«Dal buio alla luce»: modo minore e modo Maggiore

Un estratto da “La musica della luce”, di Giovanni Bietti

 

C’è un altro aspetto importante dello sguardo illuminista di Haydn, Mozart e Beethoven che vale la pena di prendere in esame a questo punto: l’idea di dar vita attraverso i suoni alla metafora più rappresentativa dei Lumi, il passaggio dal buio alla luce.

La forma-sonata può essere interpretata dall’ascoltatore come una conciliazione dei contrasti e delle  divergenze, come immagine di una società armonica ed equilibrata. L’uso di diversi stili musicali all’interno di uno stesso brano può comunicare il senso di égalité e di fraternité, la volontà di far parlare tra loro tutti gli uomini e tutte le classi sociali.

Ma per rappresentare il confronto tra il buio e la luce, tra le tenebre dell’ignoranza e dell’oppressione e la luce della conoscenza e della libertà, i tre grandi viennesi utilizzano un’altra strategia musicale, che si affianca a quelle appena menzionate e le rafforza: il contrasto tra il modo minore e il modo Maggiore, una delle caratteristiche fondamentali del sistema tonale classico.

Non è facile spiegare in modo chiaro e comprensibile, a un lettore non esperto, cosa sia la tonalità occidentale. Basterà dire che è il sistema di organizzazione dei suoni all’interno di una composizione, il modo in cui le note, gli accordi, le melodie, i temi, i motivi vengono posti in relazione tra loro. Un brano musicale del periodo qui preso in esame, tra la fine del Settecento e l’inizio del secolo successivo, è sempre scritto in una precisa tonalità (è in Do Maggiore, in re minore, in Fa diesis Maggiore, in si bemolle minore e così via): tale tonalità è il «centro» del pezzo, il ristretto gruppo di suoni (la scala, per usare una definizione più tecnica) intorno ai quali ruota l’intera costruzione musicale. I diversi materiali musicali possono allontanarsi dal centro o avvicinarsi, dandoci quindi all’ascolto la sensazione della maggiore tensione o del rilassamento. Invariabilmente, comunque, un brano del cosiddetto periodo classico comincia e finisce nella stessa tonalità, tornando verso il centro. Ogni singola tonalità, a sua volta, può essere declinata in due diversi «modi»: Maggiore e minore. Le note di riferimento della scala, quelle più importanti dal punto di vista strutturale, sono identiche nei due modi (per esempio la nota do, la nota fa e la nota sol sono comuni a Do Maggiore e a do minore), mentre altre note cambiano. Ed è proprio attraverso queste note cangianti che possiamo definire se la tonalità sia Maggiore o minore: in Do Maggiore si utilizza la nota mi, in do minore la nota mi bemolle. Inutile approfondire il discorso dal punto di vista tecnico, molto complesso; ciò che qui ci interessa maggiormente è infatti l’effetto sonoro ed espressivo che i due modi, Maggiore e minore, rendono all’ascolto. Studiosi e commentatori hanno costruito un ampio vocabolario di metafore per descrivere l’effetto dei due modi nel periodo classico: il modo minore viene utilizzato per esprimere atmosfere drammatiche, malinconiche, scure, il Maggiore per atmosfere trionfali, serene, luminose.

Sarebbe troppo azzardato considerare queste metafore come una regola assoluta; ma comunque quando un compositore, alla fine del Settecento, voleva rappresentare musicalmente uno stato d’animo doloroso, triste, malinconico, tendeva in genere a utilizzare il modo minore (basta citare tre Arie mozartiane: «L’ho perduta… me meschina» di Barbarina nel quarto atto delle Nozze di Figaro; «Tradito, schernito» di Ferrando nel secondo atto di Così fan tutte; e l’Aria di Pamina nel secondo atto del Flauto magico). E al contrario, uno stato d’animo gioioso (la prima Aria di Papageno nel Flauto magico), risoluto («Vedrò, mentr’io sospiro» del Conte nelle Nozze), malizioso o burlesco («Madamina, il catalogo è questo» di Leporello nel Don Giovanni) era quasi immancabilmente reso attraverso l’uso del modo Maggiore.

Non a caso ho citato esempi tratti solo dalla musica operistica. Non c’è dubbio infatti che la progressiva definizione, che si sviluppa nel corso dell’intero XVIII secolo, del carattere contrastante di modo minore e modo Maggiore avvenga prima di tutto nella musica vocale, sfruttando le specifiche emozioni, i sentimenti ben definiti espressi dal testo. Questo avviene soprattutto nell’opera, ma se ne trovano tracce evidenti anche nella musica sacra: a metà secolo, nel Credo della sua grande Messa in si minore, Bach contrappone il Crucifixus, scritto in un «doloroso» mi minore, e l’Et resurrexit, nel «trionfante» Re Maggiore. Man mano che la dicotomia tra i due modi, il loro diverso significato espressivo, si precisava, essa veniva accolta anche nelle composizioni strumentali.

Non c’era più bisogno del testo per comprendere il tono triste o malinconico di un brano in modo minore, e il carattere allegro o risoluto di una composizione in Maggiore.

L’ascoltatore di fine Settecento era quindi abituato ad associare suggestioni ben precise al modo minore e al modo Maggiore: l’apparizione improvvisa di una sezione in minore nel corso di un brano in Maggiore, per esempio, doveva senz’altro dare l’impressione di un aumento della tensione drammatica, di un oscurarsi del tessuto musicale (come se il cielo si fosse improvvisamente rannuvolato). Mentre il passaggio dal minore al Maggiore dava la sensazione opposta, era un rasserenamento, una risoluzione improvvisa delle tensioni e dei contrasti. L’accostamento del minore al buio e del Maggiore alla luce si presentava quasi spontaneamente alla mente dell’ascoltatore; e in effetti molte composizioni di questo periodo che cominciano in modo minore ma proseguono in Maggiore, con un totale rovesciamento del carattere espressivo, furono immediatamente descritte fin dalla prima apparizione come un graduale «passaggio dal buio alla luce», ossia come un’esplicita resa musicale della metafora illuminista.

La traccia audio propone due composizioni pianistiche basate sul contrasto minore/Maggiore, per far immediatamente percepire al lettore la differenza tra i due modi e la sensazione di rilassamento e di risoluzione (di luce, ancora una volta) provocata dal passaggio dall’uno all’altro. Un ottimo esempio è il movimento lento dell’ultima Sonata per pianoforte di Mozart, K. 576 in Re Maggiore. Un brano scritto in un momento davvero significativo, visto che Mozart la iscrive nel proprio catalogo nel luglio 1789: esattamente contemporanea della Rivoluzione francese, quindi. Il secondo movimento della sonata è un bellissimo Adagio in forma tripartita, ABA: una sezione iniziale, sognante e cantabile, in modo Maggiore; una sezione centrale, più contrastata e dolente, in minore; e infine la ripresa, praticamente identica, della sezione iniziale. Ma il brano si chiude con una breve Coda, che ha un ruolo fondamentale: quest’ultima parte, infatti, riprende il materiale musicale della sezione in minore ma lo trasfigura completamente, e lo ripropone in modo Maggiore.

La perturbazione improvvisa creata dall’episodio contrastante in modo minore non viene quindi semplicemente riassorbita nell’organizzazione simmetrica del brano: la tensione generata da quell’istante viene invece, letteralmente, risolta, visto che Mozart ce lo fa riascoltare in modo Maggiore nella Coda, riavvicinandola al carattere e alla tonalità della prima e terza sezione. Lo sguardo illuminista mozartiano si mostra proprio in questo senso di risoluzione dei contrasti, nell’idea che una perturbazione interna al brano riappaia alla fine trasfigurata e riconciliata con tutto ciò che la circonda.

La possibilità di leggere questo percorso musicale come una metafora, come rappresentazione di un mondo in cui anche le difficoltà e i contrasti (il «buio») si risolvono, in cui tramite l’azione dell’uomo è possibile raggiungere l’armonia (la «luce»), è fin troppo evidente.

 

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