Relazioni pericolose

Paolo Mieli legge Valentine Lomellini

Un saggio di Valentine Lomellini sottolinea che la posizione morbida assunta da molti Paesi verso la guerriglia palestinese convinse gli arabi che la violenza indiscriminata fosse un valido strumento diplomatico

Paolo Mieli | Corriere della Sera | 6 febbraio 2023

Davvero strano il fatto che gran parte dei libri di storia sugli ultimi cinquant’anni, costretti a fare i conti con il terrorismo internazionale del dopo 11 settembre 2001, abbiano del tutto (o quasi) trascurato le analoghe forme di violenza che hanno contrassegnato il trentennio precedente all’abbattimento del Torri Gemelle. Si tratta di fenomeni terroristici che ebbero caratteristiche in parte diverse: laico e social rivoluzionario il primo, quello arabo-palestinese; di radicalizzazione religiosa il secondo, quello islamista. Ma i due fenomeni hanno avuto altresì evidenti punti di contatto. In più hanno conosciuto un abbondante ventennio, gli anni Ottanta e Novanta, di accavallamento. Ed è di questo che si occupa Valentine Lomellini in un importante libro, La diplomazia del terrore. 1967-1989, in uscita il 17 febbraio per Laterza.

Il terrorismo arabo-palestinese, scrive Lomellini, «fu il primo a internazionalizzare la propria lotta». E, pur con una matrice diversa, «la sua eredità appare evidente nello sviluppo nella successiva ondata di terrorismo, quella religioso-islamista». La «rimozione del terrorismo arabo-palestinese e l’assenza di un discorso pubblico ad esso relativo hanno avuto un effetto deformante sugli studi che si sono occupati del terrorismo islamico dopo l’11 settembre». Se è vero che l’attacco alle Torri Gemelle costituì «un evento senza precedenti nella storia del terrorismo per target, numero di vittime e conseguenti reazioni», fingere «che esso sia stato un’autentica sorpresa» genera inevitabilmente «una distorsione nella lettura del fenomeno». A questo punto va resa esplicita una cosa evidente: il terrorismo arabo-palestinese e poi quello islamista «avevano optato per l’esportazione della propria lotta quarant’anni prima che Al Qaeda abbattesse il complesso del World Trade Center». Contestare questo dato o cercare di annacquarlo equivale a negare sia la storia che la memoria.

Un tema, questo, già affrontato da Francesco Benigno in Terrore e terrorismo. Saggio storico sulla violenza politica (Einaudi). Ma allora perché una riflessione del genere non si è affacciata in importanti libri come L’Europa nel vortice. Dal 1950 ad oggi di Ian Kershaw (Laterza)? O Tensioni globali. Una storia politica del mondo 1945-2020 di Wilfried Loth (Einaudi)? Non è comprensibile che una correlazione così rilevante, a causa di una evidente sottovalutazione, non sia stata approfondita da John L. Harper in La guerra fredda. Storia di un mondo in bilico (il Mulino). Quantomeno Antonio Varsori in Storia internazionale. Dal 1919 a oggi (il Mulino), Eric J. Hobsbawm nel celeberrimo Il secolo breve. 1914-1991 (Rizzoli) e Marcello Flores in Il secolo mondo. Storia del Novecento (il Mulino), si sono sentiti in dovere di citare il fenomeno. E per questo meritano una menzione che contiene un qualche riguardo da parte di Valentine Lomellini.

Nessuno (o quasi) ricorda — sottolinea Lomellini — che il terrorismo internazionale «ha per prima colpito l’Europa». E ha prodotto «una serie di attentati con un esito più o meno tragico in termini di vittime per vent’anni» Con un impatto forse relativo per quel che riguarda i morti. Può essere — concede l’autrice — che questo spieghi, almeno in parte, perché l’Europa sia stata così recalcitrante a prendere in considerazione il fenomeno. E perché, quando lo ha fatto, l’Europa si è mossa con i piedi di piombo. Di più: il nostro continente, ad evitare nuovi attentati, ha cercato un’intesa pacificatrice con i Paesi che furono a ogni evidenza i mandanti di alcuni atti terroristici. Ma perché ridimensionare fino quasi a ignorare fatti che hanno insanguinato l’Europa per una trentina d’anni?

Nella teorizzazione quelle forme di terrorismo furono concepite in ambito arabo-palestinese già nella prima metà degli anni Sessanta. Nel luglio del 1968 il Fronte popolare per la liberazione della Palestina inaugurò l’epoca della messa in pratica di quelle forme di terrorismo con il dirottamento di un volo della compagnia israeliana El Al partito da Roma e diretto a Tel Aviv. In quel momento — scrive Lomellini — il Vecchio Continente diventava uno degli scenari di lotta. Ben 47 anni prima dell’attacco al Bataclan di Parigi (novembre 2015), «gli europei diventavano ostaggio del terrorismo mediorientale». La cui variante religiosa sarebbe nata dopo il 1979. Evolvendosi in forme differenti sino ad Al Qaeda e all’Isis.

Fu solo nei mesi successivi alla strage delle Olimpiadi di Monaco del 1972 che l’Europa mise in piedi un network informale per affrontare il tema del terrorismo internazionale. Anche se da documenti declassificati nel 2014 si evince che già nel 1965 il ministero dell’Interno italiano aveva proposto, in una riunione a Roma nel quadro del Mercato comune europeo, «un accordo di collaborazione» fra gli organi di sicurezza di sei Paesi: Italia, Francia, Germania occidentale, Belgio, Olanda e Lussemburgo. Segno che, in margine a questo problema, qualcosa era stata intuita già alla metà degli anni Sessanta. Ma fino agli anni Settanta i movimenti contestatori di orientamento rivoluzionario costituivano la principale preoccupazione dei governi occidentali. Con l’eccezione (già nel 1969), nota Lomellini, della Gran Bretagna che, pur afflitta dalla questione nord-irlandese, si mostrò attenta al fenomeno emergente del terrorismo arabo. Rivelandone «una buona conoscenza».

Al centro dell’attenzione dei Paesi europei era però il «ruolo del Cremlino nella genesi della sovversione internazionale». L’autrice cita ad esempio la convinzione del ministro dell’Interno francese che dietro la «guerra politica permanente», fatta di «intossicazione pianificata dell’opinione pubblica, penetrazione insidiosa nella società e manipolazione dei réseaux rivoluzionari e terroristici», vi fosse l’Unione Sovietica. Già alla fine degli anni Sessanta, i rappresentanti olandese, belga e tedesco in seno al network di cui si è detto sottolineavano l’utilizzo di «esplosivo di fabbricazione russa» negli attentati arabi all’Aja e a Bonn; gli italiani suggerivano una diramazione nei «movimenti rivoluzionari arabi» operando una distinzione tra quelli di «osservanza moscovita» (come Al Fatah) e quelli «di tendenze estremiste», cioè filocinesi e castriste. Con l’implicita considerazione che con le emanazioni dell’Urss dovesse essere alternato un atteggiamento benevolo nei confronti di Fatah ad uno più ostile nei confronti dei gruppi più radicali. Anche se, come sarà evidente in seguito, tra queste diverse entità la separazione non era così netta come all’epoca esse stesse seppero far apparire.

Il libro cita una nota del ministero degli Esteri francese all’epoca di Maurice Schumann (1969-1973) da cui emergeva «tutta la difficoltà di prendere una posizione unica» nei confronti dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina e del suo leader Yasser Arafat, il quale aveva aperto un canale di dialogo con il Quai d’Orsay. La Francia si trovò in una posizione difficile a causa della sua volontà di sfruttare quest’apertura. Volontà manifestata a dispetto della «consapevolezza dell’esistenza di anime differenti in seno all’Olp, alcune delle quali utilizzavano la violenza armata come metodo di lotta e auspicavano la scomparsa di Israele». Le cose andarono proprio così: nei primi anni Settanta «il prisma della guerra fredda impediva di leggere con chiarezza la specificità del terrorismo arabo». Questo «prisma» produceva «distorsioni non secondarie nell’analisi del fenomeno terroristico». Il punto non è che Mosca non fosse coinvolta nel fenomeno. Ma adesso è chiaro che «il sostegno dell’Urss ai movimenti terroristici non implicava un’eterodirezione».

I movimenti terroristici avevano un’identità tutta loro e «perseguivano i propri scopi». Talvolta «i loro interessi e quelli di Mosca andavano nel medesimo senso di marcia». Ma spesso non era così. II Cremlino «fornì in alcuni casi un supporto diretto». Che riteneva dovesse servire «non tanto alla destabilizzazione mondiale bensì a ottenere benefici più limitati e immediati». Ad esempio «informazioni sui sistemi di intelligence occidentali, aumento del mercato della vendita di armi, sviluppo dei rapporti con gli Stati arabi che sostenevano direttamente il terrorismo mediorientale».

E qui iniziò, a dispetto del fatto che l’Europa si fosse trasformata nel «campo di battaglia» del terrorismo internazionale, la politica di appeasement dei Paesi del Vecchio Continente nei confronti delle organizzazioni palestinesi (anche le più radicali, era sufficiente che adottassero ogni volta nuove sigle) e dei Paesi ai quali esse facevano capo. Quasi sempre i Paesi europei erano in concorrenza tra loro. Ma Francia e Repubblica federale tedesca furono le più attive in questa direzione.

Solo nell’aprile 1986, dopo diciott’anni di attentati, l’Unione europea occidentale decideva di prendere posizione contro alcuni Paesi considerati sponsor del terrorismo internazionale. Ma — scrive Lomellini — lo fece «con estrema circospezione», nonostante gli Stati Uniti chiedessero una qualche risolutezza quantomeno nei confronti della Libia. Cosa impedì, si chiede la storica, un coordinamento politico contro il terrorismo internazionale tra Stati europei che condividevano storia, principi, tradizioni e il comune intento di consolidare la Comunità europea, e che si ritrovavano periodicamente?

Fermo restando che il dialogo, con l’Olp prima e quindi con l’Anp, sia stata un’ottima cosa, va ora messo in evidenza come i palestinesi avessero raggiunto il proprio obiettivo di accreditamento nei confronti dei Paesi europei, divenendo un interlocutore nel processo di pace mediorientale. Ciò che avvenne anche (sottolineiamo: anche) per effetto del terrorismo internazionale. Terrorismo che, secondo Lomellini, generò «un frutto perverso»: quello di «una stabilità basata sull’uso della coercizione terroristica». Per ottenere quella stabilità, «gli Stati europei caddero tuttavia in una contraddizione» A partire dalla strage di Monaco del 1972, poi con l’attentato contro la sede dell’Opec a Vienna nel dicembre 1975 e la crisi di Entebbe dell’estate 1976, «fu chiaro che il terrorismo era in grado di generare crisi diplomatiche internazionali». E l’Europa reagì con una politica di appeasement. M che viene naturale una domanda: quanto incise questa politica «nel generare la convinzione che il terrorismo internazionale fosse un utile mezzo di coercizione diplomatica»?

Molto. La strategia dell’appeasement «funzionò nel medio termine e garantì ai Paesi europei una certa sicurezza rispetto all’attuazione degli attentati». Talché sarebbe facile trarne la conclusione che l’appeasement «ebbe come effetto diretto la proliferazione dei movimenti terroristici di origine e orientamento islamista che hanno colpito l’Europa incessantemente e per vent’anni dall’inizio del terzo millennio». La correlazione però non è così semplice da dimostrare e non fu diretta. Inoltre, l’aiuto degli Stati considerati «empi», come l’Unione Sovietica, fu rifiutato dai jihadisti degli anni Ottanta e Novanta. Anche qui con delle eccezioni e delle sovrapposizioni. Ad esempio, Abdullah Azzam (morto nel 1989), grande combattente della guerriglia antisovietica in Afghanistan e altrettanto grande teorico della jihad contemporanea, aveva maturato le sue convinzioni islamiste prendendo parte alla Resistenza palestinese (e restandone deluso). I «casi Azzam» sono innumerevoli. Ciò rende evidente che è giunto il momento di occuparci dell’intreccio tra i due terrorismi, quello palestinese e quello islamista: Ma soprattutto del radicale cambio di atteggiamento dell’Europa nei confronti di questi fenomeni. Un tema meritevolmente messo in evidenza da Valentine Lomellini che, si spera, dovrebbe, d’ora in poi, essere affrontato dagli storici che si occupano degli ultimi sessant’anni. Senza reticenze.