effettuato dalle corti della Nuova Zelanda e ultimamente anche da quelle inglesi a sostegno di una interpretazione più estensiva e liberale dei contratti e dell’ammissibilità delle trattative pre-contrattuali quale mezzo per interpretare accordi conclusi per iscritto.

Inoltre – anche grazie al fatto che la versione integrale dei Principi Unidroit è disponibile in tutte le principali lingue internazionali (arabo, cinese, francese, giapponese, inglese, italiano, russo, spagnolo e tedesco) – essi vengono sempre più di frequente usati come guida nella redazione dei contratti commerciali internazionali o addirittura scelti come lex contractus tutte le volte che le parti desiderino evitare l’applicazione di qualsiasi diritto nazionale e preferiscano «de-nazionalizzare» il loro contratto sottoponendolo ad un regime giuridico autenticamente neutrale, a-nazionale o transnazionale.

Ma il contributo di gran lunga più significativo che i Principi Unidroit danno alla creazione di un contesto giuridico autenticamente internazionale o transnazionale per i contratti transfrontalieri è il ruolo che svolgono in sede contenziosa. Così, i Principi Unidroit vengono sempre più di frequente richiamati negli atti di citazione o nelle memorie difensive al fine di corroborare le argomentazioni ivi sviluppate e dimostrare che le stesse sono conformi a standard internazionalmente accolti. Inoltre – cosa ovviamente più importante ancora – gli stessi giudici e soprattutto gli arbitri si richiamano nelle loro decisioni a vario titolo ai Principi Unidroit.

A seconda del modo in cui i Principi Unidroit vengono utilizzati le decisioni in questione possono essere suddivise in tre categorie. Innanzitutto ci sono quelle – chiaramente le più importanti e tutte decisioni arbitrali – in cui i Principi Unidroit sono stati adottati quale legge applicabile al merito della controversia. A volte ciò è avvenuto per espressa volontà delle parti dichiarata nello stesso contratto o comunque in apertura del procedimento arbitrale. Più spesso, comunque, i contratti che avevano dato origine alla disputa rinviavano semplicemente ai «principi generali di diritto», ai «principi di diritto internazionale», alla «lex mercatoria», ecc. quale lex contractus, e il tribunale arbitrale ha applicato i Principi Unidroit argomentando che gli stessi rappresentano una fonte di cognizione particolarmente autorevole per la determinazione del contenuto di siffatti principi e regole di diritto sovranazionali o transnazionali. Di recente poi, si registra un numero crescente di casi in cui i tribunali arbitrali sono andati anche oltre ed hanno applicato i Principi Unidroit – da soli o congiuntamente al diritto nazionale altrimenti applicabile – in assenza di una qualsiasi clausola di scelta del diritto applicabile nel contratto. In un secondo gruppo di decisioni – che includono anche decisioni di corti statali – i Principi Unidroit sono stati utilizzati per interpretare o integrare strumenti internazionali di diritto uniforme. Per evidenti ragioni, la maggior parte di queste decisioni concernono la Convenzione di Vienna, ma non mancano comunque casi in cui i Principi Unidroit sono stati utilizzati per interpretare altri strumenti internazionali. In una terza categoria di decisioni – che, incidentalmente, rappresentano quasi la metà dei casi riportati e nuovamente includono anche un certo numero di sentenze di corti statali – i Principi Unidroit sono stati richiamati nell’applicare un determinato diritto statale. A dire il vero, il più delle volte le singole disposizioni dei Principi Unidroit sono state citate essenzialmente per dimostrare che la soluzione adottata in base al diritto nazionale applicabile era conforme ai principi e agli standard più accreditati a livello internazionale. Senonché, in una serie di altri casi, le corti statali e i tribunali arbitrali hanno fatto ricorso ai Principi Unidroit a sostegno dell’adozione di una tra più possibili soluzioni da potersi adottare alla stregua del diritto nazionale applicabile oppure per colmare una lacuna di quest’ultimo. Ancor più significativo è il fatto che i diritti nazionali in questione non erano solo quelli di paesi meno sviluppati o in fase di transizione verso un’economia di mercato. Vi figurano anche, tra gli altri, i diritti dell’Australia, della Francia, dell’Italia, della Nuova Zelanda, della Spagna, della Svizzera e dello Stato di New York, a conferma che persino sistemi giuridici altamente sofisticati non sempre dispongono di soluzioni chiare e/o rispondenti alle esigenze delle contrattazioni internazionali, mentre i Principi Unidroit possono ovviare a tali insufficienze.

Il successo dei Principi Unidroit – osserva acutamente Francesco Galgano – potrà non piacere a chi è stato educato all’idea della statualità del diritto e confida nella formazione del diritto ad opera delle assemblee elettive. Tuttavia, se è vero che i Principi Unidroit difettano diquesta legittimazione democratica, è innegabile che contenutisticamente cercano di realizzare il giusto punto di equilibrio fra le ragioni dell’impresa e le esigenze di protezione del contraente debole: opera di tecnodemocrazia, dunque, se proprio si vuole, quella dei Principi Unidroit ma, a differenza della lex mercatoria unilateralmente creata dalla classe imprenditoriale, opera di tecnodemocrazia illuminata.

3. Unificazione del diritto e circolazione dei modelli

Di una circolazione di modelli giuridici nell’ambito del processo di unificazione internazionale del diritto si può parlare in più sensi, a vari livelli e in diversi modi.

La prima distinzione da operare riguarda la direzione in cui si attua la circolazione. L’ipotesi normale è indubbiamente quella del travaso di modelli dagli ordinamenti nazionali verso la disciplina di diritto uniforme, ma vi possono anche essere dei casi in cui sono viceversa le soluzioni elaborate a livello internazionale ad essere imitate dai singoli legislatori statali anche al di là dell’ambito di applicazione dello stesso diritto uniforme. Così, la Convenzione di Bruxelles sulla polizza di carico del 1924 da un lato rappresenta in massima parte una semplice riproduzione delle clausole contenute nelle polizze-tipo in uso negli ambienti armatoriali inglesi dell’epoca; dall’altro lato, pur essendo l’ambito di applicazione della Convenzione stessa circoscritto ai trasporti marittimi internazionali, numerosi Stati, tra cui l’Italia, ne hanno recepito i tratti essenziali anche nella disciplina dei trasporti tra porti nazionali. Altrettanto può dirsi –mutatis mutandis – con riguardo alla Convenzione di Varsavia del 1929 sul trasporto aereo internazionale: essa appare decisamente modellata, sia nella forma che nella sostanza, su schemi e principi di stampo continental-europeo; eppure all’atto di introdurla nei propri ordinamenti interni alcuni paesi di common law, tra cui lo stesso Regno Unito, ne hanno spontaneamente esteso l’applicazione anche ai trasporti puramente nazionali. Proprio nel settore del trasporto aereo, comunque, la situazione si è nel frattempo notevolmente complicata: ed infatti, in seguito all’entrata in vigore della nuova Convenzione di Montreal per l’unificazione di alcune norme relative al trasporto aereo internazionale del 1999 vige ormai un diverso regime di responsabilità per i trasporti internazionali di persone e dei loro bagagli e i trasporti internazionali di merci; come se non bastasse, all’interno dell’Unione Europea il Regolamento CE n. 889/2002 ha esteso la nuova disciplina di diritto uniforme anche ai voli nazionali ma soltanto con riguardo ai trasporti di persone e di bagagli, con la conseguenza che per i trasporti di merci continua a sussistere un regime di responsabilità differenziato a seconda che si tratti di voli internazionali oppure di voli all’interno di un singolo Stato membro.

A volte, poi, più che di circolazione, sarebbe più corretto parlare di vera e propria invenzione di modelli, visto che le soluzioni raggiunte in sede di elaborazione del diritto uniforme a ben guardare non trovano un diretto riscontro in alcuno dei modelli preesistenti. Si pensi ad es. al regime di responsabilità per colpa presunta, ma limitata quanto alla misura del danno da risarcire, com’è prevista a carico del vettore dalla Convenzione di Amburgo sul trasporto marittimo di merci del 1978 (e forse proprio per questo vista con sfavore dai paesi con prevalenti interessi amatoriali, tant’è che al suo posto è subentrata la recente Convenzione delle Nazioni Unite sui contratti di trasporto internazionale di merci interamente o parzialmente effettuati via mare, c.d. «Regole di Rotterdam», del 2008); oppure al modo unitario con cui la Convenzione di Vienna disciplina le varie ipotesi di inadempimento del venditore non meno che del compratore, nonché i rimedi di volta in volta concessi; ancora, al particolare sistema di rappresentanza diretta sancito dalla Convenzione di Ginevra sulla rappresentanza nella vendita internazionale di merci del 1983 (e ripreso, almeno nelle sue linee essenziali, dai Principi Unidroit) e consistente nell’irrilevanza, come regola generale, della c.d. spendita del nome ai fini della produzione degli effetti dell’atto del rappresentante direttamente nella sfera giuridica del rappresentato, e nella negazione di una siffatta efficacia diretta soltanto qualora il terzo non sapeva di concludere con un rappresentante oppure questo si era qualificato espressamente come commissionario o ha altrimenti lasciato intendere di voler vincolare soltanto se stesso; oppure, alla disciplina prevista dalla Convenzione delle Nazioni Unite sulla cambiale internazionale del 1988 per il caso di circolazione c.d. irregolare o anomala del titolo, secondo la quale, se da un lato viene considerato legittimo possessore colui che in buona fede acquisti il titolo sulla base di una serie continua di girate, anche se una di esse dovesse essere falsa o apposta da un rappresentante senza poteri, dall’altro lato si attribuisce al portatore indebitamente spogliato del titolo un diritto al risarcimento del danno non soltanto nei confronti del falsificatore o del rappresentante senza poteri, ma anche di colui che da questi ha direttamente acquistato il titolo; infine, alla nuova figura di garanzia internazionale («international interest») creata dalla Convenzione di Città del Capo relativa alle garanzie internazionali su beni mobili strumentali, del 2001, e che, per quanto chiaramente modellata sull’esempio dei security interests di cui all’Article 9 dello Uniform Commercial Code nordamericano, presenta tuttavia una serie di tratti affatto originali da farne una figura autonoma.

Sempre nell’ambito del diritto uniforme si può infine distinguere tra una circolazione formale o palese, e una circolazione informale o non dichiarata dei modelli.

La prima ipotesi è senz’altro quella normale e si verifica anzitutto ogniqualvolta la disciplina uniforme elaborata a livello internazionale non preveda soluzioni originali ma riprenda in tutto o in parte modelli già esistenti a livello nazionale. In effetti, sia che si tratti di una convenzione internazionale negoziata tra Stati, di strumenti contrattuali predisposti da associazioni di categoria o di restatements redatti da esponenti della dottrina, la disciplina uniforme di volta in volta elaborata rappresenta in ogni caso il risultato di una scelta deliberata da parte dei suoi artefici. Ed anche se la preferenza accordata a questo o a quest’altro modello nazionale non viene espressamente dichiarata, essa risulta oggettivamente consacrata nel testo normativo approvato e come tale si manifesta a tutti.

Ma di circolazione di modelli palese si può parlare anche in tutte le ipotesi in cui sia viceversa la disciplina uniforme ad essere presa a modello per la riforma di un determinato diritto nazionale. Il caso più eclatante è ovviamente quello in cui la disciplina uniforme, originariamente limitata ai soli rapporti c.d. internazionali, venga per volontà dei legislatori nazionali estesa anche ai rapporti puramente interni. Né ciò deve necessariamente avvenire in modo diretto e formale, com’è accaduto recentemente nell’ambito dell’Unione Europea con l’estensione dell’ambito di applicazione della Convenzione di Montreal del 1999 sul trasporto aereo internazionale anche ai trasporti interni di persone e di bagagli. Lo dimostra il caso della Convenzione di Vienna la quale non è mai stata formalmente recepita come normativa applicabile anche alle vendite puramente interne, ma al tempo stesso in numerosi paesi (ad es. nei paesi scandinavi, in Germania, in Russia e in Cina) è stata presa come modello per la riforma delle rispettive normative nazionali, per non parlare dell’influenza che ha avuto nella elaborazione della direttiva CE 44/1999 su taluni aspetti della vendita e delle garanzie dei beni di consumo e della recentissima proposta di Regolamento sul diritto comune europeo della vendita. Inoltre, la recezione di singoli principi o regole di diritto uniforme può avvenire anche soltanto a livello giurisprudenziale. Si è già fatto cenno a recenti decisioni di corti australiane, neozelandesi ed inglesi in cui i Principi Unidroit (e la Convenzione di Vienna) vengono apertamente indicati come modelli cui ispirarsi per rivedere le tradizionali soluzioni adottate a livello nazionale in tema di rilevanza della buona fede nella formazione ed esecuzione dei contratti oppure in tema di interpretazione degli accordi scritti. A ciò si può qui aggiungere, ovviamente con le dovute differenziazioni del caso, il trattamento riservato ad es. dalla giurisprudenza italiana ai c.d. contratti autonomi di garanzia («independent» o «on demand guarantees»): e infatti, in deroga al principio della sussidiarietà dell’obbligazione fideiussoria le nostre corti hanno riconosciuto la piena validità di siffatta forma di garanzia, richiamandosi per l’occasione all’origine internazionale dell’istituto e al fatto che lo stesso venisse considerato come perfettamente valido in praticamente tutte le «nazioni di civiltà affine» alla nostra.

Passando alla circolazione informale o non dichiarata dei modelli, si tratta di un’ipotesi che, se avviene, si colloca necessariamente in una fase successiva all’emanazione della disciplina uniforme. Già si è avuto modo di sottolineare come con l’approvazione del testo di diritto uniforme a livello internazionale e la sua incorporazione nei singoli ordinamenti statali si concluda soltanto una prima fase del processo di unificazione, e che per la sua completa realizzazione sia indispensabile che la nuova normativa venga in seguito interpretata ed applicata uniformemente nei diversi paesi. Ebbene, è precisamente in questa ulteriore fase che si può verificare una nuova circolazione di modelli, non più a livello legislativo, bensì ad opera della dottrina e della giurisprudenza, le quali, infatti, possono distorcere il vero significato della normativa uniforme interpretando i suoi termini e concetti, anziché in via autonoma, secondo il significato che essi tradizionalmente assumono all’interno del proprio ordinamento nazionale. Un siffatto ricorso a modelli interpretativi nazionali avviene spesso in modo inconsapevole o comunque quasi mai con la dichiarata intenzione di privilegiare il proprio modello nazionale rispetto al modello di diritto uniforme: eppure il risultato non cambia, nel senso che pur sempre di una circolazione di modelli si tratta, per di più caratterizzata dal fatto di procedere esattamente a ritroso del cammino che era stato percorso in precedenza per superare le diversità tra i singoli diritti positivi nazionali e giungere all’uniformità a livello internazionale.

Proprio perché quest’ultima forma di circolazione di modelli rappresenta un fenomeno più diffuso di quanto comunemente si creda – basti pensare ad es. ad una certa giurisprudenza nordamericana secondo cui nell’interpretazione della Convenzione di Vienna il ricorso alle soluzioni elaborate a livello domestico con riguardo allo Uniform Commercial Code sarebbe del tutto legittimo ogniqualvolta le due normative contengano disposizioni sostanzialmente identiche o comunque simili; oppure alla tendenza di alcune corti continental-europee a interpretare la nozione di «termine ragionevole» entro il quale alla stregua dell’art. 39 della Convenzione di Vienna il compratore deve dare avviso dei difetti riscontrati nella merce, applicando i termini brevi e rigidi all’uopo fissati dalla propria legislazione interna – non si possono che salutare con estremo favore le ricordate iniziative volte alla raccolta e diffusione sistematica e possibilmente completa di tutte le decisioni nazionali rese in applicazione di singoli strumenti di diritto uniforme. È evidente, infatti, che più si promuove la conoscenza delle diverse esperienze nazionali, consentendone un raffronto diretto ed immediato, più aumentano le probabilità che il diritto uniforme venga ovunque applicato in maniera sostanzialmente identica o quanto meno si riesca ad evitare che vengano privilegiati determinati modelli interpretativi rispetto a certi altri, per il solo fatto di promanare da paesi importanti e/o di essere più facilmente accessibili, non foss’altro che per una questione di lingua. Lo dimostra in modo esemplare una sentenza del Tribunale di Vigevano del 12 luglio 2000 (vedila in www.unilex.info) in cui, dovendo pronunciarsi sulla tempestività o meno della denuncia dei difetti da parte del compratore alla stregua dell’art. 39 della Convenzione di Vienna, la Corte non soltanto seppe resistere alla tentazione di applicare semplicemente il termine di otto giorni stabilito dall’art. 1495, c. 1, cod. civ., ma richiamandosi ai precedenti forniti al riguardo da numerose decisioni straniere (da essa reperite tramite le banche dati specializzate, tra cui Unilex) ha – correttamente – deciso che nel sistema della Convenzione di Vienna «la tempestività della denuncia [...] va determinata caso per caso, tenendo conto delle circostanze della fattispecie concreta [...] tenendo presente, fra l’altro, la natura dei beni oggetto della compravendita».

4. Unificazione del diritto ed esigenze di riforma

È innegabile che per molto tempo l’unificazione del diritto è stata considerata come fine a se stessa. In altre parole, sorta nell’epoca in cui si cominciavano ad avvertire i primi effetti negativi dell’avvenuta divisione del mondo in una serie di ordinamenti nazionali, la tendenza verso una progressiva unificazione del diritto è stata in genere vista esclusivamente sotto il profilo formale del raggiungimento di una sempre maggiore uniformità internazionale nella regolamentazione giuridica dei singoli rapporti. Si partiva dalla constatazione della coesistenza di diverse discipline positive nazionali, questo dato di fatto veniva considerato aprioristicamente come un dato negativo e si apprezzavano i vari sforzi che venivano compiuti per giungere ad una progressiva unificazione o armonizzazione internazionale unicamente sotto il profilo della loro maggiore o minore idoneità a superare gli esistenti contrasti e conflitti tra i singoli sistemi nazionali.

Prova ne è che il più delle volte le materie, in ordine alle quali tentare di giungere a una regolamentazione uniforme, venivano prescelte non già sulla base di valutazioni intrinseche, tenuto conto, cioè, delle effettive esigenze di una loro disciplina nuova oltre che uniforme, bensì muovendo dalla semplice constatazione che le stesse risultavano regolate all’interno dei singoli ordinamenti nazionali in maniera difforme, e che vi erano comunque buone probabilità di giungere ad una loro disciplina unitaria. Né le cose cambiano, qualora si abbia riguardo ai metodi seguiti nella elaborazione della legislazione uniforme, nonché ai risultati alla fine raggiunti. In effetti, proprio perché l’unico obiettivo era quello della realizzazione di una unificazione del diritto a livello possibilmente universale, la ricerca della soluzione di compromesso, del minimo denominatore comune assurgeva a metodo di lavoro predominante. Per quanto concerne poi il risultato finale, ciò che in primo luogo contava era la sua accettazione da parte del maggior numero possibile di Stati, mentre assai meno importava che la rispettiva normativa dal punto di vista contenutistico, anziché il frutto di un organico disegno rinnovatore, risultava essere poco più di un collage di principi e regole tratte dai più diversi sistemi positivi nazionali.

Con ciò non si intende qui certamente negare che l’unificazione o armonizzazione del diritto non rappresenti normalmente un obiettivo meritevole di essere perseguito. Di fronte allo sviluppo senza precedenti degli scambi commerciali internazionali, nonché più in generale, alla sempre maggiore mobilità di persone e di cose con il conseguente aumento di rapporti trascendenti l’ambito ristretto di un determinato ordinamento statale anche al di fuori del commercio, non si può non guardare con preoccupazione al perdurare di differenze, a volte anche sensibili, tra i singoli diritti nazionali, e agli inevitabili conflitti e alle incertezze che ne derivano. Quanto ai conflitti, si potrebbe anche cercare di risolverli adottandosi ovunque delle regole di diritto internazionale privato uniformi. Trattasi peraltro di una soluzione la quale, oltre ad essere già di per se stessa difficilmente realizzabile, non riuscirebbe comunque a eliminare l’incertezza circa il contenuto del diritto che alla fine risulterebbe applicabile.

Non dunque l’unificazione del diritto in quanto tale è da criticare, ma soltanto l’idea che essa rappresenti un valore assoluto e quindi possa, anzi debba, essere perseguita senza tener conto, da una parte, del tipo di disciplina positiva che nell’ambito dei singoli ordinamenti si pretende di sostituire e, dall’altra parte, del tipo di regolamento uniforme che si intende predisporre a livello internazionale.

Per quanto concerne la scelta delle materie da sottoporre all’unificazione, è appena il caso di avvertire che il semplice fatto che tra i singoli diritti nazionali esistono delle divergenze e che le stesse non appaiono insuperabili non può costituire, da solo, un valido motivo per intervenire. Senza la prospettiva di realizzare un miglioramento anche sotto il profilo contenutistico risulterebbe difficile giustificare il dispendio di risorse necessario per l’elaborazione e messa in opera di una disciplina uniforme.

Ma vi è di più. Almeno con riferimento ai rapporti commerciali, fino a poco tempo fa era pacifico che i tentativi di unificazione internazionale dovessero riguardare prevalentemente, se non esclusivamente, materie che all’interno dei singoli ordinamenti statali fossero regolate da norme a carattere dispositivo, senza toccare quindi le materie di diritto cogente. Prova ne è che, se si eccettuano le convenzioni in materia di trasporti, praticamente tutte le altre convenzioni internazionali più importanti elaborate nel corso del secolo passato sono di natura dispositiva ovverosia si applicano – in sostituzione dei singoli diritti nazionali – soltanto se ed in quanto non esclusi in tutto o derogati parzialmente dalle parti. L’esempio più eclatante è costituito dalla Convenzione di Vienna la quale, oltre a statuire espressamente questo principio (art. 6), si guarda bene dall’interferire con le singole discipline nazionali in tema di forma e di validità del contratto di vendita, nonché degli effetti dello stesso sul trasferimento della proprietà sulla merce (art. 4).

Senonché, come è stato giustamente sottolineato (Roy Goode), la Convenzione di Vienna con ogni probabilità è stata l’ultima convenzione di puro diritto dispositivo elaborata a livello internazionale. Ormai è convinzione sempre più diffusa che nelle materie di diritto dispositivo sia preferibile lasciare agli stessi operatori economici la scelta del tipo di regolamentazione da adottare nei loro rapporti d’affari – tutt’al più elaborando a livello internazionale dei contratti-tipo contenutisticamente più equilibrati rispetto ad analoghi strumenti unilateralmente predisposti da singole imprese o associazioni di imprese nazionali – e affidare la funzione di fonte integrativa o gap-filling a «codificazioni» o restatements di origine dottrinale, come i Principi Unidroit, più facilmente adattabili alle mutevoli esigenze dei traffici rispetto ai tradizionali strumenti legislativi di diritto uniforme.

Viceversa, sono sempre di più le materie sottratte alla libera disponibilità delle parti e come tali considerate fino a poco tempo fa di esclusiva competenza dei singoli legislatori nazionali, a formare oggetto di tentativi di unificazione a livello internazionale o regionale. Sempre limitandoci al diritto contrattuale, basti pensare, per quanto concerne l’Unione Europea, alla proliferazione di direttive comunitarie volte all’armonizzazione (di singoli aspetti) del diritto dei contratti dei consumatori. Per quanto concerne invece i rapporti commerciali internazionali, si possono ricordare la Convenzione delle Nazioni Unite sui contratti autonomi di garanzia del 1996 (che con riferimento alle ipotesi di frode da parte del beneficiario fissa i criteri per stabilire quando la banca può legittimamente rifiutarsi di pagare o l’ordinante ottenere dall’autorità giudiziaria un’ingiunzione di non pagare); la Convenzione delle Nazioni Unite sulla cessione dei crediti del 2001 (che disciplina gli effetti della cessione nei confronti, oltre che del debitore ceduto, anche di eventuali altri cessionari dello stesso diritto di credito, nonché dei creditori del cedente o del cessionario); infine e soprattutto, la già ricordata Convenzione di Città del Capo relativa alle garanzie internazionali su beni mobili strumentali del 2001, insieme al coevo Protocollo c.d. aeronautico e al Protocollo c.d. ferroviario del 2007 (in corso di elaborazione è un terzo Protocollo relativo ai cd. «beni spaziali» come i satelliti), che nell’istituire una nuova forma di garanzia internazionale sui beni strumentali in questione, ne disciplina non soltanto le modalità di costituzione e di registrazione presso un apposito «Registro internazionale», ma altresì le misure di esecuzione a disposizione del creditore garantito in caso di inadempimento del debitore nonché i suoi effetti nei confronti dei terzi, in particolare nelle procedure concorsuali a carico del debitore.

Ma non basta. Ad ulteriore conferma del «nuovo corso» che ormai caratterizza il processo di unificazione internazionale del diritto è appena il caso di ricordare come gli interventi in materie tradizionalmente regolate da norme imperative non avvengano unicamente con strumenti legislativi concordati tra Stati, ma addirittura anche con strumenti non vincolanti o di mero soft law predisposti da organizzazioni internazionali senza alcun potere normativo diretto. Gli esempi più eclatanti sono la legge modello Uncitral sull’arbitrato commerciale internazionale (Uncitral Model Law on International Commercial Arbitration) del 1985, ormai recepita più o meno in blocco da una cinquantina di paesi in tutto il mondo, i «Principi di procedura civile transnazionale» («Principles of Transnational Civil Procedure») del 2004, elaborati dall’American Law Institute e dall’Unidroit e volti ad enunciare i principi fondamentali da seguire nei procedimenti giudiziari aventi per oggetto controversie a carattere transnazionale, nonché – last but not least – gli stessi Principi Unidroit, i quali – come già si è avuto modo di ricordare – consistono non soltanto di norme suppletive applicabili in assenza di una diversa regolamentazione concordata tra le parti, ma anche di norme imperative riguardanti ad es. la responsabilità precontrattuale, i vizi del consenso, le clausole di esonero e le clausole penali, la prescrizione, oltre a disciplinare rapporti trilateri come la rappresentanza, il contratto a favore di terzi, nonché la cessione dei crediti, il trasferimento delle obbligazioni e la cessione dei contratti.

Per quanto concerne il tipo di disciplina uniforme che si intende elaborare, il primo problema riguarda naturalmente la determinazione del suo ambito di applicazione. Più esattamente, si deve cercare di realizzare un’unificazione completa, riguardante, cioè, i comuni rapporti domestici non meno che i rapporti c.d. internazionali, oppure è preferibile delimitare l’oggetto della progettata regolamentazione uniforme a questi ultimi, lasciando che ai primi continuino ad applicarsi le rispettive discipline positive nazionali?

È noto come nella pratica sia stato finora nettamente privilegiato il secondo approccio, e ciò in base ad una serie di considerazioni tutt’altro che trascurabili.

Anzitutto, si sostiene, le ipotesi di conflitto tra le diverse discipline nazionali si determinano per definizione soltanto in occasione di fattispecie che presentano dei punti di contatto con più di un ordinamento statale; in più, non c’è dubbio che la disponibilità degli Stati ad accettare una nuova regolamentazione uniforme sarà più grande, se resta intatta la loro competenza esclusiva a disciplinare i rapporti interni; infine, si ricorda, a volte i rapporti internazionali presentano nella stessa realtà socio-economica una loro fisionomia particolare tanto da giustificare anche dal punto di vista sostanziale la ricerca e l’applicazione rispetto ad essi di una normativa diversa da quella prevista per i comuni rapporti domestici.

Senza volere qui sminuire l’importanza delle prime due spiegazioni, è evidente come la più convincente sia proprio quest’ultima, anche se in ordine alla stessa conviene forse fare una precisazione. In effetti, quel che in ultima analisi importa non è tanto la pretesa diversità ontologica tra i due tipi di rapporti, quanto il fatto che il più delle volte variano quanto meno le condizioni socio-economiche in cui gli uni e gli altri si svolgono. Proprio per questo motivo gli stessi Stati tendono in genere ad applicare ai rapporti internazionali principi e criteri normativi in parte anche notevolmente diversi – leggi: più liberali – da quelli che pretendono invece di fare valere rispetto ai comuni rapporti domestici. Né potrebbe essere diversamente. Anzitutto, perché i rapporti internazionali si svolgono in prevalenza tra soggetti trovantisi in una posizione contrattuale sostanzialmente uguale, per cui viene meno la necessità di accordare quella particolare tutela prevista all’interno a favore del contraente più debole; in secondo luogo, non si deve dimenticare come uno dei principali interessi degli Stati contemporanei sia quello di favorire al massimo il proprio commercio con l’estero: da qui la necessità di consentire ai propri operatori economici di svolgere la loro attività a livello internazionale nella più ampia libertà o quanto meno alle stesse condizioni riservate dagli altri Stati alle proprie imprese, anche se ciò dovesse comportare la parziale rinuncia a principi e valori considerati cogenti nel proprio ambito interno.

Una volta definito l’ambito di applicazione della progettata disciplina uniforme, si pone naturalmente il problema dei criteri da seguire per l’elaborazione del suo contenuto.

Disciplinandosi esclusivamente i rapporti internazionali, sembrerebbe giocoforza badare principalmente alle reali esigenze che si pongono nella prassi del commercio internazionale e ricercare entro questi limiti una convergenza tra le posizioni eventualmente confliggenti dei singoli Stati, mentre questi ultimi non dovrebbero cedere alla tentazione di insistere, per semplici ragioni di prestigio, su delle soluzioni adottate nel proprio ambito interno in funzione di interessi ed esigenze assai diversi. Inoltre, delimitandosi il progetto di unificazione ai soli rapporti internazionali, diventa possibile coinvolgere nell’iniziativa il maggior numero possibile di Stati, indipendentemente dalla loro struttura economico-sociale interna o dalla loro appartenenza a questa o a quest’altra famiglia giuridica. Se poi la normativa uniforme si propone addirittura l’ambizioso obiettivo di fornire strumenti nuovi in grado di ridurre sensibilmente i costi e rischi connessi con determinati tipi di operazioni transfrontaliere, gli Stati avrebbero addirittura un incentivo economico per aderirvi, non fosse altro che per beneficiare (o fare beneficiare le proprie imprese direttamente interessate) dei risparmi prospettati. Si pensi ad es. al nuovo diritto di garanzia internazionale sugli aeromobili istituito dalla Convenzione di Città del Capo e dall’annesso Protocollo c.d. aeronautico del 2001, che ove introdotto nei paesi importatori di aeromobili ridurrebbe secondo stime attendibili di oltre il 30% i prezzi di vendita o i canoni di leasing attualmente praticati.

Diverso invece è il discorso da farsi con riferimento all’ipotesi di una unificazione integrale, riguardante, cioè, anche la disciplina dei comuni rapporti interni. In questo caso, infatti, si tratta non più di elaborare una nuova regolamentazione uniforme da aggiungere a quella attualmente prevista dai singoli Stati, bensì di realizzare una vera e propria integrazione o un livellamento tra i rispettivi diritti positivi nazionali. Senonché, come già si è avuto modo di sottolineare, oggigiorno questi ultimi possono considerarsi meno che mai come sistemi normativi astratti, ma al contrario si propongono di perseguire anche nell’ambito dei rapporti privati precisi interessi di carattere politico e sociale.

Occorrerà pertanto in primo luogo stabilire se ed entro quali limiti sia possibile trovare un punto di incontro tra le rispettive politiche del diritto nazionali. In questo modo non si tarderà a riconoscere che, salvo rarissime eccezioni, una unificazione del diritto nel senso di cui qui si discute potrà essere realisticamente tentata soltanto tra Stati già in qualche modo legati tra di loro da valutazioni e interessi di carattere politico, economico e sociale comuni. In alcuni casi, anzi, essi dovrebbero addirittura seguire una politica economica e sociale unitaria: si pensi ad es. alla disciplina delle società commerciali e alla impossibilità di procedere ad una sua unificazione, se a questa non si accompagna un coordinamento tra le singole politiche nazionali in materia fiscale o per quanto concerne il mercato mobiliare, il diritto del lavoro, le relazioni industriali, ecc. Trattasi peraltro di condizioni che – inutile qui ricordarlo – attualmente valgono soltanto per un ristretto numero di Stati.

Da qui una seconda considerazione di carattere generale: proprio perché il più delle volte mancano le premesse di fondo per potersi procedere ad una unificazione in senso stretto dei diversi sistemi positivi nazionali, converrebbe accontentarsi, quanto meno in un primo momento, con una loro unificazione in senso ampio o semplice armonizzazione. In altre parole, a livello internazionale o sopranazionale ci si dovrebbe limitare a fissare i soli principi e le norme-cardine, lasciandosi ai legislatori nazionali il compito di introdurli nel proprio ambito interno con i necessari adattamenti e le integrazioni del caso.

Una terza ed ultima considerazione: proprio perché per le ragioni appena accennate un disegno di unificazione dei singoli diritti positivi nazionali sembra proponibile soltanto con riferimento ad un gruppo sufficientemente omogeneo di Stati, esso dovrebbe costituire un mezzo non già per smorzare o livellare verso il basso, bensì per rafforzare o livellare verso l’alto le politiche di riforma eventualmente manifestatesi nel rispettivo ambito interno. Oltretutto non è un segreto che all’interno dei singoli Stati la volontà di rinnovamento sovente si scontra con l’opposizione di quanti viceversa hanno tutto l’interesse a mantenere lo status quo: ebbene, anche questa resistenza potrebbe essere più facilmente superata, qualora si arrivasse ad una politica di riforma concordata tra più Stati, scegliendosi all’uopo il modello più avanzato e collaudato.

Bibliografia

Tra le opere di carattere generale si possono qui ricordare J. Hamel, Perspectives et limites de l’unification di droit privé, in Unidroit (a cura di), Actes du Congrès International de droit privé tenu à Rome en Juillet 1950, Rome 1951, pp. 61 sgg.; M. Matteucci, Introduction à l’étude systématique du droit uniforme, in Recueil des Cours de l’Académie de Droit international de La Haye, t. 91 (1957, I), pp. 387 sgg.; A. Malintoppi, Les rapports entre droit uniforme et droit international privé, ivi, t. 116 (1965, III), pp. 1 sgg.; R. David, The International Unification of Private Law, in International Encyclopedia of Comparative Law, vol. II, cap. 5, The Legal Systems of the World. Their Comparison and Unification, Tübingen-The Hague-Paris-New York 1971; J. Kropholler, Internationales Einheitsrecht, Tübingen 1975; S. Ferreri, Le fonti normative di produzione non nazionale, Torino 1984; nonché i volumi collettanei di M. Cappelletti (a cura di), New Perspectives for a Common Law of Europe, Florence 1978; AA.VV., Rechtsvereinheitlichung und Rechtsangleichung, in Rabels Zeitschrift für ausländisches und internationales Privatrecht, 1986, pp. 50 sgg.; Unidroit (a cura di), International Uniform Law in Practice, in Acts and Proceedings of the 3th Congress of Private Law, Rome 7-10 September 1987, Rome-New York 1988; Unidroit (a cura di), Worldwide Harmonisation of Private Law and Regional Economic Integration, Acts and Proceedings of the Congress to Celebrate the 75th Anniversary of the Founding of the International Institute for the Unification of Private Law (Unidroit), Rome 27-28 September 2002, in Uniform Law Review 2003, 1-593; M.J. Bonell, Do We Need A Global Commercial Code?, in Dickinson Law Review (2001, 106), pp. 87 sgg.; E. Kramer, Nationale Privatrechtskodificationen, internationale Privatrechtsvereinheitlichung und Privatrechtsvergleichung zu Beginn des neuen Jahrhunderts, in Zeitschrift für Schweizerisches Recht 2005, pp. 421 sgg.; F. Galgano, La globalizzazione nello specchio del diritto, Bologna 2005, pp. 43 sgg.; R. Goode, Rule, Practice and Pragmatism in Transnational Commercial Law, in International & Comparative Law Quarterly (2005, 54), pp. 539 sgg.; C. Amato, G. Ponzanelli (a cura di), Global Law v. Local Law. Problemi della globalizzazione giuridica, Atti del XVII Colloquio biennale dell’Associazione Italiana di diritto comparato, Brescia 12-14 maggio 2005, Torino 2006; M.J. Bonell, The CISG, European Contract Law and the Development of a World Contract Law, in The American Journal of Comparative Law, 2007, vol. 56, pp. 301 sgg.; O. Lando, Tradition versus Harmonization in the Recent Reforms of Contract Law, in Xiamen Academy of International Law, Collected Courses 2010, 2011, vol. 3, pp. 81 sgg.

Con riferimento ad esperienze e progetti di unificazione a livello regionale vedi in generale H. Kronke e J. Basedow in Unidroit (a cura di), Worldwide Harmonisation of Private Law and Regional Economic Integration cit., rispettivamente a pp. 10 sgg. e 31 sgg.

Con particolare riferimento al progetto di un Codice civile europeo, vedi i primi contributi di E. Hondius, W. Van Gerven, W. Tilman, K.D. Karameus, W. Snijders, U. Drobnig, A. Gambero, M.J. Bonell, B.S. Markesinis, O. Lando, U. Mattei e T. Koopmans in European Review of Private Law, 1997, 5, rispettivamente a pp. 455 sgg., 465 sgg., 471 sgg., 475 sgg., 483 sgg., 489 sgg., 497 sgg., 505 sgg., 519 sgg., 525 sgg., 537 sgg. e 541 sgg.; con riferimento ai lavori per la creazione del c.d. Quadro comune di riferimento (Dcfr), vedi O. Lando, H. Beale, H. Schulte-Nölke e Ch. von Bar, in European Review of Contract Law 2007, 3, rispettivamente a pp. 245 sgg., 257 sgg., 332 sgg. e 350 sgg.; C. Castronovo, Quadro comune di riferimento e acquis comunitario: conciliazione o incompatibilità?, in Europa e diritto privato, Milano 2007, pp. 275 sgg.; per una esaustiva descrizione delle varie fasi dei lavori – a dire il vero non sempre lineari e trasparenti – dalla ultimazione del Dcfr nel 2009 al progetto di Regolamento per un diritto comune europeo della vendita del 2011, nonché un attento esame critico di quest’ultimo, vedi R. Zimmermann, Perspektiven des künftigen österreichischen und europäischen Zivilrechts. Zum Verordnungsvorschlag über ein Gemeinsames Europäisches Kaufrechts, in Juristische Blätter 2012 (i.c.s.).

Sempre in tema di diritto privato europeo ma in una prospettiva storico-comparatistica generale vedi per tutti, L. Moccia, Comparazione giuridica e diritto europeo, Milano 2005; R. Zimmermann, Comparative law and the Europeanization of Private Law, in AA.VV., The Oxford Handbook of Comparative Law, Oxford 2006, 539-577. Per accenni all’esperienza nordamericana vedi R. Hyland, The American Experience: Restatements, the UCC, Uniform Laws and Transnational Coordination, in AA.VV., Towards a European Civil Code, IV ed., Kluwer International 2011, pp. 71 sgg.

Con riferimento ad un interessante esperimento di unificazione regionale in Africa vedi K.L. Johnson, L’OHADA et la modernisation du droit des affaires en Afrique, in Unidroit (a cura di), Worldwide Harmonisation of Private Law and Regional Economic Integration cit., pp. 71 sgg.

Sulle varie forme di unificazione legislativa vedi, per tutti, David, The International Unification cit., pp. 77sgg.; Kropholler, Internationales Einheitsrecht cit., pp. 93 sgg..

Sull’unificazione giurisprudenziale, vedi, tra gli altri, M.J. Bonell, L’interpretazione del diritto uniforme alla luce dell’art. 7 della Convenzione di Vienna sulla vendita internazionale, in Riv. dir. civ., 1986, II, pp. 221 sgg.; S. Bariatti, L’interpretazione delle convenzioni internazionali di diritto uniforme, Padova 1986, pp. 119 sgg.; K. Everling, Rechtvereinheitlichung durch Richterrecht in der Europäischen Gemeinschaft, in AA.VV., Rechtsvereinheitlichung und Rechtsangleichung, cit., pp. 193 sgg.; J. Sturley, International Uniform Laws in National Courts: The Influence of Domestic Law in Conflicts of Interpretation, in Virginia Journal of International Law, 1987, vol. 27, pp. 729 sgg.; F. Enderlein, Uniform Law and its Application by Judges and Arbitrators, in Unidroit (a cura di), International Uniform Law in Practice, cit., pp. 329 sgg.; A. Somma, L’uso giurisprudenziale della comparazione nel diritto interno e comunitario, Milano 2001; F. Ferrari, Do Courts Interpret the CISG Uniformly?, in AA.VV., Quo Vadis CISG?, Bruxelles 2005, pp. 3 sgg.; A.S. Hartkamp, The Influence of Primary European Law on Private Law, in AA.VV., Towards a European Civil Code cit., pp. 127 sgg.; S. Weatherill, Interpretation of the Directives: The Role of the Court, ivi, pp. 185 sgg.

Quanto all’unificazione dottrinale vedi, per tutti, G. Gorla, Unificazione «legislativa» e unificazione «giurisprudenziale», in Id., Diritto comparato e diritto comune europeo, Milano 1981, pp. 651 sgg.; J. Kropholler, Die Wissenschaft als Quelle der internationalen Rechtsvereinheitlichung, in Zeitschrift für vergleichende Rechtswissenschaft, 1986, pp. 143 sgg.; J. Fleming, The Restatements and Codification, in The Jewish Law Annual, 1978, pp. 108 sgg.; H. Kötz, Gemeineuropäisches Zivilrecht, in Festschrift für K. Zweigert, Tübingen 1981, pp. 481 sgg.; E. Kramer, Europäische Privatrechtsvereinheitlichung – Institutionen, Methoden, Perspektiven, Europa-Institut, Saarbrücken 1988; K.-P. Berger, Formalisierte oder «schleichende» Kodifizierung des transnazionalen Wirtschaftsrechts, Berlin-New York 1996, pp. 109 sgg.; O. Lando, The Harmonization of European Contract Law Through a Restatement of Principles, Centre for the Advanced Study of European and Comparative Law, University of Oxford, Oxford 1997; C. Castronovo, Un contratto per l’Europa, Prefazione a Principi di diritto europeo dei contratti, ed. it. a cura di C. Castronovo, Milano 2001, pp. xii sgg.; M.J. Bonell, Soft Law and Party Autonomy: The Case of the Unidroit Principles, in Loyola Law Review (2005, 51), pp. 229 sgg.; Id., Un «Codice» internazionale del diritto dei contratti. I Principi Unidroit dei contratti commerciali internazionali, II ed., Milano 2006; Galgano, La globalizzazione, cit., pp. 64 sgg.; S. Schilf, Allgemeine Vertragsgrundregeln als Vertragsstatut, Tübingen 2005; N. Jansen, The Making of Legal Authoritz. Non-legislative Codifications in Historical and Comparative Perspective, Oxford 2010.

In merito all’unificazione contrattuale vedi, per tutti, M.J. Bonell, Le regole oggettive del commercio internazionale, Milano 1976; Id., La moderna lex mercatoria tra mito e realtà, in Diritto del commercio internazionale, 1992, pp. 315 sgg.; J. Carver, Uniform Law and its Impact on Business Circles: The Experience of the Legal Profession, in Unidroit (a cura di), International Uniform Law in Practice, cit., pp. 411 sgg.; F. Dasser, Internationale Schiedsgerichte und lex mercatoria, Zürich 1989; F. De Ly, International Business Law and Lex Mercatoria, North-Holland 1992; Berger, Formalisierte cit., pp. 1 sgg.; R.M. Goode, Usage and Its Reception in Transnational Commercial Law, in The International and Comparative Law Quarterly, 1997, vol. 46, pp. 1 sgg.; F. Marella, La nuova lex mercatoria. Principi Unidroit ed usi dei contratti del commercio internazionale, Bologna 2003; Galgano, La globalizzazione cit., pp. 56 sgg.

Sull’unificazione del diritto e la circolazione dei modelli vedi R. Sacco, Introduzione al diritto comparato, Torino 19925, pp. 154 sgg.; M.J. Bonell, Harmonization of Law between Civil and Common Law Jurisdictions: The 1968 Brussels Jurisdiction and Judgements Convention, in Italian National Reports to the XIIIth International Congress of Comparative Law, Montreal 1990, pp. 69 sgg.

Quanto, infine, al rapporto tra unificazione del diritto ed esigenze di riforma, vedi, per tutti, J. Mertens, Rechtsvereinheitlichung rechtspolitisch betrachtet, in Festschrift für J.Bärmann, Frankfurt 1975, pp. 651 sgg.; M.J. Bonell, Unificazione del diritto e politica di riforma: due momenti non necessariamente coincidenti, in Riv. dir. comm., 1980, I, pp. 1 sgg.; P. Neuhaus-J. Kropholler, Rechtsvereinheitlichung – Rechtsverbesserung?, in Rabels Zeitschrift für ausländisches und internationales Privatrecht, 1981, vol. 45, pp. 73 sgg.; H. Kötz, Rechtsvereinheitlichung: Nutzen, Kosten, Methoden, Ziele, in AA.VV., Rechtsvereinheitlichung und Rechtsangleichung, cit., pp. 1 sgg.; P. Hauschka, Grundprobleme der Privatrechtsfortbildung durch die Europäische Wirtschafts-gemeinschaft, in Juristenzeitung, 1990, pp. 521 sgg.; U. Mattei, Basics First Please! A Critique of Some Recent Priorities shown by the Commission’s Action Plan, in AA.VV., Towards a European Civil Code, cit., pp. 297 sgg; AA.VV., Social Justice in European Contract law: A Manifesto, in European Law Journal, vol. 10, 2004, pp. 653 sgg.; Goode, Rule, Practice and Pragmatism in Transnational Commercial Law cit., pp. 556 sgg.

Per una critica dell’unificazione legislativa in generale vedi P.B. Stephan, The Futility of Unification and Harmonisation in International Commercial Law, in Virginia Journal of International Law, vol. 39, 1999, pp. 743 sgg.; R.E. Scott, The Uniformity Norm in Commercial Law. A Comparative Analysis of Common Law and Code Methodologies, in J. S. Kraus-S.D. Walt (a cura di), The Jurisprudential Foundations of Corporate and Commercial Law, Cambridge 1999, pp. 149 sgg.; A. Zoppini (a cura di), La concorrenza tra ordinamenti giuridici, Bari 2004 (in part. i contributi di A. Zoppini, M.R. Ferrarese, R. Lupi e S. Lombardo, rispettivamente a pp. 5 sgg., 123 sgg., 163 sgg. e 195 sgg.). Con particolare riferimento all’idea di un Codice civile europeo, P. Lagrand, A Diabolical Idea, in AA.VV., Towards a European Civil Code cit., pp. 245 sgg.

Per una vivace replica ai critici dell’idea della unificazione o armonizzazione del diritto privato in Europa e fautori invece della c.d. competizione tra ordinamenti giuridici vedi A. Nicolussi, Europa e cosiddetta competizione tra ordinamenti giuridici, in Europa e diritto privato cit., pp. 83 sgg.

Il modello inglese di proprietà

di Luigi Moccia

1. Rilievi iniziali

Un modo consueto di presentare in sede comparativa la disciplina della proprietà nel diritto inglese e, più in generale, nel mondo di common law pone l’accento sui disagi che il giurista continentale incontra alle prese con lo studio di questa disciplina, dovuti al fatto che, provenendo da un mondo, quello di civil law, di apparente rigore logico-sistematico, semplice e ordinato come il disegno delle moderne codificazioni, egli si vede proiettato in un mondo dalle apparenze opposte, reso quasi impenetrabile da un velo di tecnicismi e arcaismi frutto di un ostinato conservatorismo.

È facile scorgere a tal proposito una conferma di pregiudizi a lungo mantenuti dai giuristi continentali nei confronti del diritto d’oltre Manica, riguardato come distante e isolato nel contesto della cultura giuridica europea1. Quest’ultima caratterizzata dalla prevalenza, sul piano sia del metodo che del merito, di un atteggiamento incline alle astrazioni e sistemazioni teoriche; a fronte dell’opposta inclinazione verso un atteggiamento prevalentemente pragmatico da parte dei giuristi dei paesi di lingua inglese2.

È vero, del resto, che la stessa dottrina inglese, specie quella ottocentesca, pur non mancando di sottolineare carenze e anomalie del sistema di common law, è parsa soprattutto preoccupata di accreditarne, insieme con l’immagine di uno splendido isolamento, il primato culturale come diritto chiamato a svolgere un ruolo di punta sulla scena mondiale, di pari passo con l’espansione dell’impero britannico. Ciò si è tradotto in un atteggiamento per cui, nel denunciare da un lato tali carenze e anomalie, dall’altro se n’è accentuata la natura di caratteristiche originali e peculiari, a testimonianza della refrattarietà del sistema di common law a lasciarsi comporre secondo gli schemi concettuali e classificatori della ‘scienza giuridica’ continentale. Il tutto risolvendosi in un sentimento di orgoglioso compiacimento per un sistema tradizionalmente concepito come antagonista rispetto a quello romanistico-continentale o di civil law3. Un atteggiamento e sentimento di cui può cogliersi l’eco, in tempi a noi più vicini, nelle posizioni di chi, ad esempio, bensì riconoscendo l’esigenza di dare alla disciplina in materia un trattamento più ordinato e sistematico, pari a quello che essa riceve nelle opere degli autori continentali, ha rimarcato per contrasto l’esigenza altresì di sottrarsi alla rigidità dogmatica delle categorie romanistiche in tema di proprietà, a vantaggio di una maggiore versatilità delle categorie della property4.

Disagi per il giurista continentale alle prese con il tema della property nel mondo di common law sono ravvisabili sul piano terminologico, dove si ritiene che sarebbe vano cercare di far combaciare la property con la proprietà (propriété, Eigentum); ma ancor più sul piano concettuale, dove un certo disorientamento deriva dalla pretesa irrilevanza e, anzi, latitanza in quel mondo della nozione stessa di ‘proprietà’ come esclusiva appartenenza a taluno di una cosa, in sé fisicamente considerata. Così è, ad esempio, di fronte all’affermazione che: «è possibile e, forse, persino auspicabile scrivere un trattato di diritto inglese senza definire o menzionare la proprietà (ownership) come concetto giuridico (juridical conception)»; oppure quando si legge che: «il diritto inglese non ha mai avuto alcuna teoria della proprietà (any theory of ownership)»5.

Sembra quasi profilarsi, dunque, uno scontro di mentalità – prima ancora che di categorie – giuridiche; in cui il motivo della chiusura – nei confronti del continente europeo – del diritto inglese fa il paio con quello della permanenza e, anzi, della sopravvivenza in tale materia di un assetto tradizionale, con le sue forme e strutture partecipi d’un mondo d’altri tempi, rispetto al quale il moderno giurista di civil law, che si proponga di farne una comparazione con il proprio mondo di diritto codificato (code law), è invitato a «stare in guardia contro possibili fraintendimenti [e] consigliato di accantonare per un po’ tutto quanto ha imparato nel suo diritto e cominciare daccapo»6. Un consiglio forse eccessivo, ma indicativo del grande divario che, all’apparenza, divide e porta addirittura a contrapporre, in questa materia, la tradizione inglese rispetto a quella continentale.

Si tratta pur sempre, è appena il caso di precisare, di un divario che non può che essere il prodotto della storia stessa in cui si colloca la vicenda evolutiva dell’una e dell’altra tradizione. Là dove è dato rinvenire, così nel mondo di common law, come in quello di civil law, il contrasto tra la moderna cultura dell’appartenenza d’impronta giusnaturalista, da un lato, la quale ravvisa nello schema della ‘proprietà’ – come rapporto di appropriazione totale ed esclusiva – il paradigma (dalle antiche radici romane) della unicità (indivisibilità) e assolutezza del dominio su una cosa in senso materiale, e, dall’altro lato, la cultura d’impronta feudale che, protrattasi ben oltre l’epoca medievale, si presenta contraddistinta da un’idea di appartenenza in cui il connotato della esclusività si stempera in ragione del moltiplicarsi di singoli rapporti di utilizzazione, graduati nel tempo, di una medesima res da parte di più soggetti; con il conseguente sbiadire della distinzione tra proprietà (dominium) e altri diritti reali (iura in re aliena), che porta a relativizzare, fino a una soglia d’indifferenza dal punto di vista della costruzione del sistema dei diritti sulle cose, la situazione (unitaria) di appartenenza esclusiva in capo a un unico titolare (dominus), rispetto alla molteplicità di situazioni soggettive, frazionate nel tempo, di effettivo godimento delle utilità della cosa e connessa titolarità dei diritti corrispondenti, tutti ugualmente di natura ‘proprietaria’.

In epoca medievale questa effettività dell’uso e godimento delle cose, con il portato di un’articolazione plurale, ovvero frazionabile, dei relativi diritti, collegata a un’idea possessoria di titolarità dei diritti stessi, espressione del principio di vestitura-Gewere-saisine caratterizzante le consuetudini germaniche in materia, rappresentava una realtà diffusa tanto sul continente europeo, quanto sul suolo inglese.

Il modello di proprietà medievale (feudale), lentamente ma inesorabilmente eroso sul piano economico-sociale dall’avanzata delle forze capitaliste e borghesi, venne sul continente europeo travolto dall’opposto modello a forti tinte ideologiche di proprietà assoluta e indivisibile, nato dalla rivoluzione francese e consolidatosi nella sua rigorosa versione dogmatica opera della pandettistica tedesca della fine dell’Ottocento; in Inghilterra, viceversa, attraverso adattamenti e riforme, esso fu mantenuto sul piano giuridico, ivi sostenuto da una cultura saldamente ancorata, in virtù di fattori socio-politico-istituzionali e professionali, a valori tradizionalisti e d’impronta pragmatica. Il nucleo principale, costituito dal regime immobiliare (land law), è stato così preservato nel suo impianto lessicale e concettuale, in forme che recano tracce evidenti del modello originario; finendo per apparire, agli occhi dei moderni giuristi continentali, non soltanto antiquato o, peggio, anacronistico, ma addirittura misterioso e incomunicabile: comunque non privo di aspetti destinati a suscitare, a seconda dei casi, sorpresa o disagio, del tipo di quelli dianzi citati, ma che più precisamente trovano in questo motivo di continuità la loro premessa maggiore. Se è vero che ancora al giorno d’oggi ricorre nella manualistica in materia, insieme con la trattazione di una parte storica, l’affermazione secondo cui il regime inglese dei diritti sugli immobili «può essere compreso soltanto alla luce delle sue origini feudali»7.

Da questa premessa si ricava, allora, che l’esperienza di common law, rimasta a lungo negletta negli studi continentali di storia del diritto, costituisce – nel campo dei diritti sugli immobili – il tassello più importante per una ricostruzione del quadro europeo dei modelli di proprietà, secondo una loro progressione sincronica che, dal medioevo in poi, li vede evolvere lungo linee parallele, fino alla biforcazione risultante per effetto, da un lato, della continuità e, dall’altro, della discontinuità – nell’ambito, rispettivamente, del diritto inglese e dei diritti continentali – di quelle stesse linee e delle concezioni ad esse collegate.

Per una ricostruzione siffatta è però necessario un impegno assai più articolato e dettagliato di quello che sarà possibile assolvere qui, dove ci si manterrà invece entro i limiti di un’osservazione panoramica. La quale, avendo a mente, nelle sue grandi linee, il modello romanistico-continentale di proprietà, si propone di guardare alle differenze terminologiche, concettuali e sistematiche in complesso caratterizzanti il modello di common law, nella sua versione inglese.

A proposito di questo modello, c’è da precisare che è possibile farne un’esposizione solo in termini generali: attese le differenze che corrono tra i vari ordinamenti dell’area di common law. Là dove una serie di riforme legislative sono intervenute in Inghilterra nel 1925 (riforme note nell’insieme come property acts o property legislation, di cui si dovrà dire a suo luogo: § 5), allo scopo di semplificare, razionalizzare e ammodernare l’impianto tradizionale della materia; che in altri paesi di common law – come Usa, Canada e Australia – resta tuttora vigente, con il suo carico di figure e strutture, residuate dal mondo medievale (feudale). A questi paesi può essere aggiunto, tra quelli dell’area di common law rimasti (più) fedeli al modello tradizionale di property, la Repubblica d’Irlanda, in cui il regime dei diritti sugli immobili pure si caratterizza, a conferma di una sua resistenza alle influenze della moderna legislazione inglese, per la presenza di alcune specificità locali8.

In proposito si è parlato, con qualche enfasi, di un «grande scisma (great schism)»9, prodottosi attraverso l’introduzione nell’ordinamento inglese di quelle riforme del 1925 che ne avrebbero appunto determinato la separazione dal resto degli ordinamenti di common law: così derivandone, per quanto concerne questa materia e più in particolare il campo della proprietà immobiliare, una rottura dell’uniformità giuridica tra gli stessi ordinamenti, che ha visto la vecchia Inghilterra portarsi su posizioni di avanguardia, per così dire, nel tentativo anche di dotarsi di una forma di ‘codificazione’ in questo campo, a fronte dei paesi del nuovo mondo rimasti invece legati a concezioni risalenti ad epoche passate10.

La scelta di limitare l’esame al solo diritto inglese, per quanto concerne in particolare la materia dei diritti sugli immobili, si spiega con l’ovvia esigenza di assumere l’esempio originario del modello di property, in seguito esportato presso gli altri paesi di common law. Naturalmente, oltre che a nozioni e aspetti tradizionali della materia, si guarderà alla sua attuale disciplina, espressione delle già ricordate riforme legislative. Le quali, nonostante la loro portata innovativa, si sono mantenute nel solco di una significativa continuità sul piano tecnico-giuridico, che – come generalmente riconosciuto dagli stessi autori di lingua inglese – richiede una conoscenza di nozioni e aspetti della materia stessa risalenti alle sue origini medievali.

Al di là, poi, di una evidente quanto importante valenza nell’ambito dei paesi di common law, lo studio del diritto inglese relativo alla property trova un ulteriore motivo d’interesse alla luce della sua collocazione nell’Europa unita e, quindi, dell’esigenza di approntare un percorso di analisi storico-comparativa che, lungo l’asse delle due maggiori tradizioni giuridiche europee, porti a raccogliere elementi e materiali di riflessione e valutazione utili nella prospettiva di una cultura giuridica di respiro europeo, che da esse trae appunto alimento, in specie per quanto concerne la formazione di giuristi educati nella conoscenza di entrambe queste tradizioni11.

2. «Property» e «law of property»

Il problema del confronto tra modello romanistico-continentale e modello inglese in tema di proprietà riguarda principalmente la tessitura lessicale e concettuale o, come si dice, la diversa ‘grammatica’ (grammar of property) dell’uno rispetto all’altro.

In breve, il modello romanistico-continentale (o di civil law) si configura all’insegna di una tradizione le cui più lontane origini possono bensì farsi risalire all’antica esperienza del diritto romano tramandata attraverso la compilazione giustinianea, ma le cui caratteristiche più appariscenti, per come esse risultano oggi riconoscibili, sono quelle forgiate in seno alla dottrina giusnaturalista e giusrazionalista (illuminista) del Sei-Settecento, attestatesi da ultimo nelle codificazioni nazionali ottocentesche. In questo modello, la nozione di ‘proprietà’, nata dalla rottura politico-culturale con l’antico regime, viene intesa nel significato – tanto dogmatico, quanto paradigmatico – di diritto (idealmente, ovvero tendenzialmente concepito come) assoluto ed esclusivo (dominium), unico e indivisibile, del soggetto su una cosa (fisica), mobile o immobile che sia. Così intesa, la proprietà è posta al centro del sistema dei diritti reali (o diritti sulle cose): come sistema articolato, al suo interno, nell’opposizione tra la ‘proprietà’ stessa e gli ‘altri’ diritti reali, limitati o minori, detti anche – più significativamente – ‘diritti su cosa altrui’ (iura in re aliena); nonché contraddistinto, al suo esterno, dalla netta separazione rispetto ai diritti di credito o diritti sulle persone o, più semplicemente, diritti personali. Inoltre, tale nozione di proprietà è tenuta rigidamente distinta, in teoria, da quella del ‘possesso’, sotto il profilo sia sostanziale che dei mezzi di tutela giurisdizionale (remedies).

Nel modello inglese, viceversa, si osserva subito una più marcata connotazione in senso patrimoniale del termine property, che ne rende la nozione ambigua, nella sua fondamentale ambivalenza, riferita sia alla ‘cosa (materiale) in sé’, come oggetto di appartenenza a qualcuno (proprietà-diritto), sia al complesso di diritti (come beni immateriali) appartenenti a taluno (proprietà-patrimonio).

Al livello legislativo una conferma di questo modo d’intendere la nozione di property è offerta, ad esempio, dal Theft Act (legge sul furto), dove è stabilito che il termine property include, insieme con le cose corporali, anche i diritti patrimoniali («things in action and other intangible property»)12. Mentre un’ulteriore conferma nello stesso senso è offerta, a proposito della legge (Human Rights Act del 1998) che ha recepito nel Regno Unito la Convenzione di Roma del 1950 riguardante la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, da un commento ufficiale (a cura del dipartimento governativo competente in materia di giustizia), dove, sotto il titolo di «Protezione della Proprietà (Protection of Property)», si osserva (sulle orme del resto di una ben nota giurisprudenza della Corte di Strasburgo) che l’ambito oggettivo di tutela della proprietà, come diritto fondamentale, è da intendersi con riferimento a: «ogni sorta di cose possono considerarsi alla stregua di beni appropriabili (All sort of things can count as property)»; si tratti di cose materiali, oppure di «averi immateriali (invisible possessions), quali azioni di società (shares), l’avviamento (goodwill), brevetti (patents), un indennizzo (compensation) o una pretesa risarcitoria (claim for damages)»; includendovi pure il «diritto (entitlement) ad un beneficio assistenziale (social security benefit)»13.

Ne risulta una nozione complessa, secondo cui il termine property può significare: a) una ‘cosa’ fisicamente considerata (tangible thing); b) i diritti (rights o, più genericamente, interests) concernenti l’uso e godimento di tale cosa (rights in respect of that thing); c) i diritti, ad esempio un credito (debt), che prescindono da una relazione diretta con una cosa fisica (rights, such as a debt, in relation to which no tangible thing exists), vale a dire i diritti di per sé considerati14.

È appena il caso, però, di precisare che una medesima accezione – in senso patrimoniale – del concetto di proprietà pure ricorre in alcuni codici civili europei15; e si trova altresì accolta nella generalità degli ordinamenti continentali, tra cui il nostro, al livello di prassi interpretative riguardanti la tutela costituzionale della proprietà, che viene appunto estesa a ricomprendere beni sia materiali che immateriali, diritti compresi: come nel caso, ad esempio, dell’ordinamento tedesco16, il cui codice civile pure limita, in teoria, l’oggetto del diritto di proprietà alle cose corporali.

Non è tanto, dunque, al livello terminologico o degli usi linguistici in generale che bisogna guardare, per cogliere le peculiarità del modello inglese di property; quanto e soprattutto al livello dello strumentario concettuale e dell’assetto sistematico della materia (law of property o property law), intesa come complesso di regole, categorie, classificazioni e corrispondenti atteggiamenti mentali, che ne costituiscono la trama e ne sviluppano la disciplina. Ed è appunto a quest’altro livello che si riferisce l’osservazione circa la non corrispondenza tra la property e la proprietà (come suole essere intesa da noi e in altri contesti di diritto continentale).

[Property] non ha il senso giuridico, in cui in Italia e nei sistemi civilistici è inteso il termine ‘proprietà’, bensì un senso più ampio e sfumato. Esso può riferirsi, al limite, al dominio esclusivo di un soggetto su una cosa, ma per lo più indica diritti meno intensi e non tali da escludere di necessità altri dalla cosa17.

A differenza dei paesi di area continentale, nelle cui codificazioni prevale l’accezione di proprietà come diritto su una cosa (materiale), che finisce nel linguaggio comune per identificarsi con la cosa stessa, in Inghilterra, pur essendo presente tale accezione d’uso comune, si ritiene tecnicamente corretto parlare di property come ‘appartenenza di diritti’, per cui tanto nel caso di beni immobili, quanto nel caso di beni mobili «è sbagliato dire ‘questa cosa è mia proprietà’, ed è giusto dire ‘io ho un diritto di proprietà su questa cosa’»18. La differenza può apparire, a prima vista, minima e innocua. In realtà si tratta di un vero e proprio discrimine, culturale prima ancora che giuridico, lungo il quale ciò che viene in evidenza, a ben guardare, è una diversa tessitura concettuale del modello di property che, diversamente dal modello romanistico-continentale, viene ad essere costruito sul presupposto che più di un ‘diritto di proprietà’ può esistere sopra una medesima cosa (materiale), senza quindi conferire all’appartenenza della cosa stessa alcun carattere assoluto ed esclusivo.

2.1. «Real property» e «personal property»

Per continuare il discorso intorno, ancora, ai problemi di traducibilità del termine property, avuto riguardo al suo più ampio contesto sistematico-concettuale di riferimento, un ulteriore dato di più immediata evidenza circa la diversità del modello inglese, per raffronto con quello romanistico-continentale, attiene alla non coincidenza di piani e contenuti tra law of property, da un lato, e, dall’altro lato, il ‘diritto delle cose’ (Sachenrecht, come dicono i giuristi di lingua tedesca), o, in senso lato, il ‘diritto dei beni’ (droit des biens, come dicono invece i giuristi di lingua francese) nei paesi di civil law19.

Infatti, mentre in (tutti) questi paesi la principale articolazione della materia è costituita dalla distinzione tra cose (beni) immobili e mobili, sul presupposto di una medesima nozione, in senso sostanziale, di (diritto di) proprietà, nell’esperienza inglese – e in genere dei paesi di common law – la principale articolazione dei beni e dei diritti su di essi, anziché attestarsi sul terreno di questa distinzione – per così dire – secondo natura, rileva tradizionalmente, in termini sia sostanziali, sia processuali (o ‘rimediali’), con riferimento alle distinte e, per importanti aspetti, diverse categorie, rispettivamente, della real property (o realty semplicemente) e della personal property (o personalty); originariamente costruite in relazione alle real e personal actions, quali categorie di azioni a loro volta intese con riguardo al tipo di tutela (restitutoria o risarcitoria) perseguita.

La prima di queste categorie dalle sembianze processualistiche della property attiene, storicamente, alle situazioni interne al mondo delle concessioni feudali riguardanti il libero possesso (freehold) di fondi (lands and tenements), le quali venivano tutelate mediante real actions (o actiones in rem), cosiddette «non tanto perché (come le azioni in rem romane) perseguissero la cosa o res presso qualsiasi soggetto ne avesse il possesso, quanto perché permettevano di ricuperare effettivamente tale cosa o res»20.

La seconda categoria, formatasi storicamente in maniera – per così dire – piuttosto alluvionale e in negativo rispetto alla prima, ovvero con oggetti residuali in quanto non includibili in quest’ultima, si estende a un’ampia e assai eterogenea gamma di beni (cose) mobili o diritti (anche relativi ad immobili), nell’insieme noti come goods (bona) o chattels (catalla)21.

La distinzione-contrapposizione tra la terra e i diritti feudali (freehold estates) ad essa relativi, da un lato, e, dall’altro lato, tutto il resto dei ‘beni’ in complesso ricompresi sotto la denominazione di goods o chattels, quale caratteristica saliente del modello di property, secondo il suo originario stampo medievale, si trova presente in opere classiche del diritto inglese, dove questa caratteristica viene segnalata per raffronto alla dicotomia mobili-immobili di matrice romanistica. In pari senso, viene segnalato come il termine chattels, introdotto dai normanni, si trovasse già impiegato nel Grand Coutumier di Normandia «in opposizione a feudo: cosicché non soltanto le cose mobili, ma tutto ciò che non fosse un feudo, era annoverato tra i chattels»; onde il significato affatto residuale, in negativo, di questo termine ancor oggi genericamente riferito a tutto ciò che non è land22.

Ancora fino al XIX secolo, la tutela dei property rights relativi a tali beni (goods o chattels) avveniva a mezzo di personal actions, che contemplavano la facoltà del convenuto, anziché di restituire la cosa, di pagarne (al legittimo proprietario) il valore in denaro.

Il riferimento è all’azione medievale di detinue, successivamente evolutasi nell’azione di trover, diretta alla restituzione di beni mobili corporali illegittimamente detenuti: restituzione che veniva domandata non già in forza di un titolo di proprietà, ma sulla base di un possesso anteriore. Difatti, l’azione di detinue non era che una forma speciale della più antica azione di debt; a sua volta diretta al recupero del credito, quasi si trattasse di una ‘cosa’ specifica; dapprincipio, anzi, identificata con le stesse monete date in prestito e solo in seguito con una somma certa di denaro o quantità determinata di cose fungibili23. In tal senso, l’azione di debt presentava, secondo alcuni, spiccato carattere ‘proprietario’ (proprietary)24.

Vale a dire, nel caso dei beni mobili, la proprietà veniva tutelata mediante azioni dette ‘personali’: «perché non conducevano al ricupero della cosa o res, bensì soltanto alla condanna della persona convenuta al pagamento di una somma di denaro»25.

La scomparsa del regime feudale, con l’abolizione delle antiche real actions e delle regole di diritto successorio incidenti sui diversi modi di devoluzione per causa di morte della realty e della personalty rispettivamente, nonché la possibilità per i beni mobili (goods) – a imitazione degli immobili – di essere oggetto di rapporti di attribuzione fiduciaria (trust), ovvero di altri rapporti in virtù dei quali la titolarità formale (legal title) dei beni viene ad essere scissa – per scopi di godimento o di garanzia – dall’utilità effettiva (equitable o beneficial ownership) dei beni stessi, hanno determinato una progressiva attenuazione delle ragioni – storiche e tecniche – a base della originaria contrapposizione tra realty e personalty.

Questo fenomeno – per così dire – di riconversione sul piano sostanziale della più tradizionale articolazione processuale della materia ha poi visto un ulteriore progresso nel fatto che una tutela recuperatoria è stata pure estesa alle cose mobili; con l’attribuzione al giudice del potere di ordinarne la restituzione (specific restitution o delivery), in luogo del risarcimento in denaro26. Si tratta, tuttavia, di un potere solo discrezionale, che lascia cioè al giudice la decisione, nei casi di specie, di ordinare la restituzione (di solito quando i beni sono di particolare pregio), oppure il risarcimento del danno sotto forma di pagamento del loro valore: per cui ancor oggi avviene che i beni mobili corporali (goods and chattels) non siano recuperabili ‘di diritto’ (as of right)27.

Con le riforme del 1925, il legislatore inglese è intervenuto allo scopo di avvicinare quanto più le due categorie di property: provvedendo a uniformare i modi di trasferimento in caso di successione ereditaria (intestate succession o intestatcy)28, mentre distinzioni ancora permangono nel caso di successione testamentaria (qualora beni delle due specie vengano destinati, rispettivamente, a diversi soggetti)29; nonché altri aspetti particolari della disciplina relativa a tali categorie30.

V’è chi ritiene che l’unica vera distinzione oramai apprezzabile in materia di law of property sia, nel caso specialmente dell’ordinamento inglese, quella – alla maniera degli ordinamenti continentali – tra (diritti sui) beni immobili (land) e mobili (goods and chattels)31.

In questo senso sta l’operazione con cui il legislatore del 1925 ha riformato la disciplina dei legal estates o diritti reali immobiliari, prevedendone un’unica classe dove, accanto ai freehold estates, sono compresi anche i leasehold estates, che, originariamente esclusi dall’ambito della real property a motivo della loro estraneità al sistema dei rapporti di concessione feudale, erano stati confinati nella categoria residuale della personal property; peraltro nella posizione sui generis di chattels real. In tal modo realizzando una equiparazione(-uniformazione) tra il regime della real property (in materia di freehold land) e quello dei chattels real (in materia di leasehold land)32.

Per inciso, la classificazione romanistica dei beni, secondo la loro natura immobile (la terra e ciò che ad essa accede) o mobile (tutte le altre cose), è stata tradizionalmente riconosciuta dalle corti di giustizia inglesi a fini di risoluzione dei casi di conflitto di leggi (nazionali), ossia nel campo del diritto internazionale privato; dove è avvenuto che tali corti, animate da spirito transnazionale (international comity) e per affrontare su base comune le questioni tra cittadini di differente nazionalità provenienti da sistemi giuridici diversi, hanno applicato la distinzione tra movable and immovable33: attribuendo qualifica di diritto reale immobiliare a un leasehold interest su un bene situato in Inghilterra34.

Il processo di obsolescenza della più tradizionale distinzione tra real e personal property, favorito dalla legislazione del 1925, pur facendo emergere come principale articolazione in materia di property, alla maniera dei paesi di civil law, la dicotomia tra beni immobili (land) e mobili, appare lungi dal tradursi in una ridefinizione del sistema di property law in termini di unificazione concettuale dell’istituto proprietario; al pari del modello romanistico, che pure conosce d’altronde rilevanti profili di differenziazione del regime dei diritti reali sui beni immobili e mobili, rispettivamente.

Difatti, la tendenza ancora prevalente tra gli autori inglesi, alla luce delle citate riforme legislative, è quella di disegnare una mappa della property dove a un regime di land law dai contorni identificati con le strutture, regole e categorie della real property, fa riscontro, sotto la denominazione di personal property, un regime che presenta contorni di indefinitezza, come lasciato nel limbo di una condizione affatto residuale. Con ciò a sottolineare che nel modello inglese, a differenza di quello romanistico, i beni immobili e mobili non rilevano come partizioni di un medesimo sistema di property rights. Essi assumono invece rilievo come oggetti distinti di property, per rapporto – appunto – a una diversa articolazione e strutturazione delle partizioni della law of property. Invero, un regime tendenzialmente unitario di property law si ha, oggigiorno, nell’ambito del diritto successorio (succession law), del diritto fallimentare (bankruptcy law), nonché, più di recente, in quello delle garanzie a tutela della proprietà dettate in sede di disciplina dei diritti fondamentali (dal già citato Human Rights Act del 1998). Mentre molto maggiori sono gli ambiti e aspetti nei quali e per i quali si registrano differenze di regime tra real property (o land law, secondo una terminologia oggi prevalente) e le altre forme di property (secondo l’accezione residuale della personal property). A parte gli ambiti inerenti le formalità di trasferimento, i mezzi di tutela giurisdizionale (remedies) e altri attinenti alla natura stessa dei beni immobili (quali, ad esempio, la materia dei rapporti di vicinato e quella dei vincoli posti nell’interesse pubblico a carico di tali beni), spiccano – come maggiori ambiti di differenziazione – quelli riguardanti la possibilità di utilizzo dei beni immobili in senso temporale (mediante la teoria degli estates) e, per certi aspetti, la loro frazionabilità in senso funzionale (mediante l’istituto del trust)35.

2.2. La «property» come ‘patrimonio’ e i diritti come oggetto di proprietà (la «new property»)

A completare il quadro dei rilievi terminologico-concettuali finora svolti, c’è da osservare che di property (law) si parla con riferimento non solo al regime dei beni, ma in un’accezione assai più ampia e – se si vuole – trasversale che investe anche settori da noi intesi autonomamente, quali ad esempio il diritto di famiglia e successorio; nonché il diritto fallimentare, stante una teorizzazione della procedura fallimentare (bankruptcy) come ipotesi di «trasferimento involontario»36.

Ciò come conseguenza, sul fronte soprattutto della ricchezza immobiliare (realty), dell’impatto di istituti, tra cui in primo luogo il trust, sorti storicamente e per larga parte tuttora legati alle vicende dei rapporti patrimoniali e a quelle successorie all’interno della famiglia – un tempo aristocratica – per via dei family settlements (di cui si tornerà a dire: § 6.5). Benché l’intera materia dei trusts abbia col tempo assunto un’ampiezza, complessità e pervasività tali da occupare un suo spazio fortemente specialistico e tendenzialmente distinto, in sede giurisprudenziale e dottrinale.

Sul fronte della ricchezza mobiliare (personalty), l’inclusione in questa categoria di una grande varietà di elementi è conseguenza, storicamente, della sua caratterizzazione – come già osservato – in senso solo residuale rispetto all’altra. Dal che pure deriva una definizione semplicemente in negativo della stessa, secondo cui: «A fini pratici, l’unica vera definizione della personalty è quella quasi ridicola che essa non è realty»37.

Sicché detta categoria finisce per accogliere un affollato coacervo di oggetti eterogenei, per quanto suddivisi in due maggiori sotto-categorie: da un lato, quella delle cose corporali (choses o things in possession); dall’altro lato, quella delle cose incorporali (choses o things in action). Queste ultime intese, tuttavia, secondo un’accezione più ampia dei cosiddetti beni immateriali – quali patenti, brevetti, creazioni intellettuali e beni inerenti le attività di impresa (come l’avviamento: goodwill) – oramai considerati anche negli ordinamenti continentali oggetto di proprietà, sebbene di una proprietà a carattere speciale. Tale accezione, infatti, arriva ad abbracciare i diritti – quali debts, rents e simili – aventi a oggetto un credito e il cui carattere patrimoniale risulta dalla loro sanzionabilità (enforceability) nelle vie giudiziali, in quanto suscettibili di tutela mediante azione diretta ad ottenere la condanna al pagamento di somme pecuniarie. Si tratta, in questo senso, di «diritti di proprietà che possono essere soltanto esercitati proponendo azione in giudizio, e non prendendo possesso [dei beni cui si riferiscono] (rights of property which can only be claimed or enforced by action, and not by taking possession)»38.

La medesima accezione è stata più di recente estesa ad abbracciare i diritti di assistenza sociale (social benefits, welfare rights), connessi a status personali derivanti da provvedimenti di pubbliche amministrazioni: diritti i quali costituiscono quella che – da parte soprattutto della dottrina statunitense degli ultimi decenni – suole denominarsi, con formula ambiziosa ma sostanzialmente ambigua, la new property. Difatti, nata in un contesto di diritto costituzionale nordamericano concernente la materia in genere dei benefici sociali e assistenziali e la configurabilità dei relativi diritti in guisa di accrued property rights al fine di ottenerne (nei casi di revoca di tali benefici) una tutela maggiore posta sotto la garanzia costituzionale del due process39, la formula della new property è venuta imponendosi quale ipotesi di ridefinizione del concetto stesso di proprietà: non più inteso come diritto individuale di escludere chiunque altro dall’uso o godimento di qualcosa, ma come diritto sociale di ‘non essere escluso’ dall’uso o godimento di qualcosa40. Ciò che, sia detto per inciso, sembra risolversi piuttosto in un gioco di parole, la cui posta – se fosse solo quella di una revisione tecnica del nome proprietà – lascerebbe ben indifferenti tanto i giuristi di common law, da sempre abituati a concepire la proprietà dei diritti, quanto i giuristi di civil law, che sul fronte in continuo movimento dei contenuti definitori della nozione di proprietà potrebbero limitarsi ad aggiungere, alle altre già esistenti, una nuova proprietà di tipo speciale. Laddove resta invece tutto da vedere, al di là del calembour: se la carica innovativa della formula possa essere sviluppata in una direzione univoca e migliorativa del significato del termine, che verrebbe ad essere così finalmente emancipato da un secolare retaggio culturale di «individualismo possessivo», secondo l’espressione di uno dei maggiori ideatori della prospettiva politologica della new property41, per essere reso quindi aderente a nuove esigenze socio-assistenziali considerate meritevoli di una tutela forte di tipo – appunto – ‘proprietario’; o, al contrario, se tale formula, mantenendosi nel solco profondo di una logica appropriativa, non finisca per assumere invece valore equivoco e dare così ingresso anche a ‘nuovi’ egoismi, a sfondo sia individuale, sia corporativo.

Per quanto qui importa, comunque, è chiaro che la personal property, la quale – come più volte s’è detto – esprime storicamente e concettualmente una vocazione residuale, a motivo della grande eterogeneità di suoi oggetti (beni e diritti), in rapporto alla real property, sebbene oggi con una netta inversione delle rispettive proporzioni in termini di valori e dimensioni economico-sociali implicate, si pone soprattutto come esempio di una diversità sistematica del modello inglese e, in genere, dei paesi di common law. Là dove il termine property «non solo non significa proprietà, ma non si riferisce nemmeno a quelli che per i civilisti sono i diritti reali, in antitesi ai diritti di credito, bensì ha un valore molto più ampio, in quanto indica in modo ambi- o poli-valente sia i diritti patrimoniali, sia i beni che ne sono oggetto»42.

2.3. Cose (res) e diritti (iura): gli «incorporeal hereditaments» come oggetto di «real property»

Non è però da intendere, con questo, che la distinzione-classificazione, rigidamente posta – in teoria – negli ordinamenti di civil law, dei diritti patrimoniali in ‘reali’ (efficaci nei confronti di tutti i terzi o, come si dice, erga omnes) e ‘personali’ (efficaci nei confronti della sola persona obbligata) sia da ritenere sconosciuta, invece, all’ordinamento (di tipo) inglese. Essa vi si trova accolta, sotto la denominazione rispettivamente di rights ‘in rem’ o property rights, appunto, e rights ‘in personam’.

Salvo a vedere, di seguito (§ 2.4), come tale distinzione rilevi in seno all’ordinamento (di tipo) inglese, si può per intanto osservare che essa risente di un ambiente storico-culturale come quello di common law, i cui giuristi, equiparando le due categorie di diritti quali beni immateriali oggetto di property nell’ambito di una concezione di questa come sinonimo di patrimonio, pure sembrano far mostra di voler ignorare detta distinzione o, meglio, di non interessarsi ai suoi risvolti teorici. Ciò secondo un atteggiamento, in parte pragmatico e in parte agnostico, per cui le categorie e classificazioni, anziché discendere dall’alto della teoria, vengono plasmate – talvolta all’occasione – dal basso delle esigenze e convenienze pratiche43. Si tratta di un atteggiamento la cui matrice è riconoscibile nell’idea medievale di ‘proprietà’ come categoria prevalente e assorbente, comprensiva appunto, insieme con le cose corporali (res), di quelle incorporali, o diritti (iura). Così risultandone quasi uno svuotamento di senso della distinzione-opposizione tra rights ‘in rem’ e rights ‘in personam’44. In tal senso è possibile scorgere un’altra caratteristica saliente, che investe il rapporto tra res e iura, a base della costruzione del modello di property, per quanto concerne in particolare la sua principale articolazione costituita tradizionalmente dalla real property.

Invero, nell’esperienza romana – a base della tradizione di civil law – la distinzione tra dominium e obligationes era stata fondata sull’idea di proprietà come paradigma della ‘realità’ del diritto stesso: saldamente ancorata alla tangibilità del suo oggetto (res corporalis); anzi, con esso identificato e, come tale, tenuto fuori dal novero delle cose incorporali (iura).

Con il diffondersi delle consuetudini germaniche e con il progressivo affermarsi sul continente, durante l’alto medioevo, di una diversa cultura proprietaria modellata sul possesso (Gewere, seisin) dei beni, nel senso ampio di godimento effettivo delle utilità corrispondenti, il concetto di dominio, non più inteso come appartenenza piena ed esclusiva della res, venne di conseguenza modificandosi, per essere calato, nel caso emblematico dei beni immobili, entro lo schema del rapporto di concessione feudale, avente ad oggetto non già la terra (bene fisico), ma i diritti relativi al suo possesso. Diritti – occorre sottolineare – non solo di godimento di un fondo, ma concernenti in genere posizioni sociali e funzioni politico-amministrative, giurisdizionali o di governo collegate all’assetto delle tenute feudali, ovvero privilegi, titoli, uffici e altre attribuzioni ancora.

Secondo questo schema, dunque, destinato a divenire lo schema della proprietà (feudale) inglese (real property), l’insieme delle situazioni soggettive testé delineate finirono per essere considerate oggetto di rapporti di appartenenza a carattere – in senso ampio – proprietario (property rights): sia che avessero riferimento al possesso e alla utilizzazione di un bene fisico (la terra e tutto ciò che vi accede); sia, invece, che vi prescindessero, pur presentando caratteristiche tali da renderli comunque assimilabili ai diritti sulla terra.

Su questa diversa base teorico-concettuale, la (law of) real property prese ad essere articolata, a partire da epoca medievale, in due classi di beni e relativi diritti oggetto di property, rispettivamente denominati, secondo una sistemazione dottrinale della materia che si fa risalire al Sei-Settecento: corporeal e incorporeal hereditaments45. Ove il sostantivo hereditament chiaramente allude – così nell’uno come nell’altro caso – alla comune modalità di devoluzione di tali beni e diritti per causa di morte direttamente all’erede (heir), sintetizzata con la formula: realty goes to the heir. Una modalità che fu abolita nel XIX secolo, per essere sostituita dall’altra – già seguita per la personal property – del trasferimento dei beni costituenti l’asse ereditario (assets) ai beneficiati mediante l’interposizione delle figure dell’executor, nominato nel testamento, oppure dell’administrator, nominato dalla corte competente in caso di mancata nomina testamentaria: entrambe conosciute sotto il nome di personal representatives. Ove l’aggettivo personal «sta appunto ad indicare che i representatives erano preposti, originariamente, all’amministrazione della sola personal property»46.

Nella prima di tali categorie sono ancor oggi inclusi, come in passato, tutti i diritti maggiori sulla terra (estates in land): quelli implicanti un godimento effettivo del fondo o bene immobile che sia, la cui materialità o corporeità può essere predicata per estensione dalla fisicità del bene sul quale cadono, risolvendosi in un rapporto di utilizzazione (possesso) del bene stesso a vantaggio del soggetto titolare del diritto corrispondente e con esclusione – sia pure relativa e mai assoluta – di altri soggetti. Una corporeità che veniva così percepita dalla mentalità (giuridica) medievale per via del tipico e solenne atto di costituzione e/o trasferimento di tali diritti, consistente in una simbolica cerimonia di infeudazione con consegna del possesso: chiamata, nel caso inglese, livery of seisin. Mentalità tuttavia resistente nelle odierne definizioni dottrinali, là dove appunto si legge che «un diritto sulla terra, se accompagnato dal possesso [della cosa], è riguardato come corporale (right in the land, if accompanied by possession, is regarded as corporeal)»47.

Quanto alla seconda categoria, essa risulta in origine riferita a diritti bensì ugualmente inseriti nel sistema dei rapporti di concessione feudale, dal lato soprattutto delle funzioni, cariche od altre posizioni e situazioni attributive di vantaggi patrimoniali collegate o meno a un possesso fondiario, ma ritenuti insuscettibili di ‘consegna reale’, a meno che non fossero contestualmente trasferiti come annessi a un possedimento; e pertanto idonei, nella loro immaterialità, a trovare la propria fonte tipicamente e normalmente in un grant, cioè in un atto unilaterale di concessione, effettuato nella forma solenne del deed48; a differenza, quindi, degli estates in land, i quali, accompagnandosi a un possesso, in questo pure trovavano, sempre, il proprio fondamento (titolo).

Tra i diritti di questa seconda specie (incorporale) o, per dir meglio, tra le incorporeal (o intangible) things oggetto di real property, il cui elenco in epoca medievale – come ci ricordano gli storici inglesi – sarebbe estremamente «lungo ed eterogeneo (long and miscellaneous)», si annoveravano – ancora in tempi moderni – diritti di patronato (adwonsons), decime (tithes), franchigie (franchises), dignità e uffici (dignities and offices)49. Ma, dileguatosi infine lo scenario di rapporti, titoli, privilegi e benefici di origine feudale così a lungo riflessi – e mai formalmente aboliti – all’interno di questa seconda categoria, vi permangono tuttora, oltre adwonsons e tithes, tre figure di assai maggiore importanza pratica, quali: rentcharges (rendite gravanti su un fondo); easements (servitù prediali); profits à prendre (diritti di appropriazione dei frutti e/o di utilizzazione delle risorse naturali di un fondo spettanti a individui o, in guisa di usi civici, a comunità)50. Sicché, la categoria stessa tende di fatto a restringersi, oramai, ai rights in alieno solo o ‘diritti sul fondo altrui’, come queste figure residue vengono complessivamente indicate: con un’espressione che, pur riecheggiando la dicotomia romanistica proprietà-diritti reali su cosa altrui, sembra tuttavia destinata, piuttosto, a seppellire qualsiasi possibilità di analogia con il modello romanistico; e, anzi, a costituire un ulteriore motivo di disorientamento per l’osservatore continentale. Il quale si trova così posto di fronte a una classificazione per cui diritti consistenti nel potere di compiere singoli atti di godimento su un fondo altrui, ovvero di ritrarne delle utilità in modo limitato e parziale, sono considerati alla stregua di beni (immobili: land) ugualmente oggetto di (real) property, e però tenuti distinti in base a un criterio di incorporeità, conseguenza del fatto che il loro titolare non ha il possesso pieno ed esclusivo della cosa: «diritti parziari (partial rights) che non conferiscono ai loro titolari il possesso [della cosa] sono riguardati come incorporali»51.

Ci si può allora spiegare come sia avvenuto, storicamente, che la categoria in senso patrimoniale della ‘proprietà’ abbia potuto accrescersi nell’ordinamento inglese molto più che negli ordinamenti del continente europeo, sviluppando dal regime feudale dei possedimenti fondiari e dal ricco apparato di diritti annessi un modello che non poneva limiti all’inclusione tra gli oggetti della property di incorporeal things: fino, come dianzi ricordato, alle più recenti estensioni della categoria all’insegna della new property che, a ben vedere, dietro la sua apparenza addirittura post-moderna rivela il volto antico, anzi, antichissimo di una tradizione risalente al diritto medievale o – com’è stato osservato – «alla parte più medievale del diritto medievale»52; quella relativa – appunto – alle ‘cose incorporali’, pensate come beni oggetto di proprietà. Senza, del resto, che ciò costituisse una forzatura imposta da poderose quanto ingegnose menti giuridiche, ma piuttosto una razionalizzazione, secondo il diritto, di un modo comune (laico) di percepire l’effettività di tali beni alla stregua di ‘cose’ aventi consistenza reale.

Ciò spiega, per un verso, il fenomeno della così estesa formazione di ‘beni incorporali’ nel sistema medievale di common law; fenomeno che pure trovava, per altro verso, una sua spiegazione – in negativo – nella mancanza di un solido e ben strutturato regime in materia contrattuale (law of contract), la cui debolezza era quindi compensata «da una generosa liberalità nella creazione di beni incorporali»53; ossia di situazioni proprietarie, le quali potessero meglio soddisfare, che non la creazione di rapporti obbligatori, i bisogni della società rurale del tempo. Del pari è stato osservato che «In un ordinamento feudale in cui proprietà e cariche pubbliche (property and office) sono confuse, entro un sistema giuridico primitivo (primitive legal system) che presenta un diritto fondiario molto sviluppato, ma nessuna teoria contrattuale, l’elenco dei beni incorporali tende ad espandersi e a seguire il settore maggiormente sviluppato dell’ordinamento»54. E ancora: «Nell’economia prevalentemente agricola del dodicesimo secolo, la terra e i diritti connessi con la terra erano ugualmente importanti e pertanto venivano ugualmente protetti a mezzo di real actions di un tipo o dell’altro. A quel tempo il diritto contrattuale era rudimentale, ma molte situazioni che avrebbero potuto essere riguardate come contrattuali assumevano rilevanza giuridica con l’essere trattate e concepite alla stregua di attribuzioni proprietarie (grants of property)»55.

In altri termini, il mondo giuridico medievale pullulava di ‘beni incorporali’: nel senso che una qualunque situazione soggettiva a carattere durevole e suscettibile di essere alienata, tanto più se aveva ad oggetto o riguardava l’esercizio di poteri in un determinato ambito territoriale (land), veniva concepita come fosse una ‘cosa’ effettivamente esistente. Sicché, di fronte a una situazione del genere, il compito del giurista non era, né doveva essere, quello di attribuirvi rilievo patrimoniale di ‘bene’, più di quanto non avesse già nella considerazione comune; ma quello, appunto, di predicarne la natura ‘incorporale’56.

2.4. «Rights ‘in rem’» e «rights ‘in personam’»

È appena il caso di precisare, con riguardo alla terminologia in rem e in personam, con cui nei paesi di common law si è soliti chiamare i diritti ‘reali’ e ‘personali’, che la ragione per cui appare meno appropriato designare in inglese questi diritti con gli aggettivi real e personal è data dal significato tecnico che tali attributi hanno tradizionalmente assunto nel linguaggio di common law, con riferimento all’articolazione dei property rights nelle due categorie, appunto, della real e personal property57.

Ad ogni buon conto, al pari degli ordinamenti di civil law, anche nell’ordinamento (di tipo) inglese si distingue tra diritti ‘reali’ (property rights) e ‘personali’ (personal rights)58. La distinzione rileva sotto il profilo, innanzitutto, della qualificazione rispettiva di tali diritti: e

Gli autori

Guido Alpa

Michael Joachim Bonell

Diego Corapi

Luigi Moccia

Vincenzo Zeno-Zencovich

Andrea Zoppini

Un monito scelto dalla famiglia Laterza come esortazione alla tenacia e ad una costante crescita.

Catalogo

Scuola

Rete commerciale

Info

Diritto privato comparato

Gli autori

Guido Alpa

Michael Joachim Bonell

Diego Corapi

Luigi Moccia

Vincenzo Zeno-Zencovich

Andrea Zoppini

Altre opere degli autori

La vocazione civile del giurista

Paolo Grossi

Che cos'è il diritto privato?

Introduzione al diritto dei consumatori

Introduzione al diritto contrattuale europeo

Diritto della responsabilità civile

Il diritto dei consumatori

Elementi di diritto privato

I giuristi e l'Europa

Il diritto delle telecomunicazioni

Alcune ragioni per sopprimere la libertà di stampa

Contratto e antitrust

La concorrenza tra ordinamenti giuridici

La Newsletter di Laterza

Un monito scelto dalla famiglia Laterza come esortazione alla tenacia e ad una costante crescita.