Cento poesie d’Italia. «Voci per il presente»

Paolo Di Stefano intervista Luca Serianni

Luca Serianni racconta la sua antologia nata in lockdown: Donne e outsider. Irrinunciabili? Dante, Leopardi, Pascoli

Paolo Di Stefano, Corriere della Sera, 16 novembre 2020

Per quelli che non hanno familiarità con la poesia ma ne sono incuriositi, l’effetto è la sorpresa. A quelli che invece la praticano abitualmente, il nuovo libro di Luca Seriarmi regala la stessa «felicità mentale» che anni fa diede il titolo a un saggio dantesco di Maria Corti. Dunque, tra sorpresa e felicità mentale, non si può chiedere di meglio. Il verso giusto (Laterza) è un’antologia ma senza troppe preoccupazioni didattiche, anche se si esce dalla lettura arricchiti di notizie storiche, critiche e linguistiche (ovviamente, essendo Serianni uno dei maggiori linguisti del nostro tempo). Un’antologia «idiosincratica»: da una parte non indifferente al canone, ma dall’altra obbediente al gusto personale del suo compilatore. Sicché, tra i cento (e non più di cento) testi scelti, troviamo componimenti di Petrarca e Tasso, di Ariosto e Leopardi, ma facciamo anche incontri inaspettati: con il napoletano quattrocentesco de Petruciis che scrive sonetti amorosi in carcere aspettando la decapitazione; con Camillo Scroffa che dedica i suoi versi petrarcheschi ai peli dell’amato discepolo; con il satirico barocco di area bresciana Bartolomeo Dotti che paragona l’amante all’alchimista; con il friulano Ciro di Pers che si sofferma sui propri calcoli renali. E con diversi altri nomi trascurati o quasi dalle storie letterarie. Per non dire delle presenze femminili, che qui acquistano un rilievo non occasionale. Oppure di alcune rivalutazioni sorprendenti, come quella di Carducci, la cui fama è andata via via tramontando, bollato come «poeta professore». Insomma, ce n’è da piluccare liberamente, come sembra fare il passerotto in copertina che va becchettando semini in forma di asterischi (gli stessi che nel testo segnalano in rosso i cento componimenti). Il tutto con cappelli e commenti essenziali sulle biografie, sulle idee, sul contesto e sui testi (filoni, tematiche, generi, stili, linguaggio). Ricordando che questo libro è stato il frutto del primo lockdown, trascorso nella casa di Ostia, con il suo stile verbale di rara eleganza, insieme fermo e cordiale, Serianni spiega i criteri su cui si regge la scelta. «Va detto subito che ho escluso la poesia dialettale, con l’obiettivo di illustrare la poesia scritta in italiano e non quella scritta in Italia. Ho voluto inserire alcuni testi noti o prevedibili: il Cinque Maggio naturalmente c’è, ed è una poesia che non mi lascia indifferente, ma c’è anche per la sua rappresentatività. A parte ciò, ho fatto valere il mio gusto, determinante e discutibile quanto più ci avviciniamo all’oggi». In effetti è un Novecento poco canonico, in cui accanto a Saba Ungaretti Montale, troviamo il ticinese Giovanni Orelli, Biancamaria Frabotta, la sconosciutissima Francesca Romana de’ Angelis e che si conclude con Enrico Testa… Si avverte una predilezione per lo stile semplice, la poesia «onesta» che piaceva a Saba: lo stesso Saba, Penna, Caproni… Per questo non sorprendono le assenze delle voci sperimentali e neanche quelle (più dolorose) di Pasolini, Sereni, Bertolucci, Giudici, Zanzotto, Giorgio Orelli… «Ho messo in bilancio che sarò ampiamente criticato per le scelte novecentesche», scherza Serianni. Anche le origini riservano qualche sorpresa. «Mi è sembrato utile inserire il Detto del gatto lupesco, che è ignoto ai più, per documentare la poesia giullaresca in un contesto in genere affollato di donne angelo e di amori infelici. È un componimento che al lettore moderno, disorientato di fronte alle immagini iper allegorizzanti del testo antico, dà un effetto di straniamento fin dalle battute iniziali in cui due cavalieri incontrano il giullare, travestito metà da gatto e metà da lupo, gli chiedono “ki sei tu?” e si sen tono rispondere: “Quello k’io sono, ben mi si pare”. Cioè, detto con un certo fastidio: è evidente quello che sono…».

Come si spiega la presenza insolitamente numerosa di poeti barocchi?

«II Seicento mi ha sempre incuriosito. Continuo a pensare che sul barocco poetico gravino ancora i pregiudizi di De Sanctis, spesso ripetuti stancamente nelle storie della letteratura: il cattivo gusto secentesco eccetera… È un secolo innovativo come tematiche ma all’interno di un codice tradizionale, basti pensare che il sonetto è la forma metrica ricorrente. Nei casi più felici io vedo una grande creatività linguistica e ideativa».

Un esempio?

«C’è una poesia del marchigiano Giovan Leone Sempronio, La bella zoppa, che non è necessariamente una caricatura o una di quelle prove satirico-giocose del genere di Francesco Bervi: ci si può innamorare di una donna zoppa, oppure pidocchiosa, come canta un altro poeta? La risposta è: sì, anche se con singoli difetti fisici le donne non perdono il loro fascino poetico o il loro potenziale di seduzione. Certo, è un punto di vista molto distante dal canone petrarchesco. In questa mia personale sensibilità, rientra pure un poeta secentesco, anche se non barocco, come Francesco Redi: il ditirambo Bacco in Toscano è un gioco linguistico molto brillante e vivace sul tema dell’ubriachezza».

La presenza delle voci femminili è notevole, da Gaspara Stampa a Elsa Morante. Domanda inevitabile: ci sono delle costanti riconoscibili nella poesia femminile?

«Nelle poche poetesse prenovecentesche si riconosce una maggiore varietà di affetti e di stimoli affettivi, anche se non mancano i poeti maschi, per esempio nel Settecento, che parlano di sentimenti familiari. Una novità del Cinquecento è la comparsa delle donne tra gli autori letterari: sono aristocratiche come Vittoria Colonna o cortigiane come Gaspara Stampa. La pura imitazione del modello petrarchesco presenta qualche scarto in più nella poesia femminile: Vittoria Colonna, per esempio, ha una componente religiosa molto più forte del consueto. Per quanto riguarda l’età contemporanea, invece, è più difficile individuare uno specifico femminile».

Nel Cinquecento c’è Isabella Morra, uccisa a 25 anni dai fratelli per il sospetto di una relazione con un nobile spagnolo.

«Il sonetto in cui si rivolge al fiume, tema topico già presente nella poesia latina, è molto interessante, anche perché è legato all’assenza del padre. Alla variante del tema amoroso si aggiunge anche l’annuncio finale di un possibile suicidio nelle acque del Sinni, che scorre nella sua valle in provincia di Matera. Anche qui ci sono aspetti di innovazione rispetto alla lirica maschile media dell’epoca».

Si può dire lo stesso per la poco conosciuta Faustina Maratti Zappi?

«È una poetessa che entrò giovanissima in Arcadia: Leopardi ne riconobbe “la composta vivacità e certa leggiadria”. Ho voluto che fosse presente con due sonetti. Il primo tratta la gelosia, insolito nella poesia maschile, dove è difficile che l’autore lamenti la scarsa fedeltà della donna, la quale può essere inarrivabile ma è raro che si mostri sensibile alla corte di un altro… Il secondo sonetto è invece dedicato al dolore perla morte di un figlio bambino».

È raro trovare la Morante in versi nelle antologie.

«Mi è sempre piaciuto Il mondo salvato dai ragazzini, anche se so che viene spesso deprezzato: tra l’altro il tema dell’infanzia incolpevole e soccombente è anche al centro de La Storia. Riconosco che in questo caso è scattato, più che altrove, un meccanismo di gusto personale, come per Biancamaria Frabotta, di cui ho apprezzato il motivo dell’amore coniugale, che ha certo dei precedenti, per esempio in Monti e in Saba, ma compare qui con accenti ironici e autoironici».

Nel gusto classicista dell’antologia rientra anche la simpatia per Carducci?

«Sono rimasto uno dei suoi pochi estimatori: ho inserito una odicina non molto nota, che si intitola Ave e parla della morte di un ragazzino figlio della sua amante, in cui forse c’è il suo personale lutto di padre, quello cantato in Pianto antico, nota quanto il Cinque Maggio. E in questa prospettiva si colloca anche Giacomo Zanella, una figura di classicista ottocentesco appartato e tutt’altro che attardato, un sacerdote veneto che aveva una sensibilità sociale e che tentò di conciliare scienza e fede».

Di Zanella, lei ricorda una brillante osservazione sugli italiani che hanno «speciale linguaggio poetico…: remoto mille miglia dal prosaico». Aveva ragione Zanella?

«Lo disse quando ormai non era più vero per buona parte dei suoi contemporanei, ma da buon classicista ne era convinto. In realtà, credo che negli italiani ci sia questo atteggiamento: se paragoniamo la nostra alla poesia spagnola e francese dell’Ottocento ci rendiamo conto che lì non c’è nessun linguaggio speciale. In fondo Victor Hugo diceva di voler mettere un berretto rosso al vocabolario per aprirlo a tutti i termini, alti e bassi, non alle forme grammaticali che erano già quelle del francese comune. C’è stato un ritmo di evoluzione diverso ed è vero che in Italia la poesia è spesso stata avvertita come lingua speciale».

La poesia religiosa che peso ha?

«I nomi, nell’antologia, sono due: Jacopone e il Manzoni della Pentecoste, che si ripropone di creare un classicismo alternativo a quello mitologico. Non è vero però che il Manzoni poeta sacro innova la lingua parlando la lingua di tutti, perché l’intonazione resta molto alta. La distanza tra il Manzoni prosatore e il Manzoni poeta è sempre netta».

E la poesia di intonazione civile?

«Dante è anche un poeta civile, ma sarebbe riduttivo limitarlo a questo. Ho scelto tre momenti. Intanto, La salubrità dell’aria: Parini è un poeta difficile per un lettore moderno, quindi ho scelto un’ode piuttosto nota, che propone temi di grande attualità come la “salute civile”, il bene pubblico, l’aria ammorbata di Milano, le colpe dei cittadini mossi dal “lucro”, da “lusso e avarizia”. L’altro è Manzoni, il poeta civile e patriottico. A suo tempo studiai Marzo 1821, ma ho preferito il Cinque Maggio anche se è una poesia di fondo religioso, tutta volta alla celebrazione non solo del Napoleone terreno, ma del Napoleone convertito: il poeta immagina infatti che la fede cristiana abbia consolato l’esule negli ultimi anni, risolvendo così in chiave eterna la sua vicenda terrena».

Senza dimenticare Foscolo…

«Nel pensare alla cosiddetta “religione dei sepolcri” ho richiamato il fatto che mentre scrivevo, in aprile, c’era il dramma del mancato saluto ai propri morti avvertito con una particolare violenza a causa della pandemia. Anche questo mi è sembrato un tema che ha riflessi sociali e non quelli solipsistici del poeta perso nei propri amori infelici».

Perché i poeti della domenica le ispirano un moto di simpatia?

«Sono tanti e spesso illeggibili, non certo destinati all’immortalità e neanche alla dignità artistica. Ma come cittadino sono commosso dal fatto che ci sono persone che, con i loro mezzi e con la loro ispirazione, affidano alla poesia temi a cui tengono molto. La vitalità della poesia è testimoniata anche dalla presenza di grandi intellettuali, non letterati di professione, che scrivono testi di notevole livello. Ne cito due: il fisico Sergio Doplicher e l’economista Franco Tutino… Persone che esercitano la poesia restando fuori delle combriccole chiuse alimentate da amore e odio, da invidie e meschinità: quelle ricordate da De Gregori in una nota canzone…».

Con quali criteri ha selezionato Dante?

«Ho scelto un canto canonico, il III del Paradiso, e altri che lo sono molto poco. Il XXX dell’Inferno non viene letto mai a scuola, ma è straordinario per la capacità che Dante rivela nel dialogo comico e anche per la compresenza di registri, dal basso fino alla sublime esperienza del sogno, la stessa che nel canto finale del Paradiso evoca la visione di Dio. Con l’VIII del Purgatorio, che ha un incipit famosissimo, mi interessava comunicare quanto nell’aldilà siano presenti i ricordi terreni: queste anime che dovrebbero pensare a purificarsi guardano invece con estremo interesse alle vicende terrene… Il filone della donna angelo lo trovo ripetitivo e per questo è rimasto in ombra. Ciò vale anche per Petrarca, il poeta con il numero maggiore di pezzi, otto: ma Chiare fresche e dolci acque non l’ho messo. Del resto, con Petrarca si cade sempre abbastanza bene».

Se dovesse scegliere solo tre dei cento testi dell’antologia?

«Il XXX dell’Inferno, il Canto notturno di Leopardi e Novembre di Pascoli».

 

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