Visto che ci troviamo alla fine dello stage, sarete probabilmente un po’ stanchi dopo
tante lezioni. Le questioni che vorrei trattare, inoltre, non sono affatto facili
da affrontare. Come è appena stato detto, provengo dalla filosofia, dunque dalla Grecia,
ma ho fatto la scelta di passare per la Cina. Ed è proprio su un simile scarto che
vorrei lavorare questa sera con voi, in quanto la Cina mi sembra essere la sola grande
civiltà che si è sviluppata al di fuori del pensiero europeo. Al di fuori della nostra
lingua, la grande lingua indoeuropea, e allo stesso tempo al di fuori della nostra
storia, almeno fino a un’epoca relativamente recente, fino al xvii secolo e addirittura,
di fatto, fino al xix secolo. Il vantaggio teorico di passare per la Cina è rappresentato dal fatto che
essa offre un altrove distante dai nostri punti di riferimento. Se si cerca un’esteriorità
della lingua, non la si potrà infatti trovare in India, visto che il sanscrito appartiene
alla famiglia delle lingue indoeuropee. Allo stesso modo, se si cerca un’esteriorità
nella storia, non la si potrà rintracciare nel mondo arabo o ebraico, legati da mille
fili alla storia dell’Occidente. Per chi intenda uscire dal pensiero europeo, volgendosi
tuttavia verso un mondo egualmente elaborato, civilizzato, testualizzato, come il
nostro in Europa, non c’è che la Cina.
Un’alternativa nella cultura
Questo mi riconduce al pensiero di Pascal con cui vorrei iniziare il mio discorso,
quando dice, per dimostrare l’eccellenza della religione cristiana: “Chi è più credibile,
Mosè o la Cina?”. La forza di una simile formula a mio parere risiede nel fatto che
essa si presenta nei termini di un’alternativa – questo o quello, un’alternativa fra due opzioni del pensiero, fra due mondi che si sono a
lungo ignorati –, e nel fatto che questa stessa alternativa è del tutto asimmetrica.
Da una parte Mosè, grande figura che simbolizza l’avventura religiosa dell’Europa
attraverso il monoteismo, dall’altra non Confucio, Lao Tzu o qualsiasi altro pensatore
cinese, ma “la Cina”, uno spazio di pensiero del quale Pascal, a quel tempo, ignora
pressoché tutto tranne la forza di obiezione che essa costituisce di fronte al pensiero
europeo. Quale dei due è più credibile, Mosè o la Cina? La formula è talmente forte
che consultando l’edizione critica dei Pensieri si potrà notare come essa sia stata poi cancellata dal suo autore. Pascal la avanza
e la ritrae. Perché, in pieno xvii secolo, dire “Chi è più credibile, Mosè o la Cina?” poteva risultare pericoloso.
In ogni caso, quelle parole risuonano brucianti. Per quanto mi riguarda, trovo assai
bella anche la formula che viene immediatamente dopo, mentre Pascal prosegue il suo
dialogo con il Libertino: “‘Ma la Cina oscura’ dite voi, e io rispondo ‘La Cina oscura,
ma vi si può trovare chiarezza – cercatela’”. Ma quale “chiarezza” ci può giungere
dalla Cina? Eccoci così invitati a dissipare tutto ciò che può interporsi come uno
schermo nebuloso fra il pensiero cinese e il nostro. È all’intelligenza che spetterà
il compito di seguire, e organizzare logicamente, queste diramazioni del pensiero, sbarrando la strada a ogni esotismo. Su questo punto, il ragionamento
sviluppato dai Pensieri si conclude con una formula a mio parere egualmente esemplare, per la sua capacità
di stimolare la ricerca: “Bisogna considerare tutto ciò in dettaglio, bisogna mettere
le carte sul tavolo”. Mettere le carte sul tavolo, ossia lavorare localmente, con
pazienza, per tentare di stabilire un confronto faccia-a-faccia fra il pensiero cinese
e quello europeo.
Lo sconvolgimento del pensiero
In effetti, se consideriamo bene cosa è stata la scoperta della Cina da parte dell’Europa
a partire dai secoli xvi e xvii, possiamo comprendere lo stupore provato dagli intellettuali europei riguardo a quel
lontano paese, conosciuto attraverso le informazioni provenienti dai rapporti delle
missioni. In precedenza, Marco Polo si era senza dubbio spinto fino alla Cina, ma,
avendo viaggiato per via di terra, non aveva potuto esperire quel senso di rottura
fra civiltà che si prova quando si scopre bruscamente, da un giorno all’altro, la
Cina, sbarcandovi dal mare. Riportiamoci dunque a quella storia dell’Europa rinascente,
conquistatrice, che si imbarca sulle caravelle volgendosi in primo luogo verso il
Nuovo mondo. Sappiamo che vi incontrerà un mondo vuoto, o che procederà a svuotare,
un mondo che in ogni caso non le resiste. Al massimo, tale mondo potrà suggerirle
il tema del “buon selvaggio”, nudo, che bisognerà vestire, e convertire. Si tratta
di una figura che non suscita particolari inquietudini, al di là dell’ambivalenza
con cui la si caratterizza: considerandolo prossimo allo stato di natura, il selvaggio
viene disprezzato in quanto non ha avuto accesso al regno della civiltà, ma insieme
ammirato poiché, non essendo ancora stato corrotto dai nostri costumi degenerati,
preserva in sé il candore e l’innocenza dell’umanità. Non può risultare inquietante
in quanto altro non fa che ricordarci ciò che eravamo anche noi agli inizi, quelli
dell’infanzia dei popoli, riconducendoci ai nostri primordi. Tuttavia, subito dopo
la conquista dell’America, le stesse navi, ossia in primo luogo i vascelli spagnoli
e portoghesi, si volgono verso i porti della Cina del Sud. Ma lì, sbarcando a Canton,
gli europei scopriranno un mondo pieno. Come noto, i missionari che sbarcano in Cina alla fine del xvi secolo dovranno imparare il cinese, rispettare i riti locali, onorare l’imperatore,
studiare i classici, in breve saranno costretti a cinesizzarsi, a indossare abiti
cinesi ecc. Giungeranno fino al punto di impartire lezioni di matematica all’imperatore
o di tradurre gli Elementi di Euclide. Alla fine, però, il messaggio cristiano non riuscirà a suscitare particolari
consensi. Il fatto è che i letterati cinesi non sembra siano rimasti particolarmente
turbati da quanto apprendevano sull’Europa, mentre i grandi spiriti europei dell’epoca
– lo abbiamo visto nel caso di Pascal – si dimostrarono inclini a rimanere stupiti,
quando non sconvolti, dalla scoperta dell’esistenza di questo altro mondo, estraneo
ai punti di riferimento europei e tuttavia sviluppato quanto il “nostro”.
Il primo testimone di una simile presa di coscienza è, a mio avviso, Montaigne che,
nella terza versione dei Saggi, aggiunge la seguente frase, fra parentesi, che nella sua sintesi è più eloquente
di qualsiasi lunga esposizione: “In Cina, regno del quale il governo e le arti, senza
rapporto con le nostre e senza conoscenza di esse, superano in eccellenza i nostri
esempi sotto diversi aspetti, e la cui storia m’insegna quanto il mondo sia più ampio
e vario di quel che gli antichi e noi possiamo concepire [...]” (III, xiii, Dell’esperienza). Tale è dunque l’esteriorità della Cina, la cui civiltà ha attinto un grado comparabile
al nostro, in Europa, ma che si è sviluppata in maniera indipendente da noi e, di
conseguenza, indifferente a noi. Essa ci fa scoprire una possibilità di pensiero fuori quadro, ossia che non passa per la grande filiazione che alimenta il pensiero europeo e
che questo considerava l’unica possibile: la sequenza che aveva inizio con Adamo,
Noè e il diluvio, si estendeva attraverso la Mesopotamia e l’Egitto, convergeva sulla
Grecia, si amplificava a Roma, per giungere fino a “noi”, il “noi” europeo.
Quando parlo di “esteriorità”, penso in primo luogo alle prime righe del grande libro
di Michel Foucault Le parole e le cose, in cui si parla, a proposito di un testo di Borges, dell’“eterotopia” della Cina,
da distinguere dalla sua utopia. Esiste, soprattutto in Francia, una tradizione utopica
riguardo alla Cina, sviluppatasi soprattutto nel xviii secolo: basti pensare al “catechismo” cinese o, in tempi più recenti, al maoismo.
Ma eterotopia significa tutt’altra cosa: non si fa riferimento a una terra più o meno
immaginaria in cui sarebbe promessa la felicità, ma ci si limita semplicemente a riconoscere
che il luogo è altro, che esiste un altrove del pensiero, e che questo altrove del pensiero fa reagire il nostro pensiero. Così
accade per Montaigne, per Pascal. Si potrebbe citare anche Montesquieu che, al termine
del primo libro dello Spirito delle leggi, dopo avere esposto il suo sistema di classificazione dei regimi politici, aggiunge:
in realtà quanto apprendo della Cina rischia di fare crollare tutto ciò che ho appena
costruito… Anche in questo caso, dunque, la Cina sarebbe fuori quadro, tanto da sconvolgere la distinzione fra i vari modi di governo stabilita da Montesquieu,
nel solco di una tradizione, risalente fino a Platone, che è quella del pensiero politico
europeo impegnato a riflettere sulle differenti forme politiche.
Montesquieu non mancherà ovviamente di rimettere in piedi il proprio sistema. Tuttavia
non si può passare sotto silenzio una sua successiva annotazione, che io trovo stupefacente
per acutezza. Si tratta anche qui di un’osservazione avanzata a titolo accessorio,
ma, come noto, è spesso in incisi del genere che il pensiero, spiazzando gli effetti
di sistema e la comodità che ne deriva, si apre spiragli e si spinge più avanti, si
trova nelle condizioni più favorevoli per rischiare: “Ne consegue una cosa molto triste,
ossia che è pressoché impossibile che il cristianesimo possa mai stabilirsi in Cina”.
Ecco che all’improvviso Montesquieu si rende conto, agli inizi del xviii secolo, che la religione cristiana, la quale fino a quel momento rappresentava la
verità per tutti, la Verità a vocazione universale, era in procinto di incontrare,
in Cina, un punto di inciampo, o comunque di resistenza. La constatazione, tanto più
notevole in quanto la Cina più di mille anni prima si era aperta al buddismo proveniente
dall’India, sarebbe stata confermata dalla storia, in quanto la Cina non si sarebbe
mai lasciata penetrare in profondità dal messaggio evangelico. Spero di avere il tempo
oggi, prima di concludere, di indicarne, almeno brevemente, il perché. Per il momento,
atteniamoci, in guisa di ouverture, alla stupita constatazione secondo la quale la Cina apre una diramazione del pensiero.
Lo testimonia anche Leibniz, quando evoca quelle “genti di un altro globo”: “La loro
lingua e il loro carattere, il loro modo di vivere, i loro artifici e i loro manufatti,
i loro stessi giochi differiscono dai nostri quasi come fossero di genti appartenenti
a un altro globo; a mio parere è impossibile che anche una nuda ed esatta descrizione
di ciò che si pratica presso di loro non ci fornisca lumi molto notevoli e ben più
utili a mio avviso della conoscenza dei riti e degli oggetti dei greci e dei romani
a cui si applicano tanti eruditi”. Per me, che per formazione provengo dai greci e
dai romani, in quelle parole risuona un avvertimento.
Riaprire altri possibili nel proprio spirito
Il mio lavoro, in effetti, procede in tale scia: venendo dalla Grecia, in quanto filosofo,
e passando per la Cina, ho incontrato il punto di scarto, o di distacco, per rimettere
in prospettiva il pensiero che ci appartiene, qui in Europa. Come noto, infatti, una
delle cose più difficili da fare nella vita è di prendere le distanze nel proprio
spirito. La Cina, appunto, ci permette di prendere le distanze dal pensiero da cui
proveniamo, di rompere con le sue filiazioni, di interrogarlo dal di fuori. In altre
parole, di interrogarlo nelle sue evidenze, in ciò che costituisce il suo impensato.
Il passaggio per la Cina possiede a mio parere due funzioni, o si sviluppa in due
direzioni: di deviazione e di ritorno. Primo momento: provare quello che può essere
uno spaesamento del pensiero. Che cosa accade, in realtà, al pensiero quando si abbandona
la storia della filosofia e, in particolare, i grandi filosofemi dell’Occidente: l’Essere, Dio, la Libertà ecc.? E, più ancora, quando si esce dalla
grande lingua indoeuropea che li ha articolati? Quale sconvolgimento, improvvisamente,
di colpo, li destabilizza? Ma la deviazione invoca un ritorno – anche se la deviazione non
si esaurisce, visto che continuo a leggere testi cinesi – che consiste nel riposizionarsi
sulla filosofia per interrogarla in ciò che essa non interroga, nel sondarla nei suoi
partiti presi. Ciò significa tentare di chiarire di traverso, a partire dal fuori
cinese, le scelte implicite, nascoste, che danno sostegno alla ragione europea e che,
perciò stesso, quest’ultima non è in grado di interrogare. C’è infatti ciò che penso
ma c’è anche ciò a partire da cui penso e che, quindi, non penso. La Cina ci fornisce così una sorta di punto di appoggio
esterno, operante in maniera obliqua, per cercare di risalire nell’impensato del nostro
pensiero, per ritornare su ciò che veicoliamo nel nostro spirito come qualcosa che
va da sé, ma che una volta riscoperto a partire dal fuori cinese viene percepito sotto
una diversa luce, stupefacente, affascinante, spingendoci nuovamente a pensare. Ormai
lo avrete capito: non vado in Cina spinto dal fascino della distanza e dal piacere
dell’esotismo, ma ricorro a essa come a un operatore (e rivelatore) teorico allo scopo
di inquietare il pensiero, di riaprire altri possibili nel nostro spirito e, di conseguenza,
per rilanciare la filosofia.
Per essere efficaci: modellizzare
Fatto questo preambolo, e chiarita così la prospettiva in cui mi muovo, mi soffermerò
stasera specificamente su una questione, le cui ricadute penso vi riguardino da vicino,
in quanto impegnati in funzioni di gestione aziendale e management: la questione dell’efficacia.
Per cogliere come i greci (e noi per eredità) da una parte, i cinesi dall’altra abbiano
potuto concepire in maniera differente ciò che in prima istanza definirei, in termini
comuni, l’efficacia o la strategia. Trattandosi di un punto sul quale il faccia-a-faccia
fra le due culture può essere stabilito con facilità, le due concezioni dell’efficacia,
greca e cinese, possono scrutarsi e illuminarsi a vicenda, o in altri termini riflettersi l’una nell’altra. A mio parere, la modalità greca di concepire l’efficacia può essere
così riassunta: per essere efficace, io costruisco una forma modello, ideale, di cui
traccio un piano e che mi pongo come obiettivo; poi inizio ad agire in base al piano
e in funzione dell’obiettivo. Si ha, quindi, prima la modellizzazione, la quale poi invoca la propria applicazione. Ciò conduce il pensiero classico europeo a concepire
l’intervento congiunto di due facoltà: l’intelletto che, come dice Platone, “concepisce
in vista del meglio” (che è la forma ideale); poi la volontà che si impegna per fare entrare la forma ideale, progettata, nella realtà.
A titolo di esempio, e nell’ambito della strategia propriamente detta, così agisce
il capo militare che, sotto la tenda o nelle stanze del consiglio di guerra, stabilisce
il piano delle operazioni prima di dispiegarlo sul terreno. Allo stesso modo, per
chiamare in causa un ambito a voi più familiare, opera l’economista che traccia la
curva di crescita, immaginando uno sviluppo ideale, e poi deve considerare le modalità
attraverso cui applicarla. Analogo è anche il caso, all’interno del pensiero europeo,
del pensiero politico. Si stabiliscono le forme ideali della città, che si dovranno
poi realizzare nel concreto. E questo accade già con Platone. L’“applicazione” esige
sempre un certo livello di forzatura, se non addirittura una rivoluzione. Ma anche
se risulta irrealizzabile, non per questo la forma ideale perde il valore di modello,
ci dice Platone, in quanto potrà svolgere la funzione di idea regolativa e, dal “cielo”
delle idee, guiderà l’azione. Anche le moderne Costituzioni, di cui la Francia è grande
consumatrice, possono essere considerate delle modellizzazioni. Si pensi alla Costituzione
concepita durante la Rivoluzione francese, talmente perfetta, perfino irenica, che
ci si affrettò a richiuderla in un tabernacolo, mentre il Comitato di salute pubblica,
di fronte all’emergenza della situazione, conduceva una politica di guerra e terrore.
Per quanto inapplicabile, quella Costituzione manteneva tuttavia uno statuto di forma
modello e di ideale di riferimento.
Decisivo, ai nostri fini, risulta sondare l’attenzione portata dal pensiero europeo
alla capacità di modellizzazione. Nella Repubblica di Platone ho trovato, a proposito della strategia militare, una formula notevole,
che risulta particolarmente stupefacente quando si passa per la Cina. In fondo, che
cosa fa di un generale un buon generale? Platone alla domanda risponde così: “Per
assediare un accampamento, per prendere una fortezza, per concentrare o dispiegare
un esercito e fargli compiere le appropriate manovre, sia in battaglia, sia in marcia,
un generale si rivela più o meno abile”. Vi lascio indovinare il seguito: “… a seconda
che sia o non sia un geometra”. Per essere un buon generale, un generale “abile”,
è necessario essere un buon geometra. E la geometria, ovviamente, rappresenta la modellizzazione
perfetta, il modello del modello. Di fatto, buona parte della tradizione strategica
europea, almeno fino a Clausewitz, ha pensato la strategia in primo luogo a partire dalla geometria, facendone una questione di angoli, di figure ecc. Certo,
il pensiero greco classico – penso in particolar modo ad Aristotele – non ha mancato
di interrogarsi su ciò che potrebbe intervenire a titolo di mediazione fra il piano
della forma modello, posta come fine, e quello della sua realizzazione. O, in altre
parole, fra la “teoria” e la “pratica”, termini per noi così comuni che abbiamo smesso
di interrogarli o, piuttosto, che non sappiamo più come interrogare né come inquietare.
E tuttavia siamo tormentati dall’idea di una dispersione nel passaggio dalla teoria
alla pratica, con la seconda che non riesce a portarsi al livello della prima. È per
questo che Aristotele introduce l’idea di una facoltà intermedia, che chiama phrónesis, di solito tradotto con “prudenza”, chiamata a ricollegare la modellizzazione con
l’applicazione e quindi a ridurre il divario che di norma le separa. Mentre Talete,
che intento a contemplare il cielo rischia di cadere in un pozzo, suscitando lo scherno
della serva trace, incarna la scelta della teoria pura, Pericle incarna la prudenza dell’uomo d’azione, che offre dimostrazione di “colpo d’occhio” e “capacità di giudizio”
e si dimostra in grado di calibrare le proprie decisioni sulla contingenza della situazione.
O appoggiarsi sui fattori “portanti”: “surfare”
Ovviamente, il pensiero greco non può certo essere riassunto nello schema di pensiero
della modellizzazione e della sua applicazione. Per vederlo, basta volgersi agli strati
più antichi, alla Grecia arcaica. Prendiamo, per esempio, un personaggio come Ulisse.
Quando si leggono l’Iliade e l’Odissea si coglie chiaramente come Ulisse non sia uno che prima modellizza, e poi mette in
pratica il suo piano. Viene chiamato “Ulisse dalle mille risorse”, Ulisse abile, “astuto”,
ingegnoso, polytropos. La sua forza, nel racconto omerico, risiede nel fatto che sa percepire i vantaggi
che può trarre dalle circostanze e li sfrutta. Così, quando si dice “l’astuto Ulisse”,
il termine astuto suona ancora troppo psicologico. Esso dovrebbe infatti essere inteso
in un’accezione più strategica, in quanto rimanda al fatto che Ulisse cerca di cogliere
in quale senso stia evolvendo la situazione e come trarne profitto.
Ciò ci spinge a considerare più da vicino una nozione che è esistita nel greco antico,
o meglio arcaico, prima dell’avvento della filosofia, e alla quale i grandi grecisti
francesi Marcel Detienne e Jean-Pierre Vernant hanno dedicato qualche tempo fa un
bel libro. Cito il termine in greco, metis, in quanto non possediamo equivalenti diretti per tradurlo nelle nostre lingue. Per
renderlo, ricorrerei alla lingua parlata, quella più ancorata nell’esperienza: la
metis è il “fiuto”, così come si parla di fiuto negli affari. Detienne e Vernant, per esigenze
di sintesi, ricorrono alla formula “astuzie dell’intelligenza”. Ma, come ho detto,
non si tratta di astuzia in senso psicologico o nell’accezione in cui è condannata
dalla morale. La metis è semplicemente la capacità di trarre vantaggio dalle circostanze, di vedere come
la situazione evolve e sfruttare in essa l’orientamento favorevole. Ricorriamo ancora
al linguaggio parlato, che esprime direttamente l’esperienza: dare prova di metis significa scoprire i fattori “portanti” in seno alla situazione per lasciarsi trasportare
da essi. Cerchiamo di cogliere ciò che lascia trasparire tale termine, che si è imposto
nella lingua ordinaria ma che il dizionario non chiarisce: quando si parla di mercato
“portante” (negli affari), o quando si dice semplicemente: “è portante”, questo significa
che tutta l’iniziativa non proviene da me, in quanto soggetto, autore, che proietto il mio piano sul mondo, spendendomi e assumendomi dei rischi, ma che,
individuando fattori favorevoli in seno alla situazione, posso lasciarmi portare da essi. Prendo la situazione, oserei dire, “nel senso del pelo”, traendo partito
dal suo sviluppo. Un’altra immagine, oggi egualmente diffusa, tratta dal mondo dello
sport acquatico, è quella del “surfare”. Di Ulisse, direi che surfa, lui che per tanti
anni è stato in balìa delle onde sopravvivendo aggrappato alla sua zattera.
Attraverso questi termini ordinari ma poco analizzati dalla filosofia emerge come
quanto comunemente si definisce “opportunismo” debba essere considerato non in senso
morale, negativo, ma strategico. Nella figura di Metis, una simile nozione era presente
nella Grecia arcaica. Lo dimostra il fatto che Zeus, quando assume il potere sul mondo,
il mondo degli dei e degli uomini, sposa Metis, per essere sicuro di consolidare la
sua posizione appoggiandosi sulle circostanze ed evitare il rischio di essere abbattuto
da esse, così come lui ha scalzato gli dei precedenti. Egli vuole che la nuova autorità
da lui conseguita possa accordarsi con le evoluzioni a venire, nonostante l’instabilità
delle cose, grazie all’acquisizione della capacità di oscillare. In seguito, Zeus
giungerà fino ad inghiottire Metis per essere certo di assimilarla in maniera totale
e quindi di instaurare il proprio regno sul corso del tempo.
È significativo che la nozione di metis, intesa come capacità di trarre profitto dalle circostanze e di lasciarsi portare
da esse – così importante, come si è visto, nel pensiero della Grecia arcaica – scompaia
dal pensiero greco classico. E anche il termine sparisce dalla lingua greca, cade
in disuso, andato, per così dire, in prescrizione. Non a caso ai grecisti che si citavano
in precedenza è stata mossa la critica di avere dedicato eccessiva attenzione a una
nozione che in Grecia viene abbandonata con lo sviluppo della filosofia. Ma ciò è
accaduto proprio perché è stata schiacciata dall’altra opzione, quella della forma
modello e della sua applicazione, la grande nozione platonica dell’eidos, che abbiamo evocato in precedenza. Un’opzione, quindi, sopraffacendo l’altra e diventando
l’opzione maggioritaria della filosofia, ha instaurato il regno della modellizzazione.
Domanda: quali sono i limiti di fecondità del modello?
La questione che questa sera vorrei porre è la seguente. La modellizzazione, lo sappiamo,
ha rappresentato la forza dell’Europa. Lo si può facilmente constatare attraverso
il confronto con la Cina. Mentre fino al xiv secolo Cina ed Europa hanno conosciuto un’evoluzione simile dal punto di vista tecnologico
(o meglio, in determinati ambiti, per esempio la stampa o le imbarcazioni, la Cina
appare più avanzata), all’improvviso le due civiltà desincronizzano i ritmi del loro
sviluppo. Che cosa provoca, verso il xv-xvi secolo, il brusco sfasamento a partire dal quale la civiltà europea intraprende il
suo impressionante cammino di sviluppo, mentre sul versante cinese si assiste addirittura
alla tendenza a una relativa stagnazione? Una delle possibili risposte risiede nella
constatazione che l’Europa ha investito pesantemente sul potenziale, e sul rendimento,
del pensiero del modello e, in primo luogo, del modello per eccellenza, quello che
ci viene dalla matematica. La grande idea europea – proveniente dai greci ma che assume
il suo pieno significato all’improvviso con Galileo e risale poi l’Europa passando
per Descartes e Newton – è che le matematiche sono un linguaggio. L’universo viene
così visto come un “grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli
occhi”, dice Galileo, ma che “ non si può intendere se prima non s’impara a intender
la lingua, e conoscer i caratteri ne’ quali è scritto” (Il saggiatore, 1623). Ed è scritto “in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi,
ed altre figure geometriche”.
Si tratta di un’idea per molti versi folle, ma infinitamente feconda. Folle, in ogni
caso non sensata, in quanto, ancora oggi, nessuno è in grado di spiegare il motivo
per cui i fenomeni naturali possono così comodamente essere riordinati dalle costruzioni e dai ragionamenti matematici,
e da dove provenga la “sragionevole efficacia” di questi. Ma infinitamente feconda,
in quanto è solo in Europa che è apparsa questa possibilità di applicazione della
matematica alla natura, dando origine alla fisica classica, meccanicista, che in un
arco di tempo limitato, a colpi di invenzione ripetuti, ha cambiato la faccia del
nostro pianeta. Certo, esistono matematiche cinesi, intese come procedure trasformazionali,
algoritmicamente sviluppate e operanti in un determinato settore, ma mai i cinesi
hanno pensato che le matematiche potessero esser...