Hackers: storia e pratiche di una cultura

Un’intervista a Federico Mazzini

Su Letture.org, un’intervista a Federico Mazzini a partire dal suo Hackers. Storia e pratiche di una cultura.

 

Innanzitutto, cos’è un hacker?

Buona parte del libro è dedicata a descrivere i cambiamenti del significato della parola in diverse epoche storiche e dal duplice punto di vista dei media e degli hacker stessi. Forse è più semplice cominciare da cosa non è necessariamente un hacker: non è per forza un criminale e non si occupa soltanto di tecnologie informatiche. Secondo un celebre esempio di Richard Stallman, uno degli hacker più famosi e influenti di sempre, trovare il modo di usare quattro bacchette invece di due per mangiare in un ristorante coreano è un buon esempio di “hack”: una trovata che richiede eleganza, semplicità e originalità nel rapporto con la tecnologia.

Vero è che la parola nasce in ambito informatico: ma obiettivo del libro è provare che le motivazioni e i tratti culturali dell’hacking esistevano ben prima del computer, ad esempio in comunità di appassionati di radio e di telefoni. Ho proposto così una definizione che mi potesse guidare nei cento anni di storia che prendo in considerazione: un “hack” è un qualsiasi atto originale, operato su qualsiasi tecnologia, che volto ad ottenere funzioni o performances non previste dal suo designer originale.

 

In cosa consiste la cultura hacker?

Importante corollario alla definizione precedente è che un “hack” per essere tale, deve essere comunicato e riconosciuto all’interno di una comunità. Proprio per evidenziare la lunga storia dell’hacking ho preferito parlare di “culture tecniche” piuttosto che di cultura hacker. E i tratti che caratterizzano queste culture tecniche, dai radio amatori di inizio Novecento fino agli hacker degli anni Novanta, sono sorprendentemente costanti. Composte perlopiù da giovani bianchi, maschi e di classe media, le culture tecniche novecentesche disegnano la propria gerarchia sulla capacità individuale di piegare la tecnologia al proprio volere, in costante competizione interna (tra membri della stessa comunità o di comunità contrapposte) ed esterna (con chi ha creato la tecnologia, la commercializza o tenta di renderla impervia all’intervento esterno). Un forte accento è posto sull’apprendimento pratico, attraverso l’uso e non attraverso lo studio, e sul libero accesso e scambio delle informazioni. Per questo le posizioni politiche delle comunità hacker tendono spesso verso un generico libertarianesimo estremamente diffidente verso ogni tipo di autorità centrale che possa impedire o limitare l’accesso alla tecnologia o alla comunicazione.

 

Quando e come nascono gli hackers?

Per lungo tempo si è creduto che l’hacking fosse nato dove è nata la parola “hack” riferita all’informatica: nei campus statunitensi tra gli anni Sessanta e Settanta. E in un certo senso, se ci riferiamo soltanto al computer hacking, questo è vero. Ma studiando i “phone phreaks”, appassionati di telefoni che tentavano di piegare il sistema telefonico pubblico al proprio volere al pari di quanto stavano facendo gli hacker nelle università e con i computer, mi sono reso conto che questa ricostruzione era semplicistica. Le comunità phone phreaks si sviluppano esse stesse tra gli anni Sessanta e Settanta e, nonostante siano inizialmente formate da studenti medi che non avevano niente a che vedere con le università, evidenziano caratteristiche culturali del tutto analoghe a quelle che si stavano sviluppando nei laboratori informatici universitari. Come è possibile che due comunità sviluppassero gli stessi caratteri a scapito degli scarsi contatti tra di esse? La mia risposta è che sono entrambe frutto di idee che caratterizzano la cultura statunitense: l’idea che il giovane (maschio e bianco) abbia un rapporto privilegiato con la tecnologia, che il giocare e imparare attraverso l’uso fosse una attività appropriata per la gioventù statunitense. L’idea, correlata, che l’innovazione tecno-scientifica non fosse guidata da laboratori e istituzioni, ma dal genio individuale, spesso in contrapposizione con università e centri governativi. Il gusto per l’under-dog, il singolo individuo che, a scapito dei suoi limitati mezzi e di un contesto che sembra schiacciarlo, riesce a piegare il sistema (tecnologico e sociale) al proprio volere. Andando a ritroso nel tempo possiamo vedere queste idee nella divulgazione scientifica dedicata ai giovani e nella fantascienza popolare alla fine del diciannovesimo secolo e, in maniera molto evidente, nelle comunità di radio amatori di inizio Novecento.

 

Come si è articolato il processo di mediatizzazione e parallela criminalizzazione degli hackers avvenuto dalla fine degli anni Ottanta?

I giovani che giocano con la tecnologia hanno goduto di ottima stampa per buona parte del ventesimo secolo. Anche i primi episodi di computer hacking illegale negli anni Settanta sono stati presi con bonaria sorpresa più che con ostilità o paura: l’idea che dei ragazzini potessero farsi beffe di istituzioni e centri di ricerca universitari, dominando una tecnologia ancora per molti misteriosa come quella del computer evocava la tradizionale figura del “whiz-kid”, il bambino prodigio e autodidatta che tanta parte aveva avuto nella fantascienza e nella stampa popolare. Questo inizia a cambiare quando la stampa e la popolazione si rendono conto, verso la fine degli anni Ottanta, che il computer è parte integrante della quotidianità: questi ragazzini potevano avere accesso al sistema elettrico, telefonico, sanitario o bancario e questo accesso poteva avere serie conseguenze. Non ci sono in quegli anni episodi in cui questi sistemi siano stati messi seriamente in pericolo: ma il pericolo bastava per suscitare l’attenzione, spesso sensazionalista ed eccessivamente catastrofica, degli organi di informazione, del cinema, della letteratura e infine dei legislatori.

Questo non significa però che l’hacker sia stato descritto in maniera esclusivamente negativa. Da whiz-kid l’hacker si trasformava in bandito, una figura come sappiamo sempre ambivalente, capace di ispirare sia disprezzo e paura che ammirazione e fascino.

 

Quali vicende hanno segnato la storia dei movimenti Free Software e Open Source?

La nascita dei movimenti Free Software e Open Source segna una nuova risemantizzazione dell’hacker, in chiave nuovamente positiva. Il movimento Free Software è fondato da Richard Stallman, allora ricercatore del MIT, a metà degli anni Ottanta, in risposta alla nascita dell’industria del software. Prima di allora la commercializzazione dei computer riguardava solo l’hardware: il software era fornito gratuitamente con la macchina e il suo codice era “aperto”, di libera consultazione per chiunque fosse in grado di leggerlo ed eventualmente modificarlo. Con il diffondersi dei personal computers e la nascita di un’industria dedicata, il software veniva fornito protetto da diritti di autore che ne impedivano la modifica. In luogo di piegarsi a questa imposizione, che vedeva come pericolosa per la sua comunità (hacker) di appartenenza, Stallman decise a creare un sistema operativo libero da diritti di autore, che chiamò GNU, e una comunità che lo curasse e lo facesse crescere – la Free Software Foundation. Inaspettatamente il risultato più importante della fondazione non fu un software, ma un dispositivo legale. Il sistema operativo non vide infatti mai la luce, e sarebbe stato completato indipendentemente dal movimento, sotto il coordinamento di Linus Torvald e con il nome di Linux. Ma Linux non sarebbe stato possibile senza l’apporto dei programmi scritti dalla FSF e soprattutto senza la protezione della licenza creata da Stallman, la GNU Public License. La GPL è un vero e proprio hack sulla legge: laddove questa è disegnata per proteggere il diritto di autore la GPL serve a renderlo impossibile e a convertire programmi proprietari in programmi “free”. Chiunque usi del codice protetto dalla GPL è obbligato a rendere l’intero programma all’interno del quale inserisce il codice leggibile e modificabile.

Il movimento Open Source nasce alla metà degli anni Novanta, almeno in parte in contrapposizione al movimento Free Software e in seguito al successo di Linux come esperimento di creazione collettiva e gratuita di un sistema operativo. Il problema che si poneva al tempo era: come convincere attori istituzionali e grandi corporation a adottare Linux e il modello Open Source? La risposta fu: liberandosi in primo luogo dei significati etico-politici che Stallman aveva infuso nel concetto di Free Software. Open Source significava sì che il codice era leggibile e modificabile, ma in nessun modo che esso doveva essere gratuito, e men che meno che ogni software che utilizzasse codice Open Source fosse obbligato a rendere l’intero programma Open Source. Da un certo punto di vista Open Source significa un arretramento rispetto alle aspirazioni di apertura e democrazia del Free Software. D’altra parte è innegabile che il restyling sia stato un successo: molti attori istituzionali e industriali usano Linux e altri programmi Open Source.

 

Cos’è l’«hacktivismo»?

Per hacktivismo si intende genericamente l’hacking messo al servizio di cause politiche. Il termine nasce negli anni Novanta da un gruppo di hacker texani, il Cult of the Dead Cow, ma le culture tecniche avevano cominciato a occuparsi di politica ben prima. Uno dei punti centrali del libro è che le modalità della comunicazione politica di gruppi hacker recenti (ad esempio Anonymous) ha i suoi natali nelle riflessioni della controcultura statunitense degli anni Settanta e in particolare negli Yippies. Il loro fondatore, Abbie Hoffman, aveva teorizzato il “monkey theatre”: una forma di comunicazione politica basata sullo scherzo oltraggioso ed esagerato, volto a dare visibilità mediatica a un gruppo minoritario e di nicchia. Si trattava, nei fatti, di un hack sui media: conoscendo a fondo il sistema mediatico, gli Yippies furono capaci di usarlo a proprio vantaggio, ad esempio minacciando di versare LSD nell’acquedotto di Chicago, o di travestirsi da taxisti per rapire dei politici. La serissima reazione di media e istituzioni a quelle che erano evidentemente assurde provocazioni dava al gruppo una visibilità che era sproporzionata rispetto ai suoi numeri o al suo ruolo nella politica del tempo. Al contempo dimostrava a chi capiva lo scherzo la stupidità del sistema e dei suoi protagonisti istituzionali. Abbie Hoffman fu anche il fondatore di una delle più importanti pubblicazioni dedicate ai phone phreaks, YIPL, e della cultura tecnica che si sarebbe formata attorno ad essa. E anche se molti hacker non conoscono direttamente Hoffman, il suo monkey theatre si ritroverà come strumento fondamentale del successivo hacktivismo. Il Cult of the Dead Cow dichiarerà ad esempio di essere in grado di “inoculare l’Alzheimer” in tutti i presidenti statunitensi, o di mettere in ginocchio Microsoft attraverso un software chiamato “Back Orifice” (orifizio posteriore). Anonymous debutterà con la minaccia di “smantellare Scientology ed espellerla da Internet”. Nessuna di queste minacce aveva la minima possibilità di essere realizzata: ma ebbero successo nel richiamare l’attenzione divertita, spaventata o oltraggiata degli organi di informazione, determinando infine il successo dei gruppi, l’allargarsi delle loro fila e la diffusione del loro messaggio.

 

Che rilevanza assume, oggi, l’hacking?

Se ci liberiamo dell’idea che l’hack è soltanto un crimine informatico, ci accorgiamo che l’hacking è oggi dappertutto. Circa la metà di tutti i server che quotidianamente visitiamo quando entriamo in un sito web gira su Apache, un software Open Source nato grazie alle culture hacker. Linux è recentemente atterrato su Marte, installato dalla NASA sulla propria strumentazione. Le pagine di Wikipedia sono proposte sotto licenza Creative Commons, direttamente ispirata alla GPL di Stallman. I concetti di Open Access e Open Science, adottati esplicitamente come linee guida dall’Unione Europea, hanno origine nelle comunità hacker.

Ma non è solo questo: oggi la parola hacker, è applicata ai fenomeni più diversi, dalla modifica genetica (bio-hacking) ai consigli di economia domestica (life hacking) alla guerra e alla politica internazionale (hacking di stato). Non si tratta più di comunità relativamente ristrette e omogenee: tra di esse si trovano militari e spie professionisti, amatori, imprenditori rampanti o affermati, scienziati… ognuno con i propri valori, obiettivi e “cultura hacker”. Per questo ho deciso di chiudere la ricostruzione storica con Anonymous, attorno agli anni Dieci del nuovo millennio: la definizione di hacking che mi ha guidato nella ricerca non si applica più a tutti i fenomeni a cui la parola è oggi (a volte impropriamente) applicata. Il destino di tante sub-culture è quello di essere riassorbite dalla cultura mainstream, diventandone parte integrante: si pensi al rock and roll o alla sub-cultura geek/nerd. Con l’hacking il processo di riassorbimento è stato particolarmente difficile: la sua natura tecnica ha fatto sì che esso rimanesse a lungo un oggetto misterioso e in qualche modo isolato e deformato nel dibattito pubblico. Sono convinto che, grazie all’onnipresenza del computer e di una più ampia cultura digitale, l’hacking sia ormai diventato parte della cultura mainstream e della nostra quotidianità. Anche per questo ho deciso di scrivere il libro.