Perché l’Italia non è un Paese per madri

Marina Valensise legge Alessandra Minello

La ricercatrice in demografia Alessandra Minello dedica il suo ultimo saggio alla crisi delle culle. Ed elenca i problemi strutturali che affrontano le donne del nostro tempo

Marina Valensise | Il Messaggero | 7 agosto 2022

Le statistiche sono come un bikini: danno tante idee, ma nascondono l’essenziale. E però le statistiche sull’attuale curva demografica italiana sembrano esiziali. Lasciano pochi dubbi sull’annunciato suicidio verso il quale ci stiamo avviando, a meno che non si riesca a invertire la tendenza adottando subito le contromisure necessarie. In buona sostanza, in Italia nascono sempre meno bambini, le donne che non hanno figli aumentano e anche se le childfree, cioè quelle che scelgono di non averne, perché i figli non rientrano nel loro progetto di vita, sono una minoranza, aumentano in percentuale le donne che hanno il primo figlio dopo i quarant’anni, e chi diventa madre lo fa sempre più tardi e in modo sempre più complicato e angoscioso. Cosi la dimensione della vita più naturale e spontanea che esista, mettere al mondo un figlio, rischia di trasformarsi per molte donne in un percorso a ostacoli, costellato di sensi di colpa, rinunce, tentativi impossibili, lutti insuperabili.

I NUMERI. Attualmente, il numero di figli per donna è inferiore a 1.3, il che pone l’Italia fra i paesi a più bassa fecondità, anche se secondo una recente indagine dell’Istat, Famiglie, soggetti sociali e ciclo di vita, più della metà degli italiani vorrebbe avere due figli, un quarto ne vorrebbe avere tre o più di tre, appena il 5.6 per cento desidera il figlio unico, mentre il 41 per cento di chi ha già un figlio ne vorrebbe un altro, ma non può.

Dunque, il bikini, tante idee, ma la sostanza non si vede. Per scoprirla è bene leggere questa radioscopia ragionata fornita da Alessandra Minello, una demografa del dipartimento di Statistica dell’ateneo di Padova, che combina insieme le scienze sociali e la militanza, spaziando a largo raggio su vari campi: oltre la demografia, l’economia, l’economia del lavoro, la sociologia della famiglia, le rappresentazioni del potere, la tradizione dei ruoli sessuali, la cultura delle differenze, la mitografia della famiglia classica. Non vi spaventate, però: molta dottrina e altrettanta chiarezza illustrano il fardello che grava sulle spalle delle e degli italiani, che vorrebbero avere figli ma non possono. […]

VOCAZIONE. Niente di più nobile e di più insidioso per chi aspira a conciliare la vocazione materna e l’autorealizzazione professionale, ma non sa uscire dalla trappola delle differenze di genere. «Mio marito in casa si occupa di tutto» dirà la mamma pronta a sobbarcarsi un carico da 90 col lavoro domestico dopo otto ore in ufficio. «Anche di pulire il bagno?» domanda la ricercatrice. E qui casca l’asino, mettendo a nudo il pregiudizio. La tradizionale divisione dei ruoli e la loro incongruenza rispetto alle esigenze della società contemporanea, dove le donne aspirano a entrare nel mondo del lavoro, dove la formazione professionale le spinge a procrastinare la scelta maternità, dove scienza e tecnica facilitano forme di riproduzione che scardinano ruoli, modelli e persino generi.

SOPRAVVIVENZA. Il gender gap non è più tollerato, non tanto in nome dell’eguaglianza, quanto in ragione della nostra stessa sopravvivenza. Urge perciò limarne i contorni, favorire sin dalla più tenera età i modelli genderfree, incoraggiare il congedo parentale, i servizi per l’infanzia, e suffragare l’idea che anche un uomo, anche il padre, pur privo di ovaie e mammelle, si possa dedicare con successo alla cura dei figli. L’evoluzione del costume sembra andare in questa direzione, basta vedere la messa in scena della vita quotidiana in casa Ferragnez, con lui che dà la pappa alla piccoletta, mentre lei posa in un albergo di New York. Molto però resta ancora da fare e la scelta è drastica: per diventare davvero un Paese per madri, l’unica via possibile è decostruire il mito della maternità.

 

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