La scoperta di un’altra America

Umberto Gentiloni legge Paolo Chiesa

Lo studioso Paolo Chiesa parte da un frammento scritto da un frate del Trecento per avventurarsi in un mistero storico appassionante. Tra indizi e riflessioni sul metodo

Umberto Gentiloni | Robinson – la Repubblica | 21 gennaio 2023

Il nuovo mondo appare una scoperta imprevista quando Cristoforo Colombo inizia il viaggio verso le Indie e si ritrova in terre sconosciute e inospitali. I confini mobili del globo si aprono verso orizzonti e prospettive ignote, tutto cambia: dai viaggi alle distanze, dalle prospettive alle compatibilità geografiche. Ma mentre il tempo ha messo in questione il rapporto gerarchico tra chi scopre e chi viene scoperto, tra Oriente e Occidente, tra la forza di chi vuole imporsi e le debolezze delle popolazioni indigene, un manoscritto di un frate milanese del Trecento, Galvano Fiamma, sembra spingere indietro le prime tracce dell’America.

Un nome compare due volte con grafie leggermente diverse, marginale e nascosto in un testo più ampio. Una breve notizia, dentro un ritrovamento prezioso: «I marinai che frequentano i mari della Danimarca e della Norvegia dicono che oltre la Norvegia, verso settentrione, si trova l’Islanda. Più oltre c’è un’isola detta Grolandia […] e ancora oltre, verso occidente, c’è una terra chiamata Marckalada. Gli abitanti del posto sono dei giganti: esistono edifici di pietre così grosse che nessun uomo sarebbe in grado di metterle in posa, se non grandissimi giganti. Lì si trovano alberi verdi, animali e moltissimi uccelli. Però non c’è mai stato nessun marinaio che sia riuscito a sapere con certezza notizie su questa terra e sulle sue caratteristiche». Ha ricostruito l’avventura del manoscritto Paolo Chiesa (Marckalada. Quando l’America aveva un altro nome, Laterza) in un volume che tratteggia un contesto avvincente spingendo curiosità e interrogativi ben oltre il perimetro di un medioevo misterioso e lontano.

Le tracce dell’America risalirebbero, secondo il manoscritto, a un secolo e mezzo prima del viaggio di Colombo. Ma procediamo con ordine seguendo la trama dell’autore nei suoi snodi essenziali. Prima di tutto il documento e il suo ritrovamento, una ricerca a tappe, quasi fosse una caccia al tesoro dove «non è perduta la mappa del tesoro, ma quella del mondo». Il testo va all’asta prima negli Stati Uniti e poi in Gran Bretagna: nel 1996 da Christie’s (quasi 15 mila dollari) e due anni dopo da Sotherby’s (oltre 42 mila dollari). Le vendite contribuiscono ad attirare attenzioni e a spargere curiosità e notizie su voci riconducibili all’ambiente genovese, al passaparola tra marinai, esploratori, mercanti che si muovono dal Mediterraneo. Chiesa riesce in coda a una serie di circostanze propizie a vedere il manoscritto Cronica Universalis nel 2015, presso il prestigioso Grolier Club nell’Upper East Side a Manhattan. Lo fotografa, ne acquisisce rapidamente l’essenza, salvo poi dover chiedere supplementi d’immagini a preziosi compagni di strada che infittiscono la rete di relazioni attorno al testo e al suo racconto. Intermediari e luoghi di conservazione restano in parte nascosti, non rivelati dallo stesso autore. Il testo appare noioso e ripetitivo fino al passaggio in questione, alla possibile scoperta di un nuovo inizio: «Si tratta della più antica menzione storica di questo continente che sia stata finora trovata nell’area mediterranea».

Più che certezze consolidate l’autore riesce a condurre il lettore nei quesiti più profondi che investono le ragioni portanti della ricerca in campo umanistico. Cosa si nasconde dietro l’unicità dei manoscritti nel tempo della rivoluzione digitale e perché sono cosi preziosi? Chi era Galvano Fiamma e cosa si cela dietro un frate che riporta stralci di notizie che arrivano dal porto di Genova fino a noi in una storia lunga settecento anni? E ovviamente la questione sul rapporto tra vero e falso nei sentieri della ricerca storica e nelle domande sulla veridicità del manoscritto analizzato. Tali questioni mettono persino in secondo piano il richiamo alla Marckalada con buona pace di Cristoforo Colombo. Il manoscritto incrocia la storia del tempo presente: i rifiuti di riviste internazionali alle proposte di un saggio (ben due bocciature), il valore di un lavoro di squadra che dalla penna dell’autore diventa collettivo, il lascito di una scoperta utile a percorrere con intelligenza tracce di passato. «Nulla di nuovo su chi ha scoperto l’America, se non dimostrarci la permeabilità di mondi, fra il Nord e il Mediterraneo, fra l’Est e l’Ovest; un contatto che non passa da libri o governi, ma da esperienze di viaggio».

La trama di un tempo che riaffiora: «Una storia stretta, dove i documenti sono piccoli e pochi, ma ciascuno pesa molto; quello che dice Galvano è una tessera in più, e per questo importante. Non cambia, forse, per Colombo, ma permette di vedere le cose in un modo diverso. Dimostra un’ampiezza di scambi e una circolazione di notizie che finora si sospettavano soltanto, ma di cui non si aveva la prova; dimostra che viaggiatori e studiosi comunicavano fra loro, e l’esperienza degli uni valeva alla conoscenza degli altri».